Contro-movimenti di casa nostra.

a cura di C. Della Volpe

In Usa hanno una sigla, come tutto; si chiamano climate change counter-movements (CCCM).

In Usa hanno tanti di quei soldi a disposizione che gli vengono dedicati articoli scientifici di analisi (Robert J. Brulle, Institutionalizing delay: foundation funding and the creation of U.S. climate change counter-movement organizations, Climatic Change DOI 10.1007/s10584-013-1018-7)

L’amica Oca Sapiens (al secolo Sylvie Coyaud) nel suo bel blog riporta questo grafico per mostrarne la ampiezza, una spesa totale stimata fra il 2003 e il 2010 in oltre 7 miliardi di dollari da parte di tutti i think thank conservatori USA, una parte dei quali va nell’attacco al Global Warming, come in passato andava alla difesa del fumo libero o contro l’aborto e oggi vanno contro la sanità pubblica, il global warming o il darwinismo.

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Sappiamo che nei paesi anglosassoni la lotta fra sostenitori del Global Warming e delle politiche di mitigazione ed adattamento ad esso e i loro detrattori, volgarmente detti “negazionisti climatici” è a coltello e come tutte le lotte sociali porta a situazioni paradossali; ricordate che lo scontro sulla riforma sanitaria di Obama ha portato alla fermata della macchina statale americana per vari giorni? Oppure il caso delle lettere rubate al direttore del CRU dell’East Anglia?

Impensabile da noi. Comunque anche noi abbiamo i difensori del libero mercato che sono anche contro le regole che l’IPCC cerca di proporre per affrontare il GW, per esempio l’Istituto Bruno Leoni. Qui le cose avvengono diversamente, per esempio sull’ultimo numero di C&I (dic. 2013 pag 87-89), con un articoletto di Sergio Carrà dal titolo “Chi ha paura del riscaldamento cattivo?” a cui rispondo qui.

I dati riportati nel grafico sono una prima parte della risposta. Il prof. Carrà cita anche un articolo comparso su New Scientist

“Climate science: Why the word won’t listen” di  Adam Corner, uno psicologo che si propone di approfondire perché i reiterati pronunciamenti dell’IPCC, ridondanti di messaggi inquietanti sui pericoli del riscaldamento globale, lasciano nella popolazione una diffusa apatia che sfocia spesso in un atteggiamento negativo nei riguardi di tale fenomeno.”

Beh caro prof., la risposta è manifesta: c’è chi propaganda menzogne sul clima spendendo miliardi di dollari e cercando di confondere le acque. È una politica che negli USA è stata perseguita anche per combattere la battaglia ormai persa contro il divieto del fumo; le grandi corporations americane affinarono in quell’occasione le armi che stanno spendendo anche qui contro il GW o contro l’Obamacare. Miliardi di dollari che hanno come unico scopo di ritardare il crollo dei loro profitti basati su mercati non piu’ sostenibili. Se l’approccio di Kyoto è fallito come recita un articolo di Nature, la responsabilità è proprio di chi ha fatto in modo che restasse fuori dall’accordo il paese che è il maggiore produttore di gas serra del pianeta, gli USA. E le fondazioni della destra americana superconservatrice che si sono battute contro l’IPCC, come per il fumo o contro il darwinismo ne sono pienamente responsabili.

La stessa rivista divulgativa e non-peer-reviewed, partecipa a questa battaglia di retroguardia culturale; infatti è famosa per aver fatto una copertina CONTRO il darwinismo.

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Ma d’altronde noi che abbiamo avuto perfino un vicepresidente del CNR che ha organizzato un congresso contro Darwin (http://it.wikipedia.org/wiki/Roberto_de_Mattei) tempo fa, di cosa ci potremmo meravigliare?

Il prof. Carrà cita anche un articolo recentemente pubblicato su una rivista prestigiosa, (Geophysical Research Letters, Vol. 40, 3031–3035, doi:10.1002/grl.50563, 2013) che secondo lui dimostra che il bilancio dell’anidride carbonica è “elusivo”. E’ un aggettivo pesante per uno degli argomenti più studiati del mondo della climatologia e della chimica del clima. L’articolo in questione, scritto da Donohue e coll. dello CSIRO, l’equivalente australiano del CNR, conclude dicendo tre cose che qui traduco e che sono (giudicate voi) incompatibili con la elusività:

1)L’aumento nell’efficienza di uso dell’acqua da parte del processo fotosintetico al crescere della concentrazione di Ca (Nota mia: un simbolo usato per la anidride carbonica atmosferica) si è da lungo tempo anticipato che abbia come conseguenza un aumento della superficie foliare in ambiente caldi ed aridi. [Berry and Roderick, 2002; Bond and Midgley, 2000; Farquhar, 1997; Higgins and Scheiter, 2012], e sia le osservazioni da satellite che da terra a livello mondiale rivelano un cambiamento verso ambienti più densamente coperti di vegetazione e boscosi.[Buitenwerf et al., 2012; Donohue et al., 2009; Knapp and Soule, 1996; Morgan et al., 2007; Scholes and Archer, 1997]. I nostri risultati suggeriscono che Ca abbia giocato un ruolo importante in questo trend di rinverdimento e che, dove l’acqua è il limite dominante per la crescita, la copertura sia cresciuta in proporzione diretta all’aumento di Wp (l’efficienza di uso dell’acqua da partei della fotosintesi). Questo effetto di fertilizzazione della CO2  è da considerare un importante effetto della biosfera.

2)I risultati qui riportati per regioni aride a calde non si trasferiscono semplicemente ad altri ambienti dove possono dominare altri limiti alle risorse  (per esempio luce, nutrienti, temperatura) sebbene le equazioni della teoria rimangano valide (eq. 1-3) (omissis)

3)Complessivamente i nostri risultati confermano che l’impatto biochimico diretto del veloce aumento della Ca negli ultimi 30 anni sulla vegetazione terrestre è un processo importante ed osservabile.

Non solo non è elusivo affatto un processo cui sono dedicati molti lavori, che è anticipato tramite equazioni e che si è già studiato; gli autori lo hanno provato a livello mondiale solo PER GLI AMBIENTI ARIDI, dove un elemento limitante è l’acqua; quindi riproporlo per gli altri ambienti sic et simpliciter è sballato e infatti gli autori scrivono che le loro conclusioni non sono valide dappertutto.

 E’ un argomento che è molto analizzato in letteratura. Al contrario di quello che sostiene Carrà (In sostanza, a detta degli autori di questi studi, il futuro potrebbe essere molto più verde e molto più benevolo di quanto prevedono i modellisti) gli autori non concludono affatto che questo processo possa essere considerato decisivo nel futuro. I modelli dell’IPCC includono già questi processi e prevedono una estensione della copertura vegetale, ma tale estensione non può verificarsi in tutti gli ambienti a causa della complessità del sistema; dove prevalgono condizioni diverse l’aumento di CO2 non ha gli stessi benefici sulla copertura del manto vegetale spontaneo. Pensate solo ad ambienti dove gli elementi limitanti della fotosintesi sono la luce o la mancanza di altri nutrienti oltre l’acqua o l’effetto degli incendi. Le conclusioni generalizzatrici del prof. Carrà rimangono un pio desiderio basato su processi non definiti e che gli autori dell’articolo non prendono nemmeno in considerazione.

Una seconda questione che il prof. Carrà ripropone ogni volta che scrive di questo argomento è che in passato la CO2 ha raggiunto livelli molto più alti del presente. Fatto verissimo ma che non c’entra nulla con le questioni del clima odierno perchè i periodi a cui si riferisce il prof. Carrà sono di centinaia di milioni di anni fa; all’epoca non solo non c’era l’umanità ma non c’erano nemmeno le piante attuali o gli animali attuali, la forma dei continenti, le correnti erano diversi. Inoltre il Sole era significativamente meno intenso dell’attuale, un paradosso quello del giovane sole debole su cui sono basati tutti i libri di climatologia. In alcuni casi i meccanismi di retroazione, non di causa-effetto che in un sistema complesso come il clima stanno stretti a qualunque modello, erano completamente diversi; da allora la tendenza media è stata verso una riduzione sistematica della concentrazione di CO2 con una temperatura media che ha interagito con essa; non c’è un rapporto causa effetto fra CO2 e temperature, ma un rapporto di retroazione che prevede anelli positvi e negativi. Al momento l’umanità si è inserita nel meccanismo che durava da centinaia di miloni di anni ed ha occupato da subito un posto di rilievo; oggi l’uomo emette il 16% del carbonio che va verso l’atmosfera e questo ha alterato complessivamente il meccanismo di retroazione in un modo che, seppur non prevedibile in dettaglio, va verso l’aumento della temperatura media del pianeta.

C’è un bellissimo lavoro di un ingegnere aerospaziale, Bernard Etkin (Climatic Change (2010) 100:403–406 DOI 10.1007/s10584-010-9821-x A state space view of the ice ages—a new look at familiar data An editorial essay Bernard Etkin) , che ha rappresentato nel linguaggio dei grafici di fase dei sistemi complessi, una tecnica che dovrebbe essere familiare al Prof. Carrà, la situazione delle ultime centinaia di migliaia di anni. Il grafico è questo, tratto dai dati delle carote glaciali:

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Il prof. Carrà ha insegnato per anni come si costruisce un grafico di fase di un sistema complesso e quindi potrà apprezzare quanto Etkin dice: il nostro sistema caotico è stato attratto nella zona evidenziata dall’ellisse per centinaia di migliaia di anni e l’azione dell’uomo negli ultimi 250 anni l’ha portato fuori dall’attrattore; dove si avvia il nostro sistema? I calcoli ci dicono che si avvia verso una temperatura media più alta di quella attuale. Non possiamo fare “previsioni” come le chiama impropriamente Carrà; possiamo fare scenari basati sul comportamento “medio” del sistema; le previsioni del tempo cercano di ricostruire a breve periodo il comportamento istantaneo del sistema climatico, mentre i modelli IPCC cercano di cogliere gli scenari, ossia i comportamenti medi del sistema sul lungo periodo, due cose del tutto diverse.

Il testo dell’IPCC citato dal prof. Carrà, scritto dall’amico Sergio Castellari, non può che far dipendere la temperatura media dal tasso di CO2 e quindi dalle scelte che noi, la parte più importante ed attiva della biosfera, faremo nel futuro; non è essa una incertezza che dipende dai metodi di calcolo o dai meccanismi (i vari programmi sono sostanzialmente in accordo) ma dalle nostre scelte politiche ed economiche.

Un esempio di quanto queste scelte pesino già adesso risponde all’ultima domanda del prof. Carrà: Ad esempio, per parlare delle faccende di casa nostra, risulta che il contribuente italiano si trova a dover pagare ogni anno 6-7 miliardi di euro (tariffa A3) per incentivi statali almeno per vent’anni devoluti alle energie rinnovabili, in particolare al fotovoltaico. Ciò nonostante la nostra energia è la più cara d’Europa.

Il prof. Carrà si riferisce al famigerato Cip6, una decisione che ci ha portato per oltre vent’anni a pagare una quota del nostro consumo elettrico per lo sviluppo di rinnovabili ed ASSIMILATE; ma lo sa il prof. Carrà quanto abbiamo speso e come sono state ripartite le spese? E soprattutto sa cosa sono le assimilate? Sono gli oli pesanti scartati dalla produzione, l’immondizia, insomma roba che sarebbe costato smaltire e che grazie a politici compiacenti è diventata combustibile prezioso che ha contribuito allo sviluppo degli inceneritori, di centrali a combustibile in molte aziende che così guadagnavano da ciò che avrebbero dovuto smaltire a caro prezzo. Queste assimilate hanno assorbito oltre il 75% dei 50 miliardi di euro che abbiamo speso su questa voce. Lo sapeva? Spero di no, altrimenti avrebbe dovuto dirlo.

Nonostante questo vulnus inferto al loro sviluppo, le rinnovabili italiane si sono sviluppate ed oggi nel borsino elettrico sfidano l’eccesso di produzione termoelettrica (decine di gigawatt in eccesso cresciuti proprio grazie al Cip6) e l’hanno messo più volte fuori mercato nelle ore di punta facendo alzare alti lai a chi perdeva in questo modo ingiustificati profitti.

Quindi altro che i miliardi all’anno investiti e giustamente in rinnovabili vere, questi sono stati soldi sprecati in rinnovabili false che si sono aggiunti alle decine di miliardi che hanno aiutato e garantito una economia basata sui fossili. Oggi i fossili battono la fiacca perchè i loro prezzi sono altissimi e tali rimaranno a causa dell’abbassamento storico del loro EROEI, cioè della crescente  difficoltà estrattiva che porta a costi di estrazione (energetici ed economici) altissimi (si veda un nostro recente post)!  Al contrario, i costi delle rinnovabili scendono seguendo una accettabile curva di apprendimento che le sta portando SOTTO i costi dell’energia tradizionale.

In una cosa le dò ragione, prof. Carrà; non sarà facile. Lei scrive: Si dovrebbe intraprendere una trasformazione epocale che viene però solo marginalmente discussa per le sue implicazioni di carattere economico e sociale.

Ma noi chimici la vogliamo e la dobbiamo discutere, prof. Carrà. Abbiamo dei precedenti illustri, come Frederick Soddy il cui Nobel ha compiuto 100 anni pochi giorni fa e che ha anticipato i cinque premi Nobel che hanno contribuito a proporre il nome di Antropocene per la nostra epoca, perché non di sola energia si tratta ma di un modo di produrre basato sull’idea dello sviluppo infinito, sviluppo impossibile in un contesto finito come la biosfera terrestre.

Nel testo di 18 Nobel (http://globalsymposium2011.org/wp-content/uploads/2011/05/The-Stockholm-Memorandum.pdf) si enuncia una ben precisa strategia che meraviglierà sapere non è tanto tecnica ma sociale, come d’altronde le resistenze ai cambiamenti guidati da think-thank ultraconservatori rendono manifesto. Ne ricordo qui i punti essenziali:

1)    raggiungere un mondo più equanime, ossia sulla base della sostenibilità globale fare un accordo fra paesi ricchi e poveri per stabilizzare il clima, combattere la povertà e gestire l’ecosistema;

2)    gestire la sfida di clima ed energia; raggiungere un picco di produzione di CO2 entro il 2015 e tassare le emissioni di carbonio eliminando i contributi alle energie fossili;

3)    creare una rivoluzione dell’efficienza; definire degli standard di efficienza per disaccoppiare lo sviluppo dal consumo delle risorse e sviluppare nuovi modelli economici basati su efficienza energetica e dei materiali;

4)    assicurare cibo accessibile a tutti; il modo attuale di produrre cibo basato su spreco di energia e fosforo è insostenibile, occorre una nuova rivoluzione verde basata sul risparmio di territorio e acqua e sullo sviluppo tecnologico dei piccoli produttori;

5)    andare al di là di una crescita “verde”; ripensare lo sviluppo economico introducendo il “sociale” in tutti gli aspetti della produzione: introdurre nuovi modi di valutare lo sviluppo, superando il PIL e incentivando solo le innovazioni che servono alla maggior quota possibile di popolazione;

6)    ridurre la pressione umana; sia riducendo la crescita della popolazione che combattendo il consumismo; rafforzare i diritti delle donne;

7)    rafforzare un sistema di governo della Terra; rafforzare le istituzioni che si occupano di clima, biodiversità e introdurne altre che curino esplicitamente gli interessi delle future generazioni;

8)    attivare un nuovo rapporto fra scienza e società, sia lanciando una iniziativa scientifica globale sulla sostenibilità che incrementando l’educazione scientifica delle giovani generazioni.

 

 Nota: ringrazio per i loro commenti Sylvie Coyaud e Franco Miglietta di Climalteranti.

 PS I lettori che non essendo soci della SCI non possano accedere al testo dell’articolo di S. Carrà possono chiedere eccezionalmente copia a Claudio.DellaVolpe@unitn.it. Si ricorda qui che i testi de la Chimica e l’Industria sono liberamente accessibli eccetto quelli degli ultimi due anni.

Lo stato della ricerca chimica in italia come rappresentata dalla Wiley

di Gianfranco Scorrano, ex Presidente SCI

La Wiley ha pubblicato di recente per i suoi giornali scientifici chimici :

 – ChemBioChem: http://www.chemistryviews.org/mostread2013cbc

– ChemCatChem: http://www.chemistryviews.org/mostread2013ccc

– ChemMedChem: http://www.chemistryviews.org/mostread2013cmc

– ChemPhysChem: http://www.chemistryviews.org/mostread2014cpc

– ChemSusChem: http://www.chemistryviews.org/mostread2014csc

– EurJIC: http://www.chemistryviews.org/mostread2013eurjic

– EurJOC: http://www.chemistryviews.org/mostread2013eurjoc

l’elenco dei 25 lavori che nell’anno hanno ricevuto il maggior numero di citazioni- Elenco i lavori italiani- Salvo improbabili errori, su 175 lavori solo 5 sono di ricercatori italiani. A loro i nostri complimenti

 Oxygen Vacancy: The Invisible Agent on Oxide Surfaces
Gianfranco Pacchioni

 The Role of Nanostructure in Improving the Performance of Electrodes for Energy Storage and Conversion
Gabriele Centi, Siglinda Perathoner

 Nanostructured Cu/TiO2 Photocatalysts for H2 Production from Ethanol and Glycerol Aqueous Solutions.
Tiziano Montini, Valentina Gombac, Laura Sordelli, Juan José Delgado, Xiaowei Chen, Gianpiero Adami, Paolo Fornasiero

 Photochemical Conversion of Solar Energy
Vincenzo Balzani, Alberto Credi, Margherita Ventur i

 Molecular and Supramolecular Architectures of Organic Semiconductors for Field-Effect Transistor Devices and Sensors: A Synthetic Chemical Perspective
Alessandra Operamolla, Gianluca M. Farinola

E però non vi sembra un pò poco 5 lavori su 175? Veramente la nostra chimica vale  solo il 2,8% dei chimici che pubblicano sulle riviste Wiley? E dire che noi, come SCI, siamo i soci fondatori, con altre società chimiche europee, delle suddette riviste. E riceviamo anche royalties calcolate sulla base dei lavori che vi appaiono e provengono da laboratori italiani. Forse i nostri chimici più bravi preferiscono altre riviste per i loro migliori articoli ? O i nostri rappresentanti nella EUCHEMS che governa la stampa delle medesime non sono abbastanza attivi? Si può fare qualcosa per migliorare questa debole situazione?

Solvay (1863-2013)

a cura di Marco Taddia

Tra pochi giorni, esattamente il 26 Dicembre, ricorrerà il 150° anniversario della fondazione di Solvay & Cie, una società belga in accomandita semplice che, con un capitale iniziale di 136.000 franchi belgi, intendeva produrre industrialmente la soda utilizzando il brevetto ottenuto il 12 Settembre 1863 da Ernest Solvay (Rebecq 1838 – Bruxelles 1922). Oggi  Solvay S.A. non è soltanto il principale produttore di soda ash (ovvero sodio carbonato anidro), con nove siti produttivi sparsi in tre continenti, ma è anche una multinazionale che fa parte del ristretto gruppo di aziende che dominano il settore chimico a livello mondiale.

   Immagine1 2La storia della Solvay, almeno nella fase iniziale, è abbastanza nota e così le vicende della famiglia che gli diede il nome. Anche la figura del leader fondatore Ernest  è stata al centro di studi storici accurati. Gli inizi non furono facili e il successo giunse per un insieme di fattori comprendenti non solo l’inventiva, la dedizione e la testardaggine dei fratelli Solvay ma anche la solidarietà famigliare.  In certi resoconti l’aneddotica  si spreca e così la retorica. Gli inizi furono difficili. È noto che le prove di produzione della soda furono avviate nel laboratorio del comune di Schaarbeek, ora parte della regione brussellese. Il laboratorio  venne abbandonato nel 1864 per la nuova “officina” situata nei pressi della stazione Couillet, a Charleroi. Successivamente ebbe luogo l’espansione sia in Europa, che negli U.S.A dove il processo fu brevettato nel 1881. La sodiera italiana di Rosignano iniziò la produzione nel 1918.

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Ernst Solvay, Rebecq, 16 aprile 1838 – Ixelles, 26 maggio 1922

     Usine Solvay Couillet L’idea di preparare la soda dal sale marino con l’aiuto dell’ammoniaca si fa risalire ad Augustin Fresnel (Broglie, 1788 – Ville-d’Avray, 1827).  Manca una documentazione chiara ed esauriente ma ne è rimasta traccia in uno scambio di lettere con lo zio Leonor Mérimée . Negli anni seguenti i tentativi di realizzare la sintesi industriale  furono parecchi.  Quello che portò i migliori risultati si deve a Harrison Grey Dyar (New York, 1805–1875) e John Hemming. Il punto debole tuttavia rimaneva il recupero dell’ammoniaca.  Altri si cimentarono nell’impresa e tra questi Ernest Solvay. Ernest Solvay era un autodidatta perché le sue condizioni di salute non gli avevano permesso di frequentare a lungo la scuola.  Nel 1859, all’età di circa ventuno anni, fece il suo ingresso come “apprendista” dirigente nell’officina per la produzione del gas illuminante posseduta dallo zio. È noto che il gas veniva ricavato dalla distillazione del carbon fossile e che un sottoprodotto interessante erano le cosiddette “acque ammoniacali”. Ernest studiava il modo di sfruttarle e mentre tentava di ricavarne bicarbonato d’ammonio le fece reagire con sale marino, un prodotto con il quale aveva una particolare dimestichezza perché il padre lo raffinava industrialmente. La reazione di precipitazione che ne derivava portava al bicarbonato di sodio da cui, per riscaldamento, era possibile giungere al carbonato.  Il brevetto gli venne concesso  il 15 aprile 1863. Desiderando conferma che aveva davvero inventato qualcosa di nuovo per poter  passare alla produzione industriale effettuò più accurate ricerche bibliografiche e si accorse che era stato preceduto da altri. Per nulla scoraggiato il giovane Solvay si dedicò al miglioramento del processo e a perfezionare le attrezzature, rivendicando tali novità piuttosto che le reazioni. A tale scopo richiese un secondo brevetto. La fabbrica entrò in attività il 1° gennaio 1865.  Una svolta decisiva si ebbe nel 1869 quando entrò in azione la cosiddetta “colonna Solvay” cioè la torre dove l’anidride carbonica veniva mandata a reagire con la salamoia attraverso un percorso in controcorrente. Nel 1872 iniziò la collaborazione con Ludwing Mond (1839-1909) e l’esportazione del procedimento in Inghilterra. Il sorpasso del processo Leblanc si ebbe fra il 1889 e il 1893.

per approfondire:

http://it.wikipedia.org/wiki/Ernest_Solvay

http://it.wikipedia.org/wiki/Carbonato_di_sodio

Naso elettronico: botta e risposta.

a cura di Luigi Campanella, ex Presidente SCI

Il Naso Elettronico è un dispositivo di analisi che permette di caratterizzare un Alimento e valutarne le qualità
Per che cosa è usato un Naso Elettronico?
E’ usato come strumento di screening nel controllo di qualità. Screening significa trovare un modo rapido per sapere se un prodotto è fuori specifica o meno, cioè se esso differisce o no dallo standard. Se lo fosse questo indicherebbe una disfunzione nel processo produttivo. Una volta che il problema è stato rilevato, le appropriate azioni possono essere prese. Bloccando un processo malfunzionante il prima possibile, si salveranno tempo e denaro.

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Come è ottenuta questa informazione?
Questa informazione è ottenuta misurando l’odore del prodotto. L’odore è la proprietà sensoriale percettibile dal sistema olfattivo, quando si annusano i composti volatili rilasciati dalle sostanze. E’ così che le sostanze volatili rilasciate dalle sostanze sono misurate dal Naso Elettronico; essi formano una immagine del prodotto. Solo misurando questa “immagine”, molte informazioni possono essere ottenute. Noi possiamo, per esempio, riconoscere una aroma di caffè senza vederlo o assaggiarlo.

Di cosa consiste un Naso Elettronico?
Un parallelo può essere fatto tra un Naso Elettronico ed il nostro Naso, per capire il principio generale operativo, anche se il Naso Elettronico non simula esattamente il Naso Umano. Così come il sistema sensoriale umano, esso comprende
– I sensori chimici, cioè i recettori olfattivi per l’uomo
– Un sistema di processo dei dati, cioè il cervello per l’uomo

L’aspetto fondamentale da chiarire è che tali sensori, dovendo essere
inseriti in una matrice, non dovranno possedere specificità nei confronti di una determinata specie chimica ma, selettivita’ parziale ottenendo in tal modo una risposta mirata ad un gruppo oppure ad una classe di gas; perciò sarà la sovrapposizione delle diverse sensibilità e selettività a fornire informazioni sufficienti per riconoscimento degli odori

Un naso elettronico è costituito da:
– un hardware, nella forma di sensori a gas specifici e strumenti elettronici associati ;
– un software, per il trattamento delle risposte dei sensori periferici
(paragonando, infatti , quest’ultime con i dati immagazzinati nella memoria, è possibile l’identificazione prima e l’interpretazione poi in termini simili a quelli adottati da un vero naso umano).

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Come funziona?
Ogni sostanza che ha un aroma, ad esempio il caffè, produce una nuvola di composti chimici volatili.

Naso Umano:
Questi composti chimici entrano nel nostro naso e reagiscono con la nostra regione olfattiva. Le reazioni che avvengono nei nostri sensori nervosi mandano messaggi al cervello. Questi messaggi sono poi decodificati, in quello che noi conosciamo come aroma. Noi possiamo paragonarlo agli altri aromi memorizzati nella nostra memoria, e trovare se esiste una qualche differenza, o associarlo ad uno dei conosciuti.

Naso Elettronico:
Questi composti chimici entrano nella cella dei sensori. Ogni sensore genera un segnale. I segnali di tutti I sensori formano un modello, che e’ la firma dell’ odore. Un appropriato metodo di processo dei dati, abilita ad interpretare la firma, per paragonarla con le firme già conosciute.

Come viene eseguita la misura?

Il prodotto e’ posto in una vial, che e’ sigillata ermeticamente con una membrana. Il campione libera i composti nell’aria della vial. Questo rilascio dei composti volatili può essere aumentato riscaldando il campione fino a 65°C. Un ago buca la membrana della vial, e scende in essa. L’ aria e’ aspirata attraverso l’ ago, e passa sopra i sensori. I segnali elettrici provenienti dalla serie di sensori sono registrati dal Computer, che e’ connesso al Naso Elettronico. I segnali dei sensori sono poi analizzati con appropriati metodi di processo dei dati (PCA, PCH, PLS, ANN). Il metodo di lavoro prevede due passi:
– Costruzione della memoria olfattiva – Lo strumento non conosce alcun aroma. Il primo passo e’ quello di insegnare al Naso Elettronico a riconoscere i nostri aromi di riferimento. Questa memoria può essere costruita per Classi, cioè associando all’ aroma una descrizione, o per Quantità, cioè indicando la quantità che può essere, ad esempio, una concentrazione o un peso di un descrittore.
– Predizione degli incogniti – Proiettando la misura di un incognito sulla memoria olfattiva costruita, si avrà una predizione di Classe o Quantità dell’aroma incognito. I risultati possono essere facilmente visualizzati in modo grafico o tabellare.

Da quanto detto si intuisce come il naso elettronico possa dare luogo ad una serie di devices sperimentali diversi ed inoltre come sia in grado di soddisfare molte applicazioni :

1. controlli di qualità per prodotti di largo consumo : generi alimentari
2. monitoraggio nelle applicazioni biotecnologiche
3. analisi della presenza di sangue nelle urine
4. monitoraggio inquinamento ambientale : trattamento delle acque di scolo
5. applicazioni in campo biomedico
6. utilizzo per la ricerca degli esplosivi , nella difesa militare
7. ricerca di tracce di odori in una matrice odorosa es: cocaina in un sacco di caffè

Lo scopo del futuro lavoro di ricerca sara’ quello di ottenere una fingerprint attraverso un naso elettronico costituito da un unico sensore e non da array come detto in precedenza, in cui variano i parametri sperimentali.( temp. ;lunghezza d. irradiante, etc )

Due molecole qualunque.

a cura di C. Della Volpe

Tutti noi sappiamo che la Chimica è la “scienza centrale”, ce lo diciamo e ce lo ripetiamo, e uno degli scopi di questo blog è proprio di farlo toccare con mano a noi stessi e a tutti coloro che hanno la pazienza di leggere queste pagine. La vita quotidiana è ricchissima di esempi che dicono come l’uomo moderno, che potremmo proprio rinominare homo alchemicus, ha prodotto un numero enorme di processi e di nuovi materiali che non esistevano prima di lui, di nuove molecole di sintesi che hanno cambiato non solo la sua vita ma anche il suo ambiente, che hanno grandi effetti positivi, ma provocano anche inaspettati problemi, oppure che sono state molto “chiacchierate” in passato, ma oggi prospettano effetti rivoluzionari.

Oggi vi parlerò di due di queste molecole, che sono apparse per puro caso negli ultimi 7 giorni su tutti i giornali ma potrebbero esservi sfuggite; e come tutte le storie della Chimica anche queste mostrano la natura duplice della Chimica e di ogni altra attività umana, quella duplice natura che un famoso filosofo, Georg Friedrich Hegel, legava alla liberazione dell’Umanità; la Befreiung* è la liberazione dello spirito che però viene ottenuta attraverso la accidentalità della vita storica: in parole povere bene e male sono mescolati in un conflitto inestricabile.

E questo conflitto inestricabile di bene e male è il medesimo che troviamo quasi in ogni molecola e nei suoi usi e ruoli potenziali; che poi questo dipenda dalla nostra duplicità, dalla nostra doppiezza come esseri che hanno dovuto abbandonare l’Eden, come insegnano le grandi religioni oppure che questa doppiezza, questa dialettica, come la chiamerebbe Hegel, sia il modo principale di funzionamento della Natura e sia intrinseca ad essa, come insegnano i filosofi della scuola dialettica, potrebbe essere oggetto di discussione.

Le due molecole di cui vi parlo oggi sono la perfluorotributilammina e la fluoxetina.

PFTBAPerfluorotributilammina, PFTBA.

Una notizia che circola su molti quotidiani (http://www.rinnovabili.it/ambiente/clima-pftba-toronto-gas-serra-123/) è che ci sia un nuovo gas serra in giro, una molecola eslusivamente di sintesi, la perfluorotributilammina, sigla PFTBA:

I titoli si sprecano da “nuova molecola ad effetto serra” a “gas serra più potente della CO2etc etc.

Tutti titoli che contengono quote di imprecisione od errore più o meno ampie.

La molecola in questione è stata sintetizzata molti decenni fa nell’ambito della sintesi dei composti perfluorurati, ed è in uso nell’industria elettronica e in termotecnica; viene prodotta in quantità dell’ordine delle centinaia di tonnellate all’anno fin dagli anni ’80. Già 5 anni[1] fa fu avanzata da Cora J. Young e Scott A. Mabury, allora alla NASA ed oggi all’Università di Toronto, l’ipotesi che questa molecola potesse essere un gas serra significativo. Con un nuovo e più completo articolo[2] scritto dai medesimi autori la cosa è stata oggi confermata. Il suo spettro IR, che qui segue, mostra che è capace di assorbire significativamente la radiazione infrarossa in un intervallo che è proprio quello delle altre molecole ad effetto serra importanti, fra le quali ricordiamoci che si annoverano molte altre molecole perfluorurate, come i CFC, noti anche per i loro effetti sull’ozono stratosferico.

IRPFTBA

Un effetto serra (GWP per la precisione) 7000 volte superiore a quello della CO2 non deve meravigliare; non si tratta nè del massimo valore misurato nè del semplice effetto dell’assorbimento dell’IR.

Anzitutto a cosa ci si riferisce? Il Global Warming Potential (GWP) è la combinazione di due cose: la effettiva capacità di assorbimento dell’IR e la vita media della molecola in atmosfera; per vari intervalli di tempo, brevi o lunghi che siano, si tiene conto di quale sia la vita media e quindi la concentrazione rimanente anno per anno dopo una certa emissione e la si moltiplica per la intrinseca capacità di assorbimento radiativo; il GWP del PFTBA sull’orizzonte di 100 anni è sì 7100 volte maggiore della CO2, ma su questo medesimo orizzonte temporale la capacità del CF4 è 7390, quella del CFC-12 è 10900, del C2F6 12200, del NF3 17200 e del SF6 22800.

Quindi la nuova molecola non è assolutamente la più potente, da questo punto di vista, come ci raccontano i vari ignoralismi giornalistici. Eh si che basta guardare Wikipedia pur non volendo leggersi i documenti IPCC.

La molecola è presente nell’atmosfera di Toronto a 0.18 parti per trilione; ora dato che la sua capacità istantanea di assorbimento radiativo è di 0.86 Wm2ppb1, stiamo parlando di un forcing radiativo istantaneo dell’ordine di 1.5 x 10-4 Wm2, ossia circa 10.000 volte inferiore a quello in azione al momento. Il punto è che questo effetto si prolungherà per qualche secolo perchè la vita media del materiale in questione è di circa 500 anni e potrebbe arrivare ad 800.

Diciamo che i titoli ed anche i contenuti dei giornali sono sempre da prendere con le pinze; comunque certo si tratta di un agente serra finora non considerato nei calcoli, ma che non cambierà le cose in modo determinante; la conclusione più corretta è quella del nuovo articolo degli scopritori del fenomeno, lontani dalle notizie esplosive di tipo giornalistico: “Detection of PFTBA demonstrates that perfluoroalkyl amines are a class of LLGHGs worthy of future study.”( LLGHG = Long Lived GreenHouse Gases)

Occorre continuare il lavoro certosino che è stato iniziato con il REACH, una decisione europea, ricordiamolo, non mondiale che tende a comprendere e poi a mettere sotto controllo tutti i materiali chimici di sintesi prodotti in grande quantità. Come mai su questo nessun giornale fa titoli esplosivi?

Fluoxetina, Prozac.

L’altra notizia è quella della scoperta dell’effetto della fluoxetina (il comune Prozac) sui topi che sono geneticamente affetti da sindrome analoga a quella “Down” umana (http://bologna.repubblica.it/cronaca/2013/12/12/news/ricerca_un_antidepressivo_per_curare_la_sindrome_di_down-73407916/).

200px-Fluoxetin_Structural_Formulae_of_both_enantiomersVerrebbe da dire, parafrasando un libro di successo, che il Prozac è meglio di Platone…(almeno certe volte). La fluoxetina è la molecola otticamente attiva che è qui rappresentata, uno dei più famosi antidepressivi del mondo tanto da entrare nei titoli di vari romanzi ed altre iniziative culturali, usata in quantità pari a centinaia di milioni di compresse all’anno, con tutti i problemi del caso, dati i possibili e significativi effetti collaterali.

La fluoxetina è un inibitore selettivo della ricaptazione della serotonina (SSRI) nei neuroni centrali.

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La serotonina o 5-idrossitriptamina deriva dal triptofano ed è utilizzata in alcune regioni del Sistema Nervoso Centrale, come quella ippocampica come mediatore; essa viene rilasciata al confine sinaptico e trasporta il potenziale di azione fra un neurone e l’altro; dopo il rilascio viaggia verso i recettori; tuttavia non tutte le molecole di serotonina raggiungono il bersaglio e quindi alcune vengono riassorbite dalla sinapsi; la fluoxetina, blocca le proteine di membrana che ricaptano la serotonina in modo specifico e quindi rende più efficace e prolungato l’effetto del mediatore.

sinapsihttp://www.unipv.it/tslmra22/Sinapsi.ppt

Il gruppo bolognese diretto dalla prof. Bartesaghi già da molti anni studia la possibilità di agire sulla sindrome di Down umana, usando come sistema modello i topi Ts65Dn che avendo una ridotta espressione del recettore 5-HT1A ed un ridotto livello di serotonina mostrano comportamenti analoghi a quelli dei soggetti Down; la sindrome di Down è una malattia genetica che si manifesta in più di un caso ogni mille nascite nell’uomo e che riduce le performances intellettive e comportamentali in modo irreversibile.

L’idea di partenza è che dato che la fluoxetina è in grado di aumentare la proliferazione cellulare in una ben precisa zona del cervello, il giro dentato e causare la maturazione dendritica nelle cellule dell’ippocampo (ciò avviene a causa dell’effetto di blocco del riassorbimento della serotonina) possa anche ridurre l’impatto della malattia.

In un lavoro precedente avevano ottenuto risultati positivi in neonati del topo; questa volta hanno agito nella fase prenatale; con risultati addirittura migliori, ripristinando il comportamento corretto dopo la nascita.

L’ipotesi che fanno adesso è che, dato che il farmaco in questione è un farmaco normalmente usato nell’uomo e anche in gravidanza, sia possibile usare la medesima terapia nell’uomo; ovviamente ci vorranno lunghi studi, però si apre una eccezionale possibilità: guarire una malattia genetica fra le più importanti e diffuse e che ha enormi conseguenze sociali.

Faccio tanti auguri alla collega Bartesaghi.

Noto di passaggio che questo è il terzo colpaccio di Alma Mater quest’anno: prima c‘è stato il premio Nobel a OPAC di cui è membro eminente il collega Ferruccio Trifirò, direttore de La Chimica e l’Industria, poi il premio di Nature alla carriera a Vincenzo Balzani, una sorta di mini NOBEL, e adesso quest’annuncio che apre la speranza ad una terapia rivoluzionaria per una malattia genetica terribile; insomma UniBo rappresenta oggi al meglio l’Università italiana e ci mette sotto gli occhi gli usi complessi e spesso contraddittori della Chimica.

* ringrazio per la versione esatta Ludovico Pernazza di UniPv

[1] http://adsabs.harvard.edu/abs/2008AGUFM.A51I0216Y

[2] GEOPHYSICAL RESEARCH LETTERS, VOL. 40, 6010–6015, doi:10.1002/2013GL058010, 2013

[3] Sandra Guidi,Fiorenza Stagni, Patrizia Bianchi, Elisabetta Ciani, Andrea Giacomini, Marianna De Franceschi,Randal Moldrich, Nyoman Kurniawan, Karine Mardon, Alessandro Giuliani, Laura Calza` e Renata Bartesaghi

Prenatal pharmacotherapy rescues brain development in a Down’s syndrome mouse model doi:10.1093/brain/awt340, Brain 2013

Renata Bartesaghi  è Professore Associato BIO/09 FISIOLOGIA http://www.unibo.it/faculty/renata.bartesaghi

Marotta e la condanna.

a cura di Gianfranco Scorrano, ex Presidente SCI

marottaDomenico Marotta nacque a Palermo il 28 luglio 1886 da un piccolo industriale non molto fortunato e dalla figlia di un noto farmacista. Visse prevalentemente con i nonni che provvidero a mantenerlo agli studi, con la segreta speranza di potergli affidare in avvenire la gestione della farmacia,la prima della città. Nel 1910, quando stava per laurearsi con il massimo dei voti in chimica (con Giorgio Errera), arriva a Palermo il colera. Marotta si impegnò nella lotta alla malattia, che aveva recato con sé anche disordini popolari di vario tipo. Svolse il suo lavoro con precisione, venendo nominato assistente straordinario con il compito di controllare le acque potabili della città. Nel 1911 si trasferisce a Roma, lavorando brevemente nel Polverificio sul Liri della Direzione Artiglieria e subito dopo accettando la proposta di Emanuele Paternò di assumerlo, nel 1912, come assistente nel Laboratorio chimico della Sanità. Lì rimase fino al 1935 quando, subito dopo aver rinunciato alla cattedra di Chimica Analitica e Merceologica nell’Università di Firenze, vinta per concorso, fu nominato Direttore dell’Istituto Superiore di Sanità (Viale Regina Elena), appena creato.

ISS

Rievochiamo brevemente la storia di questo istituto. Nel 1929, la Fondazione Rockefeller, così come aveva fatto nei maggiori paesi europei, iniziò delle trattative con il Governo Italiano per sovvenzionare la creazione di un grande Istituto di Sanità. In cambio della donazione offerta, che sarebbe stata assorbita dalla costruzione dell’edificio, il governo italiano si impegnava  ad attrezzare l’Istituto e a provvedere al suo funzionamento.

L’Istituto fu inaugurato nel 1934 e completato nel 1935 quando cominciarono il trasferimento dei laboratori allora esistenti nella vecchia sede di Piazza Vittorio Emanuele. Il 25 luglio di quell’anno Marotta fu nominato direttore dell’ISS. Lo sviluppo dell’ISS può essere illustrato da alcune cifre: nel 1934 i laboratori della Sanità avevano tre Dipartimenti e 34 ricercatori, divenuti nel 1948 sette Dipartimenti e 148 ricercatori e nel 1959 dieci dipartimenti e 272 ricercatori. Oggi, il personale, inclusi tecnici e amministrativi, è di circa 2000 persone.

L’attività intensa può essere qui solo accennata: il Laboratorio di Fisica, più conosciuto come Laboratorio del Radio, già sistemato in via Panisperna, ebbe un ruolo rilevante nella collaborazione con il gruppo di Fermi; la battaglia condotta con Missiroli che portò alla scomparsa, nel 1948, della malaria nell’agro pontino e nel resto dell’Italia; la fabbrica statale della penicillina realizzata nel 1951 nell’ISS. Quest’ultima nacque anche per il contributo scientifico di Ernst Boris Chain che con il collega Daniel Bovet ben rappresentavano il  livello scientifico dell’Istituto nella qualità di due vincitori di premi Nobel che lì lavoravano.

Marotta fu attivo in molte organizzazioni. Quelle che qui interessano sono le organizzazioni dei chimici: iniziò come Segretario Generale della Sezione di Roma della  (prima) Società Chimica Italiana (1917-1918) per continuare nella Associazione di Chimica Generale ed Applicata (1919- 1928) e nella Associazione Italiana di Chimica (1929-1949) ed infine nella (seconda)Società Chimica Italiana (1950-1959) di cui divenne Presidente nel 1960-1964. E’ da notare che il Segretario Generale aveva un ruolo dominante, un po’ come i segretari dei nostri partiti politici, e responsabilità gestionali. Nel 1953 la Società Chimica Italiana aveva sede in Via IV Novembre 139 e decise di acquistare la sede di Viale Liegi 48 , dando al segretario generale il compito di perfezionare le pratiche di acquisto. Fu nominato Direttore delle riviste Gazzetta Chimica Italiana (dal 1920 al 1968) e degli Annali (dal 1923 al 1972).

Nell’estate del 1961, per raggiunti limiti di età, Marotta va in pensione.

Riprendiamo la narrazione dall’articolo di Giovanni Paoloni su “Il caso Marotta:la scienza in tribunale” apparso su Le Scienze,pag.88 del numero di luglio 2004. Narra Paoloni che, ad opera di un dipendente amministrativo dell’ISS, mosso forse, come affermò al processo il ministro della Sanità Angelo Raffaele Jervolino, da risentimento per una mancata promozione, furono nel 1962 prodotti una serie di esposti tesi a dimostrare che l’ISS , come molti altri enti scientifici, fosse amministrato senza alcun rispetto per le norme di contabilità dello stato. Furono aperte due inchieste amministrative,una da parte del Ministero del Tesoro e l’altra da parte del Ministero della Sanità. Le conclusioni delle inchieste vennero ritenute da Jervolino tranquillizzanti, a suo parere le irregolarità riscontrate erano conseguenze inevitabili della farraginosa normativa italiana.

Poco dopo la decisione di Jervolino (siamo nella prima metà del 1963),iniziò una fuga organizzata di notizie che, dice,Giovanni Paoloni, “culminò nella pubblicazione sull’Unità delle fotocopie di alcuni documenti dell’ISS. Lo scopo era evidentemente quello di attirare l’attenzione della Magistratura”.

La mattina dell’8 aprile 1964 il prof. Marotta ricevette a casa la notifica di un mandato di cattura e, a 78 anni, venne ammanettato e tradotto in carcere come imputato di varie irregolarità amministrative. L’età avrebbe richiesto un comportamento dei giudici più rispettoso: fortunatamente Marotta fu ben presto, il 15 aprile, liberato e ricondotto a casa.

Marotta rifiutò di comparire al processo dichiarando, riporta Leonello Paoloni: “che una persona della sua età, che aveva reso importanti servigi al proprio paese,non meritava un tale trattamento.” Naturalmente questo indispettì i giudici che riservarono un ben aspro trattamento ai testimoni: tra questi il prof.Chain che rescisse il contratto con l’ISS, lasciò per sempre l’Italia e da Londra fece partire una forte campagna di stampa di solidarietà a Marotta,  denunciando “il processo come un mostruoso trucco politico”.  Anche Daniel Bovet lasciò nel 1964 l’ISS, vinse la Cattedra di Farmacologia e si trasferì a Sassari. Nel 1969 rientrò a Roma come Direttore del Laboratorio di Psicobiologia e Psicofarmacologia del CNR. Tra il 1971 e il 1982 fu docente di Psicobiologia all’Università di Roma.

Marotta ebbe in primo grado una condanna a 6 anni di reclusione. La corte d’appello, successivamente assolse completamente Marotta.

Il processo a Marotta non fu l’unico nel periodo ad interessare operatori della ricerca ad alto livello. Nelle prossime puntate ricorderemo i casi Ippolito e Buzzati Traverso, per arrivare a discutere varie ipotesi su quelle che furono chiamate dalla stampa, con notevole malevolenza, “le forchette della scienza”.

Leonello Paoloni, Domenico Marotta in Dizionario Biografico degli Italiani-Treccani http://www.treccani.it/enciclopedia/domenico-marotta_(Dizionario-Biografico)/

Giovanni Paoloni, Il caso Marotta: la scienza in tribunale, Le Scienze, luglio 2004, 88-93

Daniel Bovet, Domenico Marotta Ann.Ist.Super.Sanità, vol 29,suppl.1, 1993, pp. 7-21

Per la storia della Società Chimica Italiana vedi:

http://www.chimica.unipd.it/gianfranco.scorrano/pubblica/Storia_SCI_Vol_1.pdf

Il sesto senso

Per gentile concessione del sito www.scienzainrete.it

a cura di Marco Taddia, UniBo*

Più che di “sesto senso” forse si dovrebbe parlare di “senso critico”, ma non è scontato che sia ancora patrimonio di tutti coloro che si occupano di scienza. L’articolo di quattro pagine “Trouble at the lab” che in data 19 Ottobre 2013 il settimanale londinese The Economist ha dedicato alla cattiva condotta scientifica, nonché alle sue cause, conseguenze e rimedi, lo conferma e lo rivela alla pubblica opinione.

theeconomist

corriere

Il più influente quotidiano italiano l’ha subito ripreso con una certa enfasi (Corriere della Sera, “Gli errori che danneggiano la credibilità della scienza”). Mentre è comprensibile che fra i lettori dei giornali la denuncia abbia suscitato clamore, gli scienziati più avveduti dovrebbero già essere al corrente di tali storture perché la documentazione non manca. Sono stati pubblicati numerosi libri sull’argomento, mentre le riviste specializzate hanno lanciato l’allarme da molto tempo e suggerito azioni correttive che non riescono, purtroppo, ad estirpare alla radice il fenomeno. L’articolo di The Economist non aggiungeva molto a quanto si sapeva già,  specialmente sulla irriproducibilità di tanti risultati e sulla gara forsennata a produrre pubblicazioni solo ai fini della carriera, ma si è rivelato importante almeno per due motivi. Innanzitutto si è constatato che il transito della malascienza dalla letteratura specializzata a un settimanale autorevole come The Economist certifica una volte per tutte che la cattiva condotta scientifica non è più un affare interno della comunità dei ricercatori e che la puzza dei “panni sporchi” oltrepassa ormai le mura dei laboratori giungendo anche a quei privati che sono possibili finanziatori della ricerca. Il giornale dedicava alla malascienza addirittura la sua copertina, aumentando in tal modo il peso della denuncia. A caratteri cubitali, graficamente elaborati ad includere provette, nebulose e formule si leggeva “How science goes wrong”. Il secondo motivo d’interesse erano le indicazioni che venivano fornite per correggere i difetti segnalati e rafforzare la credibilità degli scienziati. Alcune erano riprese da riviste e istituzioni (NSF) importanti e sono ben note. Oltre ad incoraggiare la verifica della riproducibilità dei dati scientifici e l’uso accorto dei mezzi statistici, si poneva l’accento sulla formazione. Scriveva The Economist, riferendosi a un intervento del genetista Bruce Alberts (già chief-editor di Science) : “Budding scientists must be taught technical skills, including statistics, and must be imbued with scepticism towards their own results and those of others”. A dire il vero, l’auspicio che gli scienziati in erba debbano crescere imbevuti di scetticismo desta qualche perplessità, visto il significato del termine nella nostra lingua. Probabilmente l’estensore dell’articolo intendeva altro.
Quello che si potrebbe dire, specialmente se si possiede una lunga esperienza d’insegnamento, è che gli studenti dovrebbero essere educati al senso critico e “imbevuti” proprio di questo. Il filosofo Evandro Agazzi intervistato qualche anno fa da Avvenire (19 Febbraio 2009) diceva giustamente che “la scuola aiuta i giovani se riesce a insegnare loro il senso critico”.

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Ma che cos’è il senso critico? Ci viene in aiuto a questo proposito una limpida espressione di Francis Bacon (1561-1626) che negli Essays, Civil and Moral (Of Studies) scriveva “Read not to contradict and confute; nor to believe and take for granted; nor to find talk and discourse; but to weigh and consider”. Si ha l’impressione che la Riforma Universitaria del cosiddetto 3+2 non aiuti gli studenti a to weigh and consider perché nel triennio si dovrebbe mirare all’acquisizione di conoscenze direttamente spendibili sul mercato del lavoro. Non tutti, naturalmente, possono o vogliono diventare scienziati ma chi intraprende questa strada necessita di una robusta educazione al senso critico, oggi come ieri. Questo sesto senso non è necessariamente la caratteristica prevalente di ogni personalità scientifica ma guai se coloro che si sentono più innovatori che critici ne fossero sprovvisti. I loro risultati potrebbero essere dannosi per tutti.

http://archiviostorico.corriere.it/2013/ottobre/19/gli_Errori_che_Danneggiano_Credibilita_co_0_20131019_d926cd2a-3881-11e3-ad3b-96981bc56468.shtml

http://www.economist.com/news/briefing/21588057-scientists-think-science-self-correcting-alarming-degree-it-not-trouble

*

marcotaddiahttp://www.unibo.it/SitoWebDocente/default.htm?UPN=marco.taddia%40unibo.it&TabControl1=TabCV

Soddy e la scoperta degli isotopi

a cura di Giorgio Nebbia, Socio Onorario della SCI, nebbia@quipo.it

da La Gazzetta del Mezzogiorno, martedì 3 dicembre 2013

Frederick_SoddyUna breve “lettera”, data 4 dicembre 1913, pubblicata dalla rivista inglese “Nature” da Frederick Soddy (1877-1956), docente nell’Università scozzese di Glasgow, ha rivoluzionato la chimica, la fisica, la storia e l’ambiente. Lo ricorda, a un secolo di distanza, il noto storico americano della chimica George Kauffman. Soddy aveva a lungo lavorato sulla radioattività, scoperta pochi anni prima dai coniugi Curie in Francia, collaborando in Canada col chimico Ernst Rutherford (1871-1937), premio Nobel 1908. Rutherford e Soddy riconobbero che la radioattività consisteva nella “disintegrazione” degli atomi, in trasmutazioni, come le battezzò Soddy prendendo a prestito un termine usato dagli alchimisti medievali i quali rincorrevano il sogno di trasmutare i metalli vili in oro. Gli esperimenti avevano mostrato che dalla disintegrazione dell’uranio e del torio si formavano elio e altri elementi, fino al piombo.

sodddy4dic1913

Nature 92, 399–400; 423 (1913)

Però il piombo ottenuto con queste reazioni aveva un peso atomico diverso da quello del piombo estratto dai minerali. Il piombo esisteva, quindi, in due forme differenti, pur avendo lo stesso comportamento chimico. Nella sua lettera a “Nature” Soddy chiamò tali diverse atomi dello stesso elemento, “isotopi”, nome formato da due parole greche, isos, che significa uguale e topos che significa posto; atomi che occupavano la stessa casella nella tabella degli elementi di Mendeleev pur essendo differenti [Nota]. La scoperta di Soddy, che ebbe il premio Nobel per la chimica nel 1921, scatenò una caccia agli isotopi esistenti in natura.

Dopo un secolo oggi sappiamo che dei 115 elementi chimici esistono circa duemila isotopi; alcuni atomi hanno due o tre isotopi, altri oltre dieci isotopi, alcuni abbondanti, altri rari, altri sono stati ottenuti artificialmente. Ad esempio l’idrogeno, che ha peso atomico uno, ha due isotopi con peso atomico due (deuterio) e tre (trizio); facendo scontrare il deuterio e il trizio ad alta temperatura e pressione, si libera, per “fusione nucleare”, una grandissima quantità di energia (la reazione che si ha nelle bombe termonucleari) con formazione di uno o due isotopi dell’elio. Lo zucchero, quei bei cristalli bianchi che si mettono nel caffè, contiene l’elemento carbonio con differenti quantità dei due isotopi con peso atomico 12 e 13, a seconda che sia fabbricato dalla barbabietola o dalla canna.

Misurando la concentrazione dell’isotopo 14 del carbonio si può sapere se un tessuto o un foglio di carta sono stati fabbricati cinquanta o cinquecento anni fa. L’elemento uranio è presente in natura con vari isotopi, ma solo quello con peso atomico 235 è fissile nel senso che subisce fissione, dopo essere stato urtato dai neutroni, e libera energia per ”fissione nucleare”, quella delle bombe e delle centrali atomiche. Per farla breve la scoperta dell’esistenza degli isotopi ha permesso di risolvere moltissimi problemi pratici e ha permesso di comprendere il “funzionamento” di innumerevoli processi naturali.

Durante le sue ricerche sulla radioattività Soddy si rese conto di quanta energia fosse “contenuta” in alcuni atomi e pensò che questa energia avrebbe potuto essere messa al servizio delle necessità umane ma avrebbe anche potuto essere usata come strumento di distruzione. Una idea che Soddy espose nel 1912 nel libro “Materia ed energia” che allora ebbe un grande successo. Lo scrittore H.G.Wells (1866-1946) si ispirò al libro di Soddy per il romanzo di fantascienza,”Il mondo liberato”, in cui per la prima volta è usato il termine “bomba atomica”.

Intanto si stava avvicinando la prima guerra mondiale (1914-1919), la grande carneficina che scosse molto Soddy, impressionato dal ruolo che “la scienza” aveva avuto nella preparazione di armi sempre più devastanti. Soddy decise di dedicarsi alla denuncia dei pericoli rappresentati dall’uso improprio delle conoscenze scientifiche; i due decenni fra la prima e la seconda guerra mondiale (1939-1945) lo videro impegnato nello studio di forme alternative di economia come quelle espresse nel poco noto saggio sulla “Economia cartesiana” del 1921.

Soddy propose differenti metodi, basati sull’energia, di valutazione degli scambi economici, espresse una critica del Prodotto Interno Lordo e riconobbe l’importanza ”economica” dell’energia solare e dell’agricoltura, l’industria più importante proprio perché “alimentata” dall’energia solare. Soddy fu il primo a indicare, sulla base di conoscenze fisiche e chimiche, che le risorse terrestri sono limitate e che l’economia sarebbe andata incontro a dei limiti, una dimenticata anticipazione di quanto sarebbe stato scritto, molti anni dopo, sui limiti alla crescita e sulla “decrescita”.

Soddy ottenne la cattedra di chimica a Oxford nel 1919, ma nel mondo accademico fu sempre considerato “strano” per le sue incursioni in campi non strettamente chimici. Soddy si mise in pensione anticipatamente nel 1936, dopo la morte dell’amata moglie, e morì nel 1956 a 79 anni, amareggiato per la poca attenzione ricevuta dai suoi studi. Una attenta lettura dei suoi scritti (pochi tradotti in italiano) permette invece di riconoscerlo come un precursore dell’analisi dei problemi ambientali attuali, come ha messo in evidenza lo storico Martinez-Alier nel suo libro “Economia ecologica”. Per questo, oltre che per la sua scoperta degli isotopi, Soddy meriterebbe di essere meglio conosciuto e studiato se si vuole capire qualcosa di quanto ci sta aspettando.

[Nota]: più tardi si scoprì che la differenza consisteva nel diverso numero di neutroni a parità di protoni (numero Z) per gli isotopi, ma che esistono anche atomi con ugual numero complessivo di nucleoni, ossia somma di neutroni e protoni, un numero che è indicato come numero di massa dell’atomo (numero A), mentre il simbolo usato per i neutroni è N, quindi A=Z+N; in tal caso gli atomi non occupano la medesima casella del sistema periodico, ma hanno masse molto molto simili, la cui differenza si apprezza solo con tecniche che danno un elevato numero di cifre significative. In effetti il numero di massa A è un numero intero adimensionale, mentre la massa è una grandezza dotata di unità di misura ed è influenzata non solo dai numeri assoluti delle particelle ma anche dalla energia di legame per nucleone, a causa della equivalenza fra massa ed energia. Una tabella che fa apprezzare tali distinzioni è la seguente:

http://physics.nist.gov/cgi-bin/Compositions/stand_alone.pl

dove il primo numero è Z, il secondo simbolo è quello dell’elemento o dell’isotopo, ed il terzo numero è il numero di massa, A, (di solito scritto in alto a sinistra, come in AX).

f1big

Nella medesima tabella la massa atomica relativa (espressa come rapporto fra la massa assoluta e la cosiddetta uma, 1,660 538 921(73)x 10-27 kg) di ciascun isotopo è il numero a molte cifre scritto in quarta colonna e privo di unità di misura; il cosiddetto peso atomico standard che è la combinazione lineare dei prodotti delle masse atomiche relative secondo le loro abbondanze è indicato infine nella penultima colonna.

La differenza di massa atomica relativa fra 3H e 3He è di 2*105 con l’elio che pesa meno del trizio. Viceversa il 58Fe pesa meno del 58Ni. Tutti questi dettagli sarebbero venuti dopo nella storia della Chimica.

Si veda anche la seguente:

http://it.wikipedia.org/wiki/Tabella_degli_isotopi

Vale anche qui la pena di ricordare che il Numero di Avogadro è il rapporto fra il grammo e la uma e quindi non è una costante “naturale”, ma piuttosto una costante che dipende dal rapporto arbitrario fra due umanissime unità di misura, il grammo e la uma.

Mai invitare un chimico in pizzeria.

a cura di Mauro Icardi*

mauroicardiQueste parole le ho sentite pronunciare da un assistente di laboratorio di Chimica Organica,trent’anni fa.

Le pronunciò, rivolgendosi a noi studenti, sostenendo che avremmo incominciato a parlare di argomenti, che forse a tavola sarebbe meglio evitare.  Cioè degli additivi alimentari, e perché no, anche della Coca Cola e dei soft drinks. E quindi un chimico in Pizzeria risulterebbe un po’ come quello che rovina le feste.

Il ricordo mi fa sorridere, ma devo dire che la frase non è del tutto campata in aria.

Lavoro come chimico di laboratorio da ormai trent’anni. La chimica è per me una fonte di sostentamento e di reddito. Ma anche un’inesausta fonte di conoscenza. Non ho mai smesso di interessarmi di argomenti di chimica, e soprattutto di provare a parlare di chimica con chi chimico non è.

Decisi di studiare chimica quando avevo circa undici anni. Erano i primi anni settanta. In quegli anni si cominciavano a manifestare gli effetti dei tanti problemi legati all’inquinamento dell’ambiente. Si parlava molto di inquinamento delle acque. Ricordo di avere letto molti articoli  su questo tema. Nel 1973 si verificò anche l’epidemia di colera a Napoli e Bari, che si scopri poi essere scaturita dall’abitudine di consumare frutti di mare crudi,in particolare cozze,che venivano coltivate e pescate in tratti di mare inquinati da scarichi fognari.  Anche a seguito dell’ondata emozionale scaturita da questa vicenda, ma non solamente, nel 1976 venne promulgata la legge 319/76 conosciuta come “Legge Merli”, che fu una legge storica per l’Italia. Disciplinava gli scarichi di acque reflue nelle fognature e nei corpi idrici, ed istituiva i limiti tabellari per diversi parametri chimici e microbiologici. Attualmente tale legge è stata abrogata dal nuovo testo unico sull’ambiente.  Ma non è inusuale sentire ancora parlare di “tabella A” riferendosi ad un’acqua reflua che rispetta i valori limite per lo scarico.

leggemerli

Sempre in quegli anni si verificarono diversi fatti di cronaca che influenzarono la pubblica opinione. E furono scandali legati alla sofisticazione alimentare.  Che per la verità non è legata solo a quel periodo. E’ antica,e viene descritta anche da Plinio il vecchio che parla dell’uso di mescolare farine pregiate con altre scadenti.  In televisione si parlava molto di bistecche gonfiate e di coloranti alimentari. Qualche anno dopo, quando già lavoravo esplose lo scandalo più grave, cioè quello del vino al metanolo.

Gli anni 70 furono anche gli anni della vicenda diossina a Seveso.

Studiare chimica mi sembrò a questo punto la cosa migliore da fare.  Questi fatti di cronaca ne furono lo stimolo.

Negli anni di studio riuscii anche a “pizzicare” il nostro fornitore di fiducia di olio d’oliva che ci vendeva olio d’oliva appunto, facendocelo pagare come extravergine. In quel periodo stavamo eseguendo nelle esercitazioni di Laboratorio analisi bromatologiche. Oltre al controllo di qualità degli oli, anche la determinazione dei polifosfati nei formaggi o negli insaccati. I campioni li portavamo da casa.

L’analisi allo spettrofotometro, e la verifica dei coefficenti di assorbimento specifico  svelarono la frode.

Ricordo ancora l’imbarazzo di quel signore che ci portava l’olio a casa con il furgone. Non sapeva che studiavo chimica. Si imbarazzò moltissimo, farfugliò qualche parola di scusa, e da quel momento in avanti non ci imbrogliò più. Ricordo che mio padre fu molto orgoglioso di me, e raccontò questo episodio per molti anni. Credo che il venditore d’olio nutrisse per me un certo rancore, ma non ne ho mai avuto la conferma.  Era un conoscente della mia famiglia,io uno studente. Decidemmo di non  prendere nessuna iniziativa nei suoi riguardi

Negli anni successivi ho potuto sperimentare personalmente però, che effettivamente il chimico in pizzeria può essere una presenza scomoda.  O che quantomeno non sempre riesce a farsi comprendere.

  Quando si parla di questi argomenti legati alla chimica a tavola, con regolarità  vengo subissato dagli altri commensali che di solito sono  amici, conoscenti o parenti ,con una quantità di inesattezze o con vere e proprie baggianate (oggi si chiamano anche bufale). Le domande sono moltissime. E di solito c’è sempre qualcuno che ha letto qualche articolo sensazionalista. Oppure al contrario qualcuno che ti dice che le cose che dici sono tutte bugie o sciocchezze. Questo mi succede per esempio quando parlo dei danni del fumo di sigaretta, e parlo con fumatori accaniti.

Negli ultimi anni, visto che mi occupo per lavoro di ciclo idrico, soprattutto quando si parla di acqua, mi si spalanca un “mare magnum” di leggende ed inesattezze dure a morire. Se parlo di acque potabili in particolare.

Il tema è vasto, e merita un’approfondimento che non ritengo di dover  fare in questo articolo, che in sostanza che parla dei ricordi di un chimico

 Di sicuro faccio molta fatica a far capire alcune cose.

Molte persone mi dicono di non bere acqua di rubinetto, perché convinte a priori che la qualità dell’acqua non sia buona, o addirittura non ci siano controlli adeguati. Visto che mi occupo di questo ogni giorno, mi capita spesso di sentirmi quantomeno in imbarazzo, e di provare un senso  di fastidio.

Ma ricordo anche, con nostalgia e tenerezza insieme un dialogo, quasi un siparietto, che si è svolto per molti anni a casa dei miei genitori. Soprattutto dopo che mi ero sposato e non vivevo più con loro.

Mio padre, come tutti gli uomini della generazione che aveva vissuto le ristrettezze della guerra, era per così dire parsimonioso. Mia madre di otto anni più giovane di lui, era maggiormente sensibile e lusingata dagli slogan della pubblicità. Ed io venivo chiamato in causa, cercando di convincere mamma ad usare meno detersivo per piatti.  Oppure parlando a cena di sbiancanti ottici nei detersivi.

Mia madre fu sempre irremovibile, continuò imperterrita ad usare  esagerate di detersivo, io continuai per anni a dirle di usarne di meno. Non le importava che io fossi un chimico,e che lei si fosse tanto commossa  ed inorgoglita nel vedermi indossare il camice bianco. Se non ne avesse usato tanto, a suo parere non avrebbe  ottenuto il pulito che voleva.

L’episodio fa capire che non si può, e non si deve  smettere di parlare di chimica.

Anche se il chimico corre il rischio di essere il guastafeste in pizzeria. Ed in qualche caso anche di non riuscire ad essere profeta in patria.

Ma credo sia necessario ricordare ai non chimici, la centralità della chimica nella scienza.

“Chimica, centralità di una scienza”  non è solo il titolo di un buon testo di chimica. E’ una evidente constatazione dell’importanza di questa scienza nel nostro vivere quotidiano.

http://www.webbofscience.com/2009/01/29/pizza-chemistry/

* Mauro Icardi è tecnico di laboratorio presso una azienda che si occupa della gestione integrata delle acque in provincia di Varese.

Valorizzare i percorsi di ricerca in Didattica della Chimica

a cura di    Teresa Celestino *, Dottoranda in Didattica della Chimica,

School of Advanced Studies – UniCam                                                                                   

teresacelestinoDurante l’ultimo congresso nazionale organizzato dalla Divisione Didattica della SCI ho avuto modo di scambiare qualche idea con la Prof.ssa Silvana Saiello, attuale presidente di tale Divisione. Ci siamo chieste perché i vari settori in cui è organizzata la SCI (di Chimica Analitica, Elettrochimica, Chimica Fisica, ecc…) trovino una qualche corrispondenza all’interno dei vari dipartimenti universitari mentre ciò non accade per la didattica, come se questa non costituisse un vero e proprio campo di ricerca. In molte istituzioni accademiche estere l’esistenza di un dipartimento con un corpo stabile di ricercatori e docenti dediti al miglioramento della didattica è considerata normale; da noi questo filone di studi è coltivato da pochi studiosi per lo più provenienti da una lunga esperienza nella ricerca sperimentale, percorso obbligato dal momento che non esistono percorsi di carriera dedicati specificamente a chi si dedica alla ricerca didattica. Eppure questa è di vitale importanza, non solo per la formazione degli insegnanti e le conseguenti ricadute sugli apprendimenti degli studenti, ma anche per migliorare la qualità dei corsi universitari. Già, perché la didattica costituisce il vero filo conduttore dell’intero percorso formativo, dalla scuola per l’infanzia all’istruzione post-secondaria, l’unico che può davvero realizzare una continuità d’intenti nel realizzare l’educazione scientifica del cittadino.

Immagine3 1 Purtroppo pochissimi atenei italiani attivano corsi di dottorato in didattica. Una lodevole eccezione è rappresentata dall’Università di Camerino, la cui School of Advanced Studies ha istituito percorsi di respiro internazionale anche nel campo della didattica delle scienze sperimentali (Chimica, Fisica, Scienze della Vita, Scienze della Terra). È un vero peccato che il dottorato in didattica sia un percorso accademico raro nel panorama universitario italiano, poiché esso rappresenta una grande opportunità per gli insegnanti e in generale per chiunque sia interessato a condurre ricerche sui processi di insegnamento-apprendimento delle scienze a tutti i livelli e negli ambiti più disparati. La ricerca in didattica delle scienze è tipicamente condotta in situ coinvolgendo studenti delle scuole secondarie e universitari, dunque il laboratorio del ricercatore è costituito dalle teste dei propri allievi piuttosto che da vetreria, reagenti e strumenti di misura. Il laboratorio comunemente inteso non è praticato per contribuire all’avanzamento delle conoscenze disciplinari né è una mera applicazione di queste: lo scopo del laboratorio didattico è unicamente quello di promuovere l’apprendimento tramite esperienze opportunamente progettate dall’insegnante. Questa è una prima importante differenza tra la ricerca in didattica delle scienze e la ricerca scientifica in senso stretto.

Altra differenza sta nel fatto che nella ricerca didattica la ripetibilità del risultato non è garantita, e in ogni caso non può mai essere completa per l’elevato numero di fattori in gioco al di fuori del controllo del ricercatore. Un metodo di sintesi di un composto deve funzionare in un laboratorio di Roma così come in uno di Tokio, ma non è detto che i risultati di apprendimento ottenuti in una classe di alunni italiani siano i medesimi per gli studenti giapponesi. Questa caratteristica per alcuni versi costituisce uno svantaggio, ma nello stesso tempo rende le sfide della ricerca didattica particolarmente avvincenti; in più, essa fornisce un ulteriore motivo per coltivare tale genere di studi: proprio perché nessun risultato è acquisito una volta per tutte, è necessario moltiplicare le sperimentazioni allargando sempre più la platea di studenti e insegnanti coinvolti.

????????????????????????????????????????Inoltre la ricerca didattica si distingue dalla ricerca scientifica propriamente detta in quanto richiede non solo conoscenze nello specifico ambito disciplinare, ma anche in quello psico-pedagogico, sociale, filosofico, statistico. Nella ricerca didattica confluiscono infatti tutte queste diverse aree; il peso assunto da ciascuna di esse varia a seconda dallo specifico percorso di studio intrapreso.

Le ricerche possono essere di tipo qualitativo, quantitativo o misto. I metodi qualitativi includono interviste, osservazioni, diari di bordo e altri metodi propri delle scienze sociali; i metodi quantitativi prevedono la raccolta di dati che possono essere analizzati  con gli strumenti della statistica. In quest’ultimo caso ci si avvale della collaborazione di più soggetti per ampliare il numero di studenti su cui sperimentare nuove strategie; tipico è il caso della collaborazione tra più insegnanti della stessa scuola o di scuole diverse, fino ad arrivare a coinvolgere intere aree geografiche.

Nel nostro paese la ricerca didattica su grandi numeri di studenti è poco diffusa per un insieme di ragioni, fra cui la scarsa sensibilità ai temi della ricerca educativa e la difficoltà nel convogliare in essa parte delle già magre risorse economiche disponibili. Più comunemente il singolo insegnante o un piccolo gruppo di colleghi volenterosi conduce sperimentazioni sulle proprie classi. Pur con tutti i suoi limiti, l’esistenza di questi nuclei di ricerca nelle nostre scuole è un dato fortemente incoraggiante, ma occorre fare di più: non solo estendere i soggetti coinvolti per raccogliere un maggior numero di dati, ma anche ampliare la rosa dei temi di ricerca; questa necessità è avvertita a livello internazionale, dunque non deriva esclusivamente da carenze proprie del nostro sistema educativo. Ad esempio, sono molti gli studi relativi all’apprendimento della chimica generale, mentre scarseggiano quelli dedicati alla chimica organica o a branche più specialistiche. Un altro dato riguarda il laboratorio: sebbene in letteratura sia possibile individuare un gran numero di articoli sull’uso del laboratorio, le relative indagini sull’apprendimento degli studenti non sono ben caratterizzate.

Immagine2 1Mentre in medicina la fase di follow up è una prassi consolidata quando si vuole verificare lo stato di salute dei pazienti nel tempo, nella didattica scarseggiano le indagini “longitudinali” allo scopo di seguire le successive scelte accademiche o lavorative degli studenti. Tali indagini sono fondamentali per accertarsi degli effetti a lunga scadenza e correggere il tiro nel caso i risultati, seppur soddisfacenti nel breve periodo, siano invece poco persistenti nel tempo. Un altro dato riguarda l’ampia diffusione degli studi sulle misconcezioni degli studenti a fronte di un basso numero di lavori che elucidano come tali misconcezioni possono essere evitate o corrette.

Un tasto dolente è rappresentato dagli studi interdisciplinari, necessari per far sì che lo studente collochi le sue conoscenze in un quadro unitario e coerente piuttosto che frammentarle in isole corrispondenti alle varie discipline. Molti concetti – si pensi a quello di energia – meriterebbero di essere esaminati in modo trasversale, sia per essere compresi in profondità sia per illuminare sulle differenti chiavi di lettura adoperate dalle singole discipline scientifiche. La ricerca didattica interdisciplinare è praticata meno frequentemente, in quanto richiede la collaborazione di specialisti di diversa formazione; tuttavia essa costituisce senza dubbio uno dei campi più affascinanti nel vasto panorama dei temi da esplorare.

Di grande supporto agli studi interdisciplinari sono quelli che esaminano una disciplina come la chimica sotto una lente di tipo storico, filosofico o sociale. Nell’ultimo caso gli studenti analizzano l’impatto sociale, ambientale o economico di alcuni processi o prodotti. Si tratta di studi nei quali il contesto considerato assume un ruolo fondamentale; gli allievi sono indotti a valutare determinate situazioni, solitamente in risposta ad interrogativi etici, apprendendo nel contempo alcuni concetti-chiave della chimica e pratiche di laboratorio connesse.

In un certo senso gli studi storici sono anch’essi studi “di contesto”: essi trasmettono l’idea della chimica come impresa umana, palesando la grande influenza che questa ha avuto e continua ad avere nell’orientare scelte di governo, favorire progressi sociali, influenzare la produzione artistica. Ma il vero supporto della storia della chimica alla didattica consiste nel mostrare il dinamismo della scoperta e nel favorire una comprensione a tutto tondo di concetti fondamentali alla luce del loro evolversi nel tempo.

La prospettiva filosofica agisce ad un livello ancora più profondo nel definire la natura e le peculiarità della conoscenza chimica. L’impatto degli studi filosofici sui processi di insegnamento-apprendimento della chimica è un campo largamente inesplorato. Sono state individuate le seguenti aree di analisi e riflessione:

–        Concetti chimici: qual è la loro natura? Essi possono essere compiutamente spiegati con gli strumenti della fisica o tale operazione di riduzione sfocia in una conoscenza incompleta? Consideriamo ad esempio il concetto di equilibrio chimico: qual è il suo significato filosofico? Come si può utilizzarlo sul piano didattico?

–        Leggi chimiche. Al contrario di quanto accade per la fisica, molti studiosi ne sottolineano il carattere approssimativo, impreciso, ricco di eccezioni. Una accurata analisi di leggi, principi e regole empiriche in chimica può guidare gli studenti nel valutare con maggiore consapevolezza l’efficacia delle spiegazioni di natura chimica e il potere predittivo di questa scienza.

–        Modelli. I chimici fanno uso di modelli in maniera differente dagli altri scienziati. Spesso uno stesso concetto è considerato alla luce di più modelli (si pensi alle teorie di Arrhenius, Brönsted-Lowry e Lewis; oppure alle teorie del legame di valenza o dell’orbitale molecolare). L’abbondanza e la varietà di modelli in chimica può confondere gli studenti; di questo gli insegnanti devono essere consapevoli.

–        Linguaggio chimico. Il potente linguaggio simbolico ed iconico della chimica non è usato solo per comunicare informazioni, ma riveste un ruolo primario nella costruzione della conoscenza chimica. Impegnarsi nella discussione su nascita, tipologia, evoluzione e limiti del linguaggio chimico è di grande ausilio nello sviluppo delle competenze degli studenti.

urtoefficaceAlla luce di queste considerazioni è evidente la grande utilità della ricerca in didattica delle scienze e della chimica in particolare. Le conseguenze del miglioramento delle prassi didattiche non si limitano infatti a orientare gli studenti nella scelta universitaria e a dare nuova linfa all’attività di insegnamento a tutti i livelli: la società tutta non può che trarre vantaggio dalla diffusione della cultura chimica, visto il suo ruolo cruciale in questioni attuali e importanti per la protezione della salute umana e la salvaguardia dell’ambiente. Coltivare la ricerca in didattica chimica costituisce dunque un ottimo investimento, dati i suoi grandi benefici a fronte di un impegno di risorse materiali davvero modesto rispetto a quello richiesto dalla ricerca da banco.

Concludo con un interrogativo: come mai, nonostante tutto, i corsi di laurea in chimica sono restii ad attivare dottorati di ricerca in didattica? Inoltre: perché non esistono veri e propri dipartimenti in cui coltivare la ricerca sulla didattica delle diverse discipline chimiche? Questi dipartimenti potrebbero agire sia in situ (supportando l’insegnamento universitario) sia in collegamento con le scuole e nella formazione degli insegnanti. Forse perché, al di là delle belle parole, in fondo si crede che la ricerca didattica – non basandosi principalmente su dati numerici e non producendo risultati ripetibili –  non sia degna di molta considerazione?

Fonti:

–        M. H. Town, New Guidelines for Chemistry Education Research Manuscripts and Future Direction of the Field, Journal of Chemical Education, 2013, 1107-1108, 90.

–        V. Talanquer, Chemistry Education: Ten Facets To Shape Us, Journal of Chemical Education, 2013, 832-838, 90.

*http://www.chimicare.org/teresa-celestino/