A proposito di autonomia.

a cura di Luigi Campanella  ex presidente SCI

Il dibattito in corso sull’autonomia universitaria soffre di certo per alcuni malintesi e ambiguità. Il Governo del Paese giustifica un atteggiamento restrittivo nei confronti di tale autonomia – anche se ovviamente le dichiarazioni ufficiali non l’ammettono – con il cattivo uso che alcuni atenei – non tutti, visto che alcuni sono definiti virtuosi nei decreti di assegnazione del fondo ordinario – fanno delle risorse pubbliche, imputando quindi al sistema le colpe del singolo componente.

Da parte del sistema universitario dall’altra parte si finisce per difendere non l’autonomia del sistema, ma quella dei singoli atenei: e questo è di certo un altro errore. In fondo la richiesta di piani pluriennali prima di procedere all’assegnazione di fondi è la conferma di questa ambigua situazione. In uno Stato democratico quando si sancisce l’autonomia di un sistema non si fa mai riferimento al singolo componente: al contrario è il sistema nel suo complesso che, sulla base delle esigenze del Paese, deve garantire  – avendo ottenuto le necessarie risorse – la progettazione e l’esecuzione di un piano di interventi, dotandosi di strumenti di autocontrollo, nei quali la società civile dovrebbe essere rappresentata, per evitare il prevalere di scelte corporative su base sociale, geografica, accademica, politica.
E qui veniamo ad un’altra ambiguità: il dibattito va avanti sulla base di un confronto fra chi l’autonomia la vuole mantenere e chi vorrebbe ridurla, a volte fra CRUI e Governo,sempre comunque fra “addetti”. Ma un problema quale quello dell’autonomia politica e finanziaria del massimo sistema formativo del Paese non può escludere dal dibattito la società partecipe, attraverso le forze produttive e sociali.


Purtroppo le organizzazioni sindacali universitarie sono spesso quasi obbligate dalle pressioni degli iscritti a riportare il dibattito all’interno del settore. L’attuale non contrattualizzazione dei docenti universitari è d’altra parte un freno alla presenza di questo personale nelle O.O.S.S. confederali di settore che forse dovrebbero, anche sulla base della vasta rappresentanza che possono rivendicare rispetto al personale tecnico e amministrativo, coinvolgere sul tema le Confederazioni Generali, superando quindi la stretta appartenenza al settore università e ricerca.
Ragionando ancora su come l’autonomia venga intesa e utilizzata, e pensando, ad esempio, a due questioni di grande rilievo per l’istituzione universitaria come il rapporto con le risorse ed i finanziamenti privati e quello con gli altri settori della vita del Paese che dipendono per il loro sviluppo, anche economico, dai risultati delle ricerche avanzate, non si può fare a meno di riflettere su come tali argomenti vengano posti impropriamente.

autonomiauniversitaria

La partecipazione di capitale privato illuminato alla ricerca scientifica universitaria non può che essere visto con favore: quello che non deve avvenire è che ciò passi attraverso rapporti clientelari, personalistici e di comodo. Ecco che allora torna il concetto principe, quello del sistema – non del singolo componente – con il quale, nel suo complesso, le convenzioni con privati possono essere siglate sulla base di un preciso progetto, che poi sarà articolato autonomamente dal sistema stesso fra i vari atenei sulla base delle competenze disponibili. Ed analogamente convenzioni quadro o meglio accordi di programma dovrebbero regolare i rapporti fra il sistema universitario e le strutture dei Beni Culturali, della Produzione, della Salute. Sarà ancora nel suo complesso il Sistema a definire l’articolazione degli accordi fra i vari atenei.

In conclusione:
Autonomia non al singolo Ateneo, ma al sistema universitario; meccanismi di auto controllo del sistema per rispettare i compiti e gli impegni assunti; presenza della Società civile nei momenti significativi di tale azione di controllo.

per approfondire:

http://www.roars.it/online/la-vera-storia-dellautonomia-universitaria/

Sono orgoglioso di essere un chimico.

a cura di Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

riprodotto da

http://www.chimici.info/sono-orgoglioso-di-essere-un-chimico_news_x_5489.html

nebbiaNel parlare comune troppo spesso “chimica” è parolaccia e viene associata a cose sgradevoli: l’inquinamento chimico, gli additivi chimici, la diossina di Seveso, eccetera. Quasi contrapposta a qualcosa di virtuoso che sarebbe “naturale”, come gli alimenti naturali (o “biologici”), l’acqua in bottiglia naturale, eccetera.

L’equivoco e la confusione nascono, a mio modesto parere, da vari fattori. Il primo ha le sue radici nella scuola dove la chimica come disciplina è relegata ad un ruolo secondario ed è spesso insegnata male, senza amore, come dimostra il ricordo angoscioso — il ricordo delle “formule”, spesso incomprensibili — rimasto a coloro che hanno dovuto subirla per un anno in qualche scuola superiore. Capita così di leggere articoli, scritti da giornalisti certamente bravissimi, che il loro direttore licenzierebbe se non sapessero scrivere correttamente il nome di Freud o di Heidegger, i quali con assoluta sicumera parlano di celle fotovoltaiche al silicone (o di seni artificiali al silicio); o che parlano di una imposta sul carbone quando invece tale imposta è proporzionale al contenuto di carbonio presente nei vari combustibili fossili: petrolio, gas naturale e anche carbone, naturalmente: eccetera.

La seconda fonte di ignoranza chimica va cercata nell’Università dove esistono migliaia di bravissimi professori delle varie branche della chimica, che raramente sono capaci, o hanno voglia, di parlare della chimica alle persone comuni. I più abili comunicatori non vanno al di la di una melensa difesa di ufficio dell’industria: della chimica non si deve parlare male — essi dicono — perché tutti noi siamo fatti di sostanze chimiche, dai capelli, al sangue, alla carne (il che e’ rigorosamente vero); perché tutti gli oggetti che ci circondano — il cibo, il cemento, il vetro, gli indumenti — contengono atomi e molecole chimiche (il che e’ vero); perché “alla chimica” si devono medicine e disinfettanti e cosmetici e materie plastiche e transistor e vernici. Ciò che non esclude che molte sostanze in commercio siano state o siano dannose alla salute, siano state o siano fabbricate con processi che inquinano l’atmosfera, le acque e i polmoni dei lavoratori, che lasciano sul terreno residui tossici per decenni.

La terza fonte di equivoco è rappresentata dalla limitata capacità del mondo imprenditoriale, nel settore della chimica, di parlare con il pubblico, al di fuori di campagne pubblicitarie poco convincenti. I cittadini sentono parlare di fusioni e di divisioni di grandi gruppi chimici (si pensi alle avventure dei gruppi finanziari di Rovelli e di Ursini che hanno costruito con pubblico denaro, nel Mezzogiorno, grandi stabilimenti chimici che non hanno prodotto un solo chilo di merce; si pensi alla commedia, tanti anni fa, della fusione Montedison-Enichem e poi del divorzio, dopo pochi mesi); di privatizzazione delle società chimiche dello stato e di vendita di imprese e marchi che sono state in passato segni di innovazione, di orgoglio, di lavoro, eccetera

Come possono i cittadini giudicare che cosa è utile al loro benessere e alla loro salute se nessuno — governi e industrie e professori universitari — è capace, o vuole, spiegare che cosa le fabbriche producono, dove, con quali materie, con quali processi, con quali effetti inquinanti ?

Merci fondamentali per la vita quotidiana — l’acido solforico, l’ammoniaca, i concimi, il caprolattame, il fenolo, il carbonato sodico, il cloro, il butadiene eccetera — circolano intorno a noi, nei camion e nei carri cisterna, sulle strade e le ferrovie, senza che nessuno sappia che cosa sono queste materie, come sono fatte, senza poterle neanche riconoscere. In questo silenzio non c’è da meravigliarsi se, quando un camion è coinvolto in un incidente e sversa nell’aria o sul suolo il suo contenuto, quando avviene un incidente come quello di Seveso o quello di Bhopal, le persone comuni attribuiscano alla “chimica” gli effetti perversi, lo spavento, le morti, le sofferenze.

etichette merci pericolose

etichette merci pericolose

La salvezza, la salute dei cittadini, la sicurezza dei lavoratori, dipendono da una rivoluzione culturale che consenta ai cittadini di appropriarsi della conoscenza sugli oggetti — che sono “chimici”, anzi sono “tutto chimici” — che sono intorno a noi, ma che restano muti o che nessuno vuole far parlare. In tale rivoluzione culturale un ruolo fondamentale ha la scuola e hanno i chimici — sono laureato anch’io in chimica e ne sono orgoglioso e ho la presunzione di riuscire a capire alcune cose proprio perché sono un chimico — che forse possono ricuperare un orgoglio “di classe” e la voglia di spiegare anche il contenuto storico, sociale, e non solo formale o strutturale, della chimica.

Un ruolo importante potrebbe avere l’editoria. Ci sono in commercio, a parte i libri “di testo” spesso tutt’altro che entusiasmanti, pochi libri italiani di chimica “popolare”. Eppure i grandi chimici del passato si sono fatti un punto di onore di spiegare i risultati dei loro studi in forma accessibile al pubblico. Vorrei ricordare, a solo titolo di esempio, le “Lettere sulla chimica” del grande Justus von Liebig (si, proprio l’inventore dell’estratto di carne, oltre che lo scopritore delle leggi della nutrizione dei vegetali che hanno aperto le porte all’industria dei concimi e all’aumento della produttività agricola), pubblicate a puntate e tradotte in tutte le lingue e con un titolo classicheggiante ricalcato sulle “Epistulae ad familiares” di Cicerone.

J. Liebig op. cit. Napoli 1852

J. Liebig op. cit. Napoli 1852

Avremo un giorno una riforma in cui la chimica sarà riconosciuta come disciplina anche “umanistica” ? Forse, se ciò avvenisse, tanti problemi di inquinamento, di incidenti, di frodi, si farebbero più rari e “chimica” smetterebbe di essere (per tanta gente) una parolaccia.

Per approfondire:

Il libro di Liebig, “Nuove lettere sulla chimica considerata nelle sue applicazioni all’industria, alla fisiologia e all’agricoltura” Prima versione dal Francese, Napoli 1852 a cura di Angelo Ranieri, si puo’ scaricare gratuitamente dal centro di documentazione della Biblioteca di Monaco:

Fai clic per accedere a 1361613131bsb10073294.pdf

Dentifrici.

 a cura di Gianfranco Scorrano, ex-presidente SCI gianfranco.scorrano@unipd.it

Gesti  usuali del nostro costume ci accompagnano ogni giorno fino dal risveglio: per esempio, il lavaggio dei denti. Con modalità diverse anche gli Egizi, circa 5000 anni prima di Cristo, curavano i denti spalmando su di essi, con le dita, una miscela composta di ceneri polverizzate di zoccoli di bue, mirra, gusci d’uova polverizzate e bruciate. Ringraziamo chi ha inventato gli attuali dentifrici, e gli spazzolini: uno sguardo al passato ci dice che in realtà queste sono invenzioni recenti,  della fine del 1800.

E ora? Prendiamo un dentifricio comune: da quanto riportato  dal produttore, nel tubo sono presenti: Aqua  (1), Calcium carbonate (2), Sodium Chloride (3), Glycerin (4), Hydrated Silica (5), Aroma (6), Hydroxyethylcellulose (7), Cocamidopropyl Betaine (8), Sodium Saccharin (9), Benzalkonium Chloride (10), Eugenol (11), Limonene (12), Guaiazulene (13), CI 73015 (14).

Quattordici componenti!

Un bel mistero. Si tratta di una formulazione o formulato, non un composto chimico unitario, bensì l’insieme di tanti composti a ciascuno dei quali viene demandato l’esercizio delle funzioni e proprietà che gli sono peculiari.

Cominciamo da capo. Dentifricio viene dal latino: Dens  gen. Dentis (dente) e Fricio, frego: è chiaro, con lo spazzolino e con il dentifricio frego sui denti per eliminare la placca, formatisi per accumulo di residui di cibi, di batteri etc. Ma basta? E no, e così nel dentifricio debbono esserci, oltre all’acqua (1, H2O), sostanze abrasive:guardando all’elenco vediamo subito il carbonato di calcio (2, CaCO3) e la silice idrata (5, SiO2.nH2O) principali componenti (ca in totale il 50%) nella pasta che si ottiene mescolando i due  con acqua. Nella scala di Mohs, che indica la durezza delle sostanze, il carbonato è al livello 3 e il quarzo, più duro, al 7. Merita ricordare che si tratta di una scala empirica che parte dal talco (livello 1) e termina con il diamante (livello 10), basata sulla capacità di rigarsi reciprocamente. Ad esempio, il componente di livello 5, riga quello di livello 4, ma viene rigato da quello di livello 6.

La prima aggiunta è il cloruro di sodio (3, NaCl): che ha il compito di accrescere la salivazione e forse di antiflogistico, certamente di umettante.

Ma silice e carbonato di calcio non si sciolgono in acqua per cui è necessario aggiungere un gelificante come  l’idrossi etil cellulosa (7), un addensante  capace di trasformare il tutto in gel nella classica pasta dentifricia.

idrossietilcellulosa

(7)- idrossietilcellulosa

R= H o CH3CH2

Naturalmente il dosaggio dipende dai componenti e dalla necessità di mantenere la pasta nella sua forma, evitando per esempio l’evaporazione dell’acqua se si lascia il tubetto aperto: a questo serve il glicerolo (4, glicerina, CH2OH-CHOH-CH2OH) e per questo è un umettante.

Utile è un tensioattivo neutro come la cacodil betaina rappresentata dalla sua maggiore componente la lauramide propil betaina (8), tensioattivo che serve da detergente e da compatibilizzante, essendo quest’ultima proprietà di grande importanza in un formulato. La neutralità del tensioattivo è dovuta alla presenza contestuale di due cariche nette, una positiva del catione ammonio, e l’altra negativa dell’anione carbossilato (si tratta dei tensioattivi anfoteri o zwitterionici).

lauramidopropilbetaina o cocamidopropilbetaina
(8) – lauramidopropilbetaina o cocamidopropilbetaina

Il benzalconio cloruro (10), nome chimico cloruro di N-alchil-N-benzil-N,N-dimetil ammonio, è un disinfettante, molto diffuso nei prodotti che hanno sostituito l’alcole denaturato che ha fatto urlare tanti bambini di precedenti generazioni,

benzalconiocloruro

(10) – benzalconio cloruro

mentre la saccarina (9) è il dolcificante aggiunto: ovviamente lo zucchero normale non è indicato nei dentifrici per la sua capacità di intaccare, con i prodotti di decomposizione, lo smalto.

9 saccarina

(9) – saccarina

L’eugenolo (11) e il limonene (12) sono sostanze che danno alla composizione un aroma rispettivamente di olio di garofano e di arancia.

(11) - eugenolo

(11) – eugenolo

(12) - limonene

(12) – limonene

lactarius indigo

Il guaiazulene (13)  è un derivato dell’azulene (il nome ne ricorda il colore azzurro), presente per esempio nel fungo Lactarius indigo, usato come colorante

(13) - guaiazulene
(13) – guaiazulene

così come  il CI 73015, carminio d’indaco, ben noto colorante per alimenti. (L’acronimo CI rappresenta il Colour Index, l’enciclopedia dei coloranti commerciali, mentre la sigla europea E, nei numeri da 100 a 199, è riservata a coloranti impiegati come additivi di alimenti, farmaci e cosmetici).

14 E132

(14) – E132

Per darvi una idea delle quantità in gioco, andando dal meno al più: azulene 0,05%; benzalconio cloruro  0,1%; cloruro di sodio 15%. Non sono riportate le percentuali di acqua, carbonato, glicerina e silice ma sono sicuramente, in totale, intorno al 70-80%.

In conclusione, la funzione più rilevante sta nello spazzolino e nelle sostanze abrasive che effettuano e aiutano la rimozione dei residui di cibo e della placca dalla bocca. Naturalmente molte altre sostanze sono state aggiunte: disinfettanti, tensioattivi,  addensanti, dolcificanti, coloranti. Queste sostanze, oltre a migliorare il sapore della pasta pulitrice, hanno anche la funzione di fornire additivi importanti come disinfettanti e dolcificanti e coloranti e servono a fare aumentare l’accettabilità del prodotto da parte dell’utenza. Tutto sommato, stiamo meglio che nel passato.

Rileggendo questo  pezzo sui dentifrici, molti sono gli spunti che vorremmo approfondire. Per esempio: stato della materia (gas, liquido, solido, sol-gel); l’acqua (solvente); saponi e detersivi (anionici, cationici, neutri); solubilità; cellulosa e derivati, etc.etc.

Il CC del Gruppo Senior, che ha già lavorato su questo spunto, si impegna a approfondire alcuni dei punti accennati. Naturalmente è aperto alla collaborazione di chiunque voglia unirsi a noi

Università, spin out e trasferimento tecnologico.

a cura di Luigi Campanella, ex presidente della SCI

Le università dei paesi occidentali, in particolare europei, sono sotto pressione per realizzare un processo di trasferimento tecnologico attraverso l’applicazione (spinouts) di nuovi accordi industriali. Eppure molte università stanno sacrificando la qualità alla quantità in quanto sono prive delle professionalità, risorse collegamenti necessari a tale realizzazione. L’idea che sta dietro le applicazioni delle invenzioni scientifiche è quella di creare un ulteriore flusso di finanziamento a partire proprio dalla proprietà intellettuale presente nelle università. Le università stavano in qualche misura perdendo qualcuno dei potenziali probabili guadagni derivanti dalle loro proprietà intellettuali consentendone lo sviluppo al di fuori dell’università a grandi gruppi industriali. Mantenere una partecipazione più ampia comporterebbe di certo un maggiore ritorno. La spinta per le applicazioni industriali delle ricerche è venuta dalle iniziative di alcuni governi (purtroppo non il nostro) in favore del trasferimento tecnologico.
Secondo voci autorevoli l’iniziativa universitaria in questa direzione ha dato una grande spinta alla commercializzazione. Ciò è stato soprattutto vero laddove, avendo a disposizione risorse sufficienti da investire, c’era anche una tal fuga dalla politica delle autorizzazioni in favore della formazione di consorzi.
In effetti molte iniziative di applicazioni industriali delle invenzioni scientifiche non producono ritorni per le università. Malgrado la spinta a creare affari, troppi accordi industria/università falliscono rispetto al mercato vero e proprio. Così il tasso di successo degli spinouts universitari è molto più basso del 10-15% generalmente atteso dal capitale per le nuove iniziative. Le ragioni sono da attribuire innanzitutto al fatto che molte idee dovrebbero essere autorizzate nella fase applicativa piuttosto che cercare di farne un singolo affare e poi anche al fatto che esse sono commercializzate in misura inadeguata perché chi dovrebbe farlo manca dell’abilità commerciale indispensabile a chi vuole sviluppare un prodotto per il mercato.
Uno dei problemi è che il trasferimento tecnologico stesso è privo degli strumenti di capitale umano ed intellettuale necessari a realizzarlo con successo. Gli uffici tendono ad essere centrati su accademici che di certo coprono con successo il fronte tecnologico, meno quello dell’economia di mercato. Invece gli uffici di trasferimento tecnologico dovrebbero puntare su una rete di contatti commerciali. Le università devono anche incoraggiare la spirito imprenditoriale tra gli accademici concedendo loro il tempo necessario per potersi dedicare a questo particolare tipo di attività e creando incentivi adeguati.

Tabella 1 – Anno di costituzione delle imprese spin-off della ricerca pubblica in Italia (n=990)

Tabella 1- Anno di costituzione delle imprese spin-off della ricerca pubblica in Italia (n=990)
Fonte: IX Rapporto annuale sulla valorizzazione della ricerca nelle università italiane, Netval, Aprile 2012.

Misurare il successo di questo tipo di iniziativa non è facile. Si può statisticamente affermare che di 10, 1 ha successo, 4 si salvano e 5 falliscono. Una via per giudicare la qualità può essere quella di guardare a quelle compagnie che attraggono capitali esterni; ma le conclusioni sono le stesse: generalmente il capitale non considera l’università un investimento attraente per il basso carattere industriale delle proposte e per l’inadeguatezza sia delle dimensioni del mercato interessato sia della fase di sviluppo del prodotto. Un’altra accusa riguarda i cronici ritardi dell’amministrazione universitaria nelle scelte e nelle loro attuazioni, la molteplicità di interessati universitari con cui dovere trattare. Un punto chiave è che gli uffici per il trasferimento tecnologico spesso mancano di fondi sufficienti per sviluppare potenziali spinout universitari fino al punto da soddisfare criteri di investimento. Aggravando il problema il capitale ha modificato la sua strategia negli ultimi anni preferendo finanziare le compagnie più mature piuttosto che le aziende nate da poco. Il risultato è un problematico gap di finanziamento fra quanto si potrebbe investire da parte dell’industria in un progetto e quanto l’università stessa investe per progetto (milioni di euro contro centinaia di migliaia di euro: rapporto 10).
Sarebbe necessario che i politici focalizzassero la loro attenzione meno sul numero degli spinouts e più sulla qualità delle nuove imprese industriali da attivare: un finanziamento ulteriore è condizione indispensabile per un successo di trasferimento tecnologico.  Maggiori finanziamenti aiuterebbero anche le università a determinare se un’idea ha le gambe per diventare uno spinout o se invece è più opportuna una politica di autorizzazioni come preliminare al trasferimento tecnologico ed alla ricerca di finanziamento.

Figura 1 – Composizione percentuale del campione per settore di appartenenza e periodo di
Figura 1 - Composizione percentuale del campione per settore di appartenenza e periodo di
Fonte: IX Rapporto annuale sulla valorizzazione della ricerca nelle università italiane, Netval, Aprile 2012.

per approfondire: http://www.univpm.it/Entra/Engine/RAServePG.php/P/413710013400/M/335810013481/T/Ricerca-Diffusione-Imprese-spin-off-Dati-Spin-Off-in-Italia

ENI ci ama? Ma quanto ci ama?

a cura di Martino Di Serio

I Fatti

Nel 2008 fece scalpore la notizia dell’accordo Massachusetts Institute of Technology (MIT)-Eni per un finanziamento complessivo di 50 Milioni di dollari ( http://www.eni.com/it_IT/media/comunicati-stampa/2008/01/15-01-08-eni-MIT-annunciano-partnership-programma-ricerca-energia-solare.shtml. )

miteiRecentemente è stata annunciata un rinnovo della partnership per 10 Milioni di dollari all’anno (http://www.ilsole24ore.com/art/impresa-e-territori/2013-02-12/eni-nuova-partnership-mit-210227.shtml?uuid=Ab353pTH).

Questi i fatti, ora seguono prima una considerazione sull’entità del finanziamento e poi alcune domande che come cittadino italiano (e quindi azionista dell’Eni) mi sovvengono per la valutazione dell’investimento fatto.

La Considerazione

Tutta l’accademia italiana è alle prese con la prima fase del richiesta di finanziamento PRIN (Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale) al MIUR (il 14 Febbraio scadono i termini). Il finanziamento complessivamente assegnato al settore ERC (European Research Council) PE (Mathematics, physical sciences, information and communication,  engineering, universe and earth sciences) è di euro 15.303.958.  Partendo dal presupposto che la cifra messa a disposizione dal ministero è sicuramente insufficiente ad assicurare la competitività delle nostre università rispetto alle università straniere, resta comunque la considerazione che l’ENI finanzia il solo MIT con circa il 50% del budget che lo stato Italiano mette a disposizione dei settori della scienza di base e della tecnologia (Matematica, Fisica, Chimica, Ingegneria e Geologia) di tutta l’Università Italiana.

Le Domande.

1) Qual è l’investimento di Eni nell’Università Italiana’?

2) Quali ritorni scientifici si sono avuti dall’investimento passato?

Sul sito MITei-solar frontier center (http://eni-solar.mit.edu/publications/) sono riportate dal 2010 al 2012, 24 pubblicazioni. Il costo medio si aggira intorno a 830000 dollari a pubblicazione calcolando 10 milioni di dollari all’anno di investimento. Non si vuole essere quantitativi ma la cifra impressiona tenendo conto delle cifre con cui i ricercatori italiani si devono confrontare.

3) Chi è proprietario dei diritti brevettuali delle domande di  brevetto depositate nell’ambito del programma Solar frontier Center?

Uno dei risultati più pubblicizzati sono le celle fotovoltaiche supportate su carta o tessuto (http://mitei.mit.edu/news/solar-cells-printed-paper) . Allo stato attuale (almeno dalle notizie che si possono ricavare da Espacenet) sembra che il proprietario dei diritti sia il solo MIT(http://worldwide.espacenet.com/publicationDetails/inpadoc?CC=US&NR=2011315204A1&KC=A1&FT=D&ND=3&date=20111229&DB=EPODOC&locale=en_EP)

4) I Dirigenti ENI hanno mai pensato alla possibilità  di “call for proposal” rivolte all’Università Italiana per verificare se anche dalla ricerca dell’Università Italiana possano emergere soluzioni/innovazioni utili all’Italiana (almeno per ora) ENI?

La Conclusione

Voglio precisare che qui non si mettono in discussione né le competenze del MIT né la professionalità e l’eccellenza dei ricercatori Eni. Molti di questi li conosco personalmente e godono della mia massima stima. Tra l’altro i loro eccellenti risultati presenti e passati (anche nel settore dei nuovi materiali per il solare) sono noti a chi si occupa di chimica industriale.

La cosa su cui vuole aprire una discussione è sull’opportunità che in questi momenti di crisi per l’Italia (http://www.repubblica.it/economia/2012/11/15/news/pil_europa_crisi-46690754/), l’Eni svolga un’azione di sponsorizzazione liberale (donazione) nei confronti di una organizzazione Statunitense. Naturalmente l’ENI è libera di farlo, ma come ricercatori in Italia saremmo curiosi di sapere quanto l’ENI investe in Italia o se invece la sua azione complessiva di sponsorizzazione liberale della ricerca (perché di questo “sembra” si tratti) è contraria a quanto i nostri governi (almeno a parole) hanno cercato di arginare (la fuga dei cervelli).

Preoccupa quanto riportato sul sito MITEei a proposito dell’accordo Eni-MIT (http://mitei.mit.edu/news/mit-and-eni-renew-energy-partnership):
“While the exact funding level was not disclosed, the agreement between Eni and MIT “significantly exceeds” the $5 million annual commitment required for founding members of MITEI, according to a press release, making Eni the energy initiative’s largest research sponsor. Eni has directly supported 100 energy researchers at MIT over the past five years, and 52 students have been supported as Eni-MIT Energy Fellows”.

Per approfondire:

http://daily.wired.it/news/economia/2013/02/13/paolo-scaroni-eni-mit-6792578.html

http://eni-solar.mit.edu/

http://www.repubblica.it/economia/finanza/2012/04/06/news/compensi_milionari_per_i_vertici_di_eni_ed_enel_a_scaroni_6_milioni_e_a_conti_4_3_milioni-32877572/

 

Innovazione e dintorni

a cura di Vincenzo Balzani

In un editoriale pubblicato sul Corriere della Sera del 3 febbraio, intitolato “Troppe illusioni sull’innovazione” Alberto Alesina e Francesco Giavazzi* hanno toccato un tema che interessa i chimici, particolarmente quelli di noi che sostengono la necessità di una transizione dai combustibili fossili alle energie rinnovabili.

Nell’ambito di un discorso più vasto sulla politica industriale, a loro parere frenata dagli interventi dello Stato, Alesina e Giavazzi iniziano il loro articolo con questo paragrafo: “Le scorciatoie sono pericolose: non solo in montagna, anche nella politica economica. L’ansia di accorciare i tempi che intercorrono fra il momento in cui una riforma è approvata e quando essa si traduce in maggior crescita può far commettere gravi errori. Un esempio: qualche anno fa, per favorire gli investimenti in energie rinnovabili si decise di sussidiare l’installazione di pannelli solari. Per far presto furono concessi incentivi che oggi, a pannelli installati, si traducono in una rendita di circa 11 miliardi di euro l’anno: li pagano tutte le famiglie nella bolletta elettrica e vanno a poche migliaia di fortunati. Non solo si è creata un’enorme rendita che durerà per almeno un ventennio: si è favorita una tecnologia che a distanza di pochi anni è già vecchia. Oggi l’energia solare si può catturare semplicemente usando una pittura sul tetto, con costi e impatto ambientale molto minori. Ma i nostri pannelli rimarranno lì per vent’anni e nessuno si è chiesto quanto costerà e che effetti ambientali produrrà la loro eliminazione.”

Chi ha un po’ di conoscenza dell’argomento, nota subito che alcune affermazioni riportate sono semplicemente non vere. Basta ad esempio consultare due documenti ufficiali del GSE:

http://www.gse.it/it/GSE_Documenti/Relazione%20attivita%20GSE%202011_Incentivazione%20FTV.pdf

http://corrente.gse.it/GSE%20Documenti/Solare%20Fotovoltaico%20Rapporto%20Statistico%202011.pdf

Gli incentivi effettivamente pagati nel 2011 ammontano a poco più di 3 miliardi di euro, con un costo indicativo annuo di 5.5 miliardi (considerando cioè gli impianti installati entro la fine del 2011). Le “poche migliaia di fortunati” che secondo l’articolo si ripartirebbero questa enorme somma sono in realtà un numero molto maggiore poiché gli impianti installati alla fine del 2011 erano 330.196, dei quali 261.410 già convenzionati. In realtà, poi, non si tratta di “fortunati”. A parte i pochi che ci hanno speculato sopra a causa di leggi sbagliate,  coloro che hanno installato pannelli fotovoltaici  sui tetti delle loro case sono cittadini consapevoli che hanno capito l’importanza del problema energetico-climatico e quindi hanno fatto un investimento intelligente di qualche migliaia di euro a 8-10 anni.

pveolico

potenza installata nel mondo

La tecnologia fotovoltaica attuale non può definirsi vecchia. E’ una tecnologia entrata nella sua piena maturità perché mette assieme diverse caratteristiche ottimali: efficienza alta (15-20%), costi bassi, lunga durata (molto più dei vent’anni che lo stesso articolo del Corriere riconosce: “almeno un ventennio”) e minime spese di manutenzione. Per di più, fornisce anche una buona occasione per sostituire le coperture in amianto.

Non è affatto vero, poi,  che “… nessuno si è chiesto quanto costerà e che effetti ambientali produrrà la loro [dei pannelli] eliminazione”. La risposta a questa domanda si trova sul secondo dei siti sopra citati: “Lo smaltimento a fine vita non pone particolari problemi. Un modulo fotovoltaico è, infatti, riciclabile per più del 90%. Silicio, vetro e alluminio vengono riutilizzati come materie prime secondarie riducendo il fabbisogno energetico necessario per i materiali vergini. Il Decreto del 5 maggio 2011 (Quarto Conto Energia) prevede che dal 30 giugno 2012 tutti i proprietari di impianti fotovoltaici aderiscano ad un consorzio che assicuri il recupero dei moduli a fine vita”.

Non è vero neppure che “Oggi l’energia solare si può catturare semplicemente usando una pittura sul tetto, con costi e impatto ambientale molto minori”.

Chi segue la letteratura scientifica sull’argomento e ha scambi di opinioni con i colleghi di altri paesi sa che l’idea di un <pittura> fotovoltaica è molto attraente, ma altrettanto difficile da realizzare. Su internet, come al solito, si trova di tutto, anche sull’argomento PV paint. Il sito

http://www.renewableenergyworld.com/rea/news/article/2008/10/solar-paint-on-steel-could-generate-renewable-energy-soon-53714

assicurava 5 anni fa che “Solar Paint on Steel Could Generate Renewable Energy Soon” e sosteneva che questa tecnologia sarà particolarmente utile in Gran Bretagna: “Because the photovoltaic paint has none of the material limitations of conventional silicon-based solar cell, it could, at least in theory, provide terawatts of clean solar electricity at a low cost in the coming decades. These new solar cells also have the advantage of being able to absorb across the visible spectrum. That makes them more efficient at capturing low radiation light than conventional solar cells, and so well suited to the British climate with its many cloudy days”.

Il sito http://news.softpedia.com/news/Cheap-Solar-Paint-to-Replace-Traditional-PV-242316.shtml

nel 2011 parlava di “Cheap solar paint to replace traditional PV” e specifica che “Clients would only have to apply the coat of paint on the outside of their homes and witness how it captures sunlight and converts it into clean green energy that could power all the gadgets inside the house.” Insomma, la soluzione della crisi energetica è ormai solo ad un pennello di distanza.

Il sito di National Geographic

http://news.nationalgeographic.com/news/2005/01/0114_050114_solarplastic.html

riporta che “A hydrogen-powered car painted with the film could potentially convert enough energy into electricity to continually recharge the car’s battery” senza che si capisca che relazione c’è fra la ricarica della batteria e l’idrogeno che fa andare la macchina. Dice anche che “… one day “solar farms” consisting of the plastic material could be rolled across deserts to generate enough clean energy to supply the entire planet’s power needs”.

da ScienceDaily 22 dic. 2011

da ScienceDaily 22 dic. 2011

pkamatL’attesa della <pittura> miracolosa nasce da alcune ricerche di base di un mio vecchio amico, Prashant Kamat, che all’università di Notre Dame (Indiana) studia semiconduttori nano cristallini. Kamat ha pubblicato un articolo con un titolo molto attraente: Sun-Believable Solar Paint. A Transformative One-Step Approach for Designing Nanocrystalline Solar Cells. (Matthew P. Genovese, Ian V. Lightcap, Prashant V. Kamat, ACS Nano, 2011) dove parla delle sue ricerche come di “initial effort to prepare solar paint”. L’efficienza per ora è 1% e nulla si sa sulla stabilità dei componenti e sulla possibilità di passare dalla scala di esperimento di laboratorio ad applicazioni reali. Kamat ha anche brevettato i suoi risultati (USP Appln 2009114273 NANOMATERIAL SCAFFOLDS FOR ELECTRON TRANSPORT), ma si sa che negli USA brevettano subito tutto: mai dire mai. E anche lui, naturalmente, deve un po’ sgomitare, come fanno molti altri per ottenere fondi.

Infine, sul sito

http://www.ecoblog.it/post/6676/photon-inside-intervista-a-antonio-maroscia-uno-degli-inventori

c’è un’intervista del 2008 che parlava di un brevetto presentato nel 2006 da un architetto italiano e due suoi collaboratori, poi ceduto ad una ditta austriaca che avrebbe dovuto commercializzare rapidamente la vernice fotovoltaica, denominata Photon inside. Che, non contenendo silicio, “potrà costare la metà dei pannelli… un po’ di più di una buona vernice”. Saremmo curiosi di sapere se la commercializzazione è avvenuta e se è stata usata su qualche edificio.

Nel loro articolo Alesina e Giavazzi parlano di scorciatoie pericolose. Potremmo parafrasare la loro affermazione, riportata all’inizio di questo commento, dicendo: Le scorciatoie sono pericolose: non solo in montagna, anche nella corsa ad applicare le innovazioni. L’ansia di accorciare i tempi fra i risultati di una ricerca e la sua applicazione per sostituire sistemi che funzionano ottimamente con altri di cui non si conosce ancora l’efficienza e l’affidabilità può far commettere gravi errori.

Rinunciare all’uso dei pannelli fotovoltaici attuali in attesa delle miracolose <pitture> significherebbe bloccare l’uso della energia solare in favore di chi, come il ministro Passera, ha predisposto una Strategia Energetica Nazionale basata in gran parte sulla estrazione delle nostre modeste riserve residue di petrolio e sulla creazione in Italia di un hub europeo del gas (vedi miei commenti a SEN)

In conclusione, non mi sembra fosse il caso di screditare, come hanno fatto Alesina e Giavazzi, lo sviluppo del fotovoltaico che è una delle più grandi innovazioni in Italia negli ultimi decenni. Basti ricordare che il fotovoltaico installato nel solo 2011 fornisce una quantità di energia pari a quella che avrebbe fornito una centrale nucleare da 1600 MW. Una centrale vera e non ipotetica, che ha già creato migliaia di posti lavoro, ha alimentato le entrate fiscali dello Stato in anni di magra, ha ridotto la nostra importazione di energia primaria dall’estero, non ha imposto oneri di smaltimento alle future generazioni.  Un’infrastruttura energetica sicura e diffusa su tutto il territorio nazionale, che aiuterà l’Italia ad onorare gli impegni europei 20-20-20 al 2020, limitando il danno economico che ci autoinfliggeremo, perché comunque non raggiungeremo gli obiettivi previsti. Perché le politiche di promozione delle rinnovabili e dell’efficienza sono state troppo tiepide, e non troppo generose.

* l’articolo si trova qui: http://www.corriere.it/editoriali/13_febbraio_03/troppe-illusioni-su-innovazione-alberto-alesina-francesco-giavazzi_0b6216f4-6dd1-11e2-ad59-736471fe2e30.shtml

Tanti nomi per una cosa. Un nome per tante cose: il caso nitro natron.

a cura di Andrea Turchi* andreaturchi@hotmail.com

 I nomi e le cose della chimica

Per la chimica, sin dall’inizio, designare gli oggetti del proprio studio, ossia le sostanze, è stato un compito particolare e precipuo. L’attribuzione dei nomi  agli oggetti chimici è sempre  stata strettamente intrecciata con la loro descrizione. Il che cosa sia  saliente per la descrizione è cambiato  nel corso dei tempi con gli avanzamenti pratici e teorici cosicché il modo diverso con cui una stessa sostanza[i] è stata chiamata nel corso dei secoli offre uno spaccato delle trasformazioni culturali e conoscitive della disciplina.

Oggi sembra che i nomi chimici, quelli ufficiali, siano arrivati a un punto di non ritorno, almeno dal punta di vista del metodo: il nome descrive nel modo più puntuale possibile la costituzione chimica della molecola di cui è costituita la sostanza; anzi si può dire che il nome sia un resoconto in lingua della formula (di struttura e configurazionale) della sostanza; la rappresentazione iconica di una molecola e la sua denotazione linguistica di una sostanza non sono mai stati così vicini, tanto che spesso, e impropriamente, i termini molecola e sostanza sono usati in modo intercambiabile.

Natura non facit saltus

Un tempo naturalmente non era così: nel passato più lontano, quando nulla ancora si sapeva della costituzione delle sostanze, queste venivano appellate secondo criteri molto diversi e diversificati; questi criteri erano solo parzialmente condivisi e quindi era frequente la regionalizzazione dei nomi; in più i nomi mutavano con l’insieme combinato della evoluzione delle conoscenze e degli utilizzi delle sostanze.  Poiché si trattava di criteri pragmatici, spesso di natura merceologica, capitava di sovente che venivano attribuiti gli stessi nomi a sostanze simili per proprietà esteriori o per vicinanza di utilizzo. Si deve poi  tener conto che nei tempi più antichi non si tendeva a ipostatizzare le sostanze quanto a concepire le differenze tra queste secondo gradazioni e sfumature: non si trattava di scarsità di conoscenze (o almeno non solo di quello) quanto dell’idea di una sorta di continuum tra le cose che permetteva transizioni non drammatiche dall’una all’altra e che si riflettevano in transizioni non drammatiche nei loro nomi. Insomma, natura non facit saltus.

Classico è il caso del piombo e dello stagno che Plinio considerava varietà della stessa cosa: plumbum nigrum il primo e plumbum candidum il secondo. Plinio sapeva che si trattava di metalli diversi ma la differenza (di consistenza, uso, colore) non era tale da far  meritare loro nomi diversi se non nella aggettivazione. E l’uso dell’aggettivazione per denotare la varietà nell’abito di una stessa specie si ritrova anche quando una stessa sostanza  era denotata in modo diverso: così il rame sallustiano, trovato nelle regioni alpine, era il preferito prima dell’avvento del rame mariano. Sicuramente giocava a far la differenza il diverso tenore e il  tipo di impurezze nei due prodotti , ma questo non spiega del tutto l’attitudine culturale al fine distinguo, alla puntuale differenziazione.  Si noti, per inciso, che nel primo caso l’aggettivazione configura il produttore e nel secondo la regione (monti mariani, nei pressi di Cordoba). L’aggettivazione geografica rimase predominante per tutta l’antichità’, e tale consuetudine si propagò fino agli albori dell’età moderna, per esempio in Agricola.  Con l’avvento dell’alchimia  e della farmacopea diventarono predominanti i riferimenti alla matrice naturale da cui una sostanza veniva estratta: così’ la potassa  poteva essere chiamata sal juniperi o  sal gentianae. È rimarchevole il fatto che  l’alchimia abbia introdotto, con la figura demiurgica  dell’iniziato, l’abitudine all’aggettivazione personale del facitore: per esempio il sale di Glauber (solfato di sodio idrato). In tutti questi casi l’aggettivazione continuò  a costituire  sempre il centro denominativo  delle sostanze.

Il caso nitro natron

Un caso emblematico di quanto sopra sinteticamente  sostenuto è quello nitro-natron, ossia del nitrato di potassio (salnitro) e del carbonato di sodio (soda), sali noti sin dalla antichità’.

Il caso in questione presenta una variante molto interessante rispetto agli schemi sopra abbozzati: la transizione da una forma all’altra non sta nella diversa aggettivazione ma nella diversa declinazione semantica della parola. Come faceva sapientemente notare anche Primo Levi[ii] in L’altrui mestiere, l’antica lingua egizia  da cui i due termini provengono, non conosceva vocali e la matrice comune  dei due nomi esaminati, traslitterata, è  n’trj, derivante a sua volta dal toponimo el-Natrun, una depressione desertica a ovest del Nilo (nella foto qui sotto) comprendente alcuni laghi da cui veniva ricavato il natron,  ossia il carbonato di sodio utilizzato per la mummificazione. Tuttavia, l’oscillazione vocalica è già presente in situ perché una particolare zona della depressione, dove insistono tre antichi monasteri, è chiamata Nitria.

Wadi di el-Natrun

Wadi di el-Natrun

Come sia avvenuto che il  nitrato di potassio sia stato nominato nitro o salnitro utilizzando la stessa radice di natron non è molto chiaro. Secondo il Singer, nella sua storia della tecnologia,  l’uso di questo sale nell’antichità era molto più limitato,  e minore era la  sua disponibilità mineraria. Sta di fatto però che si tratta di due sali egualmente bianchi, facilmente cristallizzabili, solubili (più il carbonato che il salnitro) e sembrerebbe intercambiabile anche il loro uso. Così’ Plinio riportava la leggenda della casuale scoperta del vetro da parte di mercanti fenici di nitro che, accampatisi presso il fiume Belo, nell’attuale Siria,  accendendo il fuoco, fusero accidentalmente quel sale con la sabbia del fiume, di pura silice, ottenendo il primo vetro. Ora, il costituente privilegiato del vetro è la soda anche se il salnitro può essere utilizzato (e lo è ancora) per alcuni tipi di vetro; ma il fatto che Plinio lo descrivesse come un prodotto pietroso (in generale il salnitro era costituito da efflorescenze pulverulente)  e che fosse commercializzato,  fa propendere per l’ipotesi che Plinio abbia erroneamente[iii] chiamato nitro il natron. In ogni caso la sovrapposizione linguistica (e quella d’uso) è destinata a durare ancora per molto tempo fino a che si moltiplicarono e si diversificarono le fonti delle due sostanze. Così gli Arabi, a partire dal VII secolo, scoprirono che il natron può essere ricavato dalla cenere  (al-kali) delle piante e alcali vennero  chiamate le sostanze di natura basica così ottenute (l’alcali naturale fu per lungo tempo l’unica base a disposizione dell’uomo). Si noti che le piante acquatiche forniscono in prevalenza il carbonato di sodio e quelle terrestri quello di potassio, ma allora non era possibile distinguere tra due prodotti.

Le strade si separano

La denominazione prosegue nei secoli con complessi sviluppi fino a che all’inizio del XVIII secolo il chimico  tedesco Georg Ernst Stahl riuscì a distinguere l’alcali artificiale  (il carbonato di potassio, ossia la potassa) dall’alcali naturale (ossia la soda, così detta perché si rinveniva come tale  in giacimenti naturali). Operata questa seconda distinzione, i  destini delle due sostanze e dei loro nomi si allontanarono sino ad approdare alla nomenclatura moderna.

salnitro

raccolta del salnitro

Nel frattempo il salnitro ebbe un destino sotto tono per lungo tempo fino a che  i Cinesi inventarono intorno al XII secolo la polvere da sparo che procurò al salnitro uno spettacolare e duraturo successo.  La sua fonte principale fu rinvenuta nelle efflorescenze di stalle e cantine, fatto che dette luogo a un vero e proprio imperio dei governi  sull’asportazione del prodotto, affidato  a feroci appaltatori (tezonieri  in Veneto)  che non solo  lo prelevavano a forza ma impedivano al proprietari di pulire le proprie stalle per favorire la formazione del salnitro. Il suo parente più prossimo, il nitrato di sodio (sodanitro) arrivò sula scena europea molto più tardi,  nel XIX secolo, proveniente dagli immensi  giacimenti di guano cileni (nitro del Cile) ma troppo tardi per sostituire il suo più longevo rivale e anche troppo tardi per confondersi nel suo nome in quanto nel frattempo sodio e potassio erano stati già caratterizzati come elementi diversi.

Oggi, di quelle lontane, complesse e rilevanti vicende rimangono solo due prefissoidi: nitro- e natro-, il primo indicante il radicale NO3  il secondo il metallo sodio, che la lingua italiana ha battezzato prelevando il nome da soda.  Tuttavia  il simbolo Na rimane dunque la sottile traccia dell’antica e ambigua origine ntrj.

*Andrea Turchi, laureato in chimica, è stato docente di chimica negli istituti tecnici. Ha collaborato con l’Istituto della Enciclopedia Italiana per molti anni  prima come autore di voci di chimica,  poi come capo redattore e infine condirettore di opere scientifiche. Si è interessato di problemi di didattica e di storia della scienza e della tecnologia ed è autore di numerosi articoli su tali argomenti.

Bibliografia di riferimento

Caccianemici Palcani L., Del natro orientale, in Raccolta di operette filosofiche filologiche scritte nel secolo XVIII, vol. 2, Milano, 1832

Girardi V. I “tezoni” e la produzione di salnitro nella Serenissima in http://www.armigeridelpiave.it/SELEZIONI/Salnitro.pdf

Kelly J., Gunpowder, Basic Books, 2004

Levi P., L’altrui mestiere, Einaudi, Torino, 1985

Macfarlane A., Martin G., Una storia invisibile: come il vetro ha cambiato il mondo, Laterza, Bari, 2003

Natron, Wikipedia in http://en.wikipedia.org/wiki/Natron

Pentella A., Turchi A., Chimica, scienza della trasformazione, Paravia, Torino, 1991

Plinio, Storia naturale, Libro V, Einaudi, Torino, 1988

Singer C., Holmyard E.J., Hall A.R., Williams T.I., Storia della tecnologia, 1/1, Bollati Borighieri, Torino, 2012


[i] Uso qui il termine sostanza in modo non stretttamente connesso a quello di sostanza pura secondo i  più  rigorosi dettami chimici, con il più generico significato  di oggetto chimico chiaramente denotabile.

[ii] Devo questa segnalazione e altre del testo alla cortesia di Giorgio Nebbia, implacabile ricercatore anche su rete.

[iii] Questa è la tesi portata avanti da Caccianemici Palcani, un  in un altro testo segnalatomi da Nebbia, filologo e scienziato del secondo XVII  secolo. Caccianemici esamina il ‘nitro’ o ‘natron’  di origine egiziana supponendone la stessa natura di quello più antico della stessa regione e, basandosi anche su fini argomentazioni comparative,  arriva  alla conclusione che il ‘nitro’ di Plinio sarebbe in realtà la soda. Una figura come quella di Caccianemici sarebbe oggi inimmaginabile:  un letterato che si cimenta nell’analisi chimica per venir a capo di un nome! Di contro è veramente difficile trovare un chimico militante che si interessi degli antichi nomi delle sostanze….

L’ECHA ha inaugurato la piattaforma della classificazione e dell’etichettatura

a cura di Ferruccio Trifirò

Il 31 gennaio scorso è arrivata la notizia che l’ECHA* ha inaugurato la piattaforma   C&L che è l’inventario delle classificazioni e delle etichettature delle sostanze  chimiche e degli articoli che le contengono, ossia una banca dati che conterrà informazioni di base sulla classificazione e l’etichettatura di sostanze notificate e registrate trasmesse dai fabbricanti e dagli importatori. L’inventario sarà istituito e gestito dall’ECHA nel programma di attuazione del regolamento “CLP, Classification Labelling and Packaging “ (CLP). L’ECHA è il motore dell’attuazione dell’innovativa legislazione dell’UE sulle sostanze chimiche attraverso la gestione di due regolamenti: il Reach e il CLP. Il Reach ha l’obiettivo di migliorare la protezione della salute dell’uomo e dell’ambiente dai rischi delle sostanze chimiche, stimolando nello stesso tempo la competitività dell’industria chimica europea. Il CLP ha l’obiettivo di garantire che i rischi presentati dalle sostanze chimiche siano chiaramente comunicati ai lavoratori e ai consumatori nell’Unione europea attraverso la classificazione e l’etichettatura delle sostanze chimiche. Il regolamento relativo alle sostanze e alle miscele (CLP) è entrato in vigore nel gennaio 2009 ed è il metodo di classificazione e di etichettatura delle sostanze chimiche basato sul sistema mondiale armonizzato delle Nazioni Unite (GHS).

Il regolamento sostituirà nel tempo due precedenti atti legislativi, ossia la direttiva relativa alle sostanze pericolose e la direttiva relativa ai preparati pericolosi, con un periodo di transizione fino al 2015. Per adesso sono state registrate 90.000 sostanze. Prima di immettere sostanze chimiche sul mercato, gli operatori del settore devono stabilire quali siano i rischi per la salute umana e per l’ambiente che possono derivare da sostanze e miscele. Inoltre, le sostanze chimiche pericolose devono essere etichettate in base a un sistema standardizzato in modo che i lavoratori e i consumatori possano conoscerne gli effetti prima di utilizzarle. I rischi che le sostanze chimiche comportano vengono comunicati attraverso indicazioni e pittogrammi standard riportati sulle etichette e nelle schede di dati di sicurezza ed i fornitori devono decidere essi stessi in merito alla classificazione di una sostanza o miscela. I fabbricanti, gli importatori e gli utilizzatori a valle devono tenere conto dei nuovi sviluppi tecnici o scientifici e verificare se deve essere effettuata una nuova valutazione della classificazione della sostanza o della miscela che immettono sul mercato. I fornitori sono tenuti a etichettare una sostanza o miscela contenuta in un imballaggio ai sensi del regolamento CLP prima di immetterla sul mercato quando una sostanza è classificata come pericolosa o è una miscela che contiene una o più sostanze classificate come pericolose al di sopra di una determinata soglia. L’etichetta include: nome, indirizzo e numero di telefono del fornitore; quantità nominale di una sostanza o miscela contenuta nell’imballaggio messo a disposizione del pubblico, salvo che tale quantità sia specificata altrove sull’imballaggio; identificatori del prodotto; ove applicabile, pittogrammi di pericolo, avvertenze, indicazioni di pericolo, consigli di prudenza e informazioni supplementari previste da altre normative. Le schede di dati di sicurezza sono il principale strumento per garantire che i fabbricanti e gli importatori comunichino in tutta la catena d’approvvigionamento informazioni sufficienti per consentire un uso sicuro delle loro sostanze e miscele. I fornitori devono consegnare una scheda di dati di sicurezza in caso si tratti di una sostanza  o miscela classificata come cancerogena, mutagena,  con effetti sul sistema riproduttivo  e con altri effetti sull’uomo, o una sostanza persistente, bioaccumulabile e tossica (PBT) o molto persistente e molto bioaccumulabile (vPvB), ai sensi del regolamento REACH.

immagini di percolo

L’ECHA propone, a supporto di tale attività, un forum di discussione on line in cui i notificanti e coloro che hanno registrato la stessa sostanza, con classificazioni diverse, possano concordare una classificazione e un’etichettatura comune. La classificazione e l’etichettatura di certe sostanze chimiche pericolose devono essere armonizzate per assicurare un’adeguata gestione del rischio in tutta la Comunità europea. Gli Stati membri, i fabbricanti, gli importatori e gli utilizzatori a valle possono formulare una proposta di classificazione ed etichettatura armonizzate per una sostanza. Inoltre, gli Stati membri possono proporre la revisione di un’armonizzazione esistente. I fornitori sono tenuti a provvedere alla classificazione ed etichettatura armonizzate delle rispettive sostanze. In tal modo, gli utilizzatori possono essere meglio informati riguardo ai potenziali effetti pericolosi e al modo più adeguato per assicurare un uso sicuro. Il processo di classificazione ed etichettatura armonizzate comprende un periodo di consultazione pubblica.

Chiunque può formulare osservazioni su una proposta di armonizzazione. I soggetti più suscettibili di essere interessati sono aziende, organizzazioni che rappresentano l’industria o la società civile e singoli esperti. La durata della consultazione pubblica è di 45 giorni Alcune situazioni rendono necessaria l’armonizzazione della classificazione di una sostanza e obbligatorio a livello europeo garantire un’adeguata gestione dei rischi in tutta l’Unione europea.

Il fascicolo relativo all’armonizzazione della classificazione include informazioni sulla fabbricazione, gli usi e i pericoli delle sostanze e una giustificazione della necessità di un’azione a livello europeo. La relazione deve contenere informazioni sufficienti per effettuare una valutazione indipendente dei vari pericoli fisici, tossicologici ed ecotossicologici sulla base delle informazioni presentate.

La proposta, le osservazioni e i pareri di chi ha inviato il fascicolo vengono trasmessi al Comitato per la valutazione dei rischi dell’ECHA. Il Comitato, di cui fanno parte esperti degli Stati membri, esprime un parere scientifico sulla proposta e l’ECHA lo trasmette alla Commissione europea.

La Commissione, con l’assistenza del Comitato di regolamentazione dell’ECHA, che comprende rappresentanti degli Stati membri, deciderà quindi in merito alla proposta di classificazione e di etichettatura della sostanza interessata. http://echa.europa.eu/it/view-article/-/journal_content/title/echa-launches-the-classification-and-labellingplatform;jsessionid=07CED263627DBD7679DE2E612C0F0363.live1

Riesame delle classificazioni

In alcuni casi, la decisione relativa alla classificazione di una sostanza è adottata a livello di Unione europea. I fornitori della rispettiva sostanza o miscela hanno l’obbligo di applicare la classificazione e l’etichettatura armonizzate.

Spesso questa procedura riguarda le sostanze più pericolose, ossia, di norma, quelle cancerogene, mutagene, tossiche per la riproduzione o sensibilizzanti delle vie respiratorie.

L’armonizzazione delle classificazioni ha lo scopo di proteggere la salute umana e l’ambiente e di rafforzare la competitività e l’innovazione.

Tutte le classificazioni delle sostanze armonizzate in base alla normativa precedente (direttiva relativa alle sostanze pericolose) sono state convertite in classificazioni armonizzate a norma del regolamento CLP.

Stati membri, fabbricanti, importatori e utilizzatori a valle possono richiedere l’armonizzazione della classificazione e dell’etichettatura di una sostanza. Possono essere presentate proposte in tal senso soltanto per le sostanze e non per le miscele.

Consultazioni attuali

 La notifica può essere trasmessa soltanto per via elettronica tramite il portale REACH-IT sul sito web dell’ECHA. Per poter trasmettere la notifica, è necessario innanzitutto registrarsi in REACH-IT e creare un account. I notificanti possono anche formare un gruppo di fabbricanti e/o di importatori e notificare la classificazione e l’etichettatura concordate per l’inventario. Questa fase non è obbligatoria È possibile inserire manualmente i dati richiesti in REACH-IT. Lo strumento online consente di confermare una classificazione ed etichettatura già notificata o registrata da un’altra societa  Dopo aver preparato il file del fascicolo di notifica, è possibile trasmetterlo all’ECHA tramite REACH-IT. programma nel quale si viene guidati alla trasmissione della notifica attraverso pagine appositamente dedicate a tale scopo.

Comitato per la valutazione dei rischi

La proposta, le osservazioni e i pareri di chi ha inviato il fascicolo vengono trasmessi al Comitato per la valutazione dei rischi dell’ECHA. Il Comitato, di cui fanno parte esperti degli Stati membri, esprime un parere scientifico sulla proposta e l’ECHA lo trasmette alla Commissione europea.

DeciSione

La Commissione, con l’assistenza del Comitato di regolamentazione dell’ECHA, che comprende rappresentanti degli Stati membri, decide quindi in merito alla proposta di classificazione e di etichettatura della sostanza interessata.

*European Chemicals Agency, <http://echa.europa.eu>http://echa.europa.eu, con sede a Helsinki

Le zone morte: 1.La SLOI di Trento. Intervista a Nicola Salvati.

Nella fantascienza moderna è frequente l’incubo in cui una zona morta invade lentamente la nostra realtà, in modo subdolo, ma spesso impossibile da fermare; l’esempio forse più famoso è la “Foresta di cristallo” di J.G. Ballard, in cui una zona di cristallizzazione irreversibile avanza a ricoprire l’intera superficie terrestre a partire dal profondo di una foresta tropicale; e cosi’ in altri romanzi che individuano la “disaster zone”, il buco nero che inghiotte il mondo o anche solo la nostra testa (come The dead zone di S. King). Questi racconti ci hanno ispirato per una nuova rubrica di questo blog, dedicata ai grandi incidenti chimici ed alle loro conseguenze; iniziamo da una zona morta che mi è terribilmente vicina, l’ex-area SLOI nella parte nord di Trento, bellissima città dove vivo. Purtroppo di queste zone morte, inquinate da una distruzione voluta dall’uomo, ce ne sono molte e la chimica, da noi tanto amata, è stata spesso usata come strumento di questa distruzione. Ma può essere anche strumento di rinascita. Buona lettura.

a cura di Claudio Della Volpe

Abito a Trento da oltre vent’anni ormai, ma non sapevo, fino a qualche tempo fa, che ci fosse stato un momento in cui questa città, che oggi è al top delle classifiche italiane sulla qualità della vita, avesse rischiato di scomparire in una nube tossica. Ed ancora oggi, sapendo dove guardare, ne porta il segno.

Mi sono fatto raccontare questa storia, di cui si trovano rari accenni, da uno dei protagonisti, l’ingegner Nicola Salvati, allora capo dei vigili del fuoco della città ed oggi consigliere comunale di Trento.

 nicolasalvati

Nomen est omen“- dico all’ing. Salvati, un pezzo d’uomo con i capelli bianchi e gli occhi azzurri, come si dice “solido come una quercia”. “Lo dica a chi mi chiamava “terrone” da ragazzino“- mi risponde con un accento perfettamente trentino.

La sua famiglia – padre di Montesano un piccolo paesino del Vallo di Diano, madre di Belluno – si trasferì a Trento nel 1947. Salvati ha studiato a Trento ed a Pisa, dove è diventato ingegnere meccanico. Prima ha costruito armi a Gardone Valtrompia, poi ha progettato e costruito acquedotti e fognature con il Genio Civile di Trento per trovarsi, vincitore di concorso, primo ingegnere del Servizio Provinciale Antincendi, nella Trento degli anni 70, quando ancora la città non aveva l’immagine che ha adesso. “Non esisteva allora un corpo dei vigili del fuoco cosi’ ben dotato organizzato ed integrato nella Protezione Civile” mi racconta l’ingegner Salvati; “era normale in quegli anni avere regolarmente incendi nei vecchi stabilimenti industriali – in fase di smobilizzo per dar luogo alla crescita della città – ed incendi boschivi anche molto pericolosi come quelli nei boschi cedui della bassa val d’Adige, pieni di residuati bellici esplosivi della prima guerra mondiale; anche le attrezzature non erano all’altezza ed ho fatto esperienza in quel periodo, coordinando i corpi dei vigili del fuoco volontari presenti in ogni paese del Trentino, sia tecnica che di gestione, iniziando a coltivare, assieme a loro, il seme di quella che sarebbe poi diventata la Protezione Civile della Provincia Autonoma” – che, detto per inciso, è oggi uno dei fiori all’occhiello della PAT.

Abbiamo cominciato con l’ideare e costruire e sperimentare dispositivi contro gli incendi boschivi, che si sono poi diffusi in tutta Europa, ed a sviluppare quell’integrazione tra i corpi dei vigili del fuoco Volontari e Professionali con i Servizi tecnici diversi, presenti nelle Provincia Autonoma di Trento, coniugando la continua accresciuta preparazione con l’orgoglio di essere autonomi, che è la forza della struttura attuale di protezione“.

La Trento di quegli anni era una piccola città industriale, con aziende come la SLOI, Società Lavorazioni Organiche Inorganiche, (piombo tetraetile), Carbochimica (distillazione del catrame), Michelin (pneumatici); Italcementi (cemento), insomma mica male.

In particolare la SLOI, di proprietà di Carlo Randaccio* – ex assistente universitario di Chimica a Bologna, amico di Starace, con forti legami con il regime fascista – era uno dei pochi stabilimenti in Europa dove era inizata, fin dal 1939, la produzione di piombo tetraetile, Pb(C2H5)4 – un antidetonante per motori a scoppio, materiale strategico durante la seconda guerra, ed elemento di prima grandezza nella fase del boom automobilistico dell’Italia del dopoguerra.

Il piombo tetraetile fu individuato da Thomas Midgley e C. A. Hochwait nel 1921 negli USA come un potente agente antidetonante, capace di eliminare il problema della pre-accensione durante la fase di compressione nei motori a scoppio, un fenomeno che portava al cosiddetto “battito in testa” con riduzione dell’efficienza e gravi alterazioni nel funzionamento del motore stesso, insomma un additivo che incrementava il numero di ottano, assolutamente necessario allo sviluppo del motore, specie nelle applicazioni più sofisticate come i motori aerei, e se ne capisce quindi l’interesse anche bellico.

La sintesi del prodotto avveniva a partire da una amalgama NaPb, in differenti proporzioni, che reagiva con un alogenuro di etile in presenza di un catalizzatore come lo iodio: es.:

                                   Na4Pb + 4 C2H5Cl = 4 NaCl + Pb(C2H5)4

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Il piombo è, come si sa, un metallo pesante estremamente tossico, potendosi esso sostituire allo ione calcio in molti composti di interesse neurobiologico e biologico e i suoi composti, come il piombo tetraetile, che di fatto sono dei produttori di radicali lo sono ancor più; tonnellate di piombo sono state immesse nell’ambiente attraverso questa strada fino a non molti anni fa, e la sostituzione con il benzene in anni recenti la dice lunga sulla potenziale pericolosità del prodotto: è più pericoloso del benzene!

Nel deposito della SLOI il sodio, proveniente dalla Russia, veniva da prima immagazzinato in fusti d’acciaio e poi, con lo sviluppo travolgente della produzione, anche in contenitori di legno, circondato da un film isolante, e questo ha certamente favorito i problemi.“- mi racconta Salvati- “Già alcuni anni prima di quello del 1978 ci fu un incendio in una delle vasche sospese che serviva alla fusione del sodio prima del suo utilizzo; allora fummo chiamati, non c’erano spillamenti di sodio in corso, ma già in quella occasione mi vidi obbligato ad usare il cemento per spegnere l’incendio provocato dalla perdita di olio di riscaldamento.

Eh già! La SLOI era una fabbrica in travolgente espansione produttiva dove la sicurezza non era certo rispettata; e comunque problemi sanitari ed anche ambientali si sono succeduti nel tempo.

Ci furono nel passato altre esplosioni probabilmente dovute al sodio. Ma quando i Pompieri arrivavano sul posto ormai erano scomparse le tracce del problema.” aggiunge l’ingegner Salvati ricordando quanto gli venne poi narrato dal precedente Comandante dei Vigili del fuoco di Trento.

C’è da ricordare che nel 1966 Trento fu allagata dal fiume Adige, che ruppe gli argini in zona Roncafort, coinvolgendo anche lo stabilimento SLOI, con un paio di metri d’acqua. Nello stabilimento avvennero molte esplosioni di fusti di sodio raggiunti dall’acqua.

Inoltre già prima del 1970 il saturnismo aveva avuto come conseguenza centinaia di casi di danno cerebrale irreversibile per gli operai, con ricoveri presso l’allora manicomio di Pergine, dove spesso venivano diagnosticati come effetto dell’alcoolismo, una piaga pure diffusa in Trentino. Comunque le proteste di alcuni degli operai e la denuncia di almeno uno dei medici di fabbrica (Giuseppe De Venuto) che si succedettero portarono alla condanna di Randaccio alla quale seguì un tentativo di chiusura dello stabilimento, poi stoppato da serrate e movimenti sindacali guidate dalla stessa azienda. Ma si era arrivati ormai alla fine degli anni 70.

Uno dei problemi nel corso del tempo – dice Salvati- è stato secondo me anche il doppio regime di attività consentito ai medici di fabbrica, regime che in qualche modo li subordinava alla fabbrica stessa e li poteva mettere in conflitto di interessi con il loro ruolo di difensori della salute pubblica.

E il sindacato? “Purtroppo il sindacato di allora doveva privilegiare più il posto di lavoro che la salute, e tendeva insomma alla monetizzazione della stessa.” Capisco cosa intende Salvati: banalmente che gli stipendi SLOI erano più alti di altri e in una terra che è rimasta terra di emigrazione fino a pochi decenni fa.

Arriviamo al fatidico 14 luglio 1978. Una serata estiva, calda e soffocante. Una serata umida, foriera di pioggia, un bel temporale . E questa volta il temporale scatena la tragedia.

Racconta Salvati: “Probabilmente il tetto del capannone del sodio, come il resto dello stabilimento in continua trasformazione e riparazione, presentava delle rotture, l’acqua scrosciante è ruscellata all’interno, ha raggiunto qualcuno dei contenitori in legno del sodio scatenando un incendio, che in breve si è esteso a tutto il deposito, minacciando i depositi vicini del prodotto finito; quando arrivammo con i primi mezzi del Corpo l’incendio era già molto esteso e tutta l’area era avvolta da una fitta nube di soda caustica “.

“Cosa faceste?”.

“Era un intervento difficile, anche con gli autorespiratori la nube acre di soda caustica investiva il corpo e rendeva difficile lavorare, penetrando a contatto con la pelle. Abbiamo usato e consumato velocemente tutta la scorta di polvere estinguente che avevamo a disposizione, ma la dimensione dell’incendio superava ogni nostra possibilità.

Il pericolo rappresentato dalla dimensione dell’incendio, con l’enorme emissione di vapori di soda caustica che si diffondeva verso la città, unito al pericolo che il fuoco  mettesse in gioco i depositi di piombo tetraetile vicini nella fabbrica, accresceva di minuto in minuto paventando una tragedia di enormi proporzioni. Si parlò, per un certo periodo, con il Presidente della Giunta provinciale d’allora e con il Sindaco, di sgomberare la città. Si trattava di una sostanza potenzialmente mortale, addirittura sperimentata come aggressivo chimico bellico. Ma nel frattempo avevo programmato di ricorrere ancora una volta al cemento; il tema era dove trovarlo? Nel Corpo dei Vigili del Fuoco di Trento era presente un ex dipendente dell’Italcementi, Lucin, e un Da Pra, amico di uno degli autisti dei camion che facevano la spola tra lo stabilimento ed i cantieri di costruzione. Individuato il camion carico e trovato l’autista fu “facile” cosa far arrivare sul posto dell’incendio un quantitativo sufficiente di cemento. L’automezzo era dotato di un buon compressore volumetrico e di una lancia per movimentare la polvere di cemento ed il getto di polvere di cemento fu molto efficace nello spegnere, in breve, l’incendio.

La SLOI fu chiusa dopo pochi giorni, con voto unanime e terrorizzato del Consiglio Comunale della città, con revoca della concessione produttiva e quella volta a nulla valsero le proteste di Padron Randaccio, nè ci furono proteste sindacali. Naturalmente ne seguirono varie vertenze presso i tribunali, con pari danni per il Comune e per il Randaccio  “Quell’episodio ha costituito un vero e proprio vaccino per la cittadinanza di Trento – dice Salvati- “. Cioè?“-chiedo. “Beh la gente ha ormai imparato che ci sono cose che non possono essere monetizzate.”

Cosa pensa di Taranto?”. Salvati annuisce: “E’ una situazione che è il risultato di processi simili: una storia di lavoratori stretti fra il ricatto della salute e del posto di lavoro, controlli superficiali, movimenti spontanei di cittadini, grande coinvolgimento delle massime autorità civili e religiose solo a favore dell’occupazione ed infine azione della magistratura a difesa della Legge. Il tutto in un coacervo di posizioni frutto di scarsa maturità culturale, scarso rispetto dei ruoli e scarsa conoscenza dell’esperienze vissute da altre città che non porterà a risultati immediati.”

Se ho capito bene Salvati intende che il rischio superato di misura è un potente agente di crescita culturale, o almeno così è stato a Trento.

sloi

E cosa è successo dopo? “Beh i lavori di smantellamento sono stati condotti in fretta e furia, certamente oggi non sarebbe più possibile smontare in quel modo apparecchiature cosi’ complesse e pericolose; ma sono rimasti i “ricordi”, inquinamento da piombo tetraetile del terreno, “ricordi” che secondo me è meglio lasciare dove sono, in mancanza di metodi già sperimentati  di risanamento, e principalmente sicuri per la città che ormai circonda il sito”

Salvati allude alla situazione attuale: una ampia zona di terreno che era la proprietà SLOI, rivenduta poi a vari proprietari, che forse speravano nella possibilità di una veloce e rapida opera di risanamento, è invece ancora lì; c’è uno strato di circa 15 metri di terreno in cui l’inquinamento da piombo tetraetile è enorme, e non esiste, non è stata trovata ancora nessuna procedura “sicura” per risolvere il problema della bonifica.

Alcune idee, come la delimitazione del sito con palancole profonde e trattamento con prodotti ossidanti sono state proposte come efficaci – dice Salvati- ma sono azioni durante la cui applicazione il rischio per la città e per la diffusione dei prodotti trasformati in falda, crescerebbe e questo non può essere accettato. Meglio lasciare dove sono i prodotti inquinanti, oggi perfettamente fermi nel sito, monitorarli accuratamente finchè non si trovano metodi di bonifica sicuri per la città.”

Metodi chimici o biologici certi al momento non ce ne sono sebbene se ne siano proposti molti; e guardi- mi dice– ho fiducia nella chimica, mi ha spesso salvato la vita, a me e ai miei compagni, se non la conoscessi non sarei qui oggi, nè potrei essere orgoglioso di ricordare di non aver mai perso un compagno; ma un metodo certo di estrazione del piombo tetraetile dal terreno non c’è ancora“. In effetti l’ingegner Salvati ha ragione; in Italia ci sono altri tre siti a rischio simile ma solo uno, quello di Fidenza è stato portato in sicurezza, ma lì il problema dell’inquinamento era concentrato in grandi vasche e non, invece, come a Trento, nel terreno libero immerso in falda acquifera.

Ingegnere mi sarei aspettato un monumento per un azione come questa“- dico.

Salvati mi risponde con un sorriso: “Guardi– mi dice– questa città mi ha voluto bene, ho fatto una bella carriera e infine sono stato eletto in consiglio comunale. Il migliore monumento per me sarebbe la soluzione di quello che considero il principale problema della  nostra città: il rischio alluvione. Una alluvione, come quella sofferta dalla città nel 1966, non può essere ancora scongiurata senza costruire una vasca di espansione che possa laminare le piene dell’Avisio, che è il principale affluente dell’Adige, a monte di Trento; ci vuole una vasca naturale di almeno 30/40 milioni di metri cubi lungo l’Avisio per mettere Trento in sicurezza; devo assicurarmi che la si faccia: quello sarebbe il miglior monumento per chi si è battuto per la sicurezza della nostra città.”

Auguro a Salvati di riuscire nel suo intento; nel frattempo il buco nero SLOI, una superficie di oltre 10 ettari attualmente impraticabile per chiunque eccetto per i disperati immigrati che vi cercano rifugio di notte, ci guarda dalla periferia Nord di Trento, a pochi chilometri dalle montagne dichiarate dall’UNESCO patrimonio dell’umanità.

*NdA: Non sono riuscito ad appurare il titolo di studio di Randaccio che viene spesso chiamato ingegnere, ma risulta essere stato assistente di Chimica.

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Per approfondire:

– Marino Ruzzenenti, La storia controversa del piombo tetraetile

Industria e ambiente, Annali della Fondazione Micheletti, n. 9, Brescia 2008

– Annali dell’Istituto Superiore di Sanita Volume 34, n. 1, 1998 anche in

“Il caso italiano: industria, chimica e ambiente” Fondazione Micheletti – Jaca Book, Milano 2012

http://www.inventati.org/laleggera/Sloi-cuore-nero-di-Trento

Esiste anche un film “SLOI la fabbrica degli invisibili” regia di Katia Bernardi e Luca Bergamaschi 2009 UCT Uomo Città Territorio info@krmovie.it, un documento molto bello che consiglio di guardare.

Il grafico che segue è tratto da un lavoro* che analizza l’inquinamento di Pb nei sedimenti lacustri in Svezia; in modo simile ad altri dati pubblicati mostra come l’inquinamento da Pb sia cresciuto in modo esponenziale negli ultimi 3000 anni e in particolare nell’ultimo secolo, con una marcata riduzione, che trova ampia conferma in letteratura, solo dopo l’interruzione nell’uso del piombo tetraetile nelle benzine, insieme alla maggiore attenzione generale all’inquinamento da piombo.

*Science of The Total Environment 292, (1–2) 20 – 2002, 45–54

piombostoria

Tonio, le Api e la Chimica.

Moderna favola incompiuta con morale di Emily Dickinson a cura di Claudio Della Volpe

     tonioelachimicaC’era una volta…..Negli ultimi anni si è verificata una moria di api a livello internazionale che è stata chiamata: CCD ossia Colony Collapse Disorder; si tratta di una tragedia per il mondo dell’apistica e di converso per tutti noi dato il ruolo che le api giocano nell’ambiente e nell’agricoltura. E fra l’altro il problema si pone anche per gli altri insetti impollinatori.

Secondo le stime dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO), delle 100 specie di colture che forniscono il 90 % di prodotti alimentari in tutto il mondo, 71 sono impollinate dalle api[1].

Le ragioni di questa moria, che ha un meccanismo complesso, con la scomparsa di interi alveari senza poter trovare una causa chiara e apparente, sono probabilmente multifattoriali, ma certamente vi giocano un ruolo significativo i pesticidi che si usano in agricoltura per il controllo degli insetti nocivi e fra gli altri i moderni neonicotinoidi. Alcuni governi, fra cui il nostro, hanno interrotto l’uso di alcune formulazioni di pesticidi già da qualche tempo. Ho provato a raccontare la storia su La Chimica e l’industria[2], e l’ultima volta ho anche ricevuto una dura rampogna da Agrofarma[3]. Ma stavolta posso dire: ve l’avevo detto!

Il 31 gennaio Tonio Borg, commissario europeo alla salute ha proposto alla commissione europea un bando biennale[4] per l’uso dei tre principali neonicotinoidi: clothianidin, imidacloprid and thiamethoxam: e lo ha fatto sulla base di un documento dell’EFSA, l’European Food Safety Autority, l’equivalente della FDA americana, pubblicato il 16 gennaio[5].

clothianidin imidacloprid thiamethoxam

              clothianidin                        imidacloprid                               thiamethoxam

Cosa dice il documento EFSA? Traduco le conclusioni che si riferiscono ai tre prodotti:

“Esposizione da pollini e nettare. Si considerano accettabili solo usi su colture che non attraggono le api.

Esposizione da polvere. Un rischio alle api da miele è stato indicato o non può venire escluso, con alcune eccezioni, come l’uso su barbabietola da zucchero e piante in serra, e per l’uso di alcuni granuli.

Esposizione da guttazione. L’unico rischio che può essere asseverato è per il mais trattato con il thiamethoxam. In questo caso, gli studi sul campo mostrano un effetto acuto sulle api da miele esposte a questa sostanza attraverso i fluidi di guttazione.”

(NdA la guttazione è l’uscita d’acqua liquida dagli idatodi delle piante)

Sulla base di tre corposi rapporti [7]di circa 60 pagine l’uno e sulla base della richiesta firmata da oltre 80 deputati europei[8] il commissario Tonio Borg, nazionalista maltese, democristiano, contrario all’aborto, ministro dell’interno responsabile di una politica anti-immigrazione che ha destato la reazione vivace della UE che l’ha condannata, che è stato nominato commissario europeo alla salute dopo le dimissioni del precedente commissario maltese con una combattuta votazione, ha proposto la sospensione per due anni dei tre prodotti (anche se con una serie di limitazioni: parte dal 1/7/2013, quindi non vale per la prossima campagna del mais, non vale per i cereali invernali, etc.).

tonioLapalissianamente Borg non è un ambientalista radicale (o come dicono taluni importanti esponenti dell’industria italiana “terrorista ambientale”), non è un comunista sfegatato, non è contrario alle grandi multinazionali.

 Altrettanto lapalissianamente le grandi multinazionali produttrici dei tre pesticidi (Bayer, Basf, Syngenta) sono contrarie alle sue proposte definite “draconiane”; scrive la Bayer sul suo sito[9]:

Bayer CropScience is disappointed with the European Commission’s draconian proposal to suspend all uses of neonicotinoids products in crops attractive to bees for two years. The company believes that the Commission’s overly conservative interpretation of the precautionary principle is a missed opportunity to achieve a fair and proportional solution.

Bayer CropScience shares the concerns surrounding bee health and has been investing heavily in research to minimize the impact of crop protection products on bees and in extensive stewardship measures supporting the responsible and proper use of its products. The company continues to believe in the responsible use of neonicotinoid-containing products which have been used for many years and are vital to European farmers.
Bayer CropScience asks the Member States to adhere to the principles of proportionality when addressing the Commission’s proposal and refer back to solid science before taking any measures. Any disproportionate action would jeopardize the competitiveness of European agriculture and finally lead to higher costs for food, feed, fiber and renewable raw materials and have an enormous economic impact throughout the whole food chain.”

L’invito a rifarsi a “solida scienza” è direi quasi offensivo, come se l’EFSA avesse analizzato dati fasulli; l’EFSA in realtà è stata molto attenta e prudente, ma non ha potuto fare a meno di concludere che certi usi finora autorizzati dei neonicotinoidi come sopra riassunto sono certamente rischiosi, questo è quello che la scienza “solida” puo’ dire. In altri casi l’EFSA non si è pronunciata proprio perchè si basa su studi solidi ed indipendenti. Comunque Bayer non è in grado di rispondere nel merito, questo è evidente.

Scrive Agrofarma in un recente comunicato (16 gennaio 2013)[10]:

 In seguito alla pubblicazione del report EFSA sui rischi teorici per le api derivanti dall’utilizzo di agrofarmaci a base di neonicotinoidi, Agrofarma – Associazione nazionale imprese agrofarmaci che fa parte di Federchimica  – intende precisare quanto segue. Secondo le evidenze emerse dal report, l’uso sicuro dei neonicotinoidi non incide sul declino della popolazione di api. Il corretto utilizzo di questa importante classe di agrofarmaci, infatti, non viene messo in discussione a reali e idonee condizioni di impiego. Teniamo a sottolineare che nella redazione del Report, EFSA ha inoltre riconosciuto un elevato livello di incertezza dato che il processo di valutazione dei rischi per le api è ancora in via di sviluppo; l’Agenzia, del resto, non ha richiesto nessun divieto. Secondo quanto emerso dallo studio COMPASS condotto dall’Humboldt Forum for Food and Agriculture, nel quale si evidenziano i benefici economici, occupazionali e di resa derivati dal corretto utilizzo dei neonicotinoidi, se in agricoltura non fossero più realizzabili i trattamenti in oggetto vi sarebbero, oltre che danni economici per più di 4 miliardi di euro, anche gravi conseguenze sull’occupazione nelle zone rurali dell’UE. Comportando un miglioramento delle rese, l’utilizzo mirato della sostanza garantisce anche una maggiore produzione di materie prime per l’industria alimentare rispondendo al crescente fabbisogno della popolazione. In Italia, ad esempio, come dimostrato da un recente studio Nomisma, la produzione di mais ha subìto un decremento del 19% negli ultimi 5 anni, a fronte di una domanda invece rimasta stabile. Tra le cause di questa perdita vi è l’aggravarsi delle infestazioni di parassiti, tra i quali la diabrotica, oltre ad alcune avversità endemiche come gli elateridi ed i virus, che i coltivatori di mais non possono più contenere efficacemente dopo il divieto temporaneo di utilizzare sementi conciate con neonicotinoidi. La perdita di raccolto si è acuita a partire dal 2009, anno in cui è stato sospeso con decreto l’utilizzo di questi prodotti. La comunità scientifica internazionale conferma che la causa della moria delle api sia un fenomeno estremamente complesso la cui origine è di tipo multifattoriale. Diversi dati rilevati da studi indipendenti hanno infatti dimostrato che la tecnica di concia delle sementi, quando propriamente utilizzata, non nuoce alle api. L’industria degli agrofarmaci ritiene, quindi, che qualsiasi decisione sull’uso degli agrofarmaci debba continuare ad essere basata su solide evidenze scientifiche, tenendo anche in considerazione i vantaggi per gli agricoltori, l’ambiente e la società. Agrofarma continuerà a rendersi disponibile ed aperta al dialogo su questi temi, con le autorità responsabili, con gli apicoltori e con tutti coloro i quali siano interessati a trovare soluzioni efficaci che tutelino gli attori del settore agricolo.

 

Ho riportato il comunicato integralmente perchè possiate meglio apprezzare tutte le sfumature della comunicazione e adesso ve ne commento alcuni punti:

1) Agrofarma parla di rischi “teorici”, quindi rifiuta i risultati sul campo di molti lavori scientifici? ma quali alternative indipendenti propone?

2) Agrofarma dice che “Secondo le evidenze emerse dal report, l’uso sicuro dei neonicotinoidi non incide sul declino della popolazione di api. Il corretto utilizzo di questa importante classe di agrofarmaci, infatti, non viene messo in discussione a reali e idonee condizioni di impiego” e ripete: “la tecnica di concia delle sementi, quando propriamente utilizzata, non nuoce alle api“.

A me sembra che le conclusioni EFSA dicano una cosa diversa; le conclusioni dettagliate per ogni prodotto contengono una serie di tabelle con i vari usi “autorizzati” che si ritiene siano corretti, ovviamente, e per ciascuno di essi si indica se è a rischio o no; non è questione di “correttezza” dell’uso, qualunque uso “autorizzato” del tipo indicato nelle tabelle è “a rischio” e quindi non va bene. Non tutti lo sono, alcuni, come si dice anche nelle conclusioni non lo sono (barbabietola), altri lo sono sempre. Questo è il motivo per cui la UE ha proposto la sospensione biennale.

3) Agrofarma cita altri studi, evidentemente “solide evidenze scientifiche”, ma non ne esplicita nessuno di tipo chimico o biologico, ma solo studi di tipo economico, insomma come la Bayer cerca di fare leva sugli interessi economici degli interessati, vabbè aspetteremo le solide evidenze chimiche e biologiche. Nel frattempo mi sono andato a guardare questi studi economici “solidi”. Anche per questi studi vale il principio che sono da preferire studi indipendenti; gli studi indipendenti sono quelli cui fa riferimento EFSA. Vediamo quelli cui fa riferimento Agrofarma.

a) chi è l’Humboldt Forum for Food and Agriculture? Dal loro sito[11] si traggono due informazioni:

HFFA is an international non-profit think tank and represents a multidisciplinary expert international community, drawn from government, academia, industry and civil society and develops sustainable strategies to meet challenges of global food and agriculture

vabbè e chi li finanzia?

HFFA acknowledges the support of its activities by:

  • BASF SE
  • Bayer CropScience
  • E.ON
  • KWS Seed
  • Nestlé

non commento oltre: questo NON è uno studio indipendente.

b) lo studio Nomisma, riportato in grassetto e considerato evidentemente molto importante; lo studio Nomisma pubblicato nel 2011 è stato fatto su commissione Agrofarma (“Lo studio è stato realizzato da Nomisma per BASF, Bayer CS e Syngenta.“)[12], potrei fermarmi qui, dopo tutto anche questo NON è uno studio indipendente, anche se solo di tipo economico, ma dato che Nomisma ha una grande fama in Italia sono andato a leggerlo; cosa dice? E qua sono rimasto di sasso; si tratta di uno studio econometrico che confronta gli effetti della applicazione dei pesticidi alla produzione del mais e di altre tecnologie, (come la interruzione della monocultura) concludendo che questa scelta sarebbe ferale; ma prima di questo studio econometrico, i cui dettagli non mi azzardo ad analizzare, Nomisma riporta alcuni dati generali che sono alla base dello studio stesso; ora i dati economici dell’agricoltura sono riportati in pompa magna sul sito ISTAT[13] e sono a disposizione del grande pubblico, sono verificabili; bene i dati di partenza di Nomisma sono coincidenti con quelli ISTAT? NO.

Scrive Nomisma, riferendosi al mais: Dal 2005 in poi la coltura è andata incontro ad un ridimensionamento, che si è ulteriormente accentuato nell’ultimo biennio, ed ha portato ad una calo produttivo 2010/2005 del 19%.

Nella tabellina seguente ci sono i dati per la produzione di mais e di mais ceroso (silomais) negli anni 2005 e 2010 in Italia dal sito ISTAT.

mais (granella), Mton mais ceroso (silomais) Mton
2005 10.4 non disponibile
2010 9.79 (-5.9%) 14.09

Ci vedete una riduzione del 19%? Io no, fra l’altro il dato per il mais ceroso non è disponibile all’ISTAT (ma forse è stato elaborato dagli estensori del report Nomisma); allora mi sono cercato i dati per 2006, 2010 e 2011 per il mais ceroso:

2006 14.2
2010 14.09
2011 15.63

Voi ci vedete riduzioni del 19%? Io no.

L’unica riduzione comparabile si trova per la granella di mais ma è meglio guardarsi il trend complessivo per comprendere bene la situazione:

maisgranella

E si vede che le riduzioni forti ci sono state nel 2003, 2009 e prevedibilmente in quest’anno ( idati sono provvisori) ma PER LA SICCITA’: sono stati tre anni molto siccitosi, basta guardarsi i comunicati del CNR sulla siccità primaverile ed estiva[14]: la diabrotica non c’entra nulla o c’entra ben poco. Subito dopo la produzione è ripresa e la tendenza lenta alla riduzione è un comportamento che ha certamente molte cause, è polifattoriale (come la CCD).

Rimango stravolto dal pessimo (a mio modestissimo parere, attendo smentite dagli interessati o dagli autori degli studi) livello della comunicazione usato dalle grandi aziende chimiche: sono uno scienziato e la base del mio giudizio è la riproducibilità dei dati e la loro asseverabilità. Abbiamo bisogno delle indicazioni quasi subliminali di Bayer o delle “solide evidenze” Agrofarma? Giudicate voi.

Come andrà a finire? Non lo sappiamo ancora; vorrei invitare i responsabili europei e quelli delle grandi multinazionali chimiche, specie in Italia, a riflettere sulla semplice verità enunciata dalla grande poetessa americana Emily Dickinson, certamente non esperta di chimica, ma ricca di buon senso e di amore per la Natura, che scriveva molti anni fa:

   

  • To make a prairie it takes a clover and one bee,
  • One clover, and a bee,
  • And revery.
  • The revery alone will do,
  • If bees are few.

 

dickinson    

  • Per fare un prato ci vuole il trifoglio e un’ape,
  • Un solo trifoglio, e un’ape,
  • E fantasia.
  • E solo la fantasia opererà,
  • se di api carenza ci sarà.

 

 

 Nota: la traduzione della poesia è dell’autore.

Riferimenti.

[1] http://www.fao.org/ag/magazine/0512sp1.htm

[2] C&I n. 7-8-9 del 2010 e 1-2011 – gli articoli più vecchi di due anni sono liberi e scaricabili da http://www.soc.chim.it/chimind/catalogo

[3] C&I 4-2012

[4]http://ec.europa.eu/food/animal/liveanimals/bees/docs/honeybee_health_pesticides_statement_en.pdf

[5] http://www.efsa.europa.eu/en/press/news/130116.htm e i 3 documenti ivi citati

[6] http://www.efsa.europa.eu/it/topics/topic/beehealth.htm

[7] scaricabili dal sito EFSA vedi rif. 5

[8]http://www.greens-efa.eu/fileadmin/dam/Documents/Letters/Open%20letter%20to%20Commissioner%20Borg%20on%20Bees%20and%20neonicotinoids%202012.01.30.pdf

[9]http://www.cropscience.bayer.com/en/Media/Press-Releases/2013/Bayer-CropScience-strongly-disagrees-with-proposal-by-EU-Commission.aspx

[10]http://www.federchimica.it/daleggere/ComunicatiStampa.aspx comunicato del 16 gennaio 2103

[11]http://www.hffa.info/index.php/about-us/mission-statement.html

http://www.hffa.info/index.php/about-us/supporterspartners.html

[12]http://www.ambienteterritorio.coldiretti.it/tematiche/Ogm/Documents/Concia%20Mais%20Sintesi%2010.06.2011.pdf

[13]http://agri.istat.it

[14] si veda per esempio: http://www.daringtodo.com/lang/it/2009/06/04/cnr-maggio-2009-da-record-per-siccita-e-caldo/