Le zone morte: 2. Il sale fa più paura del cloro. Il caso di Belvedere di Spinello (Kr)

a cura di Francesco Neve f.neve@unical.it

A Belvedere di Spinello (Crotone, KR) le miniere di salgemma, le cosiddette saline, ci sono sempre state. Siamo nel cuore del Marchesato, il vasto e poco noto entroterra crotonese ricco di uliveti e vigneti (è la terra del Cirò) che degradano verso il mare Jonio. Lo sfruttamento delle miniere di salgemma nell’area è storicamente databile all’epoca medioevale (1115), più propriamente normanna, e ha sempre rappresentato una delle principali fonti di finanziamento di famose abbazie del comprensorio Altilia-Belvedere.

Belvedere_di_Spinello-Stemma

Lo stemma di Belvedere di Spinello (Kr)

Il sale era una risorsa strategica, e il controllo regio fermo e continuo nei secoli. L’estrazione era un’attività soggetta a segreto di stato, e su tutti governava il maestro del sale di nomina regia. Il minerale prendeva poi la strada del mare attraverso il porto di Crotone dove arrivava seguendo la valle del fiume Neto (nei sec. XVI-XVII a Crotone c’era il Fondaco del Sale). Le miniere sopravvissero fino all’epoca borbonica (1826), quando furono chiuse perché ritenute poco controllabili e non più necessarie per il fabbisogno del Regno.

Le saline riprendono vita nel 1967 quando la Montedipe, acquisendo un titolo minerario di sfruttamento dalla Montecatini Edison, ottiene la concessione per la coltivazione di un giacimento di salgemma in località Timpa del Salto. La produzione comincia nel 1970 in una forma che si rivela subito dirompente e foriera di problemi molto seri.  La tecnica utilizzata è l’estrazione umida con il metodo del doppio pozzo. Questa consiste nell’inviare getti di acqua ad alta pressione capaci di frantumare e sciogliere il minerale in situ. Man mano si forma una caverna sempre più grande che si riempie di acqua salata e detriti insolubili. La melma che si forma nel primo pozzo (la salamoia, più propriamente detta) viene pompata in superficie e fuoriesce dal secondo pozzo direttamente collegato al primo. La salamoia è quindi convogliata verso uno stabilimento a Cirò Marina sulla costa ionica (a circa 20 km da Belvedere) dove avviene il processo di raffinazione, e dove il prezioso minerale è separato dai fanghi inutilizzabili.

Il sale estratto dalla miniera di Belvedere di Spinello, e poi raffinato a Cirò Marina, è classificato ultra puro (99,96% di purezza), ed è quindi adatto per l’impiego in campo elettrolitico. Il minerale è alla base di quello che viene chiamato il ciclo del cloro, cioè l’insieme dei numerosi processi e derivati (clorurati e non) di cui il PVC è il singolo prodotto più importante. Il cloro gassoso è prodotto principalmente attraverso la ben nota reazione elettrolitica in cui soda caustica e idrogeno sono importanti coprodotti.

2 NaCl(aq) + 2 H2O(l) = 2 NaOH(aq) + H2(g) + Cl2(g)

Fin dal principio, il sale di Belvedere ha alimentato l’impianto cloro-soda di Porto Marghera di proprietà della stessa Montedipe (poi Enichem). Il cloro-soda di Marghera non ha accesso a una propria salina, come è invece il caso dell’ analogo impianto di Assemini in Sardegna, e deve quindi necessariamente rifornirsi di sale.

Ma a parte i pochissimi addetti impiegati, di quest’attività estrattiva alla popolazione del luogo non rimaneva nulla. Neanche un centesimo di royalties ad esempio.  Cresceva invece la paura e la preoccupazione. A poco a poco Belvedere fu eviscerata. Immense caverne si formarono nelle campagne a valle dell’abitato, e si riempirono di acqua e di fango. Per una decina d’anni le cose rimasero sotto controllo. Fino alla notte del 25 aprile 1984 quando scoppiò l’inferno.

I primi fenomeni allarmanti di subsidenza si verificarono nel ‘ 72; tra l’ 80 e l’ 83 fuoriescono fiumi di salamoia e si formano ampie voragini a imbuto, veri e propri laghi profondi 30-40 metri; e nell’ 84 il disastro. Sprofondano seicentomila metri cubi di terreno, si verifica una vera e propria eruzione di un milione di metri cubi di salamoia che sommerge con un’ onda alta due metri 120 ettari di terreno coltivato, salinizzandolo e desertificandolo, interrompendo la strada provinciale, inquinando le falde acquifere e il fiume Neto fino alla foce. Non ci furono morti per un puro caso: erano le cinque del mattino del 25 aprile e non c’ era gente in giro.

Così scriveva Antonio Cederna su La Repubblica nel 1988, ben quattro anni dopo i fatti.

Dopo un breve periodo di fermo l’attività estrattiva era infatta ripresa come prima. E come prima erano ripresi i gravi fenomeni di subsidenza e di irreversibile processo di salinizzazione che avrebbe determinato nel tempo la perdita di fertilità dei terreni e la loro successiva desertificazione. A fermare l’attività di miniera, o almeno a modificare il metodo estrattivo, non c’era riuscita neanche una commissione            costituita         dal dipartimento per la protezione civile che nel 1987  concludeva: «la persistenza delle attività estrattive determina condizioni di rischi tali da costituire pericoli incombenti per la pubblica incolumità».

Di fatto, nessuno riesce a fermare l’attività estrattiva di Enichem tra ricatti occupazionali, debolezza sindacale e arroganza imprenditoriale. Non ci riesce il comune di Belvedere, non ci riesce la Regione Calabria, non ci riesce il Ministero dell’Ambiente con il ministro Ruffolo. Il Ministero dell’Industria torna ad autorizzare la ripresa delle attività e di Belvedere Spinello tutti tornano a dimenticarsene.

Intanto, a partire dal 1989, la società estrattrice ha abbandonato l’area della cosiddetta Vecchia Miniera, quella interessata al disastro del 1984, e ha iniziato l’attività in un altro settore della concessione. Il motivo principale è la natura lenticolare dei giacimenti, e dunque il loro esaurimento in tempi relativamente brevi. L’azienda ha anche cambiato il metodo estrattivo: dal metodo a pozzi multipli si è passati a quello a pozzo singolo.

Ma la miniera non ha vita autonoma: per scelta aziendale vive fino a quando il petrolchimico di Porto Marghera non chiude i battenti e l’impianto cloro-soda viene smontato. A quel punto di Belvedere Spinello (e dello stabilimento di Cirò Marina) l’ENI non sa più che farsene e cerca di vendere tutto a una multinazionale svizzera, la Gita Holding. Di nuovo il sale calabrese potrebbe diventare importante perché la Gita è interessata anche, e soprattutto, all’impianto di Marghera.

La Syndial, società del gruppo ENI che nel 2000 ha preso il posto di Enichem, e a cui sono stati conferiti sia gli impianti di Marghera che quello di Cirò Marina con annessa miniera, cerca di muoversi in fretta. Tra il 2007 e il 2008,  Syndial chiede un’AIA (autorizzazione integrata ambientale) per la riconversione e il recupero dell’impianto di Cirò Marina. La riconversione prevede innanzitutto la creazione di un impianto di essiccamento del sale. Ma, sebbene la miniera di Belvedere non sia oggetto esplicito della richiesta di autorizzazione, un’intenzione apertamente dichiarata è quella di “sarcofagare” i fanghi accumulati a partire dal 2003 (prima smaltiti direttamente in mare) e stoccati nello stabilimento di Cirò. Per fare questo è previsto lo scarico della salamoia ” per poter proseguire le attività di manutenzione e monitoraggio dei pozzi della miniera “. Dunque, mentre la salamoia ancora presente in miniera (per stabilizzare i pozzi) dovrebbe essere estratta, il materiale di risulta del processo di raffinazione del sale dovrebbe tornare in miniera a fare da tappabuchi.

Un albero del cloro interattivo

Un albero del cloro interattivo

http://www.chlorinetree.org/pages/flash.html

In Europa, più del 50% della produzione dell’industria chimica dipende dalla filiera cloro-soda (fonte EuroChlor, http://www.eurochlor.org). 70 Impianti in 21 paesi producono cloro con tecnologie diverse, la più importante delle quali è ormai quella che utilizza celle a membrane (nel 2011 la quota di produzione mediante celle a membrane aveva superato il 51% del totale). E’ pur vero che la produzione attuale di cloro in Italia è marginale (a inizio 2012 rappresentava circa il 3% del totale prodotto in Europa) e che ci potrebbe essere un forte interesse a incrementarla. Ciò che non si capisce è perchè il prezzo debbano pagarlo i soliti.

Il salgemma è una risorsa non rinnovabile, e il suo sfruttamento deve essere compatibile con la tutela del territorio e della disponibilità di acqua potabile per la comunità. L’utilizzo di metodi che provocano fenomeni di instabilità dei terreni con forte subsidenza, frane e camini di collasso, carenza idrica e possibile desertificazione dei suoli devono essere banditi o strettamente sorvegliati. Le concessioni minerarie non devono essere più perpetue. In Italia il problema si è presentato più volte (vedi anche il caso delle miniere di sale nella Val di Cecina) e i “mandanti” sono le industrie chimiche, siano esse l’Eni, la Solvay o altre ancora. Possiamo ancora permetterci tutto questo e dare alla chimica e ai chimici un’ulteriore colpa da espiare?

Dal 2009 la miniera di Belvedere di Spinello è ferma.

Riassumendo, la Syndial cerca di ripulire il tutto prima della pianificata cessione. D’altra parte Syndial ormai si è data un’anima verde, e agisce  principalmente nel campo molto interessante, e potenzialmente lucrativo, della bonifica e ripristino ambientale di aree dismesse o da riqualificare. In pratica possiede ancora impianti in produzione della filiera del cloro nonchè una lunga teoria di contenziosi per danni ambientali ereditati da Enichem.

Nel 2012 la Syndial è stata condannata a un maxi risarcimento di circa 50 milioni di euro per la vicenda dello smaltimento delle ferriti di zinco provenienti dall’impianto di produzione dell’ex-Pertusola di Crotone. Nel febbraio di quest’anno il comune di Cassano Jonio (CS) ha concordato con Syndial  un risarcimento per 4.7 milioni di euro per aver accolto in una discarica parte di quei rifiuti ferrosi.

La Calabria è piena di zone morte.

Per approfondire

 

Esistono pochissimi documenti che documentano le dimensioni del disastro di Belvedere di Spinello del 1984.

Su YouTube si trova un raro filmato a cui si sovrappone l’audio di una riunione tra il Ministro dell’Ambiente e le autorità locali in epoca successiva ai fatti (Roma, 18 Maggio 1988).

Audio – Tratto dagli archivi di http://www.radioradicale.it

Video – Tratto dalla scheda dell’evento catastrofico realizzata dall’Istituto di ricerca per la protezione idrogeologica di Cosenza (IRPI).

Lo studio geologico dell’area era stato approfondito già a partire dagli anni ’60.

RODA C. (1965) – Geologia della Tavoletta Belvedere di Spinello. Boll. Soc. Geol. It., Vol. 84, fasc. 2, 1-131.

Per arrivare a sviluppare l’analisi del rischio bisogna però aspettare gli anni successivi al disastro.

GISOTTI G. (1992) – Problemi geo-ambientali inerenti la miniera di salgemma di Belvedere Spinello (Catanzaro). Un nuovo caso di subsidenza in Italia. Mem. Descr. Carta Geol. D’It., Vol. XLII, 283-306.

G. Fortunato, F. Ferrucci, A. Guerricchio (2009) – Interferometria Radar satellitare per il monitoraggio di subsidenze legate ad attività mineraria: il caso della miniera di salgemma di Belvedere Spinello (CZ). Rendiconti online Soc. Geol. It., Vol. 8 (2009), 59-62.

Fai clic per accedere a r_o_8_iv.pdf

Interrogazione Parlamentare di Berlinguer, Mesoraca, Nespolo (pag. 103)
(Senato della Repubblica, 4 Dicembre 1987)
http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/318105.pdf

Rapporto Ambientale
(redatto da ERM Italia per Syndial, 2008)

Fai clic per accedere a rapporto_ambientale.pdf

Nota del blogmaster: esiste anche una relazione giacente presso il tribunale di Crotone redatta da una commissione di esperti la Commissione d’inchiesta giudiziaria sul disastro ambientale determinato dalla Miniera di sale di Belvedere Spinello (coltivata per dissoluzione) (dei proff. Berry, Penta e Dente) ma non sono in grado di linkarla.

Le donne in Chimica

a cura di Gianfranco Scorrano ex presidente SCI

Una riflessione presentata al Consiglio Centrale della SCI, a nome del Consiglio direttivo del Gruppo Senior della Società Chimica Italiana (Scorrano, Barni,  Campanella,Cipollini, Pignataro),  discute tra l’altro della partecipazione alla SCI dei soci donne. Allora si scopre, paragonando gli anni 1997 e 2010 che il gruppo di docenti universitari (dati MIUR per l’area 3.Chimica) ha modificato la sua composizione passando da 2996 con il 27,9% di donne nel 1997 a 2958 nel 2010 con la percentuale femminile cresciuta al 42,6%. E’ vero che se guardiamo solo tra gli ordinari la crescita è stata più modesta passando dal 10% del 1997 al 18% nel 2010,  ma comunque anche qui significativa. Se guardiamo alla SCI, gli iscritti son passati da un 30% di donne nel 1997 al 44% nel 2010. Una bella crescita.

Se ora passiamo alla composizione degli organi direttivi (Presidente, Vicepresidente, Past-Presidente, Presidenti di Sezione e Presidenti di Divisione si vede che su 29 persone (sempre nel 2010) solo 4 (il 12,2%) sono donne. E’ sicuramente una situazione sbagliata. In una società, scientifica, è indubbio un necessario riequilibro.

Ci sono concrete proposte concrete nel lavoro che apparirà su  La Chimica e l’Industria (marzo 2013) su questo e anche su altri argomenti di interesse. Se lo leggerete e avrete qualcosa da commentare, soci SCI e non soci, criticare, etc vi prego di inviare un e-mail a uno del Gruppo senior o a me direttamente: gianfranco.scorrano@gmail.com

figscorrano

Un’altra riflessione viene da un articolo, apparso in Russia sulla rivista (in russo) Scienza e Vita n.10, 2012,73, intitolato “Le donne della Scienza Chimica” di Alexander Rubiov e Michail Voronkov, Istituto di Chimica A.E. Favorskii di Irkutsk. In questo articolo i due autori descrivono brevemente le vite di 9 donne, che hanno avuto un ruolo nello sviluppo della chimica negli anni fino al periodo della seconda guerra mondiale e poco oltre. In realtà non tutte sono russe,vi è inclusa una tedesca e una statunitense, e, anche se  russa, la Bakunin, che ha però sempre lavorato in Italia. Comunque, la chimica russa è stata molto evoluta per anni e nove donne sono un risultato piuttosto magro, ma per molti anni le donne non potevano nemmeno iscriversi alle Università.

Marussia Bakunin

Marussia Bakunin

Marussia Bakunin (http://www.universitadelledonne.it/maria_bakunin.htm ) Dal lavoro citato Scienza e Vita n.10, 2012,73

variechimiche

Julia Lermontova         Vera Bogdanovskaia             Vera Balendina                  Lina Stern

Un ultimo punto: quasi nove russe in molti anni non è molto. E in Italia? Se prendiamo le commemorazioni apparse sulle nostre riviste http://www.chimica.unipd.it/gianfranco.scorrano/pubblica/la_chimica_italiana.pdf possiamo notare che su circa 650 necrologi solo 8 sono di donne (si tratta di una raccolta che va dallo fine dell’ottocento agli anni nostri). Un po’ poco, in linea con i russi. In realtà solo Marussia Bakunin, professoressa a Napoli, dove ha svolto tutta la sua carriera con successo e riconoscenza dei suoi allievi, e Lydia Monti, nota oltre per essere stata per molti anni professore a Siena  dopo aver lavorato a Roma con Parravano e Bargellini, nota anche per essere stata la più longeva essendo defunta a 102 anni, sono state professoresse universitarie. Le altre sei (Elisa Bonauguri, Emma Levi Fenaroli, Anna Mannessier Mameli, Arnalda Pina Maroni, Maria Ragno, Caterina Rossi) hanno solo parzialmente fatto ricerca, essendo interessate o all’insegnamento nelle scuole o a produrre riviste scientifiche o tecniche. Comunque attive nel far progredire la scienza chimica e perciò ricordate.

Chi gli ha dato il nome? Maillard.

Louis Camille Maillard

Louis Camille Maillard

a cura di Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

“Me la dia ben cotta”: la pagnotta, o la pizza. “Me la cuocia bene”: la bistecca. Ma stia attento a non scaldare troppo, altrimenti escono quei fumi acri e irritanti, proprio come quelli del latte “bruciato”, quando esce dalla pentola sul fuoco. E poi guardate quella bella signora che si sta spalmando la crema abbronzante sulla pelle. Che cosa hanno in comune il cuoco del ristorante, il pizzaiolo, la massaia distratta e la signora ? Stanno conducendo, senza saperlo, un importante esperimento chimico, quello della reazione di Maillard, la più diffusa e antica della terra, da quando i nostri progenitori, millenni fa, hanno scoperto che la carne scaldata sul fuoco non solo poteva essere conservata più a lungo, ma diventava più appetibile e buona.

Louis Maillard era nato nel 1878 a Pont a Mousson, nella parte francese della Lorena (l’altra parte era stata annessa alla Germania dopo la guerra franco-prussiana del 1870-71). Maillard mostrò fin da giovane interesse per le scienze naturali, per la botanica e la geologia. Nel 1900 fu chiamato a tenere dei corsi di fisica e chimica all’Università di Nancy. Nel 1902 si trasferì all’Univetsità di Parigi come docente e come ricercatore, impegnato specialmente alla fisiologia. Nel Journal de Physiologie del 1912 apparve il lavoro che lo rese celebre: “Reazioni generali degli amminoacidi con gli zuccheri”.

Gli anni successivi Maillard, che apparteneva alla buona borghesia francese, ebbe numerosi riconoscimenti accademici e scientifici. Nonostante i difetti alla vista servì, durante la prima guerra mondiale, come capo dei servizi medici e tossicologici dell’esercito francese. Maillard passò gli ultimi anni della sua vita in Algeria e morì a Parigi nel 1936. Benché gli interessi di Maillard si siano estesi in vari altri campi, è alla “sua” reazione che deve la fama, crescente col passare degli anni a mano a mano che veniva riconosciuto che tale reazione si manifesta in molti fenomeni naturali e commerciali. Esiste una associazione degli amici e estimatori di Maillard, la International Maillard Reaction Sociery, www.imars.org/online che organizza ogni anno delle affollate conferenze.

E’ stato infatti questo chimico francese a scoprirne il meccanismo. Louis Maillard scoprì la “sua” reazione nel 1912, scaldando a bagno maria, alla temperatura di ebollizione dell’acqua, una miscela di una parte di glicocolla, il più semplice dei circa 20 amminoacidi presenti nelle proteine, con quattro parti di glucosio, il più semplice degli zuccheri. Maillard osservò che si formava un liquido che diventava giallo e poi assumeva un colore bruno con liberazione di un gas che identificò come anidride carbonica. Si mise allora di buona lena a combinare un gran numero di amminoacidi con molti zuccheri, scaldando le miscele a temperature fino a 150 gradi, variando l’acidità e la quantità di acqua presente e notò che si formano centinaia di composti. Maillard ne identificò vari nel mais abbrustolito, nelle bistecche, nella crosta del pane, nel caffè e nell’orzo tostato e quindi nella birra scura. Il profumo e il sapore, ma anche i fumi sgradevoli derivano dalla reazione fra un gruppo chetonico adiacente a un gruppo alcolico: R1–CO–CHOH–R2 con un gruppo amminico H2N–R3.

Secondo una grossolana schematizzazione, si forma dapprima una base di Schiff

R1–C=N(R3)–CHOH–R2  che, per la trasposizione di Amadori, si isomerizza in

R1–C(NH-R3)=C(OH)–R2.

Ecco quindi entrati nella reazione di Maillardi altri due chimici, questa volta italiani, Ugo Schiff (1834-1915), per molti anni professore nell’Università di Firenze, uno dei fondatori della Gazzetta Chimica Italiana, e Mario Amadori (1886-1941), professore di chimica farmaceutica nell’Univesità di Modena. Le loro biografie si trovano nel sito curato dal prof. Gianfranco Scorrano che contiene preziose notizie di un gran numero di chimici italiani: http://www.chimica.unipd.it/gianfranco.scorrano/pubblica/la_chimica_italiana.pdf.

bistecca alla fiorentina

bistecca alla fiorentina

La reazione di Maillard ha carattere più generale di quanto si pensi; praticamente in tutti gli alimenti esistono carboidrati e proteine che, in seguito a riscaldamento, danno luogo alla formazione di numerosissimi composti a seconda della temperatura, del contenuto in acqua, del pH, della durata della reazione. Alcuni dei prodotti della reazione di Maillard sono utili nella chimica bromatologica e merceologica per svelare le modificazioni degli alimenti, Ad esempio la presenza di elevate concentrazioni di idrossimetilfurfurolo HMF nel miele svela che è stato riscaldato e la concentrazione della sostanza nel miele commerciale non deve superare 40 mg/kg. L’aroma del celebrato “aceto balsamico” deriva anche lui da una reazione di Maillard.

150px-Acrylamide-MW-2000-3D-vdWAltri, come l’acrilammide H2N–CO–CH=CH2, sono tossici e cancerogeni e sono responsabili di malattie professionali fra gli addetti alle cucine e ai forni da pane che dovrebbero essere dotati di efficienti impianti di ventilazione e filtrazione, anche per non disturbare i vicini.

Quanto poi alla signora, il colore scuro si forma dalla reazione di Maillard fra l’agente autoabbronzante, uno dei più diffusi è il diidrossiacetone HO–CH2–CO–CH2OH, con i gruppi amminici della cheratina della pelle.

Sono debitore di molte notizie al prof. Gorge Kauffman, il noto storico americano della chimica che insegna all’Università dello stato della California, a Fresno, autore fra l’altro di un recente articolo sul centenario, l’anno scorso, della scoperta della reazione di Maillard:

George B. Kauffman and Jean-Pierre Adloff, “The centenary of the Maillard reaction”, The Chemical Educator, 18, 9-17 (January 25, 2013);

http://www.imars.org/online/

http://bressanini-lescienze.blogautore.espresso.repubblica.it/2007/10/01/il-segreto-di-una-buona-bistecca-ma-non-solo-si-chiama-maillard/

La laurea in chimica e le carriere femminili: il genere è fattore di diseguaglianza?

a cura di AnnaMaria Raspolli Galletti

mimosa

 Affronto questo tema, che mi sta a cuore, non sull’onda emotiva dell’ otto marzo e della mimosa che sembrava un po’ spaesata sul bancone del laboratorio, ma più prosaicamente perchè sono stata coinvolta nel riesame del mio corso di studio (problematiche didattiche, valutazione dell’inserimento nel mondo del lavoro…) e mi sono accorta che quasi sempre si parla degli “studenti” di chimica e chimica industriale senza affrontare in maniera approfondita il problema di genere in corsi di laurea scientifici come i nostri. Eppure l’indagine 2010 di Alma Laurea ha messo ben in evidenza come “l’accesso agli studi universitari e la scelta del corso di laurea risentono dell’origine sociale e del genere, secondo un processo causale in cui intervengono anche la scelta degli studi secondari superiori ed il loro esito”. Le statistiche disponibili, anche quando riportano i dati divisi per genere, si fermano ad un anno dalla laurea, dando informazioni assolutamente carenti del cosa succede alle laureate in chimica una volta entrate nel mondo del lavoro (come evolve la loro carriera, in termini di tipo di rapporto di lavoro e profilo retributivo? Quante lavorano all’estero? In quali settori vengono prervalentemente impiegate?). Un’indagine approfondita è stata condotta recentemente all’Università di Pisa per le studentesse e laureate in ingegneria: i risultati ottenuti sono interessanti e deprimenti allo stesso tempo. Le studentesse di ingegneria sono mediamente più brillanti (in termini di votazioni conseguite all’esame di maturità, agli esami universitari ed all’esame finale di laurea nonchè di durata degli studi) dei colleghi, ma non vengono premiate al momento dell’inserimento nel mondo del lavoro e, nel tempo, la loro situazione retributiva è inferiore a quella dei colleghi maschi. In definitiva sembra che in Italia sia ancora poco condivisa la famosa teoria “womenomics”, che sostiene che nelle aziende dove sono inserite donne nei consigli di amministrazione si hanno anche ricadute di bilancio positive. In Italia nel 2012 le donne erano circa il 6 % dei componenti dei CdA delle società quotate ed il nostro Paese resta sestultimo in Europa, ben al di sotto della media Ue (13,7%). Peggio di noi solo Malta, Cipro, Ungheria, Lussemburgo e Portogallo. Il valore è infimo se confrontato con il dati di Finlandia (27,1%), Lettonia (25,9%), Svezia (25,2%) e Francia (22,3%). Una delle tante sfide ancora da vincere in Italia è quindi sicuramente quella di superare il divario tra le ottime performances conseguite dalle donne nel percorso universitario ed il sottoutilizzo che spesso si fa delle loro qualifiche e competenze, così da realmente valorizzare ed integrare le diversità, massimizzandone le potenzialità.

E’ certamente vero che in Italia i numeri delle iscritte e delle laureate in chimica, in generale non elevati, rendono difficile condurre un’analisi statistica affidabile, ma credo che sarebbe estremamente interessante avere i dati dei diversi atenei, soprattutto per trarre delle indicazioni sulle difficoltà che emergono nel passaggio al mondo del lavoro e, soprattutto, nell’evoluzione della carriera lavorativa. Mi rivolgo ai lettori del blog: avete informazioni di indagini di questo tipo?  E, più in generale, dalla vostra esperienza personale nei diversi settori lavorativi in cui operate, quale percezione avete delle problematiche di genere per i laureati in chimica?

per approfondire:

http://www.universitadelledonne.it/2011%20chimica.htm

http://www.scienzainrete.it/contenuto/partner/le-donne-e-chimica

http://www.chimici.info/Donne-e-chimica-un-volume-ripercorre-la-storia-di-50-scienziate_community_news_x_1721.html

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11 marzo 2013: una data storica!

a cura di Luigi Campanella, ex-presidente SCI

L’11 marzo 2013  diventerà una data storica nella battaglia per superare il tabù dell’obbligo della sperimentazione animale. Entra, infatti, in vigore il divieto totale, in tutto il territorio comunitario, di testare e commercializzare ingredienti e prodotti cosmetici sperimentati su animali. Il bando rappresenta certamente una vittoria del movimento che difende i diritti degli “altri animali”, cioè dei milioni di specie con cui condividiamo il pianeta. Ma la decisione del Parlamento europeo è un atto che va al di là di questo specifico settore. E’ un punto di svolta importante, oltre che dal punto di vista etico, per due motivi. Il primo riguarda la difesa dei cittadini: i nuovi test che usano metodologie alternative alla sperimentazione animale, secondo molte associazioni, sono più efficaci dei vecchi sistemi.

cropped-nocruelcosmetics.pngE’ un campo controverso, con pareri divisi all’interno della comunità scientifica. Ma si sta rafforzando l’approccio che punta ad arrivare alla sicurezza attraverso test basati su colture cellulari, sulla ricostruzione della pelle umana e su software avanzati invece che attraverso tecniche cruente su animali vivi. Anche perché specie diverse possono avere risposte diverse alla stessa esposizione chimica.

Il secondo motivo riguarda il ruolo dell’Europa e la sua possibilità di ritrovare una leadership globale. La Cina ad esempio è uno dei pochi paesi con una legge che rende obbligatori i test sugli animali per la produzione di nuovi cosmetici. La manterrà? La pressione cresce, come dimostra la campagna Be Cruelty-Free lanciata dall’associazione Humane Society International in vari paesi per estendere il bando dell’uso della vivisezione per la produzione di mascara e creme anti rughe.

Nel settore dei cosmetici l’Unione europea, il principale mercato del mondo, ha scelto una direzione di marcia, ha stabilito regole del gioco basate su un ampio consenso, ha imposto parametri basati su un’accelerazione innovativa legata a una forte motivazione etica. Non è la vecchia difesa commerciale basata sui dazi: è una sfida verso il futuro. Ora i concorrenti dovranno adeguarsi se vorranno  esportare nel vecchio continente.

In effetti  da un po’ di tempo l’Unione Europea sta rivedendo la direttiva che regola la protezione degli animali usati per scopi scientifici e sperimentali. La Direttiva 86/609/EEC che data al 1986 ha il fine di standardizzare il buono stato (il benessere) degli animali nei laboratori di ricerca in Europa. In Marzo 2009 la Commissione sull’Agricoltura e lo Sviluppo Rurale del Parlamento Europeo ha votato 524 emendamenti a questa direttiva, di questi 161 sono stati adottati. Con le sue decisioni la Commissione ha inteso limitare la sperimentazione senza con questo bloccare la ricerca scientifica. I Membri del Parlamento Europeo hanno votato per regole che dovrebbero assicurare che i test programmati siano assoggettati a cogenti valutazioni etiche per tenere conto della posizione dei cittadini. L’impiego di animali nelle procedure scientifiche dovrebbe essere considerato soltanto in ) di mancanza di un’alternativa.

nocruelcosmeticsCirca a 12 milioni di animali vengono impiegati per scopi scientifici in Unione Europea ogni anno. Circa 10000 di questi sono primati non umani. Due terzi di questi sono impiegati per valutare sicurezza ed efficacia di farmaci e dispositivi farmaceutici. Il rimanente terzo è impiegato per studi biologici di base e per ricerche in medicina umana e veterinaria. Con le sue decisioni  il Parlamento Europeo ha bandito l’impiego di grandi primati non umani (scimpanzé, gorilla, orango) eccetto che per esperimenti finalizzati proprio alla conservazione di queste specie. Tale tipo di sperimentazione è già vietata in Austria, Gran Bretagna, Olanda, Svezia e di fatto in Europa non avviene più dal 2002: pertanto il bando non influenza significativamente la ricerca attuale. Il Parlamento Europeo ha anche deciso che i test su animali diversi dai primati non umani non dovrebbero essere ristretti a condizioni che minaccino o disabilitino alla vita,che influenzerebbero seriamente la ricerca su alcune forme di cancro, sclerosi multipla e morbo di Alzheimer. Inoltre le linee guida europee ed internazionali richiedono che alcuni farmaci siano testati sui primati prima di essere approvati, da cui la necessità in alcuni casi di approvazione di questi test, posizione che sostanzialmente è stata sostenuta da molti scienziati dell’industria farmaceutica e dalle associazioni di ricerca medica ed accettata dal Parlamento Europeo.

Il quadro non può essere completo se non ricordiamo la “famosa” direttiva 3R (reduction, replacement, refinement) con la quale l’UE chiede di indirizzarsi verso una sostituzione o quanto meno una riduzione della sperimentazione animale, ma soprattutto verso un suo riaffinamento che tenga conto dei criteri indicati dalla stessa UE per adottarla, quando indispensabile, ed interpretarla.

Da quanto detto emerge subito l’importanza della chimica in questa fase propositiva,in relazione alla capacità di questa disciplina di fornire indicazioni e linee guida su metodi alternativi alla sperimentazione animale. Un’ulteriore spinta in questa direzione è venuta dal regolamento europeo n n.1907/2006 (meglio noto come REACH ) la cui entrata in vigore ha evidenziato una notevole problematica legata al mondo dei chemicals comunemente utilizzati a tutti i livelli della supply chain: l’esiguità del corredo informativo, in termini di informazioni chimico-fisiche, tossicologiche ed eco-tossicologiche, utile a definire il correlato potenziale di rischio per la salute umana e per l’ambiente.

Il REACH prescrive l’obbligo di registrare le sostanze utilizzate tal quali o presenti in preparati ed articoli, secondo un modello di dossier che non può prescindere da una massiccia effettuazione di test che consentano di coprire i dati mancanti. Per l’immediato futuro si prevede quindi una crescita della domanda di testing riguardante gli articoli e le sostanze della Candidate List (le attuali 15 e le probabili “new entry”) in essi contenute. In questo caso il problema è ristretto alle sole misure chimico-analitiche riguardanti un numero per ora limitato di componenti, ma su uno spettro vastissimo di matrici. Quindi, anche per le suddette sostanze negli articoli la richiesta di testing qualificato potrebbe non essere facilmente soddisfatta dall’attuale mercato.

nocruel4In questo quadro, ed in particolar modo per i test chimico-analitici, il ricorso a metodologie di screening per alcune classi di sostanze risulterà particolarmente conveniente, sia intermini di tempo/produttività del laboratorio di analisi che, soprattutto, in termini di costo per le aziende.

Inoltre, i dati tossicologici ed ecotossicologici presentano le criticità più aspre, perché nonostante sia un principio fondante del nuovo regolamento quello di promuovere l’uso di metodi alternativi alla sperimentazione animale (è da notare che ogni ulteriore test di tossicità su vertebrati ai fini della redazione dei dossier deve essere autorizzato dall’Agenzia Europea per le sostanze chimiche, ECHA), il dibattito sulla validità dei test non-animali è tutt’altro che esaurito, soprattutto quando si tratta di correlare il rischio di cancerogenicità alla tossicità di un chemical provata in vitro piuttosto che in vivo.

 Metodi innovativi REACH oriented (principi, caratteristiche analitiche, indici misurati)

 Metodologie analitiche di screening

Le diverse metodologie analitiche proposte si pongono l’obiettivo di valutare la presenza o meno delle sostanze SVHC della Canditae List in articoli o preparati.

Composti organici volatili.

Il desorbimento termico o l’estrazione con solventi seguiti da analisi GC-MS consente la rapida individuazione (semiquantitativa e/o quantitativa, LOD»0.01%) di un gran numero di componenti organici volatili e semivolatili (tra cui gli ftalati della Candidate List), applicando strumentazioni e metodologie ampiamente in uso nei laboratori di analisi. Il test specifico per la quantificazione della particolare sostanza o della classe di sostanze (mediante metodiche accreditate) verrà successivamente eseguito solo in caso di positività del test di screening.

 Analisi elementare di alogeni e metalli.

L’analisi di fluorescenza X (XRF) consente un’analisi elementare e non distruttiva, relativamente rapida, sia di alogeni che di elementi metallici. Tale tecnica pertanto si presta all’analisi di screening per l’individuazione di alcuni elementi (semiquantitativa, LOD»0.01%) e/o l’esclusione di alcune sostanze o loro classi nelle diverse matrici. La tecnica è applicabile per lo screening di alcune SVHC negli articoli, quali le cloroparaffine o i composti di Cr, Sn, Pb, Ni e As presenti nella Candidate List.

Analisi superficiale elementare mediante SEM-EDX.

I RX emessi nell’analisi SEM consentono di acquisire informazioni semiquantitative di tipo elementare, utili nello screening di alcuni elementi su articoli che presentaono disomogeneità di composizione superficiale (metallizzazioni, verniciature, trattamenti galvanici localizzati, ecc.).

 Altre tecniche spettroscopiche.

Ovviamente molte altre tecniche sono utilizzabili per un primo screening analitico in ambito REACH; è il caso di tecniche spettroscopiche che possono essere direttamente applicate alla individuazione semiquantitativa di sostanze in articoli senza pretrattamento del campione, quali DRIFT-IR o micro-Raman. Inoltre, poiché alcune tecniche spettroscopiche di per sé estremamente informative presentano maggiori difficoltà applicative rispetto a quelle sopra citate, è probabile che loro impiego per lo screening in ambito REACH risulti relativamente limitato. E il caso delle spettroscopie NMR e MS o di tecniche accoppiate particolarmente informative quali la Laser Desorption–ICP–MS.

 Metodi per la valutazione di proprietà tossiche delle sostanze, alternativi alla sperimentazione animale

La tossicità non rappresenta l’unico indicatore nella valutazione del rischio di una molecola. Il regolamento REACH di fatto sancisce che particolare attenzione dovrà essere prestata a quelle sostanze che si caratterizzano per la loro persistenza (P) e per la bioaccumulabilità (B) oltre che per la tossicità (T). In particolare nell’allegato XIII  sono indicati i criteri per l’identificazione di categorie di sostanze PBT e sostanze vPvB (molto persistenti e molto bioaccumulabili) .

Questa necessità impone una strategia di testing che consenta un gran numero di caratterizzazioni preliminari, di screening, finalizzate alla minimizzazione dei test in vivo su vertebrati

 L’approccio delle linee guida

La strategia delle linee guida nell’identificazione delle sostanze PBT e vPvB si organizza su due fasi. Nella prima fase, di screening assessment, si valuta la biodegradabilità intrinseca della molecola (OECD TG302 A-C, test di mineralizzazione), la bioaccumulabilità (attraverso il coefficiente di ripartizione ottanolo/acqua) e la tossicità (attraverso la tossicità acquatica a breve termine LC50 EC50). In caso di esito positivo si procede o considerando le sostanze come potenziali PBT/vPvB o affinando l’indagine con  i test convenzionali (allegato XIII) di persistenza (simulazione ambiente marino OECD 307,308,309), di bioaccumulabilità (calcolo del fattore di bioconcentrazione OECD 305A-E) e di tossicità cronica (OECD 201). Al fine di minimizzare il numero di indagini in entrambe le fasi si predilige gerarchizzare i test ed eseguirli in sequenza (nell’ordine persistenza, bioaccumulo, tossicità) solo se necessario, ossia in caso di risposta positiva del test precedente. Questo approccio acuisce l’interesse verso test di persistenza e bioaccumulo (i più eseguiti) che siano rapidi e significativi rispetto ai criteri. In relazione agli esiti dei test occorrerà poi produrre una valutazione dell’esposizione ed una caratterizzazione del rischio che non sono tutt’altro che scontati a causa della difficoltà di realizzare una valutazione quantitativa di sintesi dei tre criteri anche in virtù dell’incertezza legata ad effetti a lungo termine.

 I metodi alternativi

Quando si parla di metodi alternativi alla sperimentazione animale ci si riferisce al tentativo di applicare il modello delle 3R enunciato da Russel e Burch nel 1959, “Refinement, Reduction, Replacement”, secondo il quale un metodo è definito alternativo se migliora le tecniche sperimentali, minimizzando la sofferenza degli animali, cercando di usare animali filogeneticamente meno evoluti (Refinement), oppure riducendo il numero degli animali necessari ad eseguire un determinato saggio  pur ottenendo lo stesso livello di informazione (Reduction), oppure rimpiazzando totalmente l’uso degli animali con tecniche in vitro (Replacement).

I test maggiormente interessati a questo approccio sono quelli che riguardano la valutazione della tossicità (irritazione della pelle corrosione, irritazione oculare, sensibilizzazione della pelle, tossicità acuta  sistemica, tossicità sulla riproduzione, mutagenicità, etc…). I metodi alternativi proposti vengono validati da un organo ufficiale, l’ECVAM (Centro Europeo per la Validazione dei Metodi Alternativi), secondo un iter molto articolato che prevede: a) lo sviluppo del saggio nel laboratorio d’origine; b) la pre-validazione mirata alla verifica della trasferibilità del metodo e all’ottimizzazione del suo protocollo; c) lo studio di validazione vero e proprio; d) la valutazione indipendente dello studio e delle proposte; e) l’avvio delle procedure per l’accettazione a livello regolatorio. Al seguente indirizzo http://tsar.jrc.ec.europa.eu/ è possibile visionare  i test alternativi per la valutazione della tossicità convalidati oppure in fase di convalida.

Sempre di metodi alternativi si parla nel caso di simulazioni modellistiche computazionali che provvedono ad un replacement dei test. I metodi di elezione in questo ambito sono i modelli (Q)SAR di valutazione delle relazioni struttura-attività che sono in grado di predire le proprietà PBT di molecole in funzione della loro struttura e di altre proprietà chimico fisiche. Ai modelli QSAR recentemente si sono affiancati i modelli biocinetici basati sullo studio dell’assorbimento, la distribuzione, il metabolismo e l’escrezione di un prodotto chimico dall’organismo. Tra gli strumenti modellistici vengono citati anche gli approcci  “Read-Across”, riconosciuti dal REACH, che lavorano sulla possibilità di prevedere proprietà di una molecola a partire da studi o esperimenti effettuati su gruppi di molecole strutturalmente affini.

Ulteriori elementi di criticità nelle valutazioni  PBT

Una complicazione del problema generale nella valutazione PBT è rappresentata dalle possibili differenti proprietà dei prodotti di trasformazione delle molecole target che può causare errate valutazioni circa il potenziale reale di rischio. Questo aspetto risulta particolarmente critico per  le valutazioni modellistiche è necessario pertanto dotarsi anche di strumenti che siano in grado valutare la distribuzione ed il comportamento dei chemicals nei diversi comparti ambientali. Ma se le informazioni ambientali delle sostanze sono scarse, quelle sui prodotti di decomposizione e la loro permanenza nel mezzo ambientale sono praticamente assenti, e soprattutto scarseggiano i metodi analitici in grado di rilevare la presenza e la quantità di queste sostanze nell’ambiente.

 nocruel3…Non solo test tossicologici

Con riferimento all’enorme carico analitico che si determinerà in relazione all’esecuzione di test di screening da effettuare su brevi scale temporali per la valutazione della persistenza e del bioaccumulo, un importante fronte è stato aperto nella ricerca di test alternativi ai test tossicologici convenzionali. Su questo fronte la cultura chimica può giocare un ruolo determinante nell’individuare approcci alternativi per la valutazioni di proprietà come la persistenza, immediatamente associabile alla stabilità ed alla reattività molecolare, e il bioaccumulo, legato a concetti di solubilità e di polarità.

Bene si collocano in quest’ambito i metodi chimici basati sulla fotodegradazione, sull’ossidazione spinta (metodi AOPs ) e sulla termogravimetria proposti per la valutazione del profilo di degradazione.

Molto interessanti risultano i test di persistenza basati su fotosensori. Un esempio è rappresentato dal test di (eco)persistenza basato su proposte di fotosensori di permanenza ambientale che consentono di determinare un indice di persistenza ambientale seguendo la degradazione delle matrici. Il biossido di titanio (TiO2) per esempio, attivato da radiazione UV, agisce, sia come fotocatalizzatore della degradazione delle sostanze organiche, sia come materiale indicatore del pH e consente pertanto di misurare il tempo necessario ad innescare l’acidificazione corrispondente alla produzione degradativa di CO2, considerato come la conclusione del periodo di induzione alla mineralizzazione; considerando come parametro la velocità di variazione del pH nel tempo, quanto più essa è elevata, tanto maggiore è la concentrazione di ambiente carbonico e di acidi inorganici prodotti dalla mineralizzazione nell’unità di tempo.

Infine, dato che l’ecopersistenza è riferita all’azione sia chimica (interazione con altri composti smaltiti nell’ambiente), sia fisica (interazione con la luce solare), sia biologica (interazione con microrganismi), proprio sulla base di questo, le esperienze di biomonitoraggio costituiscono un importante contributo alla valutazione del potenziale di rischio dei chemicals.

L’idea poggia sul fatto che un composto chimico xenobiotico influenza in maniera specifica la popolazione microbica indigena di una matrice ambientale (suolo, acqua, sedimento) e un’analisi qualitativa della perturbazione puo’ essere una misura dell’impatto dell’agente aggiunto. Oggi e’ possibile monitorare la popolazione microbica complessiva di una matrice (batteri e sistemi eucariotici uni e pluricellulari, coltivabili e non) prima e dopo l’aggiunta di un composto chimico, attraverso tecniche di biologia molecolare ben collaudate per rilevare le forme microbiche prevalenti in siti contaminati. Il problema e’ trovare una relazione valida e modellabile fra entita’ della variazione della popolazione microbica indigena ed entità/tipologia di impatto dell’agente. Questa indagine, come quelle ecotossicologiche, ha il grande vantaggio di tenere conto dell’impatto del composto nel contesto in cui viene immesso dove per altro si integra ai possibili intermedi della sua trasformazione chimica/biologica e ad altri co-inquinanti presenti nella matrice.

Nel campo della sensoristica, inoltre, sono stati sviluppati molteplici approcci per recuperare informazioni circa la pericolosità di alcune molecole: tra i più importanti presenti in letteratura vanno annoverati i sensori enzimatici, i sensori a tessuto e i sensori ibridi.

 Misure integrate per la caratterizzazione del rischio 

Per la valutazione dell’esposizione e la caratterizzione del rischio sono stati proposti una serie di modelli predittivi costruiti a partire dai dati analitici di classi di composti (“mass-balance-modeling-approach”), in grado di determinare indici quali EAF (exposure assessment factor) sulla base dei criteri P e B, HAF (hazard assessment factor) sulla base dei criteri P, B, T, RAF (risk assessment factor) secondo i criteri P, B, T, QQQ: essi forniscono molto spesso indicazioni di rischio, per la stessa sostanza, molto differenti da quelle indicate dai metodi di screening “cut-off”, basati cioè sui valori dei singoli criteri.

Il limite più evidente per la corretta determinazione ed applicazione di questi indici di rischio è l’esiguità dei dati reali sulle proprietà-chimico fisiche dei chemicals, giacchè questi sono l’input per la definizione dei modelli teorici.

Nonostante gli sforzi profusi negli ultimi anni verso la regolamentazione delle sostanze PBT e POPs (sostanze organiche inquinanti e persistenti), infatti, si possiedono dati ambientali soltanto di una piccola frazione dei circa 30.000 chemicals largamente usati in commercio in quantità superiori ad 1tonn/anno.

Anche in questo ambito si potrebbero sviluppare misure integrate al fine di fornire un indice di rischio per la valutazione di screening. Il goal sarebbe riuscire ad associare questi criteri in un unico parametro in grado di definire la pericolosità di una sostanza, legata alle sue proprietà intensive (funzione perciò dei soli criteri P,B,T), oppure il rischio associato, determinato anche dalle quantità in gioco e quindi agli scenari espositivi (funzione perciò dei criteri P, B, T, Q).

Metodi teorici nell’ambito REACH

L’utilizzo delle metodologie alternative teoriche ((Q)SARs e Grouping approaches) nell’ambito dell’attuazione del regolamento REACH, viene supportato dall’ECHA al fine di poter evitare per quanto possibile l’utilizzo di test sui vertebrati. In particolare nell’art.13 dello stesso regolamento, sono descritte le regole e i principi di convalida.

1711-qsar-quantitative-structure-activity-relationships-0I modelli (Q)SAR possono essere utilizzati per predire in maniera quali e quantitativa le proprietà chimico-fisiche, tossicologiche ed eco tossicologiche di sostanze per analogia strutturale. I parametri utilizzati in questi modelli, denominati descrittori molecolari, possono essere calcolati utilizzando tecniche computazionali. Questi strumenti sono utilizzati diffusamente nell’ambito della ricerca chimica e farmaceutica al fine di predire comportamenti nell’ambito della tossicologia ed eco-tossicologia. Il descrittore molecolare è il risultato finale di una procedure logica e matematica che trasforma l’informazione chimica codificata nella rappresentazione simbolica della molecola in un numero utile. In letteratura, si trovano oggi migliaia di descrittori molecolari (ne sono stati contati più di 3000) e vi è attualmente una chiara tendenza nello sviluppare sempre nuovi descrittori molecolari con caratteristiche definite.

La Commissione Europea da anni sostiene programmi di ricerca per lo sviluppo di queste metodologie al fine di poter fornire strumenti di supporto per la valutazione teorica dei principali end points, ridurre  l’utilizzo dei test sui vertebrati limitare l’impatto economico dei costi ad essi associati.

In previsione della quantità di dati richiesta dal REACH da svilupparsi nei prossimi anni, l’utilizzo di questi modelli può risultare una valida alternativa ai test tradizionali nelle prime fasi di ricerca e sviluppo di nuove molecole e dei processi che comportano un minor rischio per l’uomo o l’ambiente; l’uso di questi modelli è inoltre un valido supporto per l’ottenimento  dei dati mancanti per le sostanze chimiche e per la definizione di una strategia di testing sui vertebrati più limitata.

E’ stato stimato che il potenziale risparmio portato dall’utilizzo dei metodi teorici per il REACH è circa il 40 % sui costi totali dei test da eseguire.

Gli attuali modelli (Q)SAR, utilizzabili come previsto nel regolamento REACH, pongono, però, ancora alcune difficoltà che ne limitano, di fatto, l’impiego. Non tutti i modelli pubblicati risultano riproducibili perché definiti utilizzando algoritmi ambigui, basati su descrittori molecolari non chiaramente definiti o esplicitati e per la difficile reperibilità delle informazioni sul training set di dati di base relativi alle molecole di riferimento usate per sviluppare il modello. Per ovviare a questo inconveniente, sono stati definiti i principi OECD per la validazione dei modelli QSAR, per l’utilizzo a scopi regolatori. Solo modelli QSAR sviluppati che soddisfino questi principi possono ritenersi validati e fornire predizioni attendibili. La Comunità Europea sta anche predisponendo un database QMRF di modelli QSAR che, soddisfacendo ai principi OECD, possono ritenersi validamente utilizzabili in regolamentazione.

Inoltre, al contrario del sistema US-EPA, il REACH dà ampia discrezionalità sulle linee guida da utilizzare per il calcolo e lascia la responsabilità ultima del dato all’utilizzatore o all’industria, posizione non sempre accettata dalle autorità.

Numerosi sforzi sono stati compiuti negli ultimi anni al fine di poter colmare seppur parzialmente questi gap e rendere i modelli (Q)SAR uno strumento attendibile ed utilizzabile. Tra questi è possibile citare i seguenti progetti:

–       QSAR Application Tool Box (OECD)

–       CAESAR (Istituto M. Negri)

–       OpenTOX (tra i project partners ISS)

–       CADASTER (Univ. Insubria WP-QSAR)

L’attività di ricerca nel settore della chemoinformatica è diffusa nel campo scientifico e numerosi sono i centri universitari con competenze nel campo che possono essere rese disponibili a supporto del REACH.

Dopo decenni di battaglie, un’importante vittoria per gli animalisti europei. Bruxelles ha imposto lo stop completo alla sperimentazione animale per l’industria cosmetica.

Per la Commissione europea è l’inizio di una nuova èra. Con la messa al bando della vivisezione, l’industria della bellezza dovrà ora concentrarsi su altri metodi.

Bruxelles spera in questo modo d’incentivare tecniche più evolute; come le colture cellulari, dove si riproducono campioni di tessuto umano in grado di garantire prodotti più sicuri anche per la salute umana.

L’Europa, che da sola rappresenta la metà del mercato mondiale di cosmetici, ha scelto la propria strada e impone un nuovo modello a livello globale. Da oggi tutte le aziende interessate a vendere e produrre in Europa dovranno rispettare il divieto di test sugli animali.

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Siamo alle solite: chimico non è una parolaccia!

a cura di Claudio Della Volpe

Sono socio di Altroconsumo da molti anni (tessera 2143008-84), ma ho spesso notato delle cadute di stile, diciamo così, che danneggiano sia l’immagine della chimica presso il grande pubblico, sia l’immagine di Altroconsumo presso i lettori più accorti.

Altroconsumo è una associazione di consumatori molto conosciuta e stimata e proprio per questo uno si aspetta un livello di accortezza e competenza adeguato.

La cosa che non mi va è ovviamente l’uso del termine “chimico” in contesti del tutto improprii o addirittura sbagliati e inoltre anche la superficialità di parecchie posizioni o la inesattezza di alcune informazioni.

Nonostante ciò rimango di buon grado socio di Altroconsumo perchè in genere la situazione informativa sulle merci è tale che un occhio critico fa sempre comodo, ma anche Altroconsumo ammetterà che tutto è migliorabile e mi consentirà di fare una critica ragionata di certe sue posizioni. Ed è quello che mi accingo a fare.

Il testo incriminato è nell’ultimo numero della rivista Altroconsumo (Marzo 2013) che purtroppo non è di libera acquisizione, ma di cui comunque riporterò gli stralci più importanti.

Titolo: Pulizie da manuale

Sottotitolo: I rimedi della nonna funzionano e permettono di ridurre il ricorso ai detergenti chimici. Tu risparmi, la tua salute è protetta e l’ambiente ringrazia.

Il sottotitolo fa credere che sia possibile ridurre il ricorso ai detergenti “chimici” tout court; eventualmente si dovrebbe dire “di sintesi”, perchè è chiaro che tutte le sostanze sono sostanze “chimiche” non solo quelle preparate dalla grande industria. Ma vedremo che in realtà l’articolo non mantiene nemmeno questa promessa perchè indica come alternative, eccetto che in un caso, sostanze che invece sono proprio “di sintesi” e quindi, anche non usando la terminologia sbagliata del sottotitolo, sono “chimiche” a tutti gli effetti non solo nel senso “comune”, ma sballato in cui si usa il termine e in cui, ahimè, lo usa anche Altroconsumo.

E anche nel caso dell’aceto è bene che il grande pubblico si renda finalmente conto che trattamenti “chimici”, ossia che usano sostanze chimiche di sintesi vere e proprie nella sua produzione, sono perfettamente legali e comunemente applicati e non fanno male affatto, anzi.

Il testo inizia sostenendo una tesi che è condivisibile e cioè che occorra usare con giudizio i prodotti per la pulizia che sono costosi e in alcuni casi possono inquinare l’ambiente e a volte posseggono anche una composizione che può comportare dei rischi per le persone. Tutto vero. Ma che bisogno c’è di aggiungere una cosa sostanzialmente falsa:

Così staremo al sicuro, alla larga da troppe sostanze chimiche

ma perchè non sono chimiche le sostanze che vengono consigliate in alternativa?

Cominciamo dall’aceto, che è un ottimo consiglio perchè costa certamente meno e perchè in genere è efficace e meno inquinante, lo ammetto, ma attenzione: l’aceto non è una sostanza chimica? ovviamente si; è fatto di acido acetico in gran parte, ma soprattutto pur essendo prodotto dall’azione di batteri su soluzioni zuccherine o alcooliche è perfettamente  legale effettuare su di esso tutte le procedure CHIMICHE che si effettuano sul vino, e che prendono il nome di trattamenti:

Antisettico selettivo: anidride solforosa. SO2;

Correzione dell’acidità: si effettua con acidi e basi di sintesi;

Controllo del colore: tramite l’uso di carboni adsorbenti, prodotti con una procedura CHIMICA di combustione in difetto di ossigeno.

Correzione dei tannini: aggiunta di albumina o gelatina sostanze naturali, ma estratte e purificate per via CHIMICA

Chiarificazione: usando la caseina, la gelatina, la colla di pesce o composti minerali come la bentonite, la silice o il ferrocianuro di potassio e l’acido metatartarico; vi basta come chimica dell’aceto?

NO perchè i controlli sull’uso dell’aceto prevedono che il contenuto dell’aceto non superi certi valori per alcune sostanze (CHIMICHE) in esso contenute per via strettamente naturale: zinco, piombo e acido borico per esempio, per cui un controllo della composizione CHIMICA dell’aceto è assolutamente necessario.

-Vabbè Clà ma comunque l’aceto è un prodotto biologico- mi direte, nel senso prodotto di una fermentazione batterica; niente da dire, non è sintetizzato, non è una soluzione di acido acetico, ma perchè non ricordare che è ottenuto anche grazie a dell’ottima e positiva chimica, che ce ne garantisce la qualità?

Il secondo prodotto consigliato in alternativa è il bicarbonato di sodio, NaHCO3. Ma il bicarbonato è forse un prodotto naturale? ci sono le miniere di bicarbonato? il bicarbonato viene forse estratto da qualche sorgente naturale?
NO; il bicarbonato è presente è vero in mari e fiumi e anche in enormi quantità e in certe condizioni piuttosto rare come materiale solido (la nahcolite (NaHCO3) o come componente secondario del natron (Na2CO3·10(H2O)), un carbonato idrato di sodio di genesi evaporitica in ambienti aridi), ma quello che noi usiamo è TUTTO RIGOROSAMENTE DI SINTESI: il bicarbonato di sodio è uno dei principali prodotti dell’industria chimica inorganica.

Impianto British Salt per la produzione di bicarbonato di sodio

Impianto British Salt per la produzione di bicarbonato di sodio

Il processo attraverso cui viene prodotto è noto fin dal 1863, il metodo Solvay:

ammoniaca e anidride carbonica in una soluzione di cloruro di sodio, la reazione che avviene produce cloruro di ammonio e bicarbonato di sodio. La reazione è la seguente:

H2O + NaCl + NH3 + CO2 NH4Cl + NaHCO3

Questo metodo di produzione venne messo a punto da Ernest Solvay.

Ernst Solvay

Ernst Solvay

Insomma tutto si puo’ dire meno che il bicarbonato NON sia un prodotto chimico, qualunque sia il senso che vogliamo dare all’aggettivo “chimico”.

E la sua produzione è una produzione complessa e per molti aspetti inquinante almeno potenzialmente; al contrario la sua emissione in ambiente non presenta rischi sostanziali come anche il suo uso ragionevole; un eccesso puo’ comportare rischi alla salute per modifica del pH ematico o peggioramento della sintomatologia dovuta ad eccesso di acidità nello stomaco; insomma come tutti i chemicals e seppure con minori rischi  il bicarbonato di sodio ha le sue regole di uso.

Ma se il bicarbonato è un chemical a tutti gli effetti a maggior ragione lo sono le altre due categorie di materiali che l’articolo consiglia di usare seppure solo in certi casi: gli sgrassatori e i detergenti multiuso; si tratta in genere di formulazioni complesse che hanno come base o l’idrossido di sodio, NaOH, altro prodotto base della grande industria chimica, ottenuto dalla elettrolisi di acqua di mare (più precisamente di una soluzione concentrata di NaCl) o i comuni detersivi di sintesi petrolchimica o anche non petrolchimica; comunque si tratta di sostanze prodotte da processi industriali per sintesi o per estrazione; e quindi che senso ha contrapporli ad altri pure di origine industriale?

Ovviamente la cosa ha senso SOLO se si paragonano gli effetti complessivi sull’ambiente: quanta energia serve, quanto inquinamento viene prodotto quando li si sintetizza o li si usa o li si dismette in ambiente? Una analisi LCA, Life Cycle Analysis, una procedura ormai tipica della industria chimica o almeno che dovrebbe esserlo; si tratta di sceglierne i criteri in modo chiaro: non per il profitto di pochi, ma per la qualità della vita di molti.

Ma certo il problema non è più che NON si tratta di sostanze “chimiche”: sono sostanze chimiche entrambe, ma le paragoniamo con la coscienza che scegliamo quella meno impattante, NON contrapponendo una sostanza “chimica” ad una “non-chimica”; e non solo perchè BANALMENTE tutto è fatto di molecole e atomi, tutto è chimica, ma soprattutto perchè stiamo parlando in ENTRAMBI i casi (eccetto l’aceto) di materiali di SINTESI, questo è il termine esatto, della grande industria chimica.

Ci sono poi nell’articolo delle imprecisioni che sembrano più “tipiche” di un approccio “terrorizzante” che di uno sereno sulla Chimica. Un esempio; si scrive:
State lontani in particolare da una famiglia di tensioattivi che porta il nome di alchilbenzensolfato, bandito in Svezia.

Beh questa è una “imprecisione” notevole; prima di tutto non si tratta di alchilbenzensolfati, ma di alchilbenzensolfonati; i solfati devono avere nella loro molecola un gruppo R-SO4, mentre la molecola in questione, chiamata in gergo LAS, contiene un gruppo R-SO3; non stiamo parlando di alchilsolfati, ma di alchilarilsolfonati, tutta una bestia diversa.

las

la molecola di tensioattivo prodotta effettivamente nelle condizioni di sintesi acida; cit. di S. Mammi

la molecola di dodecilbenzensolfonato prodotta effettivamente nelle condizioni di sintesi carbocationica in ambiente acido; cit. di S. Mammi

Poi è vero che la Svezia ha ridotto l’uso di questo specifico tensioattivo di sintesi, ma non è vero, come invece si dice nell’articolo, che lo abbia bandito; basta andarsi a leggere http://apps.kemi.se/flodessok/floden/kemamne_eng/las_eng.htm, un documento ufficiale della SDA, l’agenzia chimica svedese che dà l’informazione corretta: uso ridotto a poche centinaia di tonnellate ma non è stato bandito, anche perchè non vi è la prova della tossicità  ma solo di un limitato danno ambientale [1]. European Council Regulations (EC) 1488/94 ha concluso che non ci sono preoccupazioni per l’ambiente e per la salute umana,  declassificandolo e rimuovendolo dall’Annesso 1 nella  28th ATP (Directive 2001/59).

Insomma Altroconsumo ha tutta la nostra stima, e sarebbe un buon obiettivo una maggiore accortezza ed una decisione soprattutto culturale, quella di smetterla con l’usare l’aggettivo e la parola CHIMICA in modo improprio; anche perchè nello stesso numero della rivista, poche pagine prima o poche pagine dopo, i prodotti chimici o le loro applicazioni la fanno da padroni e in positivo, ma la chimica non viene mai nominata; ma allora perchè usare chimico solo come parolaccia, solo in contesti negativi?

Noi chimici dobbiamo mostrare la nostra terzietà ed indipendenza culturale dal mondo industriale; una specie di giuramento di Galeno riadattato, un giuramento di Boyle per dir così.

Ma le associazioni di consumatori e di difesa dell’ambiente hanno anche loro un compito culturale: abbandonare questo vezzo di usare “chimico” come una parolaccia.

Si tratta di un vezzo da lasciare nel museo della cultura “demagogica”, indegno di una grande associazione di consumatori cui mi onoro di appartenere.

[1]http://www.chem.unep.ch/irptc/sids/oecdsids/las.pdf una risoluzione UNEP dell’aprile 2005

le conclusioni sono le seguenti:

Human Health:The chemicals in the LAS category are currently of low priority for further work because of their low hazard potential except for skin and eye irritation and acute inhalation. Based on data presented by the Sponsor Country, exposure to respirable particles is anticipated to be low. Other countries may desire to investigate any exposure scenarios that were not presented by the Sponsor Country.

 Environment:The chemicals in the LAS category possess properties indicating a hazard for the environment (fish, invertebrates and algae). However, they are of low priority for further work due to ready and/or rapid biodegradation and limited potential for bioaccumulation.

 

La Scienza in fiamme.

a cura di Mariangela Cozzolino

Il rogo che in poche ore ha distrutto con una forza devastante lo scorso Lunedì 4 Marzo lo SCIENCE CENTRE di Città della Scienza di Napoli è una ferita profonda che scuote l’intera comunità nazionale, scientifica e non.

L'incendio che ha distrutto la Città della Scienza di Napoli visto da una piccola spiaggiaCredits: ANSA/ CIRO FUSCO

L’incendio che ha distrutto la Città della Scienza di Napoli visto da una piccola spiaggia
Credits: ANSA/ CIRO FUSCO

Un duro attacco “senza coscienza alla scienza”, ad un patrimonio culturale e scientifico straordinario che ha rappresentato, sin dalla sua fondazione, un punto di riferimento non solo per la Campania ed il Mezzogiorno, ma per l’Italia intera. Un simbolo di rinascita post-industriale, un segnale concreto di riscatto e futuro per il territorio campano. Un luogo dove con forza, passione e dedizione si dava quotidianamente spazio alle idee, all’innovazione ed alla diffusione della cultura pedagogica, scientifica e tecnologica. Un vero e proprio incubatore di germi per il futuro. E che ora, più che mai, deve necessariamente raccogliere tutte le proprie forze per ricominciare a ricostruire spazzando via cenere e macerie. Macerie di cultura!

“Sgomento, tristezza e disperazione”. Così commenta a telefono la dott.ssa Barbara Magistrelli – Responsabile Ufficio Stampa di Città della Scienza. “Ancora oggi – dichiara – non credo ai miei occhi volgendo lo sguardo dal mare a quel che resta dei capannoni (10-12 mila metri quadrati completamente distrutti), ricoperti ora solo da tante fuliggine”.

Ho avuto personalmente nel 2004 la possibilità di collaborare con un team di Città della Scienza per l’allestimento della sala giochi dell’Ospedale Santobono di Napoli nell’ambito del progetto “La scienza in gioco” (ABIO – Associazione Bambino In Ospedale). Ricordo ancora il forte spirito collaborativo, l’entusiasmo e la professionalità del personale di Città della Scienza nel mettere a disposizione competenze, giochi e materiali interattivi anche per attività a scopo benefico.

Un mondo a colori che improvvisamente si è tinto di grigio, riducendo in polvere la ricerca, la conoscenza, il futuro.

Vigili del fuoco al lavoro tra gli edifici distrutti ANSA/ CESARE ABBA

Vigili del fuoco al lavoro tra gli edifici distrutti
ANSA/ CESARE ABBA

Perché? Perché tutto questo?

Questo è l’interrogativo che, unitamente allo sgomento ed alla rabbia, è stato espresso in questi giorni da tutti i massimi livelli istituzionali, sia in Italia che all’estero, manifestando nel contempo affetto e solidarietà alla città di Napoli ed, in particolare, all’illustre fisico Prof Vittorio Silvestrini – Fondatore Idis Città della Scienza – ed a tutto il personale (circa 160 dipendenti).

Ecco quanto dichiara Silvestrini intervistato da Carmelo Prestisimone di Radio 24 – Il Sole 24 Ore: “Sono devastate le mura, ma non il progetto”.

A mio avviso, questa affermazione deve rappresentare il motore con cui ripartire per ricostruire e soprattutto per restituire nel più breve tempo possibile, specie ai piccoli, ai giovani ed alle future generazioni, un luogo dove alimentare la conoscenza, la fantasia, la curiosità scientifica e la speranza per un futuro a colori.

All’appello espresso da Città della scienza “RICOSTRUIAMO CITTA’ DELLA SCIENZA”, noi uomini e donne della Società Chimica Italiana non possiamo che dare una risposta affermativa ed un piccolo segnale concreto.

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Causale: Ricostruiamo Città della Scienza
Intestato a Fondazione Idis – Città della Scienza

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Chi gli ha dato il nome? Beckman.

a cura di Giorgio Nebbia

Quando sono entrato in un laboratorio di chimica mi hanno messo in uno stanzino, una “camera scura” con le pareti annerite, a misurare il colore di alcune soluzioni per risalire alla concentrazione di non so quale sostanza. Mi dissero che ciò era possibile grazie alla legge di Lambert-Beer secondo cui, in molte soluzioni, il rapporto fra la quantità di luce assorbita da un campione colorato, rispetto a quella assorbita dal solvente, era proporzionale alla concentrazione della sostanza disciolta e alla lunghezza del cammino ottico percorso dalla luce. Ho poi imparato che stavo misurando l’assorbanza (noi la si chiamava impropriamente coefficiente di estinzione), una grandezza uguale al logaritmo in base dieci del rapporto fra la luce trasmessa attraverso il solvente T0 rispetto a quella trasmessa attraverso la soluzione T1, entrambi osservati attraverso uno spessore di 1 cm, e che si esprimeva in cm2.g-1. Tale rapporto dipendeva dalla lunghezza d’onda e si misurava con due ingegnosi strumenti, uno chiamato fotometro di Pulfrich e l’altro chiamato Leifo, o Leitz photometer, entrambi fabbricati in Germania, l’unico paese con cui c’erano stati rapporti durante gli anni bui del fascismo e della guerra (sto parlando della II guerra mondiale 1939-1945), appena finiti.

Solo più tardi ho imparato che “la legge” era stata descritta da Johann Heinrich Lambert (1728-1777), matematico, fisico e astronomo tedesco, autore di un trattato intitolato “Photometrie”, pubblicato nel 1760, e dal fisico tedesco August Beer (1825-1863), e che l’inventore del fotometro di Pulfrich era un certo Carl Pulfrich (1858-1927), tedesco anche lui, un ottico che aveva lavorato, negli anni Ottanta dell’Ottocento, per la celebre società Carl Zeiss di Jena; Pulfrich aveva anche scoperto l’effetto stereoscopico e aveva costruito il suo fotometro per conto di Ostwald, nel 1923. Quanto poi al Leifo, prodotto dal 1933 dalla ditta Leitz di Wetzlar, si trattava di un fotometro a filtri, molto elegante, verniciato di nero, con un ingegnoso sistema ottico basato su prismi di Nicol, quelli inventati nel 1828 dal geologo e fisico scozzese William Nicol (1770-1851). Quanta gente per un giovanotto di venti anni in quei tre metri quadrati di stanzina buia.

Con quegli apparecchi si misurava l’assorbimento con radiazione visibile, emanata da una lampada a incandescenza e filtrata con filtri di vetro che lasciavano passare una radiazione più o meno monocromatica.

Nel frattempo, in quegli anni di entusiasmo dopo la Liberazione, cominciavano ad arrivare le riviste americane che leggevamo avidamente, invidiando quei nostri colleghi chimici che dall’altra parte dell’Oceano, potevano misurare l’assorbimento nel visibile e nell’ultravioletto con un apparecchio apparentemente favoloso,”il beckman”. Ci fu promesso che ne avremmo avuto uno anche noi nell’ambito del piano Marshall con cui gli Stati Uniti aiutavano la ripresa nei paesi devastati dalla guerra e nello stesso tempo finanziavano la loro fiorente industria. Ricordo quando il “beckman” arrivò, in una solida cassa di legno, un parallelelepipedo di colore nero, circa lungo una settantina di centimetri e con una sezione quadrata di una ventina di centimetri di lato. Non ho bisogno di descriverlo perché molti dei lettori forse l’hanno conosciuto e usato; i più giovani forse l’hanno visto in qualche cantina. La produzione cessò nel 1976 e fu seguita da spettrofotometri con circuiti elettronici.

beckman

Lo spettrofotometro Beckman DU, V-UV, aveva due lampade, una per il visibile e l’altra per l’ultravioletto, la luce veniva riflessa e avviata verso un prisma di quarzo e le radiazioni di diverse lunghezza d’onda venivano selezionate passando attraverso una sottile finestra regolata con una vite a mano. La radiazione monocromatica veniva avviata su una vaschetta con pareti di quarzo, dello spessore ottico di 1 centimetro, montata su una slittina, che ne conteneva quattro. Si poteva così far passare davanti alla luce monocromatica successivamente il solvente e il campione da analizzare. La radiazione filtrata veniva raccolta da un fotomoltiplicatore; tutti i circuiti erano governati da valvole termoioniche. Era così possibile misurare l’assorbimento alle varie lunghezze d’onda, dall’ultravioletto a 220 nm fino all’infrarosso vicino di 800 nm. I valori dell’assorbanza erano letti uno per uno e scritti a mano su un quaderno e poi a mano si tracciavano le curve su carta millimetrata. Chiedo scusa per questi ricordi che sembrano fanciulleschi ai colleghi che sono nati usando raffinate strumentazione elettroniche.

Ricordo “il beckman” come uno strumento straordinario (il primo che io ricordi con le viti magnetizzate che potevano essere recuperate con il cacciavite, anche se finivano in un intrico di fili e valvole) e l’ho ammirato ancora di più quando ho conosciuto la storia dell’inventore, Arnold O. Beckman, una tipica storia dell’America della prima metà del secolo ventesimo. Beckman era nato a Cullom, nell’Illinois, nella provincia americana, nel 1900, si era laureato nell’Università dell’Illinois e poi era passato nel California Institute of Technology. Da li era passato a New York dove era stato assunto dalla società telefonica Bell. Nel 1928 tornò al CalTech in California a insegnare chimica ripromettendosi però un futuro di consulente industriale e di imprenditore.

Il caso aiuta la mente preparata, come dice Pasteur, e per Beckman il caso fu offerto da un conoscente che vendeva succo di limone; il succo si alterava in certe condizioni di acidità e Beckman costruì per lui un pHmetro di precisioni che consentiva un controllo rapido della produzione. Per vendere il pHmetro Beckman creò la ditta National Technical Laboratories. Le cose andarono bene ma il grande successo arrivò con la produzione degli spettrofotometri; alla fine degli anni gli unici fotometri il commercio erano il Cenco e il Coleman che permettevano soltanto analisi nel visibile. Con la collaborazione di Howard Cary (1908-1991)(che successivamente fondò la Applied Physics Corporation per la produzione degli  spettrofotometri Cary), Beckman mise a punto un primo spettrofotometro chiamato “8”, perfezionato poi nel modello C e infine nel modello DU che è stato prodotto inalterato dal 1941 al 1976. Beckman costituì la Beckman Instrument Company che produceva, oltre al pHmetro e agli spettrofotometri (alla serie DU seguirono altri con circuiti elettronici e stampanti), centrifughe e molte altre apparecchiature per la ricerca chimica e biomedica.

Arnold Beckman diventò ricchissimo, creò una fondazione intestata a Arnold e Mabel (il nome della moglie) Beckman, finanziò ricerche in varie università e fondò una associazione Chem Heritage per la storia della chimica e la conservazione e archiviazione di documenti e libri rari: http://www.chemheritage.org/ Arnold Beckman morì in California nel 2004 a 104 anni. Un interessante protagonista nel ventesimo secolo.

Chi gli ha dato il nome? Wilhelmy.

a cura di Claudio Della Volpe

La bilancia è un dispositivo basilare nel laboratorio del chimico; da quando Lavoisier ha iniziato a porre il problema di risultati quantitativi la superiorità dello strumento bilancia in laboratorio non è mai venuto meno; la qualità, la precisione e la versatilità delle bilance moderne han fatto il resto.

Gli usi delle bilance sono quindi divenuti innumerevoli; il caso di cui vi parlo oggi è quello di una bilancia meno conosciuta delle altre, ma non per questo meno interessante; si tratta di una bilancia che serve a stabilire il grado di bagnabilità di una superficie, ossia la bilancia di Wilhelmy.

Ludwig Ferdinand Wilhelmy

Ludwig Ferdinand Wilhelmy

Ludwig Ferdinand Wilhelmy nacque il giorno di Natale 1812 in Pomerania, a Stargard, attualmente Polonia, e andò poi a studiare farmacia a Berlino. Tornò a lavorare in farmacia col padre finchè nel 1843 il suo desiderio di occuparsi di ricerca non la vinse ed egli tornò a studiare ricevendo il suo dottorato nel 1846 ad Heidelberg discutendo una tesi sul calore come misura della coesione dei corpi.

Rimase in effetti uno scienziato dilettante, e la gran parte dei suoi lavori fu svolta non all’università, dove rimase come docente solo pochi anni, ma nella sua abitazione personale, una villa riadattata a laboratorio; fu anche un membro rispettato della Società di Fisica, che aveva fondato con Magnus a Berlino. Alla pari di Paul du Bois-Reymond, Clausius, Helmholtz e Werner Siemens fu uno degli scienziati di punta della giovane chimica-fisica europea.

wilh1863Il suo lavoro più famoso fu pubblicato nel 1850 e riguardava la cinetica di inversione del saccarosio, un esperimento classico che molti di noi hanno ripetuto in laboratorio eseguendolo come lui fece attraverso un polarimetro; ma Wilhelmy fece di più perchè introdusse il concetto di velocità di reazione, cioè non solo realizzò l’esperimento nel modo giusto ma lo interpretò (o almeno iniziò a farlo) secondo i criteri che noi oggi usiamo; tuttavia il suo ruolo nello sviluppo di una moderna concezione della catalisi fu misconosciuto per 30 anni e fu rivendicato solo da Wilhelm Ostwald nella sua Nobel Lecture nel 1909, riconoscendogli quel primato che il suo anticipo sui tempi di sviluppo della chimica fisica gli aveva inizialmente negato.

Nel 1863 pubblicò il lavoro, che presentava la tecnica di misura della tensione superficiale che usa la bilancia; l’idea di base è di sfruttare l’equilibrio fra le forze che agiscono all’interfaccia liquido-solido-gas, ossia il peso del corpo, la spinta di galleggiamento della parte immersa e la tensione superficiale, o se volete il peso del menisco liquido.

la situazione fisica del menisco nell'esperimento di W.

la situazione fisica del menisco nell’esperimento di W.

La tecnica si può usare sia per misurare la tensione superficiale che l’angolo di contatto e perfino per determinare il perimetro di fibre molto sottili e di sezione irregolare; e in effetti la sua diffusione nel campo degli studi di superficie e l’uso in particolare nel caso dei film di Langmuir-Blodgett, dove costituisce lo strumento principe per monitorare lo stato del film ottenuto (è l’elemento di misura del cosiddetto “trough”), hanno fatto si che essa sia spesso chiamata bilancia di Langmuir, a causa della vasta diffusione di studi su questo soggetto, seppure occorre dire che i dettagli dei due strumenti siano leggermente diversi.

Più comunemente la bilancia di Wilhelmy viene usata per misurare la bagnabilità dei corpi oppure la tensione superficiale delle soluzioni, per esempio di tensioattivo.

L’invenzione originale di Wilhelmy si è potuta sviluppare al suo livello attuale di sofisticazione solo dopo la messa a punto di strumenti di misura della massa dei corpi molto sensibili, le cosidette microbilance, in grado di misurare anche una frazione di microgrammo, e soprattutto dopo lo sviluppo del computer che costituisce lo strumento di base in grado di leggere sicuramente e velocemente il valore della forza F, mentre un motore privo di vibrazioni spinge verso l’alto o verso il basso il liquido testato ad una velocità bassa e costante, che non modifichi in modo sensibile la forma del menisco a contatto con il campione.

Le problematiche a questo riguardo sono molteplici: per esempio si possono testare corpi con forme geometriche anche complesse, come le lenti intraoculari o i cateteri il cui trattamento superficiale deve rispondere a criteri molto precisi per svolgere opportunamente il proprio ruolo di dispositivo biomedico.

A questo riguardo occorre ricordare la figura di Lee Cahn, un ingegnere che è stato l’inventore di molti dei più moderni aspetti dell’elettrobilancia come noi oggi la conosciamo. L’elettrobilancia funziona sulla base del principio che i due bracci sono all’equilibrio per l’effetto di forze di tipo elettromagnetico e viene costantemente monitorata la corrente necessaria a mantenere tale equilibrio se i bracci vengono perturbati; è quindi sempre necessario fare una taratura del sistema prima di usarlo.

Anche i motori necessari al movimento del liquido devono rispondere a requisiti di bassissima vibrazione.

Tuttavia si puo’ notare una cosa interessante; negli ultimi anni ci si è resi conto che un disturbo vibrazionale, indotto artificialmente, può consentire di far raggiungere al menisco uno stato di equilibrio termodinamico, il che consente di superare la situazione tradizionale, in cui le grandezze legate all’esistenza del menisco sono generalmente caratterizzate in stati metastabili e non di equilibrio, e quindi non equivalenti all’angolo ideale o angolo di Young.

Il settore della bagnabilità e dei film superficiali è in forte sviluppo e davanti all’esperimento di Wilhelmy, dopo 150 anni esatti, c’è ancora un interessante futuro. Personalmente posso dire che dopo 20 anni e più che mi dedico a studiare gli usi e a perfezionare la bilancia di Wilhelmy riesco ancora a scovare applicazioni nuove e a cui nessuno aveva mai pensato o nuove modalità di funzionamento.

pauli

W.Pauli

D’altronde non ci si puo’ stupire di questo, se perfino Wolfgang Pauli ebbe a dire:

 “God made solids, but surfaces were the work of the devil”.

Per approfondire:

-Wilhelmy L. Ann. Phys. 1863 119 177

-Lord Rayleigh Philos. Mag. 1899 48 (ser.5) 321

-Wilhelmy L. “Ueber das Gesetz, nach welchem die Einwirkung der Säuren auf den Rohrzucker stattfindet,” in Annalen der Physik und Chemie,81 (1850), 413–433, 499–526

-Ralph H. Müller- Lee Cahn, Inventor, Extended Uses of the Electrobalance Principle Anal. Chem., 1967, 39 (12), pp 121A–121A

-W. Ostwald, Nobel Lecture, “On Catalysis” December 12, 1909

-http://www.nobelprize.org/nobel_prizes/chemistry/laureates/1909/ostwald-lecture.html?print=1

-http://www.encyclopedia.com/doc/1G2-2830904658.html-http://en.wikipedia.org/wiki/Langmuir%E2%80%93Blodgett_trough e la bibliografia ivi contenuta