La sindrome sgombroide o intossicazione da istamina.

a cura di Claudia Pellerito*

*Ricercatrice presso UniPa, cpellerito@unipa.it

sgombrounipaE’ cronaca siciliana di questi giorni quella che riporta più di 200 casi di intossicazione da tonno registrati negli ultimi giorni.

Il ‘’veleno’’ che ha intossicato Palermo viaggiava in quintali di pesce, alcuni dei quali sequestrati dalla Capitaneria di Porto, altri finiti sulle nostre tavole.

L’episodio, oltre ad essere interessante da un punto di vista epidemiologico, si tratterebbe infatti di uno dei pochi casi documentati in Italia, è molto utile da un punto di vista didattico: evidenzia il sottile confine che esiste tra dose terapeutica o fisiologica e dose tossica; richiama il concetto di sinergismo tra sistemi molecolari; ricorda che questi , in certe condizioni, si trasformano e cambiano le loro proprietà biologiche.

Non in ultimo, questo fatto di cronaca ci procura una certa ansia ‘’benefica’’ che ci ricorda che è necessario prestare molta attenzione alla qualità dei cibi che consumiamo.

L’ingestione di partite di tonno mantenuto in condizioni non idonee di conservazione, ha causato nei malcapitati la cosiddetta sindrome sgombroide, o intossicazione da istamina (HFP).

La sindrome sgombroide è una sindrome acuta causata principalmente dal consumo di prodotti ittici contenenti alti livelli di istamina e probabilmente di altre ammine vasoattive o altri composti.1-3

Nella maggioranza dei casi la HFP ha un andamento benigno con sintomatologia limitata, ciò causa una notevole sottostima dell’incidenza del fenomeno. Dal 1970 i paesi con il maggior numero di casi riportati sono il Giappone, gli Stati Uniti e il Regno Unito, ma probabilmente perché in questi paesi il sistema di notifica è il migliore.4,5

I casi riportati in Italia, invece, sono pochi e scarsamente documentati.6,7  Si ricordano:

-il focolaio di Palermo nel 1979, nel quale furono coinvolte 250 persone;

-il caso di Catania nel 1999, nel quale , delle 12 persone che avevano mangiato tonno cotto in casa, 7 presentavano sintomi riferibili a sindrome sgombroide;

-due casi gravi, registrati nell’arco di cinque giorni in un ospedale di Palermo nel 1996;

-12 episodi di avvelenamento diagnosticati nelle regioni Umbria e Marche nel quinquennio 1996-2001;

-un caso nel gennaio 2005 e due casi nel 2006 presentati all’Istituto Zooprofilattico Sperimentale dell’Umbria e delle Marche.

La diagnosi di ‘’scombroid syndrome’’ si basa sulla sintomatologia ( nausea, vomito, diarrea, vertigini, cefalea, rush cutaneo, disturbi respiratori e ipotensione) e sulla storia di recente assunzione di sgombroidi. L’inizio della sintomatologia è rapido (20-30 minuti dall’assunzione dell’alimento) e i disturbi, abitualmente di lieve entità, si risolvono in genere in meno di 24 ore. La mancanza di precedenti reazioni allergiche al cibo implicato dovrebbe indurre il medico ad escludere l’allergia. 8,9

L’analisi di materiale biologico (vomito, sangue, urine) degli intossicati è invece difficilmente ottenibile e di dubbia interpretazione (rapido metabolismo, diverse origini dell’istamina). La terapia della sindrome sgombroidea è basata sull’impiego di antistaminici.9

L’istamina e le altre ammine biogene sono sostanze azotate che si formano prevalentemente dalla degradazione (decarbossilazione) microbica di aminoacidi. I microrganismi coinvolti sono comunemente presenti nell’ambiente, pertanto le ammine biogene possono essere contenute in alimenti e bevande, ma la loro presenza è maggiore nei cibi a rapida deperibilità. Soprattutto se fermentati e ricchi di particolari amminoacidi, come pesci, carni, salumi, latticini e formaggi, succhi di frutta, vino e cacao. Non tutte le ammine biogene sono tossiche dal momento che alcune di esse svolgono importanti funzioni fisiologiche.10-13

tabellaHFP

La stessa istamina è ampiamente diffusa nell’organismo umano dove ricopre un ruolo di primo piano nelle risposte infiammatorie ed allergiche, nella secrezione gastrica ed in alcune attività cerebrali, ma può essere appunto causa di intossicazioni alimentari.

amminoacido istidina

amminoacido istidina

istamina

istamina

L’istamina deriva dall’istidina libera, presente in maggiore quantità nella muscolatura di alcune specie ittiche a carne rossa, a livello inter ed intracellulare, oltre che nel sangue. Le famiglie di pesci più a rischio sono : Scombridae (tonno, sgombro), Clupeidae (sardina, aringa, alaccia, cheppia), Engraulidae(acciuga). In queste specie l’amminoacido libero ha funzione di agente tamponante nel tessuto muscolare. Nel tonno , per esempio, si raggiungono livelli fino a 1500mg/100g di istidina libera. Oltre al substrato naturale di istidina libera, altro amminoacido libero può essere prodotto nei processi di proteolisi post-mortem dei tessuti. 1,6,14-16 Alcuni germi, di comune riscontro sulla cute dei pesci, nell’ambiente marino ed in quello terrestre (specialmente Proteus morgagnii, Escherichia coli, Klebsiella spp, ma anche Pseudomonas aeruginosa), sono in grado, tramite un enzima (istidina decarbossilasi) di trasformare, post-mortem, l’istidina presente nel tessuto muscolare delle specie ittiche anzidette, in istamina 14-16.

Il deterioramento batterico e la produzione di istamina possono avvenire in ogni fase della filiera alimentare e il mantenimento costante a temperatura inferiore a 4 C è la chiave nella prevenzione della crescita batterica e della formazione di istamina.17-19

Una volta prodotta, l’istamina tende a rimanere inalterata nell’alimento, in quanto ad oggi nessun trattamento tecnologico di preparazione quale la congelazione, l’affumicatura, l’inscatolamento, la cottura, portano alla distruzione della tossina, che risulta particolarmente resistente anche al calore: per una completa inattivazione è necessario un trattamento di 90 minuti a 116 °C. Inoltre la presenza di istamina, anche ad elevate dosi, non implica cambiamenti organolettici apprezzabili dell’alimento (alterazioni di odore o sapore) aumentando il rischio di intossicazione per il consumatore.17-19

Oltre a potenziatori interni (vedi negli Approfondimenti) , presenti nei tessuti del pesce, altre sostanze esogene e condizioni patologiche dell’individuo possono potenziare l’azione dell’istamina presente nel pesce, tra queste alcuni farmaci bloccanti della DAO, elevati livelli di alcool consumati durante il pasto di pesce, cirrosi epatica, sanguinamento del primo tratto dell’intestino, fermentazione batterica intestinale.20

Inoltre viene descritta una intolleranza all’istamina,cioè una elevata sensibilità all’istamina presente nei cibi. La causa principale dell’intolleranza è una bassa attività amminoossidasica per cause genetiche o acquisite.21

La sensibilità all’istamina infine è aumentata dal fumo di tabacco che riduce i livelli di monoamminoossidasi (MAO) fino ad inibirne l’attività.

La concentrazione di istamina nel pesce considerata sicura è inferiore a 50 p.p.m.; concentrazioni da 50 a 200 ppm sono considerate possibile causa di intossicazione in individui sensibili, concentrazioni nel pesce da 200 a 1000 ppm o superiori sono considerate tossiche.22-26

MAO= monoamminoossidasi, un enzima in grado di ossidare diverse monoammine e di ridurre l’ossigeno molecolare ad acqua ossigenata. Le MAO si ritrovano nel plasma, nei reni, nel cervello e soprattutto nel fegato dei mammiferi

DAO= enzima che attacca tanto le diammine che l’istamina con formazione di aldeidi. È presente nei reni, nell’intestino, nel fegato, nei polmoni e nel tessuto nervoso.

Per approfondire: http://it.wikipedia.org/wiki/Sindrome_sgombroide

Ulteriori approfondimenti dell’articolo  di C.Pellerito

Metodi di riferimento UE per l’istamina di C. Pellerito

BIBLIOGRAFIA

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2. Fred Fry, Ph.D, CFSAN. U.S. Food & Drug Administration Center for Food Safety & Applied Nutrition “Foodborne Pathogenic Microorganisms and Natural Toxins Handbook”, January 1992. http://www.cfsan.fda.gov/~mow/intro.html.

3. Morrow J.D., Margolies G. R., Rowland J., Roberts L.J.: Evidence that histamine is the causative toxin of scombroid-fish poisoning. N.Eng.J.Med. Vol. 324, No II, 1991. 8. Plantz Scott H. “Scombroid poisoning”. Medicine Consumer Journal, Volume 2, Number 8, August 22 (2001).

4. MMVR Epidemiologic Notes and Reports Scombroid Fish Poisoning — Illinois, South Carolina; MMVR March 10, / 38(9);140-142,147(1989) http://www.cdc.gov/epo/mmwr/preview/mmwrhtml/00001361.htm.

5. Scombroid Fish Poisoning Pennsylvania, 1998. Journal of the American Medical Association (JAVMA) vol .283 No.22,June 14, MMWR.;49;398-400 (2000).

6. Lanza V., Pignataro A., De Michele P., Passafiume M., Locatelli Del C., Bufera R. Intoxication of the month: scombroid syndromeEducational synopses in anesthesiology and critical care medicine,Italia,the online italian journal of anesthesiology vol 1 no 3 december (1996). http://mbox.unipa.it/~lanza/esiait/esiaing/eing9612.txt.

7. Rizzatti L. – Rizzatti E.: Tutela igienico sanitaria degli alimenti e bevande e dei consumatori, pag. 415, venticinquesima edizione, Il Sole 24 ore S.p.A. editore, settembre 1999.

8. Taylor S.L.: Histamine food poisoning: toxicology and clinical aspects. Crit Rev Toxicol 1986; 17(2): 91-128.

9. Taylor S.L., Stratton J. E., Nordlee J.A.. Histamine poisoning (scombroid fish poisoning): an allergy-like intoxication. Clin. Toxicology, 27, 225-240 (1989).

10. Anta Fernandez M., Bravo Gonzalez J. M., Fernandez Rozas S., Goffaux Gomex-caro O., Garcia-Castrillo Riesgo L (2001) Escombrointoxicaciòn por consumo de bonito. Emergencias 13:132-135.

11. Ayhan K., Kolsarici N., Ozkan G. (1999). The effects of a starter culture on the formation of biogenic amines in Turkish soudjoucks. Meat Science, 53, 3, 183-188

12 Costantini A, Vaudano E, Del Prete V, Danei M, García-Moruno E. (2009). Biogenic amine production by contaminating bacteria found in starter preparations used in winemaking. J Agric Food Chem 57:10664–10669

13. Durlu-Ozkaya F., Ayhan K., Vural N. (2001). Biogenic amines produced by Enterobacteriaceae isolated from meat products. Meat Science, 58,163-166.

14. Alini D. A., Bassoni M. S., Biancardi M., Magnani V., Martinotti R. G The scombroid syndrome (Histamine Fish Poisoning): a review, Istituto Zooprofilattico Sperimentale dell’Umbria e delle Marche
Webzine Sanità Pubblica Veterinaria: Numero 38 Novembre 2006 [http://www.spvet.it/]

15 Tiecco G.: Igiene e Tecnologia Alimentare, cap. 11, pagg. 462-470, Edagricole Bologna, copyright 1997.

16 Tiecco G.:Ispezione degli Alimenti di Origine Animale, cap. 7, pag. 555, Calderini Ed agricole Bologna, copyright 2000.

17. Kerr M., Lawicki P., Aguirre S., Rayner C. (2002). Effect of storage conditions on histamine formation in fresh and canned tuna. Public Health Division. Published by: Victorian Government Department of Human Services. Edition 1. www.foodsafety. vic.gov.au

18. Economou V., Brett M.M., Papadopoulou C., Frillingos S., Nichols T. (2007). Changes in histamine and microbiological analyses in fresh and frozen tuna muscle during temperature abuse Food Additives and Contaminants, 24(8): 820–832.

19. Arnold, S.H., Brown, W.D., 1978. Histamine toxicity from fish products. Adv. Food Res., 34, 113-154

20. Maintz, L., Novak, N. (2007). Histamine and histamine intolerance. Am. J. Clin. Nutr. 85, 1185–1196.

21. Ortolani C., Pastorello E.A. (2006). Food allergies and food intolerances. Best. Pract. Res. Clin. Gastroenterol. 20,467–483.

22.F.D.A., 1998. FDA and EPA guidance levels. In. Fish and Fishery Products Hazards and Controls Guide, 2nd Ed. Dep.t of Health and Human Services, Public Health Service, Food and Drug Administration, Center for Food Safety and Applied Nutrition, Office of Seafood, Washington, DC, pp. 245-248, Appendix 5

23. EFSA – Scientifi c Opinion on risk based control of biogenic amine formation in fermented foods. (2011). EFSA Journal 9(10):2393 [93 pp.]. http://www.efsa.europa.eu/en/efsajournal/pub/2393.htm

24.Ienistea, C., 1973. Signifiance and detection of histamine in food. In: Hobbs, B.C., Christian, J.H.B., (editors), The microbiological safety of foods, Academic Press, New York, pp. 327-343
Olley J., Baranowski J., 1985. Temperature effects on istamine formation. In: Histamine formation in marine products; production by bacteria, measurement and prediction of formation. FAO Fishery Technical Paper n° T 252, Food and Aricolture Organization of the United Nations, Rome, pp. 24-29
25.Pan, B.S., 1985. Histamine formation in canning processes. In: Histamine formation in marine products; production by bacteria, measurement and prediction of formation. FAO Fishery Technical Paper n° T 252, Food and Aricolture Organization of the United Nations, Rome, pp. 41-44

26.Saccani, G., Tanzi, E., 2004. Analisi di ammine e poliammine biogene. Laboratorio 2000, agosto-settembre, 58-63 www.lab2000.com/argomenti/labgen3.htm

Chi gli ha dato il nome? Winkler.

WINKLER LAJOS (1863 - 1939)

WINKLER LAJOS
(1863 – 1939)

a cura di Giorgio Nebbia, nebbia@quipo.it

Una delle più importanti analisi delle acque riguarda la misura della concentrazione di ossigeno disciolto, un parametro chimico utilizzato per caratterizzare l’idoneità delle acque alla vita per i pesci e altri esseri viventi. Le sostanze organiche inquinanti addizionate alle acque vengono decomposte dai microrganismi a spese dell’ossigeno disciolto. Alla temperatura di 20° C e a pressione atmosferica, una concentrazione di ossigeno nell’acqua dolce pari a 9,1 mg/L corrisponde al 100% di saturazione; valori inferiori al 75% sono indizio di inquinamento. La presenza di sali e la temperatura sono parametri da tenere in considerazione quando si abbia a che fare con corpi idrici naturali. Una misura dell’inquinamento è quindi offerta dalla valutazione della quantità di ossigeno richiesto per ossidare tutte le sostanze organiche; una diminuzione dell’ossigeno disciolto può provocare la morte di molte forme di vita nei laghi o nel mare

Il metodo più diffuso per la misura dell’ossigeno disciolto è stato per un secolo quello “di Winkler” che prende il nome non da quello del grande chimico tedesco Clemens Winkler (1838-1904), lo scopritore del germanio, lo studioso di analisi dei gas, ma da quello di un, ingiustamente meno noto, chimico ungherese, Lajos Winkler, (1863-1939).

Winkler, nato ad Arad, ottenne il diploma di chimica all’Università delle Scienze di Budapest dove lavorò col professor Karoly Than (1834-1908); nel 1889 ottenne il titolo di PhD e dal 1902 divenne lettore all’Università dove ha diretto per 25 anni l’Istituto di Chimica.

Winkler ha pubblicato molti libri e 400 articoli scientifici ed è stato uno dei fondatori del Giornale Ungherese di Chimica. Ha collaborato alla redazione della Farmacopea ungherese e nel 1922 è stato nominato membro dell’Accademia delle Scienze nell’Ungheria ormai stato indipendente. Dal 1964 ogni due anni una medaglia Lajos Winkler è assegnata ad uno studioso nel campo della chimica farmaceutica.

Fra i suoi studi si possono ricordare analisi gravimetriche, la determinazione dell’ammoniaca, l’analisi della acidità degli oli, l’analisi del cloro e dello iodio nelle acque.

Bottiglia di Winkler

Bottiglia di Winkler

Ma le ricerche più celebri risalgono alla determinazione dell’ossigeno libero nelle acque; il primo articolo fu pubblicato nel 1888, quando aveva appena 25 anni, come parte della sua tesi di dottorato nell’Università Pazmany Péter di Budapest, nei Berichte der Deutchen Chemischen Gesellschaft, vol. 21, pagine 28-43. Il metodo originale fu successivamente perfezionato. Studente e poi collaboratore di Winkler fu Rezso Maucha (1882-1962) che sarebbe diventato specialista di chimica delle acque e di limnologia, noto a livello internazionale per le ricerche sui processi di produzione, accumulo e decomposizione di esseri viventi nelle acque. In collaborazione col prof. Winkler, Maucha mise a punto metodi di analisi di altri gas e di sostanze chimiche disciolti nelle acque.

Come riconoscimento per la sua dedizione e il suo impegno nella chimica analitica e per le sue doti umane, al nome di Lajos Winkler è intestato un Istituto Tecnico chimico a Budapest.

Negli anni 80 dell’Ottocento, quando Winkler affrontò il problema, l’analisi dell’ossigeno disciolto nelle acque era un lavoro lungo e tedioso; il metodo inventato da Winkler era basato sulla osservazione che se si scioglie una piccola quantità di idrato sodico insieme a cloruro manganoso, l’idrato manganoso Mn(OH)2 così formato si trasforma, in presenza di ossigeno libero, in un ossido manganico che, dopo acidificazione e addizione di uno ioduro, provoca la formazione di iodio che può essere titolato con una soluzione di tiosolfato sodico

Col passare del tempo il metodo di Winkler ha subito alcune modificazioni che hanno permesso di farne il metodo ufficiale, sempre col nome di Winkler, di analisi dell’ossigeno disciolto nelle acque

Nella versione più recente, nel campione da analizzare si introduce del MnCl2 ed una soluzione alcalina formata da NaOH, NaI, e sodio azide NaN3: si forma un precipitato da metaidrossido manganico MnO(OH)2. Si addiziona poi acido fosforico che discioglie il precipitato e contribuisce all’ossidazione degli ioduri della soluzione alcalina liberando iodio. Questo viene determinato mediante una soluzione di tioslofato sodico Na2S2O3 a titolo noto e salda d’amido come indicatore. La concentrazione di ossigeno disciolto si esprime in mg/L o ppm

Con lo stesso metodo si misura la richiesta biochimica di ossigeno BOD. Dopo aver neutralizzato a pH 7 il campione da analizzare, se ne misura la concentrazione di ossigeno disciolto col metodo di Winkler entro 15 minuti. Un secondo campione viene introdotto in apposita bottiglia, chiusa ermeticamente, tenuta in bagno termostatico a 20°C al buio per cinque giorni, dopo i quali si misura la concentrazione di ossigeno disciolto ancora col metodo di Winkler. Il BOD5 si ottiene dalla differenza fra la concentrazione iniziale e quella finale di ossigeno, entrambe in mg/L, diviso il volume di liquido analizzato. Un’acqua non inquinata ha un BOD di qualche unità, un’acqua fortemente carica di inquinanti organici può arrivare a valori intorno a 300-500 mg/L. In questi casi ovviamente l’analisi viene fatta su campioni opportunamente diluiti.

Oggi per la misura della concentrazione di ossigeno disciolto vengono utilizzati altri metodi, ma quello di Winkler ha avuto un ruolo fondamentale nel campo della chimica delle acque,

Per concludere, una curiosità. Girovagando per Internet ho letto che in Calle Larga de l’Ascension a Venezia, c’è una lapide che ricorda il tenente colonnello garibaldino Lajos Winkler (1810-1861) della Legione Ungherese, costituita da dissidenti che reclamavano l’indipendenza dell’Ungheria dall’Impero Austroungarico. Winkler combatté in Italia negli anni 1848-49 per la libertà di Venezia, allora sotto lo stesso Impero. Questo Lajos Winkler è morto due anni prima della nascita del nostro chimico Winkler e quindi potrebbe essere stato suo nonno.

la lapide di Winkler (nonno) è quella a destra

la lapide di Winkler (nonno) è quella a destra

per approfondire: http://en.wikipedia.org/wiki/Lajos_Winkler

http://en.wikipedia.org/wiki/Winkler_test_for_dissolved_oxygen

http://serc.carleton.edu/microbelife/research_methods/environ_sampling/oxygen.html

Lajos Winkler (2388). “Die Bestimmung des in Wasser Gelösten Sauerstoffes”. Berichte der Deutschen Chemischen Gesellschaft 21 (2): 2843–2855. doi:10.1002/cber.188802102122.

McCormick, Patrick G. (1972). “The Determination of Dissolved Oxygen by the Winkler Method. A Student Laboratory Experiment”. The Journal of Chemical Education 49 (12): 839–841. doi:10.1021/ed049p839.

http://www.sasovits.hu/anyag/feltalal/winkler_l.htm

I metalli e lo stress ossidativo: il rame

a cura di Luigi Campanella

rameIl nostro organismo ha sviluppato nella sua evoluzione dei metodi di difesa molto complessi e delicati, ma queste difese non sono sempre efficaci al 100%, in particolare nell’eliminare i radicali liberi dall’organismo; esistono infatti delle situazioni, patologiche e non, in cui la produzione di radicali liberi aumenta in modo tale che la “barriera” di difese antiossidanti di ciascun individuo non è più in grado di neutralizzarli: si creano le condizioni di stress ossidativo. Il perdurare del rischio ossidativo, dovuto a queste molecole altamente reattive, può determinare delle reazioni a carico delle strutture cellulari che innescano processi di invecchiamento su tutti i tessuti (e che generano, tra l’altro, malattie della pelle, infiammazioni, perdita di elasticità dei vasi sanguigni e persino tumori), non immediatamente visibili, ma che si manifestano nel corso tempo. Sono sempre più numerosi gli studi di tecniche analitiche finalizzate alla determinazione del grado di stess ossidativo dell’organismo, attraverso la rilevazione della quantità di radicali liberi presenti nel sangue o in altri liquidi biologici. Proprio da questi studi è emersa una stringente correlazione tra l’aumento di radicali liberi e la presenza di diversi fattori scatenanti quali il fumo di sigaretta, lo stress psico-fisico, l’inquinamento ambientale, l’assunzione di farmaci, malattie (allergie, infiammazioni, infezioni, ipertensione, diabete, ecc.), l’eccessiva esposizione solare, regimi alimentari non bilanciati e diete dimagranti drastiche, e anche un’attività fisica molto intensa, inoltre l’uso della pillola contraccettiva e gli estrogeni utilizzati durante la menopausa. In tutti questi casi quindi si rende utile l’apporto esterno di agenti antiossidanti in grado di disattivare o stabilizzare i radicali liberi prima che attacchino la cellula, senza dimenticare che anche normali condizioni di salute non mettono completamente al riparo dallo stress ossidativo. L’efficienza del sistema antiossidante dell’organismo diminuisce fisiologicamente con l’età, e ciò conduce ad un aumento del rischio di patologie età-dipendenti.

Le sostanze vegetali rappresentano la principale fonte di sostanze antiossidanti, non solo per il loro contenuto vitaminico, ma soprattutto per la presenza di miscele complesse e uniche di composti chimici, come i flavonoidi e i polifenoli. Una dieta ricca di frutta e verdura può ridurre il rischio di patologie croniche e degenerative, non tanto in relazione alle vitamine contenute, ma al fitocomplesso di antiossidanti e all’azione concentrata di diversi composti chimici. Il rame, talvolta indicato come antiossidante, non possiede di per sé questa attività, ma è necessario per garantire la funzionalità dei sistemi antiossidanti dell’organismo; in bassissime concentrazioni (tracce) è necessario allo svolgersi delle normali funzioni metaboliche, ma è tossico a dosaggi superiori.

Il rame, grazie ai suoi due stati ossidativi, partecipa all’attività di metalloenzimi che trasferiscono elettroni (ossidasi): citocromo-ossidasi, tioloossidasi, DOPA ossidasi e superossido dismutasi. Risulta di conseguenza un elemento essenziale per il metabolismo energetico a livello cellulare, per la produzione di tessuto connettivo e per la sintesi di peptidi neuroattivi (catecolamine, encefaline). Partecipa alla catena respiratoria, nterviene nella sintesi dell’emoglobina (con il ferro) e nell’attività di cheratinizzazione e pigmentazione dei capelli e della cute. Ha inoltre influenza sulla funzionalità cardiaca. Il contenuto totale nell’organismo varia da 50 a 120 mg di cui 40% nei muscoli, 15% nel fegato, 10% nel cervello, 10% nel sangue ed il restante nel cuore e nei reni.

Il rame ingerito come solfato di rame incomincia ad essere tossico a partire da 10 mg/die. L’assunzione di rame con gli alimenti è molto meglio tollerata, ed è stato suggerito che la soglia di tolleranza  possa essere aumentata a 35 mg. In attesa di ulteriori verifiche le raccomandazioni europee suggeriscono di mantenere la soglia di tossicità a 10 mg/die (Commission of the european Communities, 1993).

Function and Regulation of Human Copper-Transporting  Physiol Rev 87: 1011–1046, 2007; doi:10.1152/physrev.00004.2006ATPases SVETLANA LUTSENKO, NATALIE L. BARNES, MEE Y. BARTEE, AND OLEG Y. DMITRIEV

Function and Regulation of Human Copper-Transporting Physiol Rev 87: 1011–1046, 2007; doi:10.1152/physrev.00004.2006ATPases
SVETLANA LUTSENKO, NATALIE L. BARNES, MEE Y. BARTEE, AND OLEG Y. DMITRIEV

Il rame è contenuto in maggiori quantità nel fegato e nel rene, nei molluschi ed in alcuni frutti (avocado, noci, nocciole, uva secca). In genere, una dieta equilibrata fornisce quantità adeguate di rame.

In Italia i livelli di ingestione giornaliera sono compresi tra 3 e 4.5 mg per persona al giorno (con punte di 5.3 mg per giorno in Lombardia). Gli alimenti che risultano le maggiori fonti di rame in Italia sono gli amilacei, la frutta, le carni, il pesce e le uova. Per i bambini, le raccomandazioni sono calcolate con metodo fattoriale sulla base del contenuto tissutale (1.38 microgrammi/g), delle perdite endogene e dell’assorbimento, stimando  nel 50% della quota ingerita. Si raccomandano livelli di ingestione che vadano da 30 microgrammi/kg/die per bambini di 1-6 anni a 18 microgrammi/kg/die per adolescenti di 15-18 anni di età (Commission of the european Communities, 1993).

Model for intestinal Cu absorption and peripheral distribution. From the following article Mechanisms for copper acquisition, distribution and regulation Byung-Eun Kim, Tracy Nevitt & Dennis J Thiele Nature Chemical Biology 4, 176 - 185 (2008) Published online: 15 February 2008 doi:10.1038/nchembio.72

Model for intestinal Cu absorption and peripheral distribution.
From the following article
Mechanisms for copper acquisition, distribution and regulation
Byung-Eun Kim, Tracy Nevitt & Dennis J Thiele
Nature Chemical Biology 4, 176 – 185 (2008) Published online: 15 February 2008
doi:10.1038/nchembio.72

I neonati prematuri di peso inferiore a 1500 g necessitano di maggiori apporti di rame, poiché non si è verificato l’accumulo di rame che copre normalmente il fabbisogno del bambino fino all’epoca dello svezzamento. Il livello raccomandato da un gruppo di esperti dell’OMS è di 80 microgrammi/kg/die.

In gravidanza si pensa che l’aumento del fabbisogno legato al feto sia ampiamente soddisfatto dagli alimenti metabolici materni. Non è pertanto necessario raccomandare assunzioni più elevate di quelle dell’adulto.

Il latte umano è particolarmente ricco di rame (0.22 mg/dl); durante l’allattamento si verifica un aumento dell’apporto di 0.3 mg/die per la produzione di 750 ml di latte al giorno, stimato nel 50% la quota assorbita dalla dieta.

Negli adulti, studi metabolici di bilancio non forniscono dati conclusivi sui fabbisogni di rame. Sembra però che il bilancio possa essere raggiunto  con quantità di circa 1.2 mg/die.

L’escrezione del rame viene attraverso le urine, il sudore, la bile. Il circolo enteroepatico e la modulazione dell’assorbimento intestinale concorrono al mantenimento dell’omeostasi dell’elemento.

Stati di carenza in rame sono stati osservati nell’infanzia in neonati pretermine, in lattanti alimentati con latte vaccino non modificato, in bambini malnutriti. Nell’adulto si rivelano casi di carenza in soggetti in nutrizione parenterale totale, nella malnutrizione proteico-energetica, in soggetti con dieta ricca di zinco e povera di proteine e con dieta particolarmente ricca di fibre.

Un’alterazione genetica con un alterato assorbimento e trasporto del rame è presente nella sindrome di Menkes, caratterizzata da un grave stato di carenza. Le manifestazioni carenziali sono: neutropenia, leucopenia, anormalità scheletriche (grave osteoporosi e fratture patologiche anche nell’infanzia), aumento della suscettibilità alle infezioni, soprattutto di tipo respiratorio, anemia nelle forme prolungate e severe. La carenza di rame può essere rilevata da basse concentrazioni plasmatiche di rame e di ceruloplasmina.

Non sono noti casi di tossicità di rame se non per ingestione volontaria o per accidentale contaminazione di bevande. Gli effetti della tossicità acuta sono l’emolisi intravascolare, la necrosi epatocellulare ed alterazioni a carico del tubolo renale. In caso di esposizione cronica a bevande contaminate da parte di tubazioni o di recipienti il rame si accumula nel fegato, provocando necrosi epatocellulare, insufficienza e cirrosi epatiche; sono particolarmente suscettibili neonati e bambini. L’assorbimento del rame introdotto con gli alimenti avviene al livello del tenue, tramite il legame con una metallotioneina; la quota assorbita è stimata tra il 35 e il 70%. L’assorbimento è favorito in condizioni di pH acido, è inibito dai fitati, dal calcio, da altri oligoelementi, in particolare dallo zinco, il cui metabolismo è legato a quello del rame.

ceruloplasminaIl rame viene trasportato in circolo per la maggior parte legato alla ceruloplasmina (90-95%): la concentrazione plasmatica normale è di circa 100  microgrammmi/dl. La ceruloplasmina partecipa all’ossidazione di numerosi substrati tra cui l’adrenalina, la serotonina, l’ascorbato, il Fe2+ (ossidato a Fe3+), il Mn+2 (ossidato a Mn+3), potrebbe inoltre agire da “scavenger” nei confronti dei radicali liberi nel plasma.

È stata valutata l’influenza del rame ione sulla capacità antiox; così nel caso di un antiossidante endogeno, il glutatione, e di tre esogeni, l’acido ascorbico (naturale), il trolox (analogo sintetico di un antiossidante naturale), il n-propilgallato (sintetico), attraverso la determinazione delle costanti di formazione dei complessi antiossidante/rame, si è cercato di interpretare il ruolo del metallo.

acido ascorbico

acido ascorbico

glutatione

glutatione

n-propil-gallato

n-propil-gallato

trolox

trolox

Gli antiossidanti citati sono leganti polidentati e coordinano il rame con formazione di complessi. La stabilità di questi complessi è definita quantitativamente dai valori delle costanti di formazione K. I valori di K sono stati determinati sperimentalmente, a 25 °C, in

presenza di perclorato di sodio 1M (elettrolita di supporto), con il metodo della voltammetria ciclica, seguendo una procedura classica riportata in letteratura. I complessi tra mole di rame ione e moli di agente chelante sono rispettivamente, 1:3 per l’acido ascorbico, 1:2 per il glutatione, 1:4 per il n-propilgallato, 1:2 per il trolox. Il rame è coordinato attraverso gli atomi di zolfo, di azoto del gruppo amminico, dell’ossigeno dei gruppi carbossilici del glutatione ed attraverso gli atomi di ossigeno dei gruppo ossidrilici e carbossilici di acido ascorbico, n-propilgallato, trolox. Gli alti valori di K (≥ 1010) indicano la formazione di complessi stabili a struttura ciclica. Peraltro si rileva che la scala del potere antiossidante e quella della stabilità dei complessi vanno nello stesso ordine e che i due antiossidanti più forti sono caratterizzati da un minore valore del rapporto metallo/legante.

L’effetto del rame sulla capacità antiossidante degli antiossidanti considerati risulta positivo: infatti i complessi risultano più antiossidanti dei complessanti da soli. Il rame ione, aggiunto alle soluzioni degli antiossidanti ad una concentrazione ≥ 10-3 mol/L, influenza – con correlazione lineare – la capacità antiossidante. Gli effetti più rilevanti si manifestano sugli antiossidanti esogeni n-propilgallato (sintetico) e acido ascorbico (naturale). Non appare una correlazione fra la stabilità dei complessi e l’incremento del potere antiossidante. Le differenze di stabilità sono relativamente modeste, ma se si considerano il trolox ed il n-propilgallato i cui complessi con il rame sono rispettivamente il più debole ed il più stabile fra quelli formati si vede che il rapporto massimo rmax fra la capacità antiossidante dopo e prima dell’aggiunta del rame è per entrambi intorno a 6. È quindi da prevedere che è sufficiente una complessazione mediamente stabile (K = 1010) per garantire una stabilità all’antiossidante e quindi una sua maggiore attività.

Antiossidante

Capacitò Antiossidante

rmax

[Sale di rame]=0 [Cu(NO3)2•3H20]=10-2 mol/L [CuSO4)
=10-2 mol/L
[CuCl2•2H20]
=10-2 mol/L
Acido Ascorbico 1.00 6.343 4.693 3.959 6.343
Glutatione 0.298 2.210 1.127 5.652 18.966
n-propilgallato 1.822 7.921 7.045 11.063 6.071
Trolox 1.020 2.948 5.793 1.694 5.679

per approfondire: http://it.wikipedia.org/wiki/Rame

http://en.wikipedia.org/wiki/Copper_in_health

Judith R Turnlund, Human whole-body copper metabolism Am J Clin Nutr May 1998 vol. 67 no. 5 960S-964S  scaricabile da http://ajcn.nutrition.org/content/67/5/960S.full.pdf+html

Quattrocento

a cura di Giorgio Nebbia, nebbia@quipo.it

Uno studio dell’Agenzia Europea per l’Ambiente, con sede a Copenhagen, apparso nei primi mesi del 2013, ha analizzato le emissioni nell’atmosfera dei gas responsabili dell’”effetto serra” (anidride carbonica, metano e altri gas che fanno peggiorare il clima planetario) nei vari paesi europei, ed ha concluso con una apparentemente buona notizia: l’Italia nel 2011 ha rispettato il “protocollo di Kyoto”[1], l’accordo internazionale firmato nel 1997 che impegna a diminuire le emissioni di “gas serra” ad un valore inferiore a quello del 1990.

kiotoitalia

roadmapitaliaLa diminuzione dei gas inquinanti provenienti dai tubi di scappamento delle automobili, dagli impianti di riscaldamento domestico, dalle centrali termoelettriche, dalle industrie e dalla stessa agricoltura deriva, in parte, dalla crisi economica, dalla chiusura delle fabbriche e dai minori consumi nazionali. Peraltro, anche con questa lieve diminuzione rispetto agli anni precedenti, la quantità di gas inquinanti immessa nell’atmosfera in Italia è ancora grandissima: circa 500 milioni di tonnellate all’anno; ogni anno, cioè, ogni italiano inquina l’atmosfera con una quantità di gas che è circa 150 volte il suo peso.

zeroimpronta

L’effetto negativo sul clima, l’aumento delle tempeste improvvise, della siccità, degli incendi boschivi, delle alluvioni, in Italia e nelle varie parti del mondo, dipende non tanto dalle emissioni annue, ma dalla quantità totale di “gas serra” presenti nell’atmosfera. Dipende, insomma, dalla concentrazione dei “gas serra” espressa in “parti per milione in volume” (ppmv).

L’atmosfera, nel suo complesso, contiene circa 5 milioni di miliardi di tonnellate di gas; le attività economiche umane basate sulla combustione di carbone, petrolio, gas naturale, immettono nell’atmosfera ogni anno oltre 30 miliardi di tonnellate di CO2. Fortunatamente non tutte restano nell’atmosfera: le piogge e la neve trascinano circa la metà di questi “gas serra” dall’atmosfera sulle terre emerse e negli oceani. Anche se questo continuo lavaggio dell’atmosfera fa però progressivamente aumentare l’acidità dell’acqua dei mari e degli oceani rendendola ogni anno più aggressiva nei confronti del carbonato di calcio che compone le conchiglie e i rivestimenti protettivi di molti animali marini e le isole coralline.

Comunque, nonostante le piogge e la neve, la massa di CO2, di origine umana, che si aggiunge ogni anno all’atmosfera del pianeta è di circa 15 miliardi di tonnellate. Per misurare l’effettiva variazione della concentrazione della CO2  nell’atmosfera bisogna tenere conto del peso specifico di ciascuno dei gas in gioco: una tonnellata di gas dell’atmosfera ha un volume di circa 750 metri cubi e una tonnellata di anidride carbonica ha un volume di circa 500 metri cubi, al livello del mare e alla temperatura media della Terra, cioè nelle condizioni in cui viene misurata la concentrazione, in ppmv, dell’anidride carbonica nella stazione di riferimento di Mauna Loa, nelle isole Hawaii. I dati di tale stazione confermano quanto si deduce dai precedenti numeri:

(15 x 109 x 0,75)/(5 x 1015 x 0,75) = 2 x 10-6

che cioè la concentrazione del principale “gas serra” nell’atmosfera sta aumentando di circa 2 ppmv all’anno: ogni anno di più, senza freno.

E qui arriva una cattiva notizia; la concentrazione di anidride carbonica CO2 è già arrivata, proprio in questi giorni, al valore di 400 ppm, un numero che preoccupa molto se si pensa che nel 1960, mezzo secolo fa, era di appena 315 ppm e che è in continuo aumento [2].

maunaloa

dati da mauna loa

dati da mauna loa

E’ l’aumento di tale concentrazione che influenza la quantità di radiazione solare che viene trattenuta nell’atmosfera terrestre e provoca il lento ma inesorabile aumento della temperatura media del pianeta (circa 15 gradi Celsius), la causa delle anomalie del clima.

Il processo è non solo irreversibile, ma destinato a far sentire sempre più i suoi effetti perché i grandi paesi inquinatori, come la Cina, l’India, gli stessi Stati Uniti, pur spaventati dalle conseguenze del peggioramento del clima, che si traduce in perdite monetarie di centinaia di miliardi di euro all’anno, non sono disposti a limitare i consumi di combustibili fossili. Che fare ?

Se ne sentono di tutti i colori, dalla proposta di filtrare e seppellire sotto terra l’anidride carbonica che esce dai camini, alle automobili elettriche che non inquinano le città, ma inquinano nelle centrali che producono elettricità. La vera speranza starebbe nell’uso di energia da fonti che non emettono nell’atmosfera i “gas serra”: il Sole o il vento che peraltro stentano a decollare a livello planetario e che difficilmente riusciranno a sostituire i combustibili fossili. Ogni tanto qualcuno propone la resurrezione dell’energia nucleare che produce elettricità senza “gas serra”, ma con disastrosi sottoprodotti radioattivi inquinanti.

Nessuno ha una ricetta convincente. Ed ecco che, dopo la “sostenibilità”, è stata inventata la “resilienza” o adattamento: le stagioni saranno sempre più bizzarre e imprevedibili ? Adottiamo coltivazioni adatte a climi più aridi, alziamo gli argini dei fiumi, allontaniamoci dalle coste, in vista dell’aumento del livello dei mari per la progressiva fusione dei ghiacciai. Tanto per evitare di affrontare le vere cause della crisi ambientale e climatica. Le quali affondano le loro radici in una limitata conoscenza dei, e attenzione ai, grandi cicli ecologi che si svolgono nel nostro pianeta e degli effetti che le attività umane hanno su tali cicli (vedi post precedente)

Le azioni che consentono di soddisfare, mediante alimenti, merci, mezzi di trasporto, le necessità di sette miliardi di terrestri inevitabilmente impoveriscono la fertilità dei suoli agricoli e le riserve di minerali e di combustibili; i successivi processi di produzione e di consumo irreversibilmente alterano la composizione chimica dell’aria, delle acque. dei suoli. Per rallentare tali alterazioni, che poi ci ricadono addosso sotto forma di anomalie nelle estati e negli inverni, di avanzata dei deserti e di tempeste improvvise, occorre chiedersi che cosa è veramente necessario, quali consumi sono essenziali o sono puri e semplici sprechi, indotti dalle raffinate arti della pubblicità.

Tornado-Oklahoma-City

Ovviamente non basta che ce lo chiediamo noi, come singoli cittadini, non basta che ne parliamo come docenti: occorre chiedere ai governanti di considerare che l’aumento della temperatura terrestre a causa dell’effetto serra, nel nome di un apparente vantaggio economico (di alcuni) provoca costi (monetari) e dolori in molti altri terrestri ed è una reazione a catena le cui conseguenze negative ricadranno ogni anno sia su altri abitanti del pianeta sia su quelli che verranno in futuro sulla Terra. Ricordando, come diceva il saggio capo Sioux, che riceviamo la Terra in eredità dai nostri genitori e che ai nostri figli lasciamo l’eredità dei nostri errori.

capoindiano

[1] (si veda EEA Report    No 6/2012 Greenhouse gas emission trends and projections in Europe 2012 – Tracking progress towards Kyoto and 2020 targets e http://www.fondazionesvilupposostenibile.org/f/Documenti/Dossier_Kyoto_2013.pdf)

[2] uptodatemaunaloa

Nicotina e neonicotinoidi: cosa hanno in comune fumo e insetticidi?

a cura di C. Della Volpe

Un collega, che mi è molto caro, mi faceva notare tempo fa che non capiva come mai i neonicotinoidi si chiamassero così visto che non assomigliano poi molto alla nicotina. Da quella domanda nasce questo breve articoletto.

La nicotina, 3-(2-(N-metilpirrolidinil))piridina,

nicotinaè una molecola chirale presente in natura con l’enantiomero S(-).  Essa è presente nella pianta del tabacco Nicotiana tabacum, che deve il suo nome a Jean Nicot, diplomatico ed accademico francese, che scrisse un dizionario della lingua francese nel 1606 e fu ambasciatore di Francia a Lisbona, da dove spedì nel suo paese, presso la corte del re di Francia, i semi della pianta, la pianta di Nicot, da cui la nicotina. Essa viene sintetizzata nelle radici della pianta e poi migra verso le foglie contribuendo (forse) alla difesa della pianta stessa dall’attacco degli animali; in realtà per questo come per molti altri alcaloidi naturali prodotti da piante e da animali (uno anche dall’uomo) non si sa esattamente a che ruolo assolvano. Comunque le azioni della nicotina sugli animali superiori sono complesse, tanto che se la pianta la usa come meccanismo di difesa, gli uomini da secoli la usano come stimolante ed eccitante.

La nicotina è inoltre presente in quantità minori in altri membri della famiglia delle solanacee, che includono il pomodoro, la patata, la melanzana ed il peperone, tali quantità sono così rilevanti che possono perfino interferire nell’analisi degli effetti del fumo passivo.

Contenuto di nicotina di alcune piante

Contenuto di nicotina di alcune piante da EF Domino NEJ of Med.

(da The Nicotine Content of Common Vegetables
NEnglJMed1993;329:437 August5,1993 DOI:10.1056/NEJM199308053290619)

La nicotina agisce sui mammiferi perchè è un agonista del recettore dell’acetilcolina, o meglio della 2-acetossi-N,N,N-trimetiletanamina, qui raffigurata come ione positivo (N-R4+)

acetilcolinaione

ione dell’acetilcolina

una sostanza base nella trasmissione dell’impulso nervoso nell’uomo e negli altri animali, sia nel sistema nervoso centrale che periferico. Esistono due tipi di recetttori per l’acetilcolina quelli di tipo muscarinico e quelli di tipo nicotinico.

Le molecole che interagiscono con i recettori possono avere un comportamento agonista od antagonista. Sono agoniste se una volta legate stimolano il recettore a fare quello che fa di solito, mimando il comportamento del ligando naturale, mentre sono antagoniste se una volta legate ne bloccano il funzionamento poichè dotate solo della capacità di legarsi ma non di quella di attivare il recettore.

La nicotina è in grado di avere una robusta azione sui recettori periferici ma anche su quelli centrali dell’uomo e degli animali superiori; l’azoto piridinico della nicotina è un donatore di elettroni simile all’ossigeno chetonico del gruppo acetilico dell’acetilcolina; la carica positiva dell’azoto quaternario del gruppo Ch in ACh è simile alla carica positiva dell’azoto pirrolidinico della nicotina (vedi immagine successiva tratta da Peter Jeschke e Ralf Nauen).

Tuttavia l’acetilcolina in forma ionica non attraversa la barriera ematoencefalica, ossia quel complesso di membrane lipidiche che proteggono i tessuti nervosi centrali e anche la nicotina carica non lo può fare; ma essa è presente sia pure in minore quantità come molecola non-carica al pH umano e quindi come tale può attraversare velocemente tale barriera ed aver di conseguenza contemporaneamente effetti sia centrali che periferici.

Dice F. Domino uno dei più noti studiosi del fumo del tabacco: “Many years ago, tobacco companies began to add ammonia-forming chemicals to tobacco cigarettes, using the basic concept of the Henderson-Hasselbalch equation. With an alkaline pH, nicotine is more unionized and, therefore, better able to penetrate lipophilic cellular membranes“.[Neuropsychopharmacology (1998) 18, 456–468. doi:10.1016/S0893-133X(97)00193-0 Tobacco Smoking and Nicotine Neuropsychopharmacology:
Some Future Research Directions Edward F Domino MD]

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il recettore acetilcolinico

Cosa sono e come funzionano i neonicotinoidi? Inventati dal laboratorio Shell di Modesto in California nei primi anni 70, ed immessi sul mercato nel 1991, 22 anni fa, oggi coprono un fatturato dell’ordine di un paio di miliardi di dollari, circa un sesto del mercato mondiale degli insetticidi. Essi sono attualmente il vero cash cow, la vera mucca da mungere di quel mercato, ed ecco perchè la reazione dei produttori alle critiche e soprattutto al bando europeo del loro uso è durissima, intaccando direttamente i loro profitti: faire le beurre!

Il termine neonicotinoide fu proposta per la prima volta da I. Yamamoto[Tomizawa M and Yamamoto I, Structure activity relationships of neonicotinoids and imidacloprid analogues. J Pestic Sci 18:91–98 (1993)] per differenziare queste nuove molecole dai “nicotinoidi”, a cui appartiene la nicotina.

I neonicotinoidi, definiti così poichè sono dei nuovi agonisti del recettore dell’acetilcolina di tipo nicotinico, si legano ai recettori stessi e ne causano una sovrastimolazione; inoltre essi non vengono distrutti dall’azione dell’enzima acetilcolinesterasi, deputato a distruggere l’acetilcolina ed a impedire i danni da sovrastimolazione; in questo modo i neonicotinoidi sono in grado di sovrastimolare i recettori in modo irreversibile portando a morte e a paralisi gli organismi. I tre neonicotinoidi più usati sono particolarmente attivi nei confronti dei recettori acetilcolinici di tipo nicotinico degli insetti, ma molto meno verso quelli umani o degli animali superiori e quindi sono uno strumento insetticida ottimale.

Le basi di tale selettività sono squisitamente chimiche e si aggiungono alle differenze nella composizione dettagliata del recettore fra le varie specie e nei vari tessuti della medesima specie. Potete notare che l’acetilcolina è rappresentata comunemente come ione positivo, poichè la forma attiva della molecola è proprio questo ione; tutti i suoi agonisti che manchino di una carica positiva in particolare sull’azoto pirrolico (o in posizione analoga) non possono quindi avere effetti altrettanto efficaci. La stessa nicotina in condizioni di pH fisiologico (7.4) ha l’azoto pirrolico carico positivamente; questa carica positiva dà a questi ioni una forte affinità per i recettori acetilcolinici-nicotinici dei mammiferi. D’altronde questa stessa carica rende tale molecola un insetticida efficace ma non particolarmente forte, in quanto per agire deve raggiungere i recettori acetilcolinici che negli insetti si trovano solo a livello di sistema nervoso centrale, mentre invece nei mammiferi essi si trovano anche nel sistema nervoso periferico, poichè controllano funzioni cruciali come la respirazione; la conclusione è quindi che mentre la nicotina che ha una carica netta esercita i suoi effetti intossicanti più efficacemente sul sistema nervoso periferico dei mammiferi (per esempio nei polmoni dei fumatori) essa non è in grado di attraversare che parzialmente la barriera ematoencefalica degli insetti ed agire sul loro sistema nervoso centrale e quindi non è un insetticida altrettanto potente. I neonicotinoidi invece non hanno carica netta; le tre molecole più comuni qui mostrate:

   clo  imida  thiame

                   clothianidin                         imidacloprid                                 thiamethoxam

non possiedono un azoto carico in posizione opportuna a livello del pH umano e quindi non sono carichi ed agiscono meno efficacemente sui recettori acetilcolinici umani; questo spiega la selettività dei neonicotinoidi, che si polarizzano ma non hanno carica netta nella posizione opportuna, come mostrato nella figura. A riprova di ciò il neonicotinoide desnitro-imidacloprid desnitroche invece viene caricato per azione del metabolismo dei mammiferi o delle reazioni ambientali è un forte agonista anche dei recettori dei mammiferi.

meccanismo

da Peter Jeschke e Ralf Nauen – Pest Manag Sci 64:1084–1098 (2008) Review Neonicotinoids – from zero to hero in insecticide chemistry

Per ulteriore chiarezza si possono confrontare gli effetti di due dei più potenti neonicotinoidi e della nicotina sulla mosca e sul topo in termini di LD50, ossia della dose per unità di peso corporeo in grado di uccidere metà dei soggetti a cui viene somministrato:

(dati da J. Agric. Food Chem. 2000, 48, 6016−6024 – Neonicotinoid Insecticides: Molecular Features Conferring Selectivity for Insect versus Mammalian Nicotinic Receptors
Motohiro Tomizawa, David L. Lee, and John E. Casida)

                                mosca casalinga  (microgrammi/g)                          topo(mg/kg)

imidacloprid                           0.02-0.07                                                     40-50

thiamethoxam                            0.03                                                          25-30

nicotina (-)                                 >50                                                             6-8

In conclusione, ma senza alcuna idea di rigore assoluto, i neonicotinoidi agiscono bene non perchè assomigliano molto alla nicotina, come potrebbe far pensare il loro nome, ma proprio perchè NON assomigliano completamente alla nicotina: non si caricano, ma proprio per questo costituiscono un buon strumento per superare la barriera ematoencefalica degli insetti che rallenta invece la nicotina come insetticida. Per il medesimo motivo la nicotina agisce invece sugli uomini che fumano, perchè pur superando solo debolmente la barriera emato-encefalica (dato che è carica al pH corporeo) agisce comunque sui recettori periferici; quindi come la nicotina intossica gli uomini che fumano agendo sui loro recettori acetilcolinici periferici (e solo in parte centrali), così i neonicotinoidi intossicano le api, ma agendo sui loro recettori acetilcolinici centrali: un caso veramente interessante, ammetterete, in cui la chimica accomuna e differenzia insieme due specie cosi’ lontane, ma per certi aspetti cosi’ vicine.

I neonicotinoidi costiituiscono un buon esempio di come la chimica possa comprendere ed agire sui meccanismi più intimi della vita; proprio per questo il loro uso indiscriminato puo’ avere potenti effetti su quegli insetti che attraverso il meccanismo dell’impollinazione garantiscono la fertilità di buona parte della nostra agricoltura (non solo le api quindi, ma anche i bombi per esempio e tutti gli altri impollinatori), un servizio economico per cui non sono pagati, ricordiamolo. In mancanza di questo servizio naturale noi non potremmo mangiare perchè una parte molto elevata delle piante da cibo sono impollinate dagli insetti.

In fondo in fondo, se ci pensate sospendere i neonicotinoidi per le api è come vietare il fumo agli uomini. La sospensione sia pur parziale e temporanea dei neonicotinoidi è al momento l’unica iniziativa ragionevole che possa salvare questi nostri preziosissimi collaboratori agricoli. Personalmente spero che la Commissione Europea non abbia ulteriori indugi. Spetterà ai chimici organici e farmaceutici trovare poi una nuova soluzione definitiva al problema.

per approfondire, oltre agli articoli citati nel testo:

http://it.wikipedia.org/wiki/Nicotina

http://it.wikipedia.org/wiki/Recettore_nicotinico

http://en.wikipedia.org/wiki/Neonicotinoid

Peter Jeschke e Ralf Nauen – Pest Manag Sci 64:1084–1098 (2008) Review Neonicotinoids – from zero to hero in insecticide chemistry

Le zone morte: 4.Il caso Bussi/Piano d’Orta: si a piazza Azoto, no alla discarica abusiva.

Bussi_sul_Tirino-Stemmaa cura di Giorgio Nebbia

Nel quasi totale disinteresse generale, nei giorni scorsi si è svolto a Santa Maria Capua Vetere (Caserta) un convegno organizzato dall’Osservatorio per le Politiche Ambientali della IIa Università di Napoli sulla ricerca delle fonti, cioè di archivi e documentazioni, per la storia dell’ambiente. Gli studiosi presenti (storici, ma anche chimici) hanno concluso con un appello rivolto alle istituzioni, alle imprese e soprattutto ai privati, a coloro che sono stati attivi nella denuncia e contestazione delle violenze ambientali, perché contribuiscano a salvare le testimonianze di tali eventi. Le persone che sono state attive nei movimenti ecologici e ambientalisti degli anni sessanta e settanta del Novecento sono ormai molto vecchie o sono morte.

Alcune fondazioni private, come la Fondazione Micheletti di Brescia, il Centro per l’ambiente e l’archivio Cederna a Roma, già da anni stanno raccogliendo libri e documenti e archivi prima che vengano dispersi o distrutti; gli archivi degli inquinatori o non esistono o sono difficilmente accessibili. Dovrebbero essere lo Stato o gli enti pubblici a raccogliere la documentazione sugli inquinamenti e sulle discariche di sostanze tossiche, tanto più che tali documenti sarebbero di grande utilità sia per le operazioni di difesa dell’ambiente e di bonifica dei siti inquinati, sia per le iniziative della magistratura alla ricerca delle responsabilità. I “casi” da considerare sono numerosi e coprono quasi tutti gli episodi della storia industriale italiana; da quelli celebri come Seveso o Marghera o Manfredonia o Taranto, a molti eventi minori ma altrettanto dannosi per l’ambiente.

Un esempio è offerto dai processi in corso contro i responsabili di una discarica di rifiuti tossici industriali a Bussi, un piccolo centro abruzzese sul fiume Tirino, un affluente del fiume Pescara.

Nelle strette valli del bacino idrografico Aterno-Pescara, che raccoglie le acque dei vicini massicci montuosi e le porta fino al mare, vicino la città di Pescara, sono sorte varie centrali idroelettriche la cui energia (era chiamata il ”carbone bianco” nazionale, in un paese privo di carbone) ha attratto, all’inizio del Novecento, le prime industrie chimiche italiane. Sono così sorti, quasi contemporaneamente, in provincia di Pescara, i poli industriali di Bussi sul Tirino e, a una diecina di chilometri più a valle, di Piano d’Orta, alla confluenza del torrente Orta col Pescara. Per inciso qui ha funzionato, dal 1870 al 1890, una piccola raffineria di petrolio estratto dai giacimenti locali.

A Piano d’Orta (da non confondere con il Lago d’Orta, in Piemonte, sulle cui rive sorse una fabbrica della fibra artificiale “bemberg”, che ha inquinato il piccolo lago con scarichi di rame e ammoniaca) nel 1901 fu installata una fabbrica di acido solforico partendo dalla pirite della Maremma, e di concimi fosfatici; qui fu installata la prima fabbrica italiana, la seconda nel mondo, del concime azotato calciocianammide. Seguirono molte altre produzioni chimiche, anche di interesse militare, tanto che Piano d’Orta subì 36 bombardamenti durante la seconda guerra mondiale. Gli impianti furono portati via dai tedeschi nel 1944, la fabbrica fu poi ricostruita ma fu chiusa nel 1965 e ora posta sotto sequestro.

Panorama Montecatini

dall’archivio privato Marulli e da http://www.pianodorta.it

Di questa lunga storia di lavoro a Piano d’Orta resta la testimonianza nel nome della Piazza Azoto, credo l’unica al mondo intestata ad un elemento chimico, e nel nome del locale “Teatro Pirite”. Ci furono anche inquinamenti e nel 1909 un agricoltore fece causa alla società chimica perché la sue viti erano danneggiate dai fumi contenenti acido fluoridrico. Una diecina di chilometri più a monte, a Bussi, nei primissimi anni del Novecento, attratte anche qui dalle centrali idroelettriche, furono installate fabbriche elettrochimiche che produssero idrato di sodio e cloro, poi prodotti clorurati come gas asfissianti durante la prima e seconda guerra mondiale, poi concimi artificiali azotati.

piazzaazoto

Piano d’Orta, Piazza Azoto

Dopo la seconda guerra mondiale a Bussi sono stati prodotti diecine di prodotti chimici, per lo più derivati del cloro e metalli tossici, per milioni di tonnellate. E, purtroppo, molte scorie e residui tossici sono stati smaltiti in due discariche di centinaia di migliaia di metri cubi. La scoperta di queste discariche avvenne nel 2007 ad opera del Corpo Forestale dello Stato e ne sono seguiti denunce e processi e impegni per la bonifica, finora senza esito. Le sostanze tossiche colate da queste discariche hanno inquinato le acque del Pescara e delle falde idriche sotterranee che alimentano gli acquedotti di Chieti e Pescara e di molti altri paesi; alcuni inquinanti sono prodotti cancerogeni presenti in quantità superiori ai limiti massimi ammessi dalle leggi.

Il “caso Bussi” è stato denunciato anche in importanti trasmissioni televisive nazionali, come quelle di Michele Santoro nel maggio 2008 e di Milena Gabbanelli nel dicembre 2012. Per ora la più grande delle discariche è stata coperta con dei teli, ma i veleni continuano a fuoriuscire e a correre a valle. Per migliori informazioni, anche ai fini delle bonifiche, occorrerebbe conoscere quali prodotti sono stati fabbricati a Bussi e Piano d’Orta del corso di un secolo, quali materie sono state trattate. Studiosi locali hanno raccolto e rese pubbliche molte notizie, ma questa pagina poco nota della storia industriale e ambientale italiana meriterebbe ben maggiore attenzione. Di qui l’importanza del lavoro degli storici, a cui si faceva cenno all’inizio.

Nota del blogmaster: questo articolo è comparso su http://www.fondazionemicheletti.it/nebbia/sm-3552-bussi-2013/

Il punto sul REACH

a cura di Luigi Campanella, ex presidente SCI

La proposta della Commissione Europea del Regolamento “R.E.A.Ch.” prevede la registrazione, la valutazione, l’autorizzazione e l’eventuale restrizione di oltre 30.000 sostanze chimiche. La sua implementazione coinvolge in Italia oltre 2.000 Imprese Chimiche e della Distruzione Chimica e oltre 500.000 imprese di trasformazione industriale: la sua applicazione richiede l’effettuazione di test previsti dalle procedure del R.E.A.Ch. Particolare attenzione è quindi data ai test alternativi il cui utilizzo è richiamato dal regolamento stesso e fortemente sostenuto in Unione Europea.

reachDunque il R.E.A.Ch. è ormai alle porte! Prepararsi per tempo è quindi un obiettivo prioritario delle Imprese, che dovranno sin da ora confrontarsi sulle analisi necessarie, sui meccanismi decisionali da prendere e sulle procedure da adottare, per affrontare con successo il R.E.A.Ch. nei prossimi anni e mantenere la Competitività Sostenibile del Sistema Industriale Operante in Italia.

Al fine di verificare le sostanze che saranno soggette a registrazione si deve effettuare un primo screening per escludere quelle che possono già essere esentate dalla registrazione in base ad alcuni criteri generali descritti nella proposta finale del regolamento:

–       sostanze prodotte/importate a meno di 1 t/anno;

–       verifica dell’art. 2, scopi;

–       sostanze già notificate secondo EEC 67/548 (EEC 92/32, D.Lgs. no. 52/97);

–       sostanze contenute negli allegati II, III;

–    sostanze contenute in articoli ma non rilasciate e/o non considerate capaci di provocare un rischio;

–       sostanze contenute in preparati secondo criteri specifici;

–       polimeri;

–       particolari classi di intermedi (non isolati);

–       sostanze in regime di esenzione finalizzata al processo R&D.

Una volta ottenuta questa prima scrematura, che prevede un’argomentazione specifica per ogni sostanza si può ottenere la lista delle sostanze soggette a registrazione. Queste sostanze sono quindi soggette a pre-registrazione da parte delle aziende.

Il secondo momento prevede la creazione di una banca dati per ciascuna sostanza al fine di verificare sulla base dei dati disponibili il programma sperimentale ancora da affrontare. La finalità è altresì quella di identificare, se possibile, le sostanze che procederanno nella fase di autorizzazione.

È un punto molto importante per le eventuali strategie da adottare nel caso di restrizione di uso, di autorizzazioni per un periodo limitato e soprattutto al fine di costruire un badget di spesa da distribuire nel periodo di registrazione

Per ogni sostanza quindi si deve:

–       verificare il tonnellaggio di commercializzazione (1 – 10 – 100 – 1.000 t/anno) per organizzare i tempi di registrazione;

–       verificare i dati di sicurezza in possesso (tossicologici, eco-tossicologici, chimico-fisici) e la loro validità (GLP, pubblicazioni scientifiche, dati epidemiologici ecc.); stabilire il loro valore regolatorio ed economico; procedere eventualmente con ricerche su banche dati;

–       verificare come la sostanza possa essere connotata e quindi soggetta a fase si autorizzazione;

–       verificare se la sostanza possa avere effetti specifici e quindi essere soggetta a fase di autorizzazione;

–       verificare gli usi della sostanza presso gli utilizzatori finali e gli scenari specifici di esposizione (uomo, ambiente). È una fase molto importante per la definizione del relativo Risk Assessment;

–        verificare per ogni sostanza se la propria azienda è fornitrice (lista dei clienti) o utilizzatore finale (lista dei fornitori); se la ditta di connota come utilizzatore finale verificare se si proceda con usi diversi da quelli previsti dal fornitore, condizioni che presuppone una registrazione propria della sostanza;

–       verificare la completezza delle schede di sicurezza e l’eventuale presenza di una valutazione del rischio già effettuata.

In particolar modo la valutazione dei dati disponibili sarà fondamentale per le seguenti finalità:

–       i dati servono nella pre-registrazione;

–       i dati possono divenire un valore economico se devono essere condivisi nei consorzi;

–       i dati possono servire ad identificare le sostanze sospette;

–       i dati possono servire per identificare alcune sostanze con effetti specifici.

In generale si  procede con una sorta di lista di pericolosità delle sostanze sulla base della quale programmare gli ulteriori studi.

reachIl sistema R.E.A.Ch. si basa su quattro elementi:

–       Registrazione

–       Valutazione

–       Autorizzazione

–       Restrizioni.

La procedura delle restrizioni offre una garanzia di sicurezza supplementare in quanto, prescindendo dal limite quantitativo di 1 ton/anno, consente di far fronte ai rischi che non siano stati presi in sufficiente considerazione dagli altri elementi del sistema R.E.A.Ch. Essa rappresenta la trasposizione nel R.E.A.Ch. delle disposizioni della Direttiva 76/7 69/CEE. La restrizione può essere emanata con procedura rapida, ma può anche dipendere dalle conclusioni della valutazione.

Le sostanze che non figurano nel registro non potranno essere commercializzate nell’Unione una volta scaduto il termine previsto dalla normativa. È stato adottato il principio si sostituzione delle sostanze a rischio (es. cancerogene e mutagene) con alternative “più sicure, se disponibili”: in caso contrario occorrerà controllarne l’uso.

È chiaro che l’uscita dal mercato di un composto e di tutti i prodotti che lo contengono è un fatto industrialmente traumatico in quanto presuppone non soltanto il ritiro dal mercato dei pezzi venduti, ma anche l’interruzione del ciclo produttivo e la ricerca di prodotti sostituenti mutuabili per proprietà a quelli ritirati.

Ciò suggerisce di dare assoluta priorità alla individuazione, se possibile, di questi composti per avere più tempo davanti per pensare alla loro sostituzione.

La valutazione della sicurezza di un prodotto chimico deve tenere conto dei seguenti effetti della sua produzione o del suo utilizzo:

1)     sulla salute umana (tossicità acuta, sensibilità, cancerogenicità, mutagenicità, e tossicità per la riproduzione);

2)     sull’uomo dei rischi potenziali delle sostanze chimiche (esplosività, infiammabilità r potere comburente);

3)     sull’ambiente (sul sistema acquatico, terrestre, atmosferico ed anche su sedimenti), sull’attività microbiologica, sui sistemi di trattamento delle acque e sul potenziale di accumulo nella catena alimentare;

4)     di bioaccumulo e di persistenza nell’ambiente di sostanze tossiche;

5)     il meccanismo ed il livello di valutazione dell’esposizione (deve essere esaminato ogni scenario di dispersione dei prodotti chimici e per ognuno di questi occorre stimare le emissioni, il destino chimico e la natura dei prodotti di trasformazione e di degradazione);

6)     la valutazione dei rischi (chemical risk assessment and management).

Analisi del rischio vuol dire non solo valutare tossicità, ecotossicità e bioaccumulo, ma anche le potenziali esposizioni a seconda del diverso uso dei prodotti.

Per un’analisi del rischio è necessario quindi conoscere le seguenti informazioni:

1)    le categorie di uso (se il prodotto sarà utilizzato in ambito industriale, professionale o da consumatore) e se sarà usato in sistemi chiusi, inglobato in matrici o usato in maniera dispersiva o non dispersiva;

2)    le categorie d’esposizione: umana (per inalazione, cutanea e orale) ed ambientale (acqua, suolo e aria);

3)    le durate di esposizione (accidentali, occasionali, ripetute e frequenti).

Altri effetti nocivi che è necessario conoscere sono gli effetti sulla riduzione dell’ozono, sulla creazione fotochimica di ozono, sulla distruzione del sistema endocrino e sull’effetto serra.

È necessario che le aziende descrivano quali siano le misure da prendere per proteggere gli uomini e l’ambiente dall’uso di determinati prodotti. Inoltre per ogni sostanza occorre conoscere tutte le informazioni che usualmente sono riportate nelle schede di sicurezza che sono, oltre a quelle tossicologiche, quelle di ecotossicità ed i dati chimico-fisici, la conoscenza delle misure da prendere nel caso di incendi, nel caso di rilasci accidentali, nella manipolazione e nello stoccaggio, le informazioni sul trasporto e sullo smaltimento, di pronto soccorso, di protezione individuale contro l’esposizione ed infine i dati di stabilità e reattività.

Il progetto europeo R.E.A.Ch. comporta la messa a punto e l’applicazione di analisi e determinazioni finalizzate a tale regolamentazione.

I recenti esiti della ricerca scientifica spingono verso metodi alternativi, efficaci ed economici, che consentirebbero di portare a termine il progetto R.E.A.Ch. in tempi brevi e a costi di gran lunga più bassi rispetto a quelli previsti nel caso si adottassero i metodi di sperimentazione animale (alcune cifre sui costi previsti della sperimentazione che provengono dal National Toxicology Programme statunitense mostrano che testare una sola sostanza costa tra i 2 e i 4 milioni di dollari e richiede un tempo medio di almeno tre anni), per di più salvando migliaia si animali/cavie.

Quali sono questi test alternativi?

Quelli basati sulla tossicogenomica, capaci di misurare l’impatto dei progetti di sequenza di interi genomi sullo studio dell’interazione tra geni e risposta a tossici: Clonaggio posizionale e sottrattivo, tecniche di sequenza genetica, tecniche ad alta risoluzione per lo studio dei polimorfismi (SNP); associazione tra polimorfismi genetici, espressione genetica e predizione di suscettibilità; riferimento a organismi modello nello studio dei meccanismi di risposta a tossici; nuove tecniche di genomica funzionale applicate allo studio dei meccanismi cellulari di azione e resistenza a sostanze tossiche: DNA microarrays, chip a DNA, Analisi Seriale dell’Espressione Genica (SAGE).

Microarray2il DNA MICROARRAY applicato per stabilire se un agente chimico sia in grado di danneggiare l’organismo, al fine di rispondere alla seguente domanda: “l’agente altera l’attività dei geni nelle cellule in modo tale da causare o riflettere un danno cellulare?” utilizza un protocollo che disponendo di un microarray o chip, contenete DNA a singolo filamento, ne misura l’alterazione per esposizione a tossici quantificando ogni variazione di attività genica indotta dal composto.

L’inaffidabilità e le incertezze che ai fini di R.E.A.Ch. possono accompagnare i risultati di test basati su sperimentazione animale, a causa dell’influenza genetica che è alla base della risposta, suggeriscono anche altre alternative.

Il test di citotossicità – ad esempio – permette di valutare il danno arrecato dall’esposizione ad un agente chimico alla capacità replicativa delle cellule. I delicati meccanismi che presiedono la replicazione cellulare rispondono in modo assai più fine di test che basano la valutazione della tossicità di un composto su un danno strutturale della cellula, che è una risposta al danno di tipo “on-off”.

Un altro aspetto che vale la pena di ricordare riguarda il fatto che la maggior parte dei test in vitro analizza l’attività genotossica dei composti chimici: questi saggi, però, possono essere utilizzati con successo solo nell’analisi di quei composti chimici in grado di indurre un danno evidente al DNA, così da agire come inizianti nel processo multifasico di cancerogenesi.

Nell’ambiente appare significativo il contributo delle sostanze promoventi, sostanze cioè in grado di contribuire al processo di cancerogenesi mediante meccanismi non genotossici (detti EPIGENETICI). Una sostanza promovente è in grado di selezionare singole cellule o piccoli foci di cellule la cui struttura genica risulti in qualche modo alterata (cellule iniziate) inducendo dapprima la proliferazione di aree focali di cellule trasformate e quindi innescando nel tempo un processo di “progressione” tumorale che diventa nel tempo irreversibile.

Il test di trasformazione cellulare in vitro su cellule è in grado di discriminare tra sostanze inizianti e promoventi. È quindi possibile indagare l’attività di una sostanza ritenuta promovente esponendo cellule “iniziate” da dosi sub-trasformanti di un cancerogeno noto alla presunta azione promovente di un agente chimico.

IMG_LP5_AZ3Il test di trasformazione utilizzato da anni come test di screening per le sostanze a presunta attività cancerogena, particolarmente duttile ed idoneo ad identificare il potenziale cancerogeno di miscele complesse, come quelle ambientali.

Dotato di una elevata concordanza con i test di cancerogenesi nell’animale, il test di trasformazione rende anche possibile la valutazione delle capacità inizianti e/o promoventi di agenti chimici.

Il test di crescita in soft-agar indaga la capacità delle cellule di formare colonie in assenza di adesione al substrato: la capacità di formare colonie in terreno semi-solido è generalmente utilizzata come indice di trasformazione neoplastica connessa alla tumorigenicità.

La chimica può contribuire significativamente alla messa a punto di test affidabili ed al tempo stesso che non richiedano tempi tanto lunghi da dilazionare molto in avanti l’applicazione dei contenuti del R.E.A.Ch.. La chimica offre l’opportunità di metodi che attraverso una preliminare fase di screening ed una successiva fase di test, con la individuazione di indici marker significativi consentano – anche attraverso l’impiego di composti di riferimento per modulare le scale per l’ordine di classificazione dei composti testati – di potere assegnare ad ogni composto una sorta di coefficiente di probabilità ad essere sostituito, che faccia emergere le urgenze più significative. La ecotossicità, la bioaccumolabilità e la ecopermanenza sembrano criteri marker significativi finalizzati alla definizione di tali graduatorie. In questo senso strumenti operativi messi a punto dal proponente e finalizzati allo scopo indicato sono:

1)    biosensori respirometrici e fotosintetici che valutano la tossicità sulla base dell’effetto del composto testato sulle capacità respiratorie di cellule aerobiche (lieviti, ad esempio) e quelle fotosintetiche di cellule algali;

2)    i test di bioaccumulazione su tessuti vegetali diversi;

3)    i fotosensori di ecopermanenza basti sulla misura ai fini della valutazione di questa, della recalcitranza a processi fotodegradativi catalizzati da TiO2 e monitorati in continuo attraverso la misura del potenziale superficiale.

Salviamo le api, ma senza demagogia!

a cura di C. Della Volpe

La vicenda del bando dei tre principali neonicotinoidi proposta dal commissario europeo Tonio Borg continua; ne avevamo parlato qualche mese fa su questo blog, raccontandone la storia (ilblogdellasci.wordpress.com/2013/02/04/tonio-le-api-e-la-chimica) e analizzando vari aspetti sia tecnico-scientifici che economici; nel frattempo le cose sono andate avanti con due votazioni nella commissione europea degli esperti che sono interessanti da analizzare ed alcuni documenti e prese di posizione di Green Peace, il noto movimento ambientalista, che si batte da anni sulle tematiche ambientali.

Il punto di partenza sono i tre corposi reports con cui EFSA (European Food Safety Authority) nel gennaio scorso ha espresso un parere motivato sugli effetti tossici che i  tre principali neonicotinoidi in commercio hanno sulle api (e probabilmente anche sugli altri impollinatori selvatici, da cui dipendono parte significativa delle nostre colture alimentari) in almeno alcune delle loro più comuni applicazioni. Su tale base il commissario Tonio Borg ha proposto la  loro sospensione cautelativa per un biennio. Su questa decisione la procedura è la seguente: i trattati europei stabiliscono che gli Stati, in seno al Comitato di esperti nazionali, votino su come procedere. In caso non si deliberi a maggioranza qualificata, la decisione finale passa alla Commissione Ue – organo esecutivo dell’Unione – che chiude il dossier sulla base delle rilevazioni di natura tecnica.

Dopo la proposta di Borg ci sono state due votazioni i cui risultati sono stati simili ma non identici; infatti nella prima tenutasi il 15 marzo si ebbero 13 paesi a favore (fra cui l’Italia), 9 contrari e 5 astenuti. fra cui Germania e Inghilterra; a questo punto si è scatenata una campagna di lobbying in cui si è vista da una parte l’industria produttrice dei neonic, ossia Bayer e Syngenta principalmente che hanno continuato a sostenere che i loro prodotti non c’entrano nulla, che la responsabilità è dell’acaro Varroa se le api hanno problemi (e gli altri impollinatori?) e che non bisogna usare il principio di precauzione senza bilanciarlo col principio di proprozionalità e dall’altra i movimenti ambientalisti fra cui in prima fila GreenPeace, che ha pubblicato un corposo ed approfondito documento sulla questione delle api e dell’impollinazione dei selvatici che potete trovare in rete (http://www.greenpeace.org/italy/Global/italy/image/2013/rapporti/Api_in_declino.pdf). Una seconda votazione si è tenuta il 29 aprile ed ha visto un incremento del numero di favorevoli al bando, ma ancora senza raggiungere la maggioranza qualificata; in particolare 15 Stati hanno votato a favore, 7 contrari, 4 gli astenuti. L’Italia che aveva espresso posizione favorevole nel voto precedente si è opposta; gli inglesi che si erano astenuti si sono opposti. A favore invece Germania, Bulgaria ed Estonia, che l’ultima volta s’erano astenute; inoltre, non si sono pronunciate Grecia e Irlanda, che il 15 marzo avevano votato contro. Alla luce del voto, la Commissione dovrebbe ufficializzare la messa al bando a stretto giro; vedremo.

Il documento di GreenPeace è molto dettagliato e cerca di rappresentare la situazione mondiale; non mi sembra un documento partigiano.

Evidenzia correttamente che tra l’altro “allo stato attuale non c’è la disponibilità di dati precisi per raggiungere conclusioni definitive sulla condizione degli impollinatori a livello globale”; che  “poiché la richiesta di insetti impollinatori – sia a livello locale che regionale – aumenta più rapidamente della disponibilità, potremmo trovarci di fronte a una limitazione dell’impollinazione nel prossimo futuro. Questo perché l’incremento della produzione di alimenti, direttamente o indirettamente dipendenti dall’impollinazione, è superiore alla crescita della popolazione globale di api domestiche. Con l’espandersi dell’agricoltura di tipo intensivo, anche il servizio di impollinazione garantito dagli impollinatori selvatici è a rischio a causa della perdita e della riduzione della diversità degli habitat. “e che “l’abbondanza delle popolazioni di api è molto differente tra le diverse regioni agricole”.

Insomma un documento condivisibile che spinge sulla necessità di fare ricerca sul tema e che mi sento di criticare in un solo punto ma secondo me importante: l’uso ripetuto dell’aggettivo chimico in modo improprio che rivela forse qualcosa d’altro; frasi come: ” maggior utilizzo di fertilizzanti chimici,” oppure “D’altra parte i sistemi agricoli che incrementano la biodiversità e non impiegano prodotti chimici” o ancora “nelle comuni pratiche agricole basate sull’uso intensivo di prodotti chimici” che culmina in:

“Ogni passo avanti per trasformare l’attuale modello agricolo – altamente dipendente dalle sostanze chimiche – in un sistema di agricoltura ecologica avrà molti benefici sia a livello ambientale che in riferimento alla sicurezza alimentare, a prescindere dai vantaggi evidenti per lo stato globale degli insetti impollinatori.”

In tutti questi casi il termine giusto è “di sintesi” non chimico e non sembri questa nota una nota esclusivamente filologica; mi dovrebbero spiegare gli amici di Green Peace come altro che con sostanze chimiche si possa mantenere la fertilità del suolo; anche l’agricoltura biologica avrà bisogno di trovare nel terreno i nutrienti necessari che sono mi risulta sostanze chimiche; posso condividere, anzi condivido senz’altro  l’idea che saranno esse  sostanze chimiche NON di sintesi, ma eventualmente di riciclo come i fosfati ed i nitrati provenienti dalle acque reflue e che devono essere riciclate con metodi efficienti e non più estratte a milioni di tonnellate dall’atmosfera o dai depositi fosfatici; nei due cicli dell’azoto e del fosforo siamo oggi il player planetario più importante e dominiamo con la nostra produzione di sintesi che non è bilanciata dai processi di riassorbimento il ciclo totale (si veda a questo proposito il mio recente post: https://ilblogdellasci.wordpress.com/2013/04/22/bilanci-di-materia/).

Pensare che si possa nutrire la popolazione mondiale con una agricoltura che non usi sostanze chimiche di alcun tipo è  privo di senso; senza chimica non ci sono le piante, la vita è in fondo una reazione chimica. Anche la necessità di nutrire 7 e più miliardi di persone non puo’ essere affrontata senza almeno riciclare e riusare il fosforo e l’azoto che in qualunque forma avranno raggiunto il suolo e le piante e siano entrati nel nostro cibo. Non sto qui a discutere sul confronto tra agricoltura “chimica” e biologica; le parole sono pietre e sono spesso inesatte; entrambe sono procedure chimiche, solo che la prima usa prodotti di sintesi e non li ricicla, non bilancia il ciclo né del fosforo né dell’azoto, usa quantità strabbocchevoli di energia da fossile: questo è il vero problema attuale, mentre la seconda da qualche parte e in qualche forma dovrà essere in grado non solo di produrre per tutti, ma di chiudere il ciclo di azoto e fosforo. Una agricoltura comunque basata e in grado di nutrire l’umanità dovrebbe in qualche modo far ritornare attivamente nel suolo i materiali che ne sono usciti sotto forma di cibo; il riciclo dei reflui umani ed animali, già auspicato da Liebig, è uno degli strumenti possibili e necessita di ampi investimenti di ricerca e di processo per rendere possibile il recupero di P ed N e dei microelementi, che attualmente i reflui non processati non sono in grado di trattenere o che diventano al limite fanghi pericolosi da discarica.

Ridurre la quota di carne, eliminare o ridurre gli sprechi alimentari, ridurre la quota di energia per la coltivazione e il trasporto del cibo incrementando il consumo di cibo “a chilometri zero” laddove possibile, ridurre fortemente il consumo di acqua minerale in bottiglia, tutte cose perfettamente fattibili senza sconvolgere, ma solo razionalizzando il nostro modo di mangiare, insomma il cibo NON come merce, ma come diritto alla vita, (un miliardo di uomini soffre la fame nonostante la rivoluzione verde!) l’agricoltura mondiale come strumento di giusta remunerazione per  il lavoro dei contadini; ed infine scegliere le tecniche agronomiche più adatte ad una agricoltura rispettosa dell’ambiente  e della biodiversità e che chiuda i cicli che apre.

In questo quadro lo slogan giusto non è quello proposto da Green Peace, che qui vedete;greenpeaceapi

il nostro paese non ha difeso la Chimica, tutt’altro! il nostro paese se ne frega della Chimica, non riesce nemmeno ad insegnarla bene; ma semplicemente il nostro rappresentante si è lasciato convincere dagli argomenti dei produttori di neonicotinoidi, rappresentati in Italia da Agrofarma, argomenti che ho ripetutamente mostrato sono deboli e non convincenti: le prove dei possibili danni alle api ed agli altri insetti impollinatori sono ampiamente supportate dalla letteratura scientifica mondiale nelle condizioni di impiego pratico sul campo per cui il PARZIALE bando dei tre neonicotinoidi proposto da Borg è ben supportato (come sostiene EFSA); nè esistono argomenti di tipo economico, legati alla produzione di mais o altri beni; nel precedente post ho fatto vedere come le riduzioni di produzione sono corrisposte NON alla sospensione italiana dei neonic, come sostenuto da Nomisma in uno studio a pagamento per Agrofarma, ma solo alle condizioni meteo che non sono state favorevoli e che probabilmente corrispondono anche a cambiamenti di tipo climatico che iniziano a farsi sentire sul Mediterraneo.

Condivido piuttosto la vignetta pubblicata su presseurop, opera del vignettista Patrick Chappatte e che ripubblico col permesso dell’editore (http://www.presseurop.eu/fr/content/article/3735871-les-pesticides-interdits-pour-mettre-fin-au-massacre-des-abeilles):

CHAPPATTE-bees_0

Qua al contrario della definizione imprecisa e, mi scusassero gli amici di Green Peace, vagamente demagogica di agricoltura “chimica” si individua il vero problema in campo: la difesa dei profitti dei produttori di neonicotinoidi, che non coincide né con la agricoltura “moderna” né con le necessità italiane di produrre bene e adeguatamente. In francese “faire le beurre”, fare il burro, significa fare quattrini e viene qui ironicamente contrapposto a fare il miele; ecco, noi chimici siamo per fare il miele e non per “fare il burro” o meglio, addirittura poi far fare il burro ad altri. Di burro se ne è fatto a sufficienza in passato, ora basta. Pensiamo alle api. Il peso sulla bilancia non solo ambientale, ma perfino economica, dei servizi resi gratuitamente dagli impollinatori selvatici e addomesticati è  ENORMEMENTE superiore alle perdite dei produttori di burro “neonico”.

Noi chimici siamo per la vita. perchè la vita è la reazione chimica meglio riuscita!

Rilanciamo la Storia della Chimica

a cura di Marco Taddia

Tralasciando il ventennio fascista, durante il quale vide la luce l’Istituto Italiano di Storia della Chimica e ci si adoperò con zelo “patriottico” per esaltare l’apporto italiano alle conquiste della chimica, il bilancio nostrano di questa disciplina non è fra i migliori. Certo non sono mancati studiosi di fama internazionale, ricerche pregevoli, libri (pochi) e l’attenzione di riviste qualificate, ma la storia è rimasta in coda agli interessi dei chimici e la bibliografia non è confrontabile con quella degli altri settori disciplinari. Il chimico e storico Aldo Mieli (Livorno, 1879 – Buenos Aires, 1950) rimane ancor oggi, forse, la figura di studioso che più contribuisce a salvare il nostro Paese dall’anonimato internazionale. Mieli fu prima assistente di Paternò a Roma (1906) poi, a partire dal 1912, si dedicò completamente alla storia della scienza. Nel 1914 ricoprì a Roma la prima cattedra di storia della chimica.

Mieli_Aldo_(1879-1950)

     Se il quadro attuale è ben lungi dall’essere soddisfacente, l’esperienza personale (anche di chi scrive) dimostra che la storia della chimica suscita, anche in Italia, parecchia curiosità e, talvolta, un’accesa passione. Che cosa manca dunque ai chimici per tramutare l’interesse amatoriale in impegno di lavoro? E’ probabile che la risposta stia nel mancato riconoscimento da parte della comunità scientifica del valore della ricerca storica e nella conseguente penalizzazione dei suoi cultori nei concorsi universitari. L’analisi porterebbe a considerazioni troppo amare da digerire. Meglio rispondere con un impegno concreto che sia d’esempio ai giovani e possa rassicurare gli incerti, in bilico fra ideali e carriera. Così, vent’anni fa, nacque il Gruppo Nazionale di Fondamenti e Storia della Chimica (GNFSC), dopo il I Convegno di Storia della Chimica (Torino 7-8 febbraio 1985). A quel primo Convegno ne sono seguiti tredici, l’ultimo dei quali si è tenuto a Rimini, sede staccata dell’Università di Bologna nel 2011. Gli Atti dei Convegni, redatti in forma estesa, sono stati pubblicati  dall’Accademia dei XL nelle serie delle “Memorie di Scienze Fisiche e Naturali” dei suoi “Rendiconti”. La storia del GNFS è infatti legata all’Accademia perché Giovanni Battista Marini Bettòlo, che nel 1986 la presiedeva, fu tra i promotori dell’istituzione del Gruppo stesso e gli offrì una sede. Marini Bettòlo fu anche il primo Presidente del Consiglio Direttivo. Il Gruppo ha bisogno di nuove energie perché il ricambio è insufficiente. I giovani chimici che si dedicano alla storia della loro disciplina si contano sulle dita di una mano perché (come dar loro torto?) sono preoccupati per il loro futuro accademico. Perciò è necessario che i chimici operanti nella Scuola, nell’Università, nella Professione o nell’Industria, interessati alla storia per diletto o per mestiere, stiano uniti e trovino ancora nel Gruppo un sicuro punto di riferimento. Va poi ricordato che il Gruppo è uno dei pochi organismi in cui si creano occasioni d’incontro con studiosi di area diversa perché vi aderiscono numerosi e qualificati storici della scienza di area umanistica.

    Ai chimici perplessi o agli scettici non resta che ricordare ciò che scrisse il matematico Federigo Enriques (1871-1946): “Non stupitevi se mi vedete occuparmi di storia e magari di filosofia: questa non è che l’altra faccia dell’onesto lavoro dello scienziato.”

    Quest’anno, per la prima volta, la sede bolognese dell’Alma Mater Studiorum ospiterà,  presso il Dipartimento di Chimica Industriale “Toso Montanari”,  il Convegno di Storia e Fondamenti della Chimica.  E’ il XV della serie e può costituire una preziosa occasione di rilancio di questa disciplina.

   Il Convegno è in programma dal 18 al 20 settembre e comprenderà conferenze a invito, comunicazioni orali e comunicazioni poster inerenti gli argomenti che rientrano tradizionalmente nei campi d’interesse del GNFSC (www.gnfsc.it).

    Come in passato, il programma del Convegno sarà strutturato in maniera tale da mettere in risalto, mediante interventi particolarmente qualificati, anniversari di particolare rilievo per la chimica e discipline collegate. Di conseguenza, poiché nel 2013 ricorre il 50° anniversario dell’attribuzione del premio Nobel per la Chimica a Karl Ziegler e Giulio Natta (1963), è prevista una sessione speciale dedicata principalmente al contributo del nostro illustre connazionale. Parteciperanno esponenti del mondo accademico già appartenenti alla scuola di Natta, nonché figure di spicco del mondo industriale.

    Il Convegno è patrocinato dalla Società Chimica Italiana, dall’ Associazione Italiana di Scienza e Tecnologia delle Macromolecole e dalla Società Italiana per la Storia della Scienza.

L'alchimista in cerca della Pietra Filosofale (1771) di Joseph Wright of Derby (Derby Museum and Art Gallery, Derby, Regno Unito).

L’alchimista in cerca della Pietra Filosofale (1771) di Joseph Wright of Derby (Derby Museum and Art Gallery, Derby, Regno Unito).

    Altre informazioni all’indirizzo www.csb.unibo.it/CSB/StoriaChimica/StoriaChimica2013.

per approfondire:

http://it.wikipedia.org/wiki/Aldo_Mieli

Molecole a due facce

a cura di C. Della Volpe

La recente esplosione avvenuta a West, in Texas e la pubblicazione dell’intervento di Matteo Guidotti hanno catalizzato in me, ma credo anche in molti altri colleghi, una riflessione sulle proprietà di una particolare molecola, che sembra incarnare come e più di altre la doppia faccia, la doppia potenzialità della chimica. Si tratta del nitrato di ammonio.

   NH4NO3E’ un sale che conosciamo da oltre tre secoli, perchè fu sintetizzato per la prima volta dal chimico tedesco Johann R. Glauber nel 1659, lo scopritore dell’omonimo sale, il solfato di sodio, usato da secoli come purgante; Glauber è stato un vero iniziatore della grande industria chimica e probabilmente il primo chimico industriale o ingegnere chimico moderno, che si è mantenuto da solo con i proventi delle sue invenzioni e delle sue produzioni e che propose in uno dei suoi 40 libri di risollevare le sorti della Germglauberania dopo la guerra dei 30 anni tramite lo sviluppo dell’industria chimica: quale preveggenza!

La sintesi del nitrato di ammonio non è difficile, grazie anche al fatto che basta mescolare in modo opportuno due sostanze molto comuni ed importanti: acido nitrico ed ammoniaca:

HNO3(aq) + NH3(l) → NH4NO3(aq)

Probabilmente Glauber usò invece carbonato di ammonio e acido nitrico. Tuttavia le sue basilari proprietà a doppia faccia vennero scoperte solo dopo molto tempo. Nel 1849 in seguito ad una esplosione accidentale, Reise e Millon riconobbero che il composto poteva esplodere se mescolato con carbone di legna e riscaldato.

E fu solo nel 1867 che i chimici svedesi Ohlsson and Norrbin misero a punto e brevettarono una miscela a carattere esplosivo a base di nitrato di ammonio e carbone, sabbia, naftalene, acido picrico, nitroglicerina e nitrobenzene, chiamata ammoniakrut. Questo brevetto con una serie di importanti modifiche fu poi alla base dell’invenzione della dinamite.

liebigDurante i medesimi anni Justus von Liebig andava sviluppando le sue teorie sul ruolo dei vari elementi nell’agricoltura.

Liebig è stato certamente uno studioso dellle applicazioni “pacifiche” della chimica ; eppure…..Si narra infatti che sia stato espulso dal Gymnasium (Liceo classico) per aver fatto detonare un esplosivo fatto in casa. E questo avrebbe dato da pensare a più di uno storico.

A partire dalla prima guerra mondiale si verificarono ripetuti episodi di esplosione accidentale, riportati fedelmente su wikipedia (http://en.wikipedia.org/wiki/Ammonium_nitrate_disasters).

Notevoli quantità di nitrato di ammonio stoccate impropriamente e spesso a lungo diedero luogo in seguito ad eventi accidentali oppure ad operazioni meccaniche o addirittura a tentativi di disaggregazione con altri esplosivi, ad esplosioni potentissime con centinaia di morti e distruzioni di notevole dimensione (tra gli altri a Morgan(NJ, USA), Oppau (impianto BASF, Germania), Nixon (NJ, USA), Tessenderlo (Belgio).

L’esplosione del nitrato di ammonio può venire innescata dall’esplosione di un altro esplosivo oppure dall’azione di un catalizzatore mescolato alla massa di materiale o infine da un incendio sostenuto da materiale combustibile mescolato ad esso. Una possibile reazione è la seguente:

NH4NO3 Δ→ N2O + 2H2O

Nel 1935 si iniziò a sperimentare una miscela di fertilizer grade ammonium nitrate (FGAN) in formato granulare in miscela con un esplosivo tradizionale con risultati “promettenti”. Nel frattempo comunque il nitrato di ammonio si era guadagnato un ruolo importante fra i fertilizzanti comuni, data la sua capacità di fornire l’azoto in due forme diverse con stati opposti di ossido riduzione e con velocità complementari di assorbimento.

I più famosi episodi di esplosione accidentale che diedero al nitrato di ammonio fama imperitura di sostanza pericolosa ed infida si verificarono però dopo la seconda guerra mondiale: Texas City e Brest. Si era nel 1947 e dopo la fine della seconda guerrra mondiale gli USA esportavano in tutto il mondo beni e servizi per rimettere in marcia un meccanismo produttivo che la guerra aveva  distrutto; cosi’ grandi quantità di materiali viaggiavano a bordo di navi spesso senza rispettare le più basilari regole di attenzione.

Il 16 aprile 1947 la nave trasporto Grandcamp era in fase di caricamento quando  un incendio fu scoperto nella stiva: a questo punto 2600 ton di nitrato di ammonio erano già a bordo in sacchi. Il capitano  cercò di rimediare chiudendo la stiva e pompando vapore pressurizzato. Un’ora più tardi la nave esplose uccidendo centinaia di persone e innescando l’incendio di un’altra nave la High Flyer, che era a circa 250 metri con a bordo 1050 ton di zolfo e 960 tons di nitrato di ammonio. L’esplosione della Grandcamp creò un’onda d’urto che ruppe le finestre a 40 miglia di distanza e abbattè due piccoli aerei che volavano a 1500 piedi (460 metri) di altezza. La High Flyer esplose il giorno successivo dopo aver bruciato per 16 ore; per fortuna 500 ton di nitrato di ammonio non esplosero ma bruciarono probabilmente perchè non erano stivate in modo sufficentemente compresso. Tutti i pompieri di Texas City meno uno, morirono nell’incidente.

Il 28 luglio di quel medesimo anno la nave da trasporto Ocean Liberty caricata con  3300 ton di ammonio nitrato e vari altri prodotti infiammabili prese fuoco  circa alle 12.30 nel porto di Brest, in Francia. Il capitano ordinò di sigillare la stiva e pompare vapore in pressione, ma dato che questo non fermò l’incendio la nave fu rimorchiata fuori dal porto alle 14; alle 17 esplose uccidendo 29 persone e causando seri danni al porto di Brest.

ANFOA questo punto la fama del nitrato di ammonio era diventata mondiale; nel 1955 venne messo a punto ANFO, ossia Ammonium Nitrate Fuel Oil, un esplosivo di grande utilità e sicurezza e costituito dalla miscela di nitrato di ammonio e un idrocarburo che aiuta ad innescare l’esplosione nella massa. La detonazione (non deflagrazione, perchè avviene a velocità supersonica) del materiale lo rende estremamente efficace.

ammonium-nitrate-bombTuttavia la sua riconosciuta fama di materiale “sensibile” non ha aiutato molto; dal 1947 in poi si sono verificate innumerevoli esplosioni accidentali in tutte le parti del mondo (anch’esse  minuziosamente elencate su wikipedia) che hanno dimostrato a questo punto solo la grande incapacità umana di stare attenti ai materiali pericolosi. L’ultimo è il caso di West, in Texas in cui sembra che un incendio abbia determinato l’eplosione con decine di morti e centinaia di feriti. E’ stato usato anche dal terrorismo sia negli Stati Uniti (la famosa eplosione di Oklahoma City), che probabilmente in Francia, nel più grande incidente europeo recente col nitrato di ammonio a Tolosa solo 10 giorni dopo l’11 settembre 2001 con decine di morti e centinaia di feriti; tuttavia non è certo che sia stato il terrorismo a scatenare l’incidente.

Nel 2011 si sono prodotte nel mondo 15 milioni di ton di nitrato di ammonio (dati IFA) per usi agricoli; tuttavia in contemporanea ANFO rappresenta ormai l’80% dei 2.4 milioni di ton di esplosivi prodotti negli USA. Insomma è chiaro che siamo di fronte ad una “ambigua” molecola, un materiale double face, almeno quanto lo siamo noi, scimmie di ultima generazione.

A rinforzare questa impressione così ambigua considerate che il nitrato di ammonio è molto solubile in acqua e che nello sciogliersi ne abbassa la temperatura; il fenomeno viene sfruttato in pratica per produrre quelle borse da freddo istantanee così utili in caso di ematomi.

Recentemente qualcuno ha provato a pensare come fare per rendere meno rischioso il fatto che il nitrato di ammonio sia in circolazione a milioni di tonnellate e quindi ha provato a modificare la formulazione del comune fertilizzante per renderlo innocuo come esplosivo (http://www.21stcentech.com/agriculture-update-ammonium-nitrate-good-crops-good-bombs/, https://share.sandia.gov/news/resources/news_releases/ied_fertilizer/)

E’ come se nell’infinito chemical space, costituito da oltre 1060 molecole, fra la catena montuosa degli esplosivi e la fin troppo fertile pianura dei fertilizzanti si stendesse una zona di confluenza centrata sulla collinetta del nitrato di ammonio; attorno a quella collinetta, di dimensioni piccolissime si svolge una ardua battaglia per trasferirla definitivamente sotto il controllo dell’uno o dell’altro dei contendenti; i risultati sono incerti al momento.

per approfondire:

http://www.docstoc.com/docs/6224255/6622-The-Chemistry-of-Explosives-by-Jacqueline-Akhavan-%281998%29

http://en.wikipedia.org/wiki/Ammonium_nitrate

http://en.wikipedia.org/wiki/Ammonium_nitrate_disasters

http://it.wikipedia.org/wiki/Justus_von_Liebig

http://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=1&ved=0CDQQFjAA&url=http%3A%2F%2Fminingandblasting.files.wordpress.com%2F2010%2F03%2Fdevelopment-of-ammonium-nitrate-as-blasting-agent.doc&ei=OyZ-UZWKL7Sg7Ab0jIGYAQ&usg=AFQjCNE_XczIKn9QDJshD1xV_-t1ICjgyA&bvm=bv.45645796,d.ZGU

http://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=4&ved=0CEEQFjAD&url=http%3A%2F%2Feportfolio.vmi.edu%2FePortfolioUploads%2Fd5a94af1-11cc-4425-a1df-0e7865af8247%2F53ffb1ec-24e6-490f-b1c1-bc662f043eab%2Fpaper%25202.docx&ei=dCZ-UYTtHZSQ7AbB74HQBA&usg=AFQjCNGNJv11f1xmBrEsY-cMJmFI7MEGxA&bvm=bv.45645796,d.ZGU

http://it.wikipedia.org/wiki/Johann_Rudolph_Glauber