L’Istituto Nazionale di Chimica, una occasione troppo presto dimenticata.

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Guido Barone

Nell’autunno del 1995, a seguito delle discussioni svoltesi durante le assemblee delle Divisioni della Società Chimica Italiana, tenutesi a Milano durante il XVIII Congresso Nazionale (27.8 – 1.9.1995), dopo una elaborazione di alcuni mesi e una diffusione sia pur limitata nelle sedi universitarie, fu proposto un documento intitolato:

“ISITUTO NAZIONALE DI CHIMICA, elementi per la proposta di istituzione”

Scan INC

a firma di Guido Barone, Fausto Calderazzo, Paolo Cescon, Fulvio Gualtieri, Giovanni Natile, Lucio Senatore e Domenico Spinelli, in rappresentanza di tutte le Divisioni della SCI, di Dante Gatteschi per il Consorzio di Chimica dei Materiali e di Alberto Ripamonti in qualità di membro per la Chimica del Consiglio Nazionale per la Scienza e la Tecnologia. Tale documento fu approvato da una Assemblea di chimici universitari il 22 novembre 1995 con l’impegno di sostenerlo in tutte le sedi istituzionali a cominciare proprio dal CNST e da tutti i Ministeri competenti.

Lo scopo era di “valorizzare le capacità di ricerca di base nell’area delle Scienze Chimiche” e nasceva dopo la deludente esperienza degli esigui fondi messi a disposizione dal Ministero (il cosiddetto 40%) per tutti i settori culturali delle Università (a stento pesati con qualche fattore correttivo a favore delle Scienze sperimentali), e tutti i progetti di costituzione di Centri e Consorzi Interuniversitari. Più positiva era stata inizialmente l’esperienza dei Progetti finalizzati proposti dal CNR a partire dal 1970: la Comunità  Chimica aveva proposto il Progetto “atipico” per la Chimica Fine, dimostrando di aver maturato la sua capacità di autoorganizzarsi con il tentativo di incentivare la parte più avanzata della ricerca di base, stabilendo contatti continuativi tra i gruppi di eccellenza operanti nei laboratori universitari e del CNR con quelli della grande e media industria italiana. Ma anche questa iniziativa nel tempo si era inaridita per le incomprensioni tra le due anime industriale e universitaria.

Il progetto di costituzione dell’ ISTITUTO NAZIONALE DI CHIMICA intendeva riprendere quelle iniziative, ribadendo però con forza la necessità di finanziare adeguatamente la Chimica di base in quanto Scienza Sperimentale, bisognosa di ingenti spese di funzionamento e del rinnovo, sviluppo ed acquisto di strumentazioni di costo elevato, al di fuori delle erogazioni tradizionali delle Agenzie pubbliche di finanziamento. E ciò riconoscendo esservi non solo una necessità inderogabile di ricerca di base, ma anche quella di adempiere al compito istituzionale delle Università di addestrare con l’uso di strumentazioni di avanguardia le nuove leve di studenti, consentendo loro di avere una preparazione competitiva a livello internazionale e costituendo un ritorno positivo per la stessa industria nazionale.

Purtroppo questa iniziativa si arenò rapidamente, sia per l’opposizione dei vertici degli altri settori del CNR, nonché dei chimici stessi impegnati nei Comitati,  sia perché a livello governativo e politico la chimica e la ricerca di base di non immediata applicazione erano ritenute non di interesse strategico, sia forse perché la stessa Comunità Chimica Universitaria non credeva fino in fondo in questa iniziativa troppo ambiziosa.

Ho ricordato questa storia, stimolato dalla trilogia di post al Blog della SCI del Collega Scorrano sui “miracoli scippati” degli anni ’60, ma anche dal libro di Marco Pivato (2011) con lo stesso titolo (una tetralogia su Olivetti, Mattei, Ippolito e Marotta); nonché da quello di Lucio Russo ed Emanuela Santoni (“Ingegni minuti: una storia della Scienza in Italia” 2010, citato da Marco Taddia, ancora una tetralogia su Mattei, Ippolito, Marotta e Buzzati-Traverso). Mi permetto anche di citare il recente testo scritto da Pietro Greco, Lelio Mazzarella e me stesso (“Alfonso Maria Liquori e il risveglio scientifico a Napoli negli anni 60” sulle figure di Liquori, Caianiello, Buzzati-Traverso, Monroy ed altri).

Accanto a questi libri è necessario citare testi con più solidi impianti storico-biografici, come quelli di Francesco Cassata (su Buzzati-Traverso) o quello di Raffaella Simili e Giovanni Paoloni sulla storia del CNR, oppure quello più snello coordinato da Marco Cattaneo (Scienziati d’Italia) o quello coordinato da Pietro Greco e Settimo Termini (Memoria e Progetto) o infine il ponderoso libro di Salvatore Califano sulla storia del pensiero chimico.

Vorrei però cominciare a fare un minimo di ordine in tutto questo materiale, se si vuole non solo collezionare delle storie individuali, ma abbozzare un discorso sulle cause dei fallimenti e delle occasioni perse.

1)    Le storie personali e tragiche di Mattei e di Olivetti rientrano nel quadro delle aspre guerre tra le strapotenti multinazionali e le iniziative imprenditoriali italiane (il complotto sulla fine di Mattei in un incidente aereo provocato è sicuramente accertata, mentre quello sulla morte di Olivetti e del suo collaboratore Tchou sono pure ipotesi romanzate). Anche la storia di Ippolito può rientrare nello stesso quadro di guerra guerreggiata: non a caso la campagna di stampa che affossò il Presidente del CNEN fu scatenata da Saragat, notoriamente legato a settori sindacali e conservatori americani, anche se l’intervento della Magistratura fu occasionato dalla denuncia di un funzionario.

2)     La vicenda di Marotta e dell’Istituto Superiore di Sanità è invece confinata in un ambito solo nazionale, anche se assimilabile a quella di Ippolito e del CNEN per le modalità e i tempi di accadimento e anche per qualche disinvoltura amministrativa inquisita dai Giudici. Va sottolineato che in questo caso vi fu una ampia solidarietà da parte degli ambienti accademici.

3)     La storia qui accennata dell’INC sembra casomai più vicina a quella del LIGB e degli Istituti CNR dell’area di Ricerca di Napoli, sviluppatesi tra le gelosie accademiche, quelle di dirigenti dei vertici CNR, le contestazioni di base e soprattutto l’insipienza della autorità politiche centrali e degli amministratori locali. Per fortuna, queste vicissitudini non ebbero conseguenze tragiche o giuridiche ma si risolsero con il fallimento delle ambizioni massime dei loro ispiratori. Esse però lasciarono uno strascico di animosità tra i docenti universitari di ogni ordine e grado e i ricercatori degli Enti di ricerca, situazione che si è vista riaffiorare anche di recente. Nelle vicende napoletane sono però sopravvissute, magari ridimensionate, delle strutture tuttora funzionanti. Certo quella del blocco dello sviluppo internazionale del LIGB, rimasto per anni senza direzione dopo le dimissioni di B-T fu un danno gravissimo per Napoli, ma anche per tutta la ricerca biomedica italiana. Il discorso del mai nato ICN forse meriterebbe forse di esser ripreso.

Effetto tunnel vs. soffitto di cristallo.

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Claudio Della Volpe

Intervista a Laura Gagliardi.

In meccanica quantistica vale una proprietà che non vale per la meccanica classica; una barriera è penetrabile anche se il suo valore di energia supera quello dell’energia che il sistema possiede; in pratica una particella può superare una barriera energetica, ha una certa probabilità di farlo, anche se la sua energia è inferiore al necessario; si chiama “effetto tunnel”.

Non so se hanno pensato a questo le tre colleghe che nei giorni scorsi hanno lanciato su Internet una petizione un pò particolare, questa:

https://www.change.org/petitions/scientific-community-stop-gender-discrimination-in-science

firmata da Prof. Emily Carter, Princeton University
Prof. Laura Gagliardi, University of Minnesota
Prof. Anna Krylov, University of Southern California.

Di che si tratta? Potete leggere parecchi dettagli sul blog dell’amica Sylvie Coyaud, Oca sapiens per il pubblico, che mi ha avvisato del problema, che da vero maschietto non conoscevo ancora. Un’articolo è stato pubblicato anche sul blog di Nature.

A Pechino il 6 giugno 2015 si aprirà il 15° ICQC, ossia International Congress of Quantum Chemistry; una occasione eccezionale, fra gli invited lecturer Roald Hoffman. Cosa è avvenuto? Come raccontano le tre suffraggette “the program features 24 invited speakers and 5 chairs and honorary chairs and does not include a single woman.”; la cosa è alquanto assurda perchè ci sono centinaia di donne che pubblicano in MQ e hanno ottenuto risultati prestigiosi quanto gli uomini. Il motivo, sostengono gli organizzatori, è che la singola donna invitata non ha accettato l’invito in tempo; scusa deboluccia visto che ci sono almeno 300 donne di alto livello elencabili fra i cultori della MQ nel mondo. In realtà si tratta del cosiddetto glass ceiling, soffitto di cristallo in italiano.

Il soffitto di cristallo è la barriera invisibile che impedisce alle donne di accedere alle posizioni di responsabilità nelle organizzazioni nelle quali lavorano. Secondo l’immagine del “soffitto di cristallo” le donne guardano in alto e non vedono ostacoli, perché l’atmosfera paritaria che sembra regnare nell’ambiente di lavoro appare ispirata a una competizione aperta. Ma non è così.

In un certo senso il soffitto di cristallo è il contrario dell’effetto tunnel; nell’effetto tunnel la barriera c’è, ma la si può attraversare anche se non se ne ha l’energia, il “diritto” potremmo dire; nel caso del soffitto di cristallo invece, la barriera non esiste, non c’è alcuna barriera visibile, gli strumenti ufficiali non la sentono, è tutto trasparente, ma poi in effetti la barriera c’è lo stesso, e, anzi, è totalmente insuperabile, anche se se ne ha l’energia, o il “diritto”.

Una delle tre protagoniste dell’episodio, Laura Gagliardi è una chimica italiana laureata a Bologna che lavora all’estero*, con un CV lungo varie pagine. Laura ha acconsentito a rispondere ad alcune domande; ecco le sue risposte.

D: Laura questo episodio è un episodio isolato o
casuale? Oppure secondo te è rappresentativo di un
modo di pensare che “consciamente” o
“inconsciamente” fa parte del mondo scientifico
internazionale?

lauragagliardi

Purtroppo non e’ un episodio isolato e casuale ma e’ un tipico esempio di un modo di pensare  che “consciamente” o “inconsciamente” fa parte del mondo scientifico internazionale. Del resto organismi direttivi, consigli di amministrazione e istituzioni come la IAMQS sono per lo piu` formati da uomini, che senza neanche volerlo, quando devono scegliere altre persone, le scelgono simili a loro. Gli uomini scelgono altri uomini. In questo caso non hanno riflettuto sulle conseguenze di un programma senza neanche una donna. Non hanno pensato che questo sarebbe stato molto frustrante per le donne in generale e specialmente per le giovani ricercatrici.

D: Tu che sei vissuta in Italia e negli Usa
ritieni che ci siano differenze significative a
riguardo della questione femminile, e in
particolare del “tetto di cristallo” (ossia la
difficoltà della donna di raggiungere posizioni
apicali) fra il nostro paese e gli USA o la
condizione internazionale della donna nel mondo
scientifico è più o meno la stessa dappertutto?

lauragagliardiIn USA c’e’ piu’ awareness del problema. Nelle universita’ vengono formate commissioni che si devono occupare appositamente di questi problemi, ossia di fare in modo che diversita’ e minoranze siano presenti. C’e’ la consapevolezza che piu’ una squadra e’ differenziata, meglio e’. Pero’ questi processi hanno bisogno di molto tempo, perche’ occorre cambiare la cultura e il modo di pensare alla base.

D:: Cosa ritieni occorra fare nel caso specifico
e cosa proponi di fare più in generale per
affrontare seriamente la questione?

lauragagliardi

Affrontare il problema a tutti i livelli. Per esempio gia’ alla scuola elementare  o media bisogna mandare un messaggio chiaro: occorre creare condizioni per cui le donne con famiglia possano anche lavorare ed essere competitive; e’ necessario promuovere azioni per raggiungere un buon equilibrio fra la vita professionale e quella famigliare; bisogna far capire che le ragazze possono essere brave anche nelle materie scientifiche e possono diventare scienziate brave quanto gli uomini. E’ un problema grande. Ci vorra’ tempo per affrontarlo. Il fatto che se ne parli e’ gia’ un successo.

Mi raccomando andate a firmare la petizione e soprattutto, date un calcio al soffitto.

per approfondire:

un precedente post su Donne e chimica su questo blog: https://ilblogdellasci.wordpress.com/2013/03/22/le-donne-in-chimica/

http://economia.unipv.it/pagp/pagine_personali/afuma/didattica/sem_capitalismo_cognitivo/Materiale%20Didattico/Femminilizzazione%20lavoro-Rosti%20saggio%201.pdf

http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/economia/2014/02/23/Istat-stima-capitale-umano-italiano-vale-342mila-euro_10130102.html

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* Laura Gagliardi
University of Minnesota
Department of Chemistry
207 Pleasant St. SE
Minneapolis, MN 55455-0431
Email: gagliard@umn.edu
Web:  http://www.chem.umn.edu/groups/gagliardi
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Una domanda per i lettori: quante donne erano presenti al compleanno di Cannizzaro nel 1896?

compleannocannizzaro

R:: Una pIù di quelle che saranno invited speaker a Pechino 2015. E sapete chi era?

(si ringrazia del suggerimento il prof. Marco Taddia)

 Dagli Atti del XII Convegno Nazionale di Storia e Fondamenti della Chimica a cura di Franco Calascibetta e Luigi Cerruti, Firenze, 19-22 Settembre 2007; in Rendiconti della Accademia     Nazionale delle Scienze detta dei XL, Memorie di Scienze Fisiche e Naturali, Serie V, Vol. XXXI, Parte II, Tomo II, Roma, 2007
(Per gentile concessione dell’Accademia Nazionale delle Scienze detta dei XL, Roma)

Pasqualina Mongillo-Maria Bakunin una signora della chimica moderna parte I

Pasqualina Mongillo-Maria Bakunin una signora della chimica moderna parte 2

Il nostro collega dott. Ure

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Giorgio Nebbia, nebbia@quipo.it

Vi presento, pur con qualche riluttanza, il nostro collega Andrew Ure. Nato a Glasgow in Scozia nel 1778 in una famiglia agiata, dopo buoni studi universitari, divenne professore di chimica e di filosofia naturale all’Anderson College. Ure teneva anche lezioni serali di chimica e di meccanica per i lavoratori.

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Andrew Ure, (18 May 1778 – 2 January 1857)

Ure mostrò subito interesse per i problemi dell’industria tessile e inventò un alcalimetro per la misura dell’alcalinità negli agenti di lavaggio delle filature e tessiture di lino. Nel 1821 pubblicò il “Dictionary of Chemistry” che fu tradotto ben presto in francese e tedesco; nel 1829 il suo “Dictionary of Geology” si proponeva di dimostrate l’importanza della chimica e della fisica per il geologo. Dal 1834 Ure si dedicò allo studio dell’industria inglese e scozzese, soprattutto della lavorazione della lana, del lino, della seta.

Le leggi del tempo — l’Inghilterra era appena uscita vittoriosa dalle guerre contro Napoleone e la sua industria stava sviluppandosi grazie ad una vivace classe imprenditoriale e alle materie prime tratte dalle ricche colonie — consentivano che bambine e bambini e giovani donne lavorassero anche dieci ore e oltre al giorno nelle miniere e nelle filande. Le bambine e i bambini, con le loro piccole dita, erano molto adatti a riannodare rapidamente i fili che si spezzavano nelle nuove veloci macchine per la filatura; nelle tessiture i bambini stavano in mezzo alle vasche di prodotti chimici per il lavaggio. Ancora peggiori erano le condizioni nelle miniere di carbone dove i piccoli operai spingevano pesanti carrelli in mezzo alla polvere, all’umidità, in promiscuità con gli adulti.

Per i piccoli lavoratori non c’era tempo per l’istruzione; arrivati stanchi a casa, trovavano stanze fredde, poco cibo, genitori tristi e arrabbiati. Alcuni imprenditori avevano organizzato delle specie di ricoveri in cui bambine e bambini dormivano e ricevano un poco di cibo, e così potevano essere più puntuali sul lavoro la mattina; in premio la domenica potevano seguire lezioni di catechismo che insegnavano anche la riconoscenza e la fedele devozione ai datori di lavoro.

Circolava già nel paese un movimento di difesa dei lavoratori, soprattutto delle donne e dei ragazzi di entrambi i sessi; due proposte di legge per la regolazione del lavoro dei ragazzi, fatte nel 1802 e nel 1819, furono però respinte per l’opposizione degli imprenditori. Nel 1833 fu approvata una legge che limitava a otto ore al giorno il lavoro dei ragazzi fra 9 e 11 anni. A questo punto gli industriali inglesi, davanti al pericolo di aumento dei costi e di diminuzione dei profitti, dettero l’incarico ad una persona nota e di prestigio, appunto il dottor Ure, di dimostrare l’infondatezza e i danni della nuova normativa.

Nel suo trattato “The philosophy of manufactures”, del 1835, una specie di guida per gli imprenditori (http://books.google.it/books?id=BwfuesvdrXwC&printsec=frontcover&hl=it&source=gbs_ge_summary_r&cad=0#v=onepage&q&f=false; una traduzione parziale apparve in italiano nella “Biblioteca dell’economista”, II serie, nel 1863), Ure cercò di spiegare quanto fossero false le accuse di sfruttamento del lavoro dei ragazzi. Con “accurate” misure scientifiche dimostrò che i fanciulli che lavoravano nelle fabbriche erano più sani, più alti e perfino più felici dei ragazzi che non lavoravano e che magari andavano a scuola e giocavano liberi per la strada.

Nonostante la buona volontà di Ure, il movimento per la diminuzione dell’orario di lavoro continuò a lottare; nel 1842 fu istituita una Commissione parlamentare di inchiesta e finalmente nel 1847 fu approvata dal Parlamento britannico la legge che proibiva che si facessero lavorare i fanciulli per più di dieci ore al giorno (“Ten hours’ factory bill”), anche se questa limitazione valeva solo per i cotonifici. La rabbia degli imprenditori appare da un articolo del 22 maggio 1847 dell’Economist che scrisse che la legge era stata approvata da un Parlamento attento alle richieste umanitarie (di una specie dell’odierna Medicina Democratica) e che era “fatta apposta per ostacolare l’industria”. Inutile dire che il movimento dei diritti dei lavoratori, pur lentamente, prevalse. Tutta questa storia è raccontata anche nel tredicesimo capitolo del primo libro del “Capitale” (1867) di Karl Marx, che ha sferzanti parole per lo zelo del dottor Ure.

marx

Karl Marx(Treviri, 5 maggio 1818 – Londra, 14 marzo 1883)

Il quale, a parte questa parte sgradevole della sua attività, continuò i suoi studi chimici e fece in tempo, prima della morte nel 1857, a scrivere, fra l‚altro, un enciclopedico “Dictionary of Arts, Manufactures and Mines“. La prima edizione è del 1837, altre edizioni, sempre ampliate, apparvero nel 1840 (http://www.gutenberg.org/files/44562/44562-h/44562-h.htm), nel 1843 e nel 1853. Altre edizioni postume furono curate da Robert Hunt (1897-1887).

Nonostante le personali riserve su una parte delle attività di Ure, devo dire che questa enciclopedia è molto bella e interessante e anticipa i “dizionari” di chimica e di merceologia apparsi nel secolo successivo: i vari prodotti sono trattate con la descrizione dei caratteri, le proprietà chimiche e fisiche, la provenienza, i processi produttivi con dettagli sugli apparecchi industriali.

A riprova della risonanza internazionale del “Dizionario” di Ure, dirò che nella biblioteca della R. Scuola Superiore di Commercio di Bari (quella che è attualmente la Facoltà di Economia) fondata nel 1884 nella lontana periferia dell’Europa industriale, si trova una copia della settima edizione, curata dal dott. Hunt, apparsa nel 1878, in tre volumi con un quarto volume di aggiornamenti. Non ho visto che l’opera sia presente in altre biblioteche nazionali e non mi meraviglio che ne sia stata acquistata una copia dai lungimiranti dirigenti della Scuola Superiore di Bari dove, ai futuri operatori economici, la merceologia era insegnata per tre anni con laboratorio chimico, ed esisteva un museo merceologico.

Una versione diversa di quest’articolo è pubblicata su:

http://www.fondazionemicheletti.it/altronovecento/articolo.aspx?id_articolo=10&tipo_articolo=d_persone&id=42

http://en.wikipedia.org/wiki/Andrew_Ure

http://www.criticamente.com/marxismo/capitale/capitale_1/Marx_Karl_-_Il_Capitale_-_Libro_I_-_13.htm

in particolare si legga la sez. 4 e ssgg del cap. 13 del 1 libro del Capitale

La gomma dall’alcol, un successo autarchico

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Marco Taddia

 RedondiGomma2Nel nostro Paese, ma non solo, la storia della scienza non ha il posto che merita nell’educazione scolastica e nella formazione universitaria ma quella della tecnologia e dell’industria è ancora più sacrificata. Per fortuna c’è qualche eccezione, complice l’attualità. Nel corso del 2013 non sono mancate manifestazioni, anche di livello eccellente, per rinfrescare le proprie conoscenze storiche sull’attribuzione del Premio Nobel per la Chimica a Giulio Natta (Porto Maurizio, 1903 – Bergamo, 1979) e a Karl Ziegler (Helsa, 1898 – Mülheim, 1973). Riassumendo la motivazione del premio, si può dire che lo meritarono “per le loro scoperte nel campo della chimica e tecnologia degli alti polimeri”.  Si è parlato di nuovo e a lungo del Moplen , marchio registrato del polipropilene isotattico, il celebre “alto polimero” di Natta  prodotto dalla Montecatini. Ma lo scienziato ligure non va citato solo per il Moplen. Bisogna ricordarlo, tra le altre cose, anche per la gomma sintetica. Nel 1962, il Ministro della Pubblica Istruzione Giacinto Bosco (1905 -1997) ne parlò come “una delle più belle pagine della ricerca applicata in Italia, il cui merito va attribuito a quel valoroso gruppo di scienziati e tecnici tra cui il Natta e il Grottanelli, che lavoravano nell’Istituto di studi per la gomma sintetica presieduto dal Giordani”. La citazione si trova nel libro “La gomma artificiale – Giulio Natta e i Laboratori Pirelli”, curato da Pietro Redondi e pubblicato da Guerini e Associati (Milano, 2013,  Euro 22,50).  Il merito di questo lavoro è quello di portare alla ribalta una vicenda rimasta un po’ oscurata dal successo del Moplen, insieme al fatto che l’autarchia del periodo fascista fu, con i suoi difetti, una buona palestra tecnologica per la scienza e l’industria nazionale. E’ noto che il successo del polipropilene  fu dovuto anche alla collaborazione con la Montecatini favorita dal dirigente Pier Candiano Giustiniani (1900-1988)  ma bisogna ricordare che Natta mise in piedi a Torino un Centro Studi per la Gomma Sintetica, trasferito poi a Milano con il concorso della Pirelli, che ne gettò le basi culturali e professionali.
Tornando alla gomma, si ricorda che nella seduta del 23 giugno 1937 il Consiglio dei Ministri approvò un decreto legge inteso a favorire la fabbricazione industriale della gomma sintetica. Seguirono varie iniziative imprenditoriali e, finalmente, il primo impianto pilota, realizzato nella Pirelli di Milano-Bicocca cominciò a produrre gomma butadienica polimerizzata al sodio nella seconda metà del 1938 poi, successivamente, si passò alla polimerizzazione in emulsione.
Il processo italiano, che coinvolgeva Natta, era diverso da quello tedesco e seguiva la strada indicata dal russo Ivan Ivanovich Ostromyslenskij (1880-1939). L’aldeide acetica, ossia l’intermedio per arrivare al butadiene, veniva ottenuta dall’etanolo, ricavato a sua volta dalle barbabietole. I tedeschi, invece, la ottenevano dalla distillazione del carbon fossile. Il prodotto sintetico tedesco era chiamato Buna, nome derivato da butadiene e sodio. La mano d’opera costava poco, anzi niente: la prendevano dai lager. Il libro riporta, tra l’altro, una lettera del chimico-scrittore Primo Levi (1919-1987) alla Direzione de “La Chimica e l’Industria” datata novembre 1947,  pubblicata nel fascicolo del mese successivo, che racconta come funzionava il campo Buna- Monowitz (Alta Slesia) nel quale fu internato. Ma questo è  solo uno dei tanti documenti riprodotti nella volume, presentato da Italo Pasquon, già assistente di Natta. Alla presentazione seguono tre saggi i cui autori sono: Pietro Redondi, Marino Ruzzenenti e Giorgio Nebbia. Si tratta di nomi noti non solo agli studiosi ma anche agli appassionati di divulgazione. I loro contributi s’intitolano: “Scienza in fabbrica”, “Le ricerche della gomma sintetica nazionale” e “Lettura dei documenti”. Il  gruppo di documenti raccolti nel libro è una vero “giacimento” informativo che occupa quasi un centinaio di pagine e al quale si aggiunge una serie di utili appendici.
Tra i documenti appaiono lettere, contratti, relazioni, brevetti, note aziendali ed altro. Vi sono poi tre scritti (1942-1947) dello stesso Natta: “Il problema della gomma in Italia”, “La gomma sintetica nel mondo” e “Sul processo Distex per il frazionamento di miscele di idrocarburi”.  Sono ripresi anch’essi da “La Chimica e l’Industria”. Come mette giustamente in rilievo Redondi alla fine del suo saggio, la selezione di documenti e testi riuniti nel libro si propone di fare rivivere la “continuità nel segno dell’incontro fra scienza e industria”, una caratteristica dell’opera di Natta. Appare chiaro che la sua partecipazione all’industria della gomma non si limitò al biennio 1937-38.  Analizzando le carte troviamo le minute dei due brevetti (6 luglio 1938) che Natta, rivolgendosi a Venosta (Direttore dell’Istituto per la Gomma Sintetica), suggeriva di chiedere subito in Italia: “Procedimento per la produzione di butadiene” e “Procedimento per la separazione dei componenti di una miscela aventi eguali o vicinissime temperature di ebollizione”. Il curatore ha fatto bene a inserire nel libro questi e altri documenti di carattere tecnico, inclusa la corrispondenza interna riservata e quella minore inerente i nomi del prodotto, perché, al di là del racconto, permettono di rendersi conto degli adempimenti richiesti per trasformare i frutti della ricerca in prodotti industriali.

     Completano il libro un ricco apparato iconografico, un’estesa e ben ordinata bibliografia e un utile indice dei nomi. Insomma, in fin dei conti, un lavoro ben riuscito che merita il plauso non solo degli storici della scienza ma dell’intera comunità dei chimici .

COMMENTI ALLA TRILOGIA

a cura di Gianfranco Scorrano, ex Presidente della SCI

Abbiamo visto le peripezie di Domenico Marotta (arrestato l’8 aprile del 1964, a 78 anni, liberato il 15 aprile, condannato in primo grado a 6 anni, assolto in appello), di Felice Ippolito (arrestato il 4 marzo 1964, condannato a 11 anni e 4 mesi nell’ottobre 1964,pena ridotta a 5 anni e 3 mesi nel 1966, graziato nel 1968 dal presidente della Repubblica Saragat), di Adriano Buzzati Traverso (il 30 maggio 1969 dette le dimissioni da direttore dell’Istituto internazionale di genetica e biochimica). Nel giro di 5 anni furono portate al collasso 3 importanti strutture di ricerca.

Quali furono le ragioni?

 Il premio Nobel Daniel Bovet, nella seduta del 12 aprile 1975, svoltasi presso l’Accademia dei Lincei, in cui si celebrava il ricordo di Domenico Marotta, riassumeva così gli eventi:

Ma improvvisamente, a seguito di un’interpellanza parlamentare e di una scatenata campagna di una certa stampa, Domenico Marotta viene arrestato l’8 aprile del 1964 per presunte irregolarità amministrative.

Che cosa fu questo processo che poi, nei tre gradi di giudizio, ha finito per ingarbugliarsi nei meandri delle disquisizioni giuridiche e nelle procedure per concludersi in un nulla di fatto? A quale altro processo potrebbe essere paragonato? Perché fu promosso? Giocarono interessi economici? Fu preludio ai moti del maggio 1968 e insofferenza delle giovani generazioni? Fu una lotta di potere, fu il risultato di due correnti della magistratura o semplicemente il risultato di trame ordite nell’Istituto stesso per la successione?

Eppure per noi che abbiamo visto crollare il CNEN, l’Istituto di Sanità, il LIGB di Napoli, per ritrovarci nei microistituti creati dal Consiglio Nazionale delle Ricerche o nelle strettezze dei laboratori universitari, il problema resta insoluto. Perchè?

D’altra parte, lo stesso Buzzati Traverso così distribuiva le varie colpe (A. Buzzati-Traverso, Caos e responsabilità, in «Sapere», LXX, luglio 1969, 714, p. 3):

Dai politici, i quali hanno creduto che bastasse stanziare più fondi perché la scienza e la tecnologia italiane fiorissero; dai massimi responsabili degli enti di ricerca, i quali, mal comprendendo le necessità del ricercatore e del laboratorio d’oggi, e per amor di quieto vivere, da un lato si son lasciati imporre dalla pubblica amministrazione regole vanificanti il maggior impegno finanziario dello Stato, d’altro lato si sono lasciati soggiogare da richieste sindacali spesso incidenti sulla sana conduzione dell’ente stesso; dai più  autorevoli scienziati italiani, e quindi più responsabili, i quali, mossi da meschine invidiuzze o da prepotente desiderio di potere, non hanno saputo costituire un compatto fronte, capace di mettere gli organi di governo davanti alle loro responsabilità; dai ricercatori, le cui associazioni non hanno saputo seguire una linea costante in difesa della scienza, ma hanno preferito darsi ad una politica di miglioramenti salariali e di carriera, fluttuante, inconcludente, ed anch’essa contraria alle regole di buon finanziamento di qualsiasi laboratorio di ricerca scientifica.

L’elenco dei colpevoli è lungo: ve lo lascio per la vostra riflessione. Io mi voglio porre la domanda, la cui risposta è in parte tra le righe delle due dichiarazioni, quale fu il ruolo degli universitari? Ovviamente l’Istituto Superiore di Sanità svolgeva da tempo una intensa e qualificata attività di ricerca- Le università erano però solo in parte contente di questa concorrenza. Posso raccontare un episodio da me vissuto. A Pisa, in occasione di un convegno, nel 1964, mi sono trovato, giovane pivello, seduto alla stesso tavolo da pranzo dei “grandi”. Ad un certo punto si sviluppò una accesa discussione al centro del tavolo e il “capo” se ne usci con la frase “Io, a quello lì se posso non lo promuovo”. Ho chiesto chiarimenti. Mi hanno spiegato che si trattava di un giovane che aveva lavorato all’ISS e che aveva presentato domanda per un concorso a ordinario. Caddi dalle nuvole, conoscevo da letteratura lo scienziato che mi sembrava certamente meritevole di vincere il concorso. Mi spiegarono che l’avversità era semplicemente motivata dal fatto che la persona veniva da una istituzione, l’ISS,  che non aveva doveri didattici e quindi era avvantaggiato per il tempo che poteva usare in ricerca, rispetto ad un competitore universitario, impegnato anche in incarichi di insegnamento. Rimasi, ingenuamente, stupito e, poi,  soddisfatto quando seppi che “il capo” nulla aveva potuto fare contro il giovane che risultò vincitore di concorso. Naturalmente c’era anche la critica che l’ISS potesse spendere i soldi assegnati per attività di pura ricerca, invece che per i propri compiti istituzionali, ma questo serviva solo a rinforzare l’ostilità verso la struttura non-universitaria.

Anche l’opera di Ippolito ebbe alcuni universitari non proprio entusiasti, sia per il fatto che portò a costituire l’INFN, attraverso una legge non universitaria e con sostanziali finanziamenti, sia per l’attività della Divisione biologica creata nel 1957 e posta sotto la direzione di Buzzati Traverso. I finanziamenti del Consiglio Nazionale per la Ricerca Nucleare andavano in questo modo anche a finanziare attività di ricerche specifiche, togliendo così finanziamenti ad altre attività scientifiche di altri settori della fisica e della biologia.

C’erano quindi buone ragioni per non vedere di occhio buono nascere attività di ricerca in sedi non universitarie. Certo se avessero, per esempio i chimici, seguito l’esempio dei colleghi fisici e organizzato anche per i chimici qualcosa di analogo all’INFN, avrebbero fatto meglio.

In realtà il vero handicap a qualunque attività della componente universitaria era creato dai gravi problemi che essa stessa aveva fatto nascere nell’organizzazione degli studi universitari. Vi porto ad esempio come era la composizione dell’Istituto di Chimica Fisica dell’Università di Padova nel 1961-62: 1 professore ordinario 3 assistenti di ruolo e 28 tra professori incaricati e assistenti incaricati: questi ultimi tutti e 28 con incarichi che venivano rinnovati di anno in anno e quindi in severa condizione di subordinazione all’ordinario. Si era arrivati a questo per non attivare il dottorato di ricerca, presente da tempo in tutti i paesi civili, e poi applicato dopo l’approvazione della legge 382 del 1980, e anche per aver voluto supplire a necessità didattiche (e di ricerca) con l’abuso degli incarichi annuali.

Ma di questo, forse, parleremo un’altra volta.

Il paradosso del chimico.

a cura di Claudio Della Volpe

Il “paradosso del barbiere” fu inventato da Bertrand Russel nel 1902[1], mentre Gottlob Frege scriveva il 2° volume dei Grundgesetze, che avevano come scopo di mostrare che la matematica è una branca della logica:

“Un barbiere rade ogni giorno tutti gli uomini della sua città che non si radono da sé e nessun altro. Se il barbiere non si rade è uno degli uomini che non si radono da sé e quindi deve radersi lui stesso. D’altro canto, se si rade è uno degli uomini che si radono da sé, e di conseguenza non deve radersi” [1].

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Gottlob Frege

Russel scrisse una lettera a Frege, lodando il suo lavoro, ma comunicandogli il paradosso, che ha a che fare con la definizione di insiemi di insiemi, di insiemi che non contengono se stessi ed in definitiva con il concetto di numero. Frege fu costretto ad introdurre un’appendice nel volume in cui riconosceva che la contraddizione di Russel poteva scardinare il suo intero programma (che era quello della matematica dell’800 e di Hilbert e che fu definitivamente bloccato da Gödel con la dimostrazione del teorema di incompletezza).Questa storia esemplare è di quelle che ogni giornalista scientifico vorrebbe raccontare in prima pagina; la citai anni fa nella mia rubrica su C&I [2].

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Bertrand Russell

In quella breve nota rifacevo la storia del giornalismo scientifico, come narrata da Nature[3], che la esemplifica in tre fasi.

La prima stagione del grande giornalismo scientifico è stata quella inaugurata da H.G. Wells[5], che scriveva su Nature nel 1894 che le migliori storie sulla scienza devono essere scritte da un giornalista scientifico seguendo l’impostazione di scrittori come il Poe de “Gli assassini della via Morgue” o il Doyle di Sherlock Holmes[6]; insomma non solo buoni scrittori, ma persone in grado di scavare rigorosamente nella realtà e nei concetti, non solo di scrivere bene ma perfino di appassionare il pubblico, un punto di unione fra scienza e letteratura.

Il leggendario Carr van Anda[4], che scriveva sul New York Times, si narra abbia una volta perfino corretto una lezione di Einstein (dopo essersi consultato con lui).

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carr van anda

In quella stagione eroica il giornalista scientifico trascriveva essenzialmente per il grande pubblico i risultati che hanno fondato il mondo moderno, non solo raccontava una epopea ma ne faceva anche egli parte, era uno degli iniziati che capiva ciò che raccontava.

Nella fase successiva, mentre la Scienza diventava uno strumento sempre più potente al servizio della industria e della guerra, (due delle principali attività che hanno caratterizzato il XX secolo) questo giornalista si è velocemente trasformato nel giornalista “ragazza-pon-pon” che divulga insieme risultati e metodi della scienza, ma non riesce ad esprimere uno spirito critico sugli effetti che la scienza e la tecnologia possono avere sulla società. L’esempio principe potrebbe essere considerato il primo giornalista “embedded”, William Laurence, che curò per il governo USA la divulgazione del progetto Manhattan e che per esempio scriveva, dopo un giro ad Alamogordo, che le voci che le radiazioni nucleari potessero uccidere tempo dopo l’esplosione erano chiaramente false.

La palla di fuoco di trinity il primo test nucleare, Alamogordo, 1942

La palla di fuoco di trinity il primo test nucleare, Alamogordo, 1945

Nella terza fase le cose sono ancora cambiate; dopo che la Scienza ebbe mostrato cosa era capace di fare ad Hiroshima e soprattutto dopo la pubblicazione di “Primavera silenziosa” e la nascita di una coscienza ambientalista, il giornalista scientifico acquista una propria autonomia e si trasforma nel giornalista “cane-da-guardia”, su cui si sono basate le redazioni scientifiche dei grandi giornali, e anche parecchie riviste divulgative degli ultimi anni. In questo caso spesso il sensazionalismo e le scoperte “pubblicate” sulla grande stampa prima che sulle riviste scientifiche oppure la polemica fine a se stessa, il giudizio tranchant ma spesso disinformato su molte grandi scoperte, sono diventate comuni.

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Rachel-Carson

L’enorme e giusta richiesta da parte del pubblico di essere informato sui potenziali effetti nefasti della tecnologia ha portato ad un abuso, nel senso di descrizioni inesatte, termini e concetti sbagliati; le redazioni giornalistiche che cavalcano la discussione interna all’ambiente scientifico, trasformandola in chiacchiericcio salottiero, danno voce a non-esperti, assegnando loro d’ufficio il medesimo ruolo di chi lavora sull’argomento da anni, pur di costruire un “caso” o alimentare la polemica politica (o nascondere interessi economici) : la “polemica” sul clima o il caso “stamina”.

Le due anime del giornalismo scientifico e della divulgazione: da una parte il giornalista “prete” che riceve dalla “deità scientifica” la verità per il profano e, sia per la grande specializzazione necessaria che a volte per interesse di bottega, non è in grado di commentare criticamente né i contenuti, né gli effetti delle scoperte; dall’altra le raccolte di firme pro-contro l’argomento del giorno: il riscaldamento climatico, gli OGM, la morte delle api, quasi che scegliere fra modelli fosse una questione priva di qualsiasi obiettività o potesse dipendere dalla propria appartenenza politica.

Siamo arrivati ad oggi. Questo circolo vizioso deve essere spezzato. Ma come? La crescente importanza della rete sta cambiando la natura della comunicazione e anche della comunicazione scientifica; non solo attraverso il peso crescente delle versioni elettroniche delle riviste, ma anche attraverso la polemica fra le riviste tradizionali e l’open access, che cerca di rompere il monopolio dei grandi editori, ma anche consentendo agli scienziati in prima persona di divulgare le proprie scoperte.

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LOgo dell’Open Access

Questo comunque non elimina i problemi di conflitto di interesse che potrebbero verificarsi; occorre anche una maggiore preparazione di chi divulga, non ci si può improvvisare divulgatori senza conoscere la materia che si divulga e per fare questo ci vuole tempo, scuola e impegno; si può portare fuori dalle riviste scientifiche, divulgare cioè, il peer-reviewing, cioè la discussione interna all’ambiente scientifico che precede la pubblicazione di un lavoro (la lettera di Russel a Frege, insomma). Repository come Arxiv, consentono di pubblicare liberamente ma anche di ricevere la critica dell’ambiente scientifico e non. I blogs o Facebook non possono sostituire le riviste scientifiche ma possono costituire un fertile terreno di divulgazione o di confronto, aperto, libero su tutti i temi, senza mediazione ma anche imparando il rispetto reciproco, senza limiti di confronto ma anche capaci di far comunicare il grande scienziato con la più ignorante delle “casalinghe di Voghera” (non me vogliano le donne se uso questo abusato termine).

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La chimica vive un ulteriore paradosso da questo punto di vista; nel 1991 Arnold Thackray allora direttore esecutivo della National Foundation for History of Chemistry, lo esprimeva così [7]:

By many measures, chemistry is the central and most successful of all sciences–in the world at large and supremely in the United States. America boasts an enviable record of Nobel laureates in chemistry over the past three decades; the chemical process industries routinely compile trade surpluses of billions of dollars; and the American Chemical Society is the world’s largest single-discipline scientific society. And yet, and yet…

Chemists see themselves as beleaguered, unloved, unappreciated. Undergraduates turn away from a chemistry major, and graduate assistantships go begging. Chemistry possesses no federal project on the order of the genome initiative or superconducting supercollider, and industrial chemists in midcareer find themselves the object of corporate “repositionings” and other euphemisms for unemployment.

Meanwhile, for the rest of the world, “chemical” has become a synonym for “bad” (as in chemical dependency, or chemical additive), lawsuits multiply on issues like Agent Orange, and it is difficult for the ordinary citizen to believe that–with acid rain, global warming, toxic waste, and chemical carcinogens–all is well.

Noi europei non stiamo meglio, dopo Seveso, dopo i grandi disastri, abbiamo imparato, abbiamo avuto modo di inventare REACH e stiamo iniziando a porre rimedio ai problemi; in Italia il 3% del nostro territorio è permanentemente perso a causa dell’inquinamento chimico e nella gran parte dei casi di interesse nazionale i responsabili sono fuggiti o falliti; dovremo rimediare da soli costituendo come propone Edo Ronchi un fondo nazionale a nostre spese (e non è che i soldi abbondino).

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Edo Ronchi

In sostanza la Chimica oltre i problemi di comunicazione comuni alle altre discipline vive una ulteriore specifica contraddizione, legata al suo vittorioso ma estremamente problematico ruolo di scienza “centrale”, centrale perchè rende carne e sangue il dominio umano sulla “materia bruta” di leviana memoria.

Questo blog è solo uno delle decine di blogs a carattere scientifico del nostro paese, ma è stato partorito all’interno della sua più antica associazione scientifica, anche se non ne è diretta emanazione; il suo compito non è quello di essere una rivista di serie B, ma di consentire una ampia e libera discussione fra gli esperti, e fra gli esperti e i non-esperti, criticare e guardarci allo specchio e spero perfino ridere di noi stessi!

Lo potrà fare a condizione che voi lettori partecipiate in prima persona e che l’ambiente scientifico sia disponibile, ma non esiga di usare il blog per polemiche interne o come se fosse una rivistina e ne faccia invece uno strumento per affrontare il paradosso della Chimica.

Bibliografia

[1]     D. Leavitt, L’uomo che sapeva troppo, 2007, Codice edizioni, Torino. Il testo esatto della lettera non riportava il paradosso in questa forma ma in una più generale che è la seguente:

C’è solo un punto in cui ho trovato una difficoltà. Lei afferma (p. 17) che anche una funzione può comportarsi come l’elemento indeterminato. Questo è ciò che io credevo prima, ma ora tale opinione mi pare dubbia a causa della seguente contraddizione. Sia w il predicato “”essere un predicato che non può predicarsi di se stesso“”. w può essere predicato di se stesso? Da ciascuna risposta segue l’opposto. Quindi dobbiamo concludere che w non è un predicato. Analogamente non esiste alcuna classe (concepita come totalità) formata da quelle classi che, pensate ognuna come totalità, non appartengono a se stesse. Concludo da questo che in certe situazioni una collezione definibile non costituisce una totalità.

Nella forma riportata il paradosso fu formulato dallo stesso Russel nel 1918.

[2]     C&I Lug./Ago. ’09 p.114,                       http://www.soc.chim.it/sites/default/files/chimind/pdf/2009_6_114.pdf

[3] Nature, Giugno 2009, 459, 1033 e 1054 e sgg. Gli articoli sono tutti scaricabili dal sito di Nature

[4] http://en.wikipedia.org/wiki/Carr_Van_Anda

[5] http://www.peterlang.com/download/datasheet/51334/datasheet_57110.pdf

[6] Nature 50, 300–301; 1894

[7] The Scientist, 1991

Qualità ed Impact Factor

a cura di Luigi Campanella, ex Presidente SCI

cq5dam.web.1280.1280In un precedente post ho parlato di IF dei giornali scientifici e di qualità dei lavori in essi pubblicati. Torno sull’argomento dopo avere letto l’interessante editoriale dell’Editor di CEN. ACS. ORG. del 13 Gennaio u.s**. Si parla anche in questo caso dell’equivoco che deriva dalla forzata identità fra qualità di un lavoro scientifico ed IF del giornale che lo ha pubblicato. L’equivoco viene spiegato sulla base di alcune considerazioni semplici e condivisibili:

1. solo il 25 % dei lavori pubblicati su Nature contribuisce al suo IF;
2. premesso che l’IF di un giornale è fornito dal rapporto fra le citazioni in quell’anno di tutti gli articoli compresi nei 2 anni precedenti ed il numero totale di articoli pubblicati in quest’ultimo periodo dallo stesso giornale, questo rapporto è soggetto a inflazione in quanto sia le citazioni non vengono limitate agli articoli scientifici, comprendendo invece anche editoriali, lettere all’editore, notizie varie sia alcune di esse sono certamente indotte;
3. negli articoli pubblicati e conteggiati ai fini del rapporto non si fa alcuna differenza fra i loro vari tipi (review, full paper, note). C’è poi il problema del valore dell’IF in relazione al settore a cui si riferisce: si pensi che nel 2004 il valore medio per i giornali di biologia molecolare e cellulare era 4,76 contro 2,90 per la chimica e 0,56 per la matematica.

L’editoriale termina con 7 raccomandazioni per i giovani invitandoli a non demonizzare il valore dell’IF della rivista in cui pubblicare. Ritengo utile anche per i giovani che accedono al nostro blog riportare questi 7 consigli:

1. Fare buoni lavori e lavorare in campi dove altri siano interessati
2. Pubblicare i risultati del lavoro svolto
3. Pubblicare sui giornali di facile accesso per tutte le comunità scientifiche
4. Avere qualcosa di significativo da dire
5. Scrivere chiaramente e suscitando interesse, né troppo estesamente né troppo concisamente, usando se possibile figure attraenti
6. Quando si svolge attività didattica, utilizzare i lavori che si è pubblicato non nasconderli
7. Programmare bene l’attività in un certo settore, non saltarci dentro troppo presto o troppo tardi.

Credo che sia una bella lezione che non debba essere ignorata,anche se parlando con i giovani – e con i meno giovani-ci si rende conto che neanche gli IF possono essere ignorati, tenuto conto dei criteri di valutazione adottati per valutare i loro  avanzamenti di carriera.

**Chemical and Engineering News 2014 vol.2 issue 2 pag. 3

scaricabile liberamente da:

http://cen.acs.org/articles/92/i2/Unintended-Impact.html

L’equilibrio in chimica ed economia.

a cura di Luigi Campanella, ex presidente SCI

valeria_mosiniHo avuto modo di recente di rileggere con maggiore attenzione il testo di una carissima amica, Valeria Mosini**, dedicato all’Equilibrio in Economia. Valeria è come me  una chimica e quindi per lei la parola equilibrio non può non legarsi alle reazioni chimiche ed il loro svilupparsi, ma anche ad altri processi biologici naturali. Valeria però ha evidenziato, vorrei dire scoperto, che i concetti di base che regolano l’equilibrio nelle scienze della vita possono applicarsi con successo anche all’economia. I fondatori dell’economia neo classica hanno difeso l’assegnazione di un ruolo centrale all’equilibrio esaltando le varie analogie che esistono fra economia e scienze naturali al punto di potere concludere che come c’è un equilibrio nel mondo naturale, così vi è anche in quello economico. Tale teoria è sopravvissuta negli anni tanto da costituire ancora un paradigma dell’economia senza rivali sia negli ambienti accademici che politici, a fronte dei molti falliti modelli alternativi quali l’economia aperta verso Paesi in via di sviluppo o del blocco ex socialista.

Entrando nella similitudine si può dire che nel nostro mondo se si perde l’equilibrio sia nel corpo che nella mente le conseguenze possono essere tragiche. L’equilibrio è stato una precondizione per lo stabilirsi della vita sulla terra e rimane un ingrediente essenziale per mantenerlo; di conseguenza l’equilibrio è un concetto chiave nelle scienze della vita. L’equilibrio e le sue varie condizioni formano l’oggetto base di un subdisciplina vasta come la statica, una delle tre branche della meccanica, con la dinamica e la cinematica. L’equilibrio termico è stato il punto di partenza per la scoperta, stabilita nella prima legge della termodinamica, che il calore è una forma di energia, che, insieme a quella meccanica, viene conservata. L’elettrodinamica fu stabilita attraverso esperimenti di equilibrio con i quali Ampere e Oersted testarono la generale intuizione che elettricità e magnetismo interagiscono e si interconvertono. L’elenco di esempi è molto numeroso e vale la pena di citare la definizione più comune di equilibrio: un sistema è detto in equilibrio in un dato dominio quando i valori dei parametri del sistema che sono rilevanti per quel dominio sono costanti nel tempo.

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Un sistema è definito in equilibrio stabile quando la sua energia totale è minima, un equilibrio instabile quando è massima, in equilibrio neutro quando è costante, e variazioni dei parametri hanno effetti diversi a seconda del tipo e dello stato del sistema. Il confronto con il concetto di equilibrio in economia si riferisce alla relazione fra evidenza e teoria. Nel caso della scienza il carattere induttivo della conoscenza non può che riferirsi all’evidenza, mentre nel caso dell’economia la necessità di impiegarla per attività previsionale e quindi riferita a tempi futuri non può che riferirsi alla teoria. Il concetto di equilibrio in economia ha due aspetti di base: la semplice nozione di determinatezza (le relazioni che descrivono i sistemi economici devono essere sufficientemente complete da determinare i valori delle sue variabili) e la più specifica nozione che ciascuna relazione rappresenta un bilancio di forze. Quasi ogni tentativo di dare una teoria dell’intero sistema economico implica l’accettazione della prima parte della nozione di equilibrio. Il punto di vista che i due aspetti dell’equilibrio economico possano coesistere, e lo fanno, e che il bilancio delle forze responsabili dell’equilibrio è suscettibile di un trattazione matematica che ammette soluzioni analitiche, è importante tanto quanto essa implica l’affermazione della mutua compatibilità dei due aspetti dell’equilibrio economico, così preservando al concetto un ruolo centrale. Un fondamentale salto nell’immagine dell’equilibrio si ha nel passaggio da un bilancio fra forze di mercato al prezzo , che, una volta stabilito dai desideri degli agenti non sarebbe più modificato fino a che i questi rimangono costanti. Ovviamente questa identità concettuale trattata da un chimico come la Mosini ha stimolato la trattazione della questione dell’influenza della chimica sull’economia e viceversa con riferimenti proprio al concetto di equilibrio sia statico che dinamico, il primo associato a Lavoiser, il secondo a Le Chatelier, il primo necessario a sconfiggere la teoria del flogisto ed a dare una definizione ancora attuale di elemento chimico, il secondo a enfatizzare il ruolo dell’osservazione e dell’esperienza inquadrati all’interno di un contesto di un positivismo di tardo diciannovesimo secolo.

http://www.lse.ac.uk/researchAndExpertise/Experts/profile.aspx?KeyValue=v.mosini%40lse.ac.uk

http://www.chem.uniroma1.it/dipartimento/persone/valeria-mosini

Mosini, Valeria (2013) Reassessing the paradigm of economics: bringing positive economics back into the normative framework Routledge INEM advances in economic methodology. Routledge, Abingdon, UK. ISBN 9780415725842

Mosini, Valeria (2008) Equilibrium in chemistry and in economics: an interdisciplinary comparison Physis: rivista internazionale di storia della scienza, XLV. 161-182. ISSN 0031-9414

**Valeria Mosini è professore associato presso la London School of Economics e Ricercatore presso il Dipartimento di Chimica  di Roma La Sapienza.

Alcune riflessioni sullo spreco

Il 5 febbraio si sono svolti a Roma, al Tempio di Adriano in piazza di Pietra, gli  Stati generali contro lo spreco alimentare, in occasione della prima Giornata nazionale contro lo Spreco alimentare. Il min. Orlando ha istituito un gruppo di lavoro che è coordinato dal presidente di Last Minute Market Andrea Segre’, docente all’Universita’ di Bologna e promotore della campagna europea ‘Un anno contro lo spreco’, e di cui fanno parte Susanna Tamaro, scrittrice,  Vincenzo Balzani, scienziato, Maite Carpio, regista, Giobbe Covatta, artista. Questo che segue è l’intervento di Vincenzo Balzani.

a cura di Vincenzo Balzani, membro dell’Accademia dei Lincei

balzani1Buongiorno, grazie prof. Segré per la presentazione, ringrazio anche il ministro Orlando per avermi chiamato a far parte del gruppo di lavoro antispreco e per l’invito a presentare oggi alcune mie riflessioni, di carattere generale, sull’argomento.

Globalmente, l’obiettivo che vogliamo, che dobbiamo imporci è la sostenibilità, cioè il poter continuare a vivere su questo pianeta, noi e le prossime generazioni.

Al fine di raggiungere questo obiettivo, per prima cosa bisogna sapere come è fatto e come funziona il mondo. Sembra quasi che molti, particolarmente fra gli economisti,  non l’abbiano ancora capito bene, anche se si tratta di un ragionamento semplice, che si può condensare in quattro punti:

1. Il pianeta su cui viviamo è una specie di astronave che viaggia nell’universo con 7 miliardi di passeggeri; nessuno se ne può andare, dobbiamo vivere tutti assieme su quel 30% di superficie del pianeta che è costituito da terra.

2. Fatta eccezione per l’energia che arriva con continuità dal Sole, non possiamo sperare di ricevere altri aiuti dall’esterno.

3. Le risorse che abbiamo sulla superficie del pianeta o nelle miniere sono limitate.

4. Le risorse, quando vengono usate, si consumano e vengono trasformate in rifiuti.

Basta meditare pochi minuti su questi concetti per capire che non possiamo permetterci il lusso dello spreco.

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Per decenni, prima della crisi attuale, siamo stati così abituati alla crescita economica da non riuscire ad immaginare possibili alternative. Ancora oggi certi economisti teorizzano il ritorno ad una “crescita” basata sul continuo aumento dei consumi, senza capire che è scientificamente assurdo, oltre che in contrasto col comune buon senso, pensare ad una crescita infinita in un sistema, come la Terra, che ha risorse “finite” e capacità limitate di accogliere rifiuti.

Purtroppo, ormai, molti danni sono stati fatti e la situazione in cui ci troviamo è critica: la possiamo riassumere con una frase di un grande filosofo, Hans  Jonas:  “ … è lo smisurato potere che ci siamo dati, su noi stessi e sull’ambiente, sono le immani dimensioni causali di questo potere ad imporci di sapere che cosa stiamo facendo e di scegliere in quale direzione vogliamo inoltrarci”. E’ una frase che riassume il passato (ci siamo dati uno smisurato potere con conseguenze immani), stabilisce il compito che ci assegna il presente (dobbiamo imporci di sapere cosa stiamo facendo) e ricorda che siamo gli artefici del nostro futuro (dobbiamo scegliere in che direzione andare).

Per vivere, in senso puramente materiale, dobbiamo usare risorse. Abbiamo bisogno di cibo, acqua, aria, energia, terreno coltivabile, metalli,  ecc., e anche di un ambiente non inquinato e di un clima favorevole, ecc. Tutte queste cose, tutte queste risorse sono fra loro collegate, e tutte sono importanti. Ma ce n’é una che è più importante delle altre: l’energia. Per fortuna è anche l’unica risorsa che ci arriva dall’esterno, dal Sole, che continuerà ad inviarci energia per più di quattro miliardi di anni.

L’energia è la risorsa più importante per l’umanità perché tutte le altre risorse dipendono da quale energia usiamo e da quanta energia è disponibile. Cibo ed energia sono fortemente collegati. Facciamo un esempio: National Geographic ha valutato che per far crescere un vitello fino a farlo diventare una mucca di 5 quintali sono necessari 6 barili di petrolio. Forse che la mucca mangia petrolio? No, ma mangia prodotti dell’agricoltura, che si ottengono con una serie di operazioni (arare, seminare, fertilizzare, raccogliere, trasportare, ecc.) che vengono compiute con macchine agricole alimentate con combustibili fossili. A conti fatti, per ottenere le 1600 kcal contenute in un kg di carne bovina servono 40.000 kcal di combustibili fossili. In pratica, quindi, mangiando una bistecca è come se “mangiassimo” petrolio. Per rendere il paragone meno crudo, diciamo che mangiando una bistecca “consumiamo” petrolio. Qualcuno può dire: che problema c’è se per mangiare consumiamo petrolio? Come molti sanno, di problemi ce ne sono due: il primo è che il petrolio e gli altri combustibili fossili sono risorse limitate, non rinnovabili, in via di esaurimento; il secondo è che usando il petrolio e gli altri combustibili fossili inquiniamo l’ambiente, danneggiamo la nostra salute e provochiamo il riscaldamento del pianeta, con conseguenti cambiamenti climatici. E’ chiaro, quindi, che c’è una stretta connessione fra energia, cibo, salute ed ambiente.

Lo spreco alimentare non è legato soltanto al cibo che non viene utilizzato, ma anche, e forse di più, alla dieta che si adotta. Un kg di grano ha un contenuto energetico di 3500 kcal, fornite per ¾ dall’energia del sole e per ¼, 800 kcal, da combustibili fossili. Come abbiamo visto, per ottenere 1 kg di carne bovina servono non 800, ma 40.000 kcal di combustibili fossili, cioè 50 volte quella necessaria per ottenere 1 kg di grano. La differenza fra grano e carne, poi, non sta solo nella differente quantità di energia consumata per produrli, ma riguarda anche il terreno e l’acqua. Si stima, infatti,  che per aumentare di 1 kg il peso di una mucca bisogna nutrirla con 7 kg di cereali. Ciò significa che la produzione di 1 kg di carne bovina richiede l’uso di una estensione di terreno 7 volte più grande di quella necessaria per produrre 1 kg di grano. Oggi circa 1/3 del terreno arabile mondiale è infatti utilizzato per nutrire gli animali. Infine, l’impronta idrica di 1 kg di carne è 10 volte maggiore a quella di 1 kg di grano. Da questi dati e dal fatto che 1 kg di carne fornisce soltanto la metà delle calorie che fornisce 1 kg di grano, si deduce che 1 kcal ottenuta dalla carne richiede 100 volte più energia, 15 volte più terreno e 20 volte più acqua rispetto ad 1 kcal ottenuta dal grano.

SilverSprings2

Using Odum’s data on net productivity at the various levels in Silver Springs, we get this pyramid. The figures represent net production at each trophic level expressed in kcal/m2/yr. – http://users.rcn.com/jkimball.ma.ultranet/BiologyPages/F/FoodChains.html#EnergyPyramid

E’ chiaro quindi che lo spreco è strettamente collegato alla dieta. Tutti gli esperti, e anche un recentissimo rapporto della United Nations Environment Programme, intitolato Assensing global land use: balancing consumption with sustainable supplì, insistono sul fatto che dovremo mangiare sempre meno carne; potremo continuare ad usarne piccole quantità come condimento per dare sapore ad altri cibi, ma dovremo orientarci sempre più verso una dieta vegetariana. E se in America si insiste, molto anche per ragioni di salute, per instaurare l’abitudine del Meetless Monday, cioè di fare a meno della carne almeno un giorno alla settimana, in Cina il governo fa una intensa campagna per disincentivare l’uso di carne.

C’è molto da fare nel campo dell’educazione alimentare, particolarmente nelle scuole. Quando in una scuola c’è qualche professore che riesce a motivare i ragazzi, si ottengono risultati splendidi. Ad esempio nel liceo classico di Casale Monferrato, dove mi sono recato recentemente per una conferenza, sono stati eliminati tutti i distributori di bevande e di dolci e sono state messe all’interno della scuola delle fontanelle di acqua naturale e gassata, e poi ad ogni studente è stata regalata una bella borraccia, così che tutti bevono acqua, acqua pubblica. Nello stesso liceo hanno attivato una iniziativa nell’ambito della quale gli studenti insegnano ai bambini della vicina scuola elementare i concetti e le buone pratiche della sostenibilità.

Allarghiamo ora lo sguardo su tutte le risorse rinnovabili, cioè quelle risorse che la Terra genera con i ritmi della sua biocapacità, come gli alberi delle foreste, i pesci del mare, l’acqua potabile, il terreno fertile, ecc. La situazione riguardo il consumo di queste risorse si può valutare usando come parametro l’impronta ecologica, definita dall’estensione di superficie terrestre necessaria a coprire le esigenze di un individuo. Facendo parti uguali fra tutti gli abitanti della Terra, ci toccherebbero 1,8 ettari a testa. Se però andiamo a valutare i consumi, troviamo che, in media, ogni abitante consuma come se avesse a sua disposizione non 1,8, ma 2,2 ettari, come cioè se avessimo a disposizione un pianeta più grande di quello su cui viviamo. Questo significa che, in media, stiamo vivendo sopra le nostre possibilità, o meglio stiamo vivendo sopra le possibilità che il pianeta ha di fornirci risorse. Se andiamo a vedere l’impronta ecologica dei cittadini dei vari paesi, troviamo che i cittadini americani hanno un’impronta ecologica di 9 ettari: un piedone enorme! Ma anche i cittadini di tutti gli altri paesi sviluppati hanno impronta ecologica molto superiore a quell’1,8 ettari che toccherebbe, in media, ad ogni persona della Terra. Ovviamente l’impronta ecologica dei cittadini dei paesi poveri è invece bassissima, minore di 0.5 ettari.

I valori dell’impronta ecologica, quindi, oltre ad informarci sul fatto che viviamo al di sopra della capacità che il pianeta ha di fornirci risorse, ci dice anche che ci sono disuguaglianze fortissime riguardo il consumo delle risorse. In qualche modo bisognerà rimediare, perché dobbiamo vivere tutti assieme e se ci sono disuguaglianze troppo forti non si può vivere in pace.

In effetti, oltre che in una situazione di insostenibilità ecologica, viviamo anche in una situazione di profonda insostenibilità sociale. Ci sono disuguaglianze di reddito troppo grandi. In Italia, il 10 per cento delle famiglie possiede il 50 per cento della ricchezza, mentre 9 milioni di persone sono in una situazione di povertà relativa e altri 5 milioni sono in povertà assoluta. Negli USA, accanto ai grandi manager e ai banchieri che guadagnano fino a 1 milione di dollari al giorno (cioè di 10 dollari al secondo!), ci sono 46 milioni di americani (15% della popolazione) che vivono grazie ai buoni pasto (food stamps) forniti dallo Stato. Queste disuguaglianze causano un’insostenibilità sociale ancor più pericolosa della insostenibilità ecologica. Studi recenti dimostrano che i problemi sociali e sanitari di un paese (fra i quali salute mentale, abuso di droghe, basso livello di istruzione, numero di carcerati, obesità, violenza, mancanza di fiducia,  scarsa vita comunitaria) sono tanto più gravi quanto maggiori sono le disuguaglianze di reddito nella popolazione.  Si noti: non è tanto importante se il reddito, in media, è alto o basso; quello che crea problemi è la disuguaglianza di reddito. Questi studi dimostrano che se in un paese si riduce la disuguaglianza di reddito  stanno meglio non solo i poveri, ma anche i ricchi. Purtroppo però la forbice fra ricchi e poveri si va sempre più allargando.

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Differenze in uguaglianza dei redditi tra le nazioni del mondo come misurate dal coefficiente di Gini nazionale. Il coefficiente di Gini è un numero tra 0 e 1, dove 0 corrisponde alla uguaglianza perfetta (nella quale tutti hanno lo stesso reddito) e 1 corrisponde alla disuguaglianza assoluta (dove una persona ha tutto il reddito e tutti gli altri hanno reddito nullo)

C’entra tutto questo con lo spreco? Certamente. Perché lo spreco ha molte facce: non è solo ogni abuso nell’utilizzo delle risorse del pianeta; in senso lato, è spreco anche ogni azione che provoca ed aumenta le disuguaglianze.  E’ spreco portare a casa due kg di frutta e poi gettarne uno, lasciare aperto il rubinetto dell’acqua, tenere la caldaia al massimo e le finestre aperte, ma anche comprare una macchina di lusso e, ancor più, spendere 10 miliardi di euro per comprare 90 aerei F35; ed è spreco anche il tempo che ci fa perdere una burocrazia inefficiente, sono spreco le pensioni d’oro, ed è spreco occupare simultaneamente decine di poltrone, come recentemente si è visto accadere per alti dirigenti statali.

Torniamo all’energia. E’ la risorsa più importante perché usiamo energia in ogni azione della nostra vita e c’è energia nascosta in ogni oggetto che ci circonda. Ad esempio, si può stimare che per costruire un computer si consuma una quantità di energia pari a quella ottenibile da 240 litri di petrolio. Un computer, quindi, così come un’automobile o una qualsiasi altro apparecchio, non comincia a consumare energia la prima volta che lo usiamo: ne ha già consumata tanta per essere prodotto. Si valuta, ad esempio, che un computer, prima ancora di accenderlo la prima volta, abbia già consumato il 70-80% dell’energia che consumerà in tutto il suo ciclo di vita. Quindi bisogna andar cauti con la pratica della rottamazione. Rottamare un’automobile, col pretesto che consuma troppo e che quindi conviene prenderne una nuova che consuma di meno, in realtà dal punto di vista energetico non è un buon affare, perché con l’automobile vecchia si getta via anche  l’energia usata per costruirla. E se i materiali di cui è costituita l’auto rottamata si possono in parte recuperare, l’energia che era stata usata per costruire la macchina non si può recuperare.

Oggi l’energia utilizzata è essenzialmente quella dei combustibili fossili, ma sappiamo che i combustibili fossili sono in via di esaurimento e sappiamo anche che usandoli causiamo danni alla salute e all’ambiente. Quindi, bisogna agire rapidamente su tre fronti: risparmio (che significa non produrre cose inutili e non fare attività inutili), efficienza (che significa usare in ogni caso la minima quantità di energia possibile) e, infine, sviluppo delle energie rinnovabili (solare, eolica, idraulica ecc.).

Risparmio ed efficienza sono il contrario di spreco e sono strategie che devono essere messe in atto ogni volta che usiamo risorse non rinnovabili, come ad esempio i metalli, che sono contenuti nelle miniere in quantità limitate: se li sprechiamo, non ne rimarrà nulla per le prossime generazioni. Per rimediare parzialmente alla scarsità di certe risorse sarà sempre più necessario ricorrere al riciclo (operazione che peraltro richiede l’uso di energia).

In fine, vorrei fare qualche riflessione sulla competizione fra cibo e biocombustibili. Anzitutto è necessario ricordare che ogni ragionamento sulla sostenibilità deve partire da due punti fermi, due dati che non possiamo cambiare: la superficie di terra disponibile, 150 milioni di km2, e la quantità di energia che ci arriva dal sole, in media 170 W/m2.

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Circa il 13% del suolo è terreno arabile, poi ci sono pascoli, foreste, ecc. Il terreno coltivabile non si può ampliare più di tanto per vari motivi fra i quali la necessità di conservare la biodiversità e gli ecosistemi che forniscono all’uomo servizi insostituibili  per il mantenimento della vita sulla Terra.

Il terreno arabile è oggi oggetto di competizione fra produzione di cibo e di biocombustibili. E’ un problema che ha profondi risvolti etici: per riempire di biocombustibile il serbatoio di un SUV si utilizza una quantità di mais che sarebbe sufficiente a nutrire una persona per un anno. I motivi per i quali si usa terreno fertile per produrre energia sotto forma di biocombustibili sono vari (sussidi agli agricoltori, particolari situazioni locali, ecc). E’ chiaro, però, che dal punto di vista scientifico usare terreno fertile per produrre biocombustibili non ha senso. Semplicemente perché il rendimento della fotosintesi naturale, cioè del processo con cui le piante convertono l’energia solare in energia chimica, è bassissimo: 0.1-0.2%. E’ molto più conveniente allora convertire quei 170 W di energia solare che cadono in media su ogni metro quadrato di terrenonon in biocombustibili, ma in elettricità con i pannelli fotovoltaici, la cui efficienza è del 15-20%, cioè almeno cento volte più alta; poi usare l’elettricità per alimentare motori elettrici, che fra l’altro sono più efficienti dei motori a combustione interna. Non per nulla ci si sta sempre più orientando verso mezzi di trasporto alimentati da elettricità. I pannelli fotovoltaici, poi, non è necessario metterli su terreni fertili, anzi dovrebbe essere proibito farlo. Dovrebbero essere messi sui tetti dei fabbricati o su terreni non coltivati. D’altra parte, non è vero che, come spesso si dice, dovremmo coprire gran parte dell’Italia di pannelli fotovoltaici per produrre l’energia di cui abbiamo bisogno. Si può facilmente calcolare, ad esempio, che per fornire tutta l’energia elettrica di cui il Paese ha bisogno sarebbe sufficiente ricoprire di pannelli fotovoltaici lo 0.8% del territorio, una superficie poco superiore a quella dei tetti e dei cortili dei 700 000 capannoni industriali o commerciali che abbiamo in Italia.

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CIASCUN disco nero copre l’area necessaria a produrre TUTTA l’energia elettrica attualmente usata mediante il solo FV; la loro superficie dipende dalla latitudine, essendo minore quanto più fossero posti vicini all’equatore.

In conclusione, è giusto, anzi doveroso, combattere lo spreco di cibo perché in un mondo dove milioni di persone sono sottonutrite sprecare cibo è un’ infamia. E’ necessario combattere lo spreco di cibo anche perché sprecando cibo si sprecano anche energia,  acqua e terreno fertile. Infine, è giusto combattere lo spreco perché dietro lo spreco si nascondono quelle disuguaglianze sociali che dobbiamo eliminare o almeno ridurre se vogliamo  vivere in pace su questo pianeta.

Adriano Buzzati-Traverso

a cura di Gianfranco Scorrano, ex presidente SCI

Nasce a Milano il 6 aprile 1913 da Giulio Cesare e da Alba Mantovani, fratello minore dello scrittore Dino. Il padre fu professore di diritto  internazionale all’Università di Pavia, morto prematuramente nel 1920; il nonno D.Mantovani fu anch’egli scrittore.

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Nel 1934, ancora studente universitario, spende un anno nella Iowa University studiando genetica delle popolazioni. Nel 1936 si laurea a Milano in Scienze Naturali e l’anno successivo inizia come assistente incaricato, poi di ruolo, la sua carriera presso l’Istituto di Zoologia dell’Università di Pavia. Nel 1940 compie ricerche presso la Columbia University. Nel 1942 ottiene la Libera Docenza in Genetica e quindi il medesimo incarico di insegnamento presso l’Università di Pavia fino al 1944. Nel 1945-46 ottiene l’incarico di Zoologia presso la Facoltà di Scienze dell’Università di Milano e dal 1948 è straordinario di Genetica presso l’Università di Pavia. Nel 1953-59 è professore di Biologia presso l’Università di California,e lo Scripps Institute of Oceonography, La Jolla, California. Non mancò di compiere numerosi viaggi per conoscere i più importanti scienziati operanti negli USA.

Al ritorno in Italia Buzzati-Traverso riprese le relazioni con il mondo politico e scientifico che poi saranno utili per creare il Laboratorio Internazionale di Genetica e Biofisica (LIGB). Già nel 1948 aveva scritto su l’Europeo l’articolo “In Russia si nasce secondo la legge di Lysenko” entrando in controversie con i biologi comunisti. Nel 1956 cominciò a contribuire a “Il Giorno”, il nuovo giornale fondato da Mattei che aveva l’ambizione di essere una voce laica nel panorama culturale italiano di quei tempi dominato dal duopolio Cattolico e Comunista. Sulle pagine de Il Giorno Buzzati scrisse una serie di articoli sulle difficoltà in Italia del sistema ricerca e educazionale che gli diedero una rapida notorietà. Pubblicò anche su Il Corriere della sera e L’Espresso. Le critiche al sistema universitario italiano vennero poi raccolte nel libro Il Fossile denutrito. L’Università Italiana (1969): pochi fondi, sia pubblici che privati, assenza di un sistema di selezione meritocratica, assenza di competizione, mancanza di dinamismo.

Buzzati, assieme ad altri intellettuali, prese posizioni su argomenti politici, come per esempio la guerra in Algeria all’inizio degli anni 60 oppure la critica alla Chiesa Cattolica sul problema del controllo della nascite.

Nel 1952 fu fondato il CNRN (Consiglio Nazionale per la Ricerca Nucleare) che nell’ottobre del 1957 creò, sotto la direzione di Buzzati-Traverso, la Divisione Biologica (nota:vedi il post intitolato Felice Ippolito) con il compito di promuovere  ricerche sugli effetti delle radiazioni ionizzanti sugli organismi. Nel 1960 il CNRN si separò dal CNR per divenire una struttura indipendente chiamata CNEN (Comitato Nazionale per l’Energia Nucleare). La divisione biologica fu mantenuta con il nome di Divisione di Biologia e protezione della Salute, sempre sotto la direzione di Buzzati-Traverso. La divisione creò due importanti centri di ricerca (oltre a distribuire i fondi ricevuti dal CNEN): uno alla Casaccia (1959) e l’altro a Fiascherino (1960).

Nel periodo, Buzzati-Traverso,sempre preoccupato della carenza di genetisti preparati, inizio a scrivere a amici e ad istituzioni sul progetto di creare una scuola ad hoc: si rivolse anche alla Fondazione Rockfeller, che però rifiutò il progetto anche sulla base di probabili resistenze italiane alla proposta.

Comunque Buzzati-Traverso il 22 ottobre 1960 inviò al Ministro della Pubblica Istruzione,al Presidente del CNR, Giovanni Polvani, e al CNEN la proposta di istituzione del Laboratorio Internazionale per la Genetica e la Biofisica (LIGB). Il CNEN immediatamente mise a disposizione 180 milioni di lire per anno per un periodo di 5 anni. Il CNR chiese qualche dettaglio in più ma l’accordo fu approvato alla fine del 1961 e il decreto del CNR fu firmato a gennaio 1962 e il laboratorio istituito dal 1 marzo 1962. Anche Euratom firmò un contratto quinquennale di associazione a partire dal 1 luglio 1962 con un impegno finanziario totale di 3 milioni di dollari.

Dal 1962 al 1967 il LIGB ebbe una crescita continua, arrivando ad avere 13 gruppi di ricerca che coprivano un largo spettro di problematiche in biologia. Importanti erano i seminari ed i corsi. L’organizzazione era molto differente di quella degli altri centri CNR: per esempio gli stipendi dei leader dei gruppi di ricerca erano  superiori a quelli di un professore universitario; il LIGB poteva comprare le attrezzature di ricerca direttamente e con pagamenti in contanti; etc.

Una piccola crisi si ebbe nel 1964 quando, a seguito dei problemi di Marotta e di Ippolito con la giustizia, il presidente del CNR decise di limitare la libertà di azione di Buzzati sia diminuendo gli alti salari del LIGB sia inviando funzionari a controllare la regolarità dei conti.

Nel 1968 il LIGB tornò sotto il completo controllo del CNR cambiando anche il nome in Istituto Internazionale di Genetica e Biofisica (IIGB), ad indicare la sua appartenenza formale agli altri istituti del CNR, di cui aveva ora la stessa organizzazione.

La crisi più violenta scoppio nel 1969: dal 4 maggio al l’11 giugno 1969 82 persone occuparono il LIGB: molti dello staff amministrativo, tecnici, giovani ricercatori e 10 ricercatori italiani.

Come esempio delle attività dell’assemblea degli occupanti riporto il commento di Cassata:…..”due erano gli elementi su cui si concentravano le rivendicazioni  degli occupanti: in primo luogo, il rifiuto da parte di tecnici, aiutanti e amministrativi dopo l’abolizione del cartellino marcatempo –del «controllo   sul loro lavoro  straordinario da parte del gruppo privilegiato», controllo interpretato come «possibilità di ricatto» dei ricercatori sul personale tecnico-amministrativo; in secondo luogo, la difesa a oltranza del potere decisionale dell’assemblea su assunzioni, licenziamenti e trasferimenti d’ufficio del personale”.

Il 30 maggio 1969 Buzzati Traverso terminò di essere direttore dell’IIGB. Non volle più nulla sapere della sua creatura, che rimase fino al 25 ottobre 1973 senza direttore. Alfredo Ruffo, presidente dell’Istituto nel 1973-74 così riassumeva la situazione: “C’erano troppe assemblee e la ricerca era solo uno dei possibili temi in mezzo a tanti altri”. Non è sorprendente che le pubblicazioni furono nel 1972 solo 19, il 22,35% del massimo raggiunto nel 1968

Nel 1969 Buzzati assunse la carica di vicedirettore generale dell’UNESCO e responsabile del Dipartimento di Scienze esatte e Naturali. Rimase in questa carica fino al 1973, quando iniziò una collaborazione come consigliere scientifico del programma delle Nazioni Unite per l’ambiente. Nel 1976, lasciati tutti gli incarichi, si dedicò alla pubblicistica.

Immobilizzato a letto dal novembre 1982 in seguito all’aggravarsi di un tumore, Buzzati-Traverso moriva  a Milano, il 22 aprile 1983, pochi giorni dopo aver compiuto settant’anni.

Per saperne di più

 Francesco Cassata, L’ITALIA INTELLIGENTE- AdrianoBuzzati-Traverso e il Laboratorio internazionale di genetica e biofisica, 2013,  Donzelli editore, Roma

M.Capocci e G.Corbellini, Studies in History and Philosophy of Biological and Biomedical Sciences,33,2002,489-513.

Bernardino Fantini, Adriano Buzzati-Traverso,Dizionario Biografico degli Italiani, vol.34,1988.

http://www.fondazioneadrianobuzzatitraverso.it