a cura di Luigi Campanella, ex-presidente SCI
L’11 marzo 2013 diventerà una data storica nella battaglia per superare il tabù dell’obbligo della sperimentazione animale. Entra, infatti, in vigore il divieto totale, in tutto il territorio comunitario, di testare e commercializzare ingredienti e prodotti cosmetici sperimentati su animali. Il bando rappresenta certamente una vittoria del movimento che difende i diritti degli “altri animali”, cioè dei milioni di specie con cui condividiamo il pianeta. Ma la decisione del Parlamento europeo è un atto che va al di là di questo specifico settore. E’ un punto di svolta importante, oltre che dal punto di vista etico, per due motivi. Il primo riguarda la difesa dei cittadini: i nuovi test che usano metodologie alternative alla sperimentazione animale, secondo molte associazioni, sono più efficaci dei vecchi sistemi.
E’ un campo controverso, con pareri divisi all’interno della comunità scientifica. Ma si sta rafforzando l’approccio che punta ad arrivare alla sicurezza attraverso test basati su colture cellulari, sulla ricostruzione della pelle umana e su software avanzati invece che attraverso tecniche cruente su animali vivi. Anche perché specie diverse possono avere risposte diverse alla stessa esposizione chimica.
Il secondo motivo riguarda il ruolo dell’Europa e la sua possibilità di ritrovare una leadership globale. La Cina ad esempio è uno dei pochi paesi con una legge che rende obbligatori i test sugli animali per la produzione di nuovi cosmetici. La manterrà? La pressione cresce, come dimostra la campagna Be Cruelty-Free lanciata dall’associazione Humane Society International in vari paesi per estendere il bando dell’uso della vivisezione per la produzione di mascara e creme anti rughe.
Nel settore dei cosmetici l’Unione europea, il principale mercato del mondo, ha scelto una direzione di marcia, ha stabilito regole del gioco basate su un ampio consenso, ha imposto parametri basati su un’accelerazione innovativa legata a una forte motivazione etica. Non è la vecchia difesa commerciale basata sui dazi: è una sfida verso il futuro. Ora i concorrenti dovranno adeguarsi se vorranno esportare nel vecchio continente.
In effetti da un po’ di tempo l’Unione Europea sta rivedendo la direttiva che regola la protezione degli animali usati per scopi scientifici e sperimentali. La Direttiva 86/609/EEC che data al 1986 ha il fine di standardizzare il buono stato (il benessere) degli animali nei laboratori di ricerca in Europa. In Marzo 2009 la Commissione sull’Agricoltura e lo Sviluppo Rurale del Parlamento Europeo ha votato 524 emendamenti a questa direttiva, di questi 161 sono stati adottati. Con le sue decisioni la Commissione ha inteso limitare la sperimentazione senza con questo bloccare la ricerca scientifica. I Membri del Parlamento Europeo hanno votato per regole che dovrebbero assicurare che i test programmati siano assoggettati a cogenti valutazioni etiche per tenere conto della posizione dei cittadini. L’impiego di animali nelle procedure scientifiche dovrebbe essere considerato soltanto in ) di mancanza di un’alternativa.
Circa a 12 milioni di animali vengono impiegati per scopi scientifici in Unione Europea ogni anno. Circa 10000 di questi sono primati non umani. Due terzi di questi sono impiegati per valutare sicurezza ed efficacia di farmaci e dispositivi farmaceutici. Il rimanente terzo è impiegato per studi biologici di base e per ricerche in medicina umana e veterinaria. Con le sue decisioni il Parlamento Europeo ha bandito l’impiego di grandi primati non umani (scimpanzé, gorilla, orango) eccetto che per esperimenti finalizzati proprio alla conservazione di queste specie. Tale tipo di sperimentazione è già vietata in Austria, Gran Bretagna, Olanda, Svezia e di fatto in Europa non avviene più dal 2002: pertanto il bando non influenza significativamente la ricerca attuale. Il Parlamento Europeo ha anche deciso che i test su animali diversi dai primati non umani non dovrebbero essere ristretti a condizioni che minaccino o disabilitino alla vita,che influenzerebbero seriamente la ricerca su alcune forme di cancro, sclerosi multipla e morbo di Alzheimer. Inoltre le linee guida europee ed internazionali richiedono che alcuni farmaci siano testati sui primati prima di essere approvati, da cui la necessità in alcuni casi di approvazione di questi test, posizione che sostanzialmente è stata sostenuta da molti scienziati dell’industria farmaceutica e dalle associazioni di ricerca medica ed accettata dal Parlamento Europeo.
Il quadro non può essere completo se non ricordiamo la “famosa” direttiva 3R (reduction, replacement, refinement) con la quale l’UE chiede di indirizzarsi verso una sostituzione o quanto meno una riduzione della sperimentazione animale, ma soprattutto verso un suo riaffinamento che tenga conto dei criteri indicati dalla stessa UE per adottarla, quando indispensabile, ed interpretarla.
Da quanto detto emerge subito l’importanza della chimica in questa fase propositiva,in relazione alla capacità di questa disciplina di fornire indicazioni e linee guida su metodi alternativi alla sperimentazione animale. Un’ulteriore spinta in questa direzione è venuta dal regolamento europeo n n.1907/2006 (meglio noto come REACH ) la cui entrata in vigore ha evidenziato una notevole problematica legata al mondo dei chemicals comunemente utilizzati a tutti i livelli della supply chain: l’esiguità del corredo informativo, in termini di informazioni chimico-fisiche, tossicologiche ed eco-tossicologiche, utile a definire il correlato potenziale di rischio per la salute umana e per l’ambiente.
Il REACH prescrive l’obbligo di registrare le sostanze utilizzate tal quali o presenti in preparati ed articoli, secondo un modello di dossier che non può prescindere da una massiccia effettuazione di test che consentano di coprire i dati mancanti. Per l’immediato futuro si prevede quindi una crescita della domanda di testing riguardante gli articoli e le sostanze della Candidate List (le attuali 15 e le probabili “new entry”) in essi contenute. In questo caso il problema è ristretto alle sole misure chimico-analitiche riguardanti un numero per ora limitato di componenti, ma su uno spettro vastissimo di matrici. Quindi, anche per le suddette sostanze negli articoli la richiesta di testing qualificato potrebbe non essere facilmente soddisfatta dall’attuale mercato.
In questo quadro, ed in particolar modo per i test chimico-analitici, il ricorso a metodologie di screening per alcune classi di sostanze risulterà particolarmente conveniente, sia intermini di tempo/produttività del laboratorio di analisi che, soprattutto, in termini di costo per le aziende.
Inoltre, i dati tossicologici ed ecotossicologici presentano le criticità più aspre, perché nonostante sia un principio fondante del nuovo regolamento quello di promuovere l’uso di metodi alternativi alla sperimentazione animale (è da notare che ogni ulteriore test di tossicità su vertebrati ai fini della redazione dei dossier deve essere autorizzato dall’Agenzia Europea per le sostanze chimiche, ECHA), il dibattito sulla validità dei test non-animali è tutt’altro che esaurito, soprattutto quando si tratta di correlare il rischio di cancerogenicità alla tossicità di un chemical provata in vitro piuttosto che in vivo.
Metodi innovativi REACH oriented (principi, caratteristiche analitiche, indici misurati)
Metodologie analitiche di screening
Le diverse metodologie analitiche proposte si pongono l’obiettivo di valutare la presenza o meno delle sostanze SVHC della Canditae List in articoli o preparati.
Composti organici volatili.
Il desorbimento termico o l’estrazione con solventi seguiti da analisi GC-MS consente la rapida individuazione (semiquantitativa e/o quantitativa, LOD»0.01%) di un gran numero di componenti organici volatili e semivolatili (tra cui gli ftalati della Candidate List), applicando strumentazioni e metodologie ampiamente in uso nei laboratori di analisi. Il test specifico per la quantificazione della particolare sostanza o della classe di sostanze (mediante metodiche accreditate) verrà successivamente eseguito solo in caso di positività del test di screening.
Analisi elementare di alogeni e metalli.
L’analisi di fluorescenza X (XRF) consente un’analisi elementare e non distruttiva, relativamente rapida, sia di alogeni che di elementi metallici. Tale tecnica pertanto si presta all’analisi di screening per l’individuazione di alcuni elementi (semiquantitativa, LOD»0.01%) e/o l’esclusione di alcune sostanze o loro classi nelle diverse matrici. La tecnica è applicabile per lo screening di alcune SVHC negli articoli, quali le cloroparaffine o i composti di Cr, Sn, Pb, Ni e As presenti nella Candidate List.
Analisi superficiale elementare mediante SEM-EDX.
I RX emessi nell’analisi SEM consentono di acquisire informazioni semiquantitative di tipo elementare, utili nello screening di alcuni elementi su articoli che presentaono disomogeneità di composizione superficiale (metallizzazioni, verniciature, trattamenti galvanici localizzati, ecc.).
Altre tecniche spettroscopiche.
Ovviamente molte altre tecniche sono utilizzabili per un primo screening analitico in ambito REACH; è il caso di tecniche spettroscopiche che possono essere direttamente applicate alla individuazione semiquantitativa di sostanze in articoli senza pretrattamento del campione, quali DRIFT-IR o micro-Raman. Inoltre, poiché alcune tecniche spettroscopiche di per sé estremamente informative presentano maggiori difficoltà applicative rispetto a quelle sopra citate, è probabile che loro impiego per lo screening in ambito REACH risulti relativamente limitato. E il caso delle spettroscopie NMR e MS o di tecniche accoppiate particolarmente informative quali la Laser Desorption–ICP–MS.
Metodi per la valutazione di proprietà tossiche delle sostanze, alternativi alla sperimentazione animale
La tossicità non rappresenta l’unico indicatore nella valutazione del rischio di una molecola. Il regolamento REACH di fatto sancisce che particolare attenzione dovrà essere prestata a quelle sostanze che si caratterizzano per la loro persistenza (P) e per la bioaccumulabilità (B) oltre che per la tossicità (T). In particolare nell’allegato XIII sono indicati i criteri per l’identificazione di categorie di sostanze PBT e sostanze vPvB (molto persistenti e molto bioaccumulabili) .
Questa necessità impone una strategia di testing che consenta un gran numero di caratterizzazioni preliminari, di screening, finalizzate alla minimizzazione dei test in vivo su vertebrati
L’approccio delle linee guida
La strategia delle linee guida nell’identificazione delle sostanze PBT e vPvB si organizza su due fasi. Nella prima fase, di screening assessment, si valuta la biodegradabilità intrinseca della molecola (OECD TG302 A-C, test di mineralizzazione), la bioaccumulabilità (attraverso il coefficiente di ripartizione ottanolo/acqua) e la tossicità (attraverso la tossicità acquatica a breve termine LC50 EC50). In caso di esito positivo si procede o considerando le sostanze come potenziali PBT/vPvB o affinando l’indagine con i test convenzionali (allegato XIII) di persistenza (simulazione ambiente marino OECD 307,308,309), di bioaccumulabilità (calcolo del fattore di bioconcentrazione OECD 305A-E) e di tossicità cronica (OECD 201). Al fine di minimizzare il numero di indagini in entrambe le fasi si predilige gerarchizzare i test ed eseguirli in sequenza (nell’ordine persistenza, bioaccumulo, tossicità) solo se necessario, ossia in caso di risposta positiva del test precedente. Questo approccio acuisce l’interesse verso test di persistenza e bioaccumulo (i più eseguiti) che siano rapidi e significativi rispetto ai criteri. In relazione agli esiti dei test occorrerà poi produrre una valutazione dell’esposizione ed una caratterizzazione del rischio che non sono tutt’altro che scontati a causa della difficoltà di realizzare una valutazione quantitativa di sintesi dei tre criteri anche in virtù dell’incertezza legata ad effetti a lungo termine.
I metodi alternativi
Quando si parla di metodi alternativi alla sperimentazione animale ci si riferisce al tentativo di applicare il modello delle 3R enunciato da Russel e Burch nel 1959, “Refinement, Reduction, Replacement”, secondo il quale un metodo è definito alternativo se migliora le tecniche sperimentali, minimizzando la sofferenza degli animali, cercando di usare animali filogeneticamente meno evoluti (Refinement), oppure riducendo il numero degli animali necessari ad eseguire un determinato saggio pur ottenendo lo stesso livello di informazione (Reduction), oppure rimpiazzando totalmente l’uso degli animali con tecniche in vitro (Replacement).
I test maggiormente interessati a questo approccio sono quelli che riguardano la valutazione della tossicità (irritazione della pelle corrosione, irritazione oculare, sensibilizzazione della pelle, tossicità acuta sistemica, tossicità sulla riproduzione, mutagenicità, etc…). I metodi alternativi proposti vengono validati da un organo ufficiale, l’ECVAM (Centro Europeo per la Validazione dei Metodi Alternativi), secondo un iter molto articolato che prevede: a) lo sviluppo del saggio nel laboratorio d’origine; b) la pre-validazione mirata alla verifica della trasferibilità del metodo e all’ottimizzazione del suo protocollo; c) lo studio di validazione vero e proprio; d) la valutazione indipendente dello studio e delle proposte; e) l’avvio delle procedure per l’accettazione a livello regolatorio. Al seguente indirizzo http://tsar.jrc.ec.europa.eu/ è possibile visionare i test alternativi per la valutazione della tossicità convalidati oppure in fase di convalida.
Sempre di metodi alternativi si parla nel caso di simulazioni modellistiche computazionali che provvedono ad un replacement dei test. I metodi di elezione in questo ambito sono i modelli (Q)SAR di valutazione delle relazioni struttura-attività che sono in grado di predire le proprietà PBT di molecole in funzione della loro struttura e di altre proprietà chimico fisiche. Ai modelli QSAR recentemente si sono affiancati i modelli biocinetici basati sullo studio dell’assorbimento, la distribuzione, il metabolismo e l’escrezione di un prodotto chimico dall’organismo. Tra gli strumenti modellistici vengono citati anche gli approcci “Read-Across”, riconosciuti dal REACH, che lavorano sulla possibilità di prevedere proprietà di una molecola a partire da studi o esperimenti effettuati su gruppi di molecole strutturalmente affini.
Ulteriori elementi di criticità nelle valutazioni PBT
Una complicazione del problema generale nella valutazione PBT è rappresentata dalle possibili differenti proprietà dei prodotti di trasformazione delle molecole target che può causare errate valutazioni circa il potenziale reale di rischio. Questo aspetto risulta particolarmente critico per le valutazioni modellistiche è necessario pertanto dotarsi anche di strumenti che siano in grado valutare la distribuzione ed il comportamento dei chemicals nei diversi comparti ambientali. Ma se le informazioni ambientali delle sostanze sono scarse, quelle sui prodotti di decomposizione e la loro permanenza nel mezzo ambientale sono praticamente assenti, e soprattutto scarseggiano i metodi analitici in grado di rilevare la presenza e la quantità di queste sostanze nell’ambiente.
…Non solo test tossicologici
Con riferimento all’enorme carico analitico che si determinerà in relazione all’esecuzione di test di screening da effettuare su brevi scale temporali per la valutazione della persistenza e del bioaccumulo, un importante fronte è stato aperto nella ricerca di test alternativi ai test tossicologici convenzionali. Su questo fronte la cultura chimica può giocare un ruolo determinante nell’individuare approcci alternativi per la valutazioni di proprietà come la persistenza, immediatamente associabile alla stabilità ed alla reattività molecolare, e il bioaccumulo, legato a concetti di solubilità e di polarità.
Bene si collocano in quest’ambito i metodi chimici basati sulla fotodegradazione, sull’ossidazione spinta (metodi AOPs ) e sulla termogravimetria proposti per la valutazione del profilo di degradazione.
Molto interessanti risultano i test di persistenza basati su fotosensori. Un esempio è rappresentato dal test di (eco)persistenza basato su proposte di fotosensori di permanenza ambientale che consentono di determinare un indice di persistenza ambientale seguendo la degradazione delle matrici. Il biossido di titanio (TiO2) per esempio, attivato da radiazione UV, agisce, sia come fotocatalizzatore della degradazione delle sostanze organiche, sia come materiale indicatore del pH e consente pertanto di misurare il tempo necessario ad innescare l’acidificazione corrispondente alla produzione degradativa di CO2, considerato come la conclusione del periodo di induzione alla mineralizzazione; considerando come parametro la velocità di variazione del pH nel tempo, quanto più essa è elevata, tanto maggiore è la concentrazione di ambiente carbonico e di acidi inorganici prodotti dalla mineralizzazione nell’unità di tempo.
Infine, dato che l’ecopersistenza è riferita all’azione sia chimica (interazione con altri composti smaltiti nell’ambiente), sia fisica (interazione con la luce solare), sia biologica (interazione con microrganismi), proprio sulla base di questo, le esperienze di biomonitoraggio costituiscono un importante contributo alla valutazione del potenziale di rischio dei chemicals.
L’idea poggia sul fatto che un composto chimico xenobiotico influenza in maniera specifica la popolazione microbica indigena di una matrice ambientale (suolo, acqua, sedimento) e un’analisi qualitativa della perturbazione puo’ essere una misura dell’impatto dell’agente aggiunto. Oggi e’ possibile monitorare la popolazione microbica complessiva di una matrice (batteri e sistemi eucariotici uni e pluricellulari, coltivabili e non) prima e dopo l’aggiunta di un composto chimico, attraverso tecniche di biologia molecolare ben collaudate per rilevare le forme microbiche prevalenti in siti contaminati. Il problema e’ trovare una relazione valida e modellabile fra entita’ della variazione della popolazione microbica indigena ed entità/tipologia di impatto dell’agente. Questa indagine, come quelle ecotossicologiche, ha il grande vantaggio di tenere conto dell’impatto del composto nel contesto in cui viene immesso dove per altro si integra ai possibili intermedi della sua trasformazione chimica/biologica e ad altri co-inquinanti presenti nella matrice.
Nel campo della sensoristica, inoltre, sono stati sviluppati molteplici approcci per recuperare informazioni circa la pericolosità di alcune molecole: tra i più importanti presenti in letteratura vanno annoverati i sensori enzimatici, i sensori a tessuto e i sensori ibridi.
Misure integrate per la caratterizzazione del rischio
Per la valutazione dell’esposizione e la caratterizzione del rischio sono stati proposti una serie di modelli predittivi costruiti a partire dai dati analitici di classi di composti (“mass-balance-modeling-approach”), in grado di determinare indici quali EAF (exposure assessment factor) sulla base dei criteri P e B, HAF (hazard assessment factor) sulla base dei criteri P, B, T, RAF (risk assessment factor) secondo i criteri P, B, T, QQQ: essi forniscono molto spesso indicazioni di rischio, per la stessa sostanza, molto differenti da quelle indicate dai metodi di screening “cut-off”, basati cioè sui valori dei singoli criteri.
Il limite più evidente per la corretta determinazione ed applicazione di questi indici di rischio è l’esiguità dei dati reali sulle proprietà-chimico fisiche dei chemicals, giacchè questi sono l’input per la definizione dei modelli teorici.
Nonostante gli sforzi profusi negli ultimi anni verso la regolamentazione delle sostanze PBT e POPs (sostanze organiche inquinanti e persistenti), infatti, si possiedono dati ambientali soltanto di una piccola frazione dei circa 30.000 chemicals largamente usati in commercio in quantità superiori ad 1tonn/anno.
Anche in questo ambito si potrebbero sviluppare misure integrate al fine di fornire un indice di rischio per la valutazione di screening. Il goal sarebbe riuscire ad associare questi criteri in un unico parametro in grado di definire la pericolosità di una sostanza, legata alle sue proprietà intensive (funzione perciò dei soli criteri P,B,T), oppure il rischio associato, determinato anche dalle quantità in gioco e quindi agli scenari espositivi (funzione perciò dei criteri P, B, T, Q).
Metodi teorici nell’ambito REACH
L’utilizzo delle metodologie alternative teoriche ((Q)SARs e Grouping approaches) nell’ambito dell’attuazione del regolamento REACH, viene supportato dall’ECHA al fine di poter evitare per quanto possibile l’utilizzo di test sui vertebrati. In particolare nell’art.13 dello stesso regolamento, sono descritte le regole e i principi di convalida.
I modelli (Q)SAR possono essere utilizzati per predire in maniera quali e quantitativa le proprietà chimico-fisiche, tossicologiche ed eco tossicologiche di sostanze per analogia strutturale. I parametri utilizzati in questi modelli, denominati descrittori molecolari, possono essere calcolati utilizzando tecniche computazionali. Questi strumenti sono utilizzati diffusamente nell’ambito della ricerca chimica e farmaceutica al fine di predire comportamenti nell’ambito della tossicologia ed eco-tossicologia. Il descrittore molecolare è il risultato finale di una procedure logica e matematica che trasforma l’informazione chimica codificata nella rappresentazione simbolica della molecola in un numero utile. In letteratura, si trovano oggi migliaia di descrittori molecolari (ne sono stati contati più di 3000) e vi è attualmente una chiara tendenza nello sviluppare sempre nuovi descrittori molecolari con caratteristiche definite.
La Commissione Europea da anni sostiene programmi di ricerca per lo sviluppo di queste metodologie al fine di poter fornire strumenti di supporto per la valutazione teorica dei principali end points, ridurre l’utilizzo dei test sui vertebrati limitare l’impatto economico dei costi ad essi associati.
In previsione della quantità di dati richiesta dal REACH da svilupparsi nei prossimi anni, l’utilizzo di questi modelli può risultare una valida alternativa ai test tradizionali nelle prime fasi di ricerca e sviluppo di nuove molecole e dei processi che comportano un minor rischio per l’uomo o l’ambiente; l’uso di questi modelli è inoltre un valido supporto per l’ottenimento dei dati mancanti per le sostanze chimiche e per la definizione di una strategia di testing sui vertebrati più limitata.
E’ stato stimato che il potenziale risparmio portato dall’utilizzo dei metodi teorici per il REACH è circa il 40 % sui costi totali dei test da eseguire.
Gli attuali modelli (Q)SAR, utilizzabili come previsto nel regolamento REACH, pongono, però, ancora alcune difficoltà che ne limitano, di fatto, l’impiego. Non tutti i modelli pubblicati risultano riproducibili perché definiti utilizzando algoritmi ambigui, basati su descrittori molecolari non chiaramente definiti o esplicitati e per la difficile reperibilità delle informazioni sul training set di dati di base relativi alle molecole di riferimento usate per sviluppare il modello. Per ovviare a questo inconveniente, sono stati definiti i principi OECD per la validazione dei modelli QSAR, per l’utilizzo a scopi regolatori. Solo modelli QSAR sviluppati che soddisfino questi principi possono ritenersi validati e fornire predizioni attendibili. La Comunità Europea sta anche predisponendo un database QMRF di modelli QSAR che, soddisfacendo ai principi OECD, possono ritenersi validamente utilizzabili in regolamentazione.
Inoltre, al contrario del sistema US-EPA, il REACH dà ampia discrezionalità sulle linee guida da utilizzare per il calcolo e lascia la responsabilità ultima del dato all’utilizzatore o all’industria, posizione non sempre accettata dalle autorità.
Numerosi sforzi sono stati compiuti negli ultimi anni al fine di poter colmare seppur parzialmente questi gap e rendere i modelli (Q)SAR uno strumento attendibile ed utilizzabile. Tra questi è possibile citare i seguenti progetti:
– QSAR Application Tool Box (OECD)
– CAESAR (Istituto M. Negri)
– OpenTOX (tra i project partners ISS)
– CADASTER (Univ. Insubria WP-QSAR)
L’attività di ricerca nel settore della chemoinformatica è diffusa nel campo scientifico e numerosi sono i centri universitari con competenze nel campo che possono essere rese disponibili a supporto del REACH.
Dopo decenni di battaglie, un’importante vittoria per gli animalisti europei. Bruxelles ha imposto lo stop completo alla sperimentazione animale per l’industria cosmetica.
Per la Commissione europea è l’inizio di una nuova èra. Con la messa al bando della vivisezione, l’industria della bellezza dovrà ora concentrarsi su altri metodi.
Bruxelles spera in questo modo d’incentivare tecniche più evolute; come le colture cellulari, dove si riproducono campioni di tessuto umano in grado di garantire prodotti più sicuri anche per la salute umana.
L’Europa, che da sola rappresenta la metà del mercato mondiale di cosmetici, ha scelto la propria strada e impone un nuovo modello a livello globale. Da oggi tutte le aziende interessate a vendere e produrre in Europa dovranno rispettare il divieto di test sugli animali.
