Ma le armi chimiche fanno notizia solo quando uccidono?

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Claudio Della Volpe

(il titolo di questo prestigioso articolo vorrebbe imitare il titolo di un famoso romanzo di fantascienza ma non vi dico quale, dovete scoprirlo voi e se ci riuscite vi regalo un chilo di gas mostarda, abilmente sottratto a Gioia Tauro)

Precedenti post su armi chimiche:qui, qui e qui.

Per mesi gli organi di stampa, che esprimono la chemofobia dominante ci hanno “appallato “ (scusate il termine poco consono ma quando ci vuole ci vuole) con terrificanti descrizioni di migliaia di tonnellate di prodotti velenosi , le armi chimiche siriane, distrutte per idrolisi e quindi “ovviamente” buttandole a mare e piangendo sulle infauste conseguenze che una tale assurdità avrebbe potuto provocare in un mare chiuso come il Mediterraneo (come se non lo provocherebbe in qualunque altro posto del mondo). Una pazzesca sciocchezza chemofobica!

E noi a svenarci, a spiegare in tutte le salse che no, che l’idrolisi era un processo fatto in un reattore chiuso, a bordo di una nave che sarebbe stazionata nel Mediterraneo per pura praticità; che gran parte dei prodotti avrebbe raggiunto altri lidi già da subito, che i prodotti della distruzione avvenuta nel reattore per idrolisi alcalina non sarebbero stati mai gettati in mare ma raccolti con religiosa attenzione e poi trasportati in qualche sito di smaltimento terrestre ed attezzatissimo e manco in Italia; che gli ispettori CHIMICI dell’OPCW avrebbero vegliato nottetempo sulla incolumità di questa ampia ignorante, inquinante e chemofobica comunità.

Niente!

Ancora oggi si trova qualcuno perfino tra i colleghi che si chiede con indignazione ma l’idrolisi ha poi distrutto la fauna e la flora del mediterraneo?

E fra le migliaia di giornalisti veri e proprii ignoralisti, (come li chiamo io con anagramma originale e di cui rivendico la invenzione) ce ne fosse stato qualcuno che si fosse chiesto: ma allora come mai non siamo tutti morti sulle spiagge nostrane a causa della “idrolisi” delle armi chimiche?

Il fatto è che un cane che morde un uomo non fa notizia, ma solo un uomo che morde un cane; in pratica se le cose vanno bene, la Chimica fa il suo dovere, i Chimici pure le organizzazioni internazionali per una volta, dico una, si comportano bene e le armi chimiche invece di ammazzare qualcuno diventano una vaga puzzetta all’orizzonte, nessuno se ne frega.

Eh no! Caspita dico io; adesso vi “appallerò” io con l’elenco di tutte le cose che sono andate bene GRAZIE all’azione dei chimici e della Chimica (e anche di qualche italiano); nessuno è morto manco un solo incindentucolo, manco una sola puzzetta ha ammazzato, ma che dico, disturbato una cernia; abbiamo lasciato, noi chimici inquinatori che venisse pescata e mangiata fino almeno all’overshoot day, qualche giorno fa. Poi ce ne siamo lavate le mani con pericoloso monossido di di-idrogeno.

Come è andata? Potete leggere la sequenza delle azioni sul sito della OPCW:

http://www.opcw.org/

Allora il 2 luglio dopo lunga attesa la Cape Ray imbarcava a Gioia Tauro quasi 600 tonnellate di prodotti da idrolizzare; si trattava di circa le metà di tutto il materiale che era stato portato via dalla Siria (solo 120 t di alcool isopropilico utilizzato per produrre in situ il Sarin, ossia l’agente nervino, per reazione con metilfosfonildifluoruro (DF) erano state già distrutte in Siria); si trattava di 23 t di mostarda allo zolfo ( agente vescicante) e circa 550 t di DF precursore del Sarin che erano state caricate sulla nave danese Ark Futura che aveva poi raggiunto il 2 luglio Gioia Tauro consentendo il trasbordo sulla Cape Ray.

Nonostante lo sforzo italiano (si sa che in tutte le barzellette internazionali l’inferno è tale perchè è organizzato dagli italiani, che a parte applaudire quando atterrano gli aerei sono pessimi organizzatori, come nel famoso film di Bozzetto) le cose sono andate bene; nessun incidente, nessuna perdita, nessuno scarico si è aggiunto a quelli che le istituzioni calabresi consentono di effettuare lungo tutta la costa tirrenica della Calabria, che è (o meglio era) una delle più belle del mondo e dove mi sono onorato di passare le vacanze per decenni; ebbene lungo quelle magnifiche coste dove i depuratori sono rarità, dove non c’è nessuna bandiera blù (le bandiere Blù in Calabria sono 4 ma solo sulla costa ionica), manco dove fanno i gelati, i pomodori e le cipolle più buone del mondo e dove specie di estate il mare risulta ormai permanentemente incapace di ritornare pulito, ebbene lungo quelle coste che amo tantissimo ma nelle quali non ho potuto più fare il bagno, nessun carabiniere ha permesso si aggiungesse ai legittimi scarichi istituzionali dei turisti dalla lunga serie di costruzioni semiabusive che deturpano la costa stupenda, altri pericolosissimi scarichi di natura “chimica”; quindi nessuna buona notizia per i giornalisti-ignoralisti. Tenetevi solo l’inquinamento standard, che tanto non fa notizia!

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The 43rd Meeting of the Executive Council occurred on 24 July 2014.

In questo modo il 24 luglio al 43 meeting del consiglio esecutivo dell’OPCW il direttore generale Ahmet Üzümcü poteva assicurare i convenuti

“all 1300 metric tonnes of chemicals removed from the Syrian Arab Republic by the international maritime operation have been delivered to destruction facilities outside the country. Destruction activities are now underway in all locations.

ed inoltre che

“ since the successful trans-loading of 600 metric tonnes of chemicals onto the U.S. vessel MV Cape Ray in the port of Gioia Tauro, Italy on 2 July, the remaining chemicals have been delivered to commercial land-based facilities in Finland, the United Kingdom and United States where they are now in the process of being destroyed. As of 21 July, the amount of all Syrian chemicals destroyed stood at 31.8% of the total.”

Il Chimico non dorme, ma non va nemmeno in vacanza come sostiene anche l’autorevole labsolutely (http://www.labsolutely.org/) per bocca del chimico olistico Vittorio Saggiomo (nomen est omen):

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Il 7 agosto nel più totale silenzio stampa:

 

The United Kingdom’s Foreign & Commonwealth Office has announced that 190 metric tonnes of chemicals from the Syrian Arab Republic have been destroyed at a commercial facility in Ellesmere Port. The OPCW meanwhile confirmed today that 74.2% of Syria’s entire stockpile of chemicals has now been destroyed. 

The UK Government agreed to take responsibility for destroying the chemicals as part of the international mission to eliminate Syria’s chemical weapons programme. The destroyed chemicals, mainly “B precursors” for making nerve agent and a small quantity of hydrochloric acid, constituted about 15% of the stockpile that was removed from Syria for destruction outside the country. They were incinerated at a commercial facility operated by Veolia at Ellesmere Port with funding provided by the UK Government, under verification by OPCW inspectors.

Si prevedevano almeno 60 giorni di lavoro, quindi il lavoro della Cape Ray era da concludere entro il 2 settembre; ma i lavori procedevano alacremente cosicchè in anticipo sui tempi il 13 agosto succedeva che

Wednesday, 13 August 2014

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The Cape Ray. Photo Credit: US Dept. of Transportation

All 581 metric tonnes of a precursor chemical for sarin gas that were removed from the Syrian Arab Republic and trans-loaded onto the U.S. Maritime Vessel Cape Ray in early July, have been destroyed with neutralisation technology aboard the ship while sailing in international waters of the Mediterranean Sea. The destruction operations were continuously monitored and verified by a team of OPCW inspectors on the Cape Ray.

The precursor chemicals – methylphosphonyl difluoride, or DF – were neutralised with two Field Deployable Hydrolysis Systems (FDHS) that were installed on the Cape Ray for the purpose of destroying the most dangerous chemicals in Syria’s stockpile. The FDHS units mix the chemicals with fresh water and reagents and then heat the mixture, which reduces the toxicity of the chemicals by at least 99.9 percent. All of the resulting effluents, or reaction mass, from hydrolysis of the DF are stored aboard the ship.

 

Notate l’ultima frase: All of the resulting effluents, or reaction mass, from hydrolysis of the DF are stored aboard the ship.

Che tradotto per i chemofobici o anglofobici significa:

TUTTI GLI EFFLUENTI O REAGENTI RISULTANTI DALL’IDROLISI del DF SONO CONSERVATI A BORDO DELLA NAVE!

CHIAROOOOOOO???

E finalmente il 19 agosto, in largo anticipo sui tempi il solito ormai invadente direttore generale Ahmet Üzümcü poteva assicurare il mondo che

Tuesday, 19 August 2014

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Ahmet Üzümcü, OPCW Director-General

In an unprecedented undertaking, the U.S. Maritime Vessel Cape Ray has completed destruction of its entire consignment of 600 metric tonnes of Category 1 chemicals from the Syrian Arab Republic. This ends a crucial stage in the complex international maritime operation to remove and destroy Syria’s chemical weapons stockpile. I wish to congratulate and thank the United States, the crew aboard the Cape Ray, and our OPCW inspectors and demilitarisation experts for this remarkable achievement.

The Cape Ray’s consignment included the most dangerous chemicals in Syria’s arsenal: 581 metric tonnes of DF, a binary precursor for sarin gas, and 19.8 metric tonnes of ready-to-use sulfur mustard (HD). They were neutralised with two Field Deployable Hydrolysis Systems (FDHS) on the Cape Ray, which reduced their toxicity by 99.9 percent in line with the requirements of the Chemical Weapons Convention. 

The Cape Ray will now transport the effluent from the hydrolysis operations to Finland and Germany, where it will be offloaded for disposal at land-based facilities.

 

Sempre da notare l’ultima frase per i giornalisti-ignoralisti:

La Cape Ray trasporterà ora gli effluenti dalle operazioni di idrolisi in Finlandia e Germania, dove essi saranno scaricati per essere poi smaltiti in depositi di terra.

Capitoooo?Non nel Mediterraneo, lasciato agli originali scarichi dei non-depuratori calabresi ,ma in efficienti e verdi depositi finlandesi al limite delle nevi perenni (ancora per poco).

Scusate ma un po’ di sano sfottò ci vuole; alla prossima idrolisi mediterranea di scarichi originali e nostrani da depuratori FUNZIONANTI sulla costa Tirrenica della Calabria che non vede Bandiere Blù da una vita.

Ma sciocchezze chemofobiche si.

Un nostro collega chimico riciclatore

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Giorgio Nebbia, nebbia@quipo.it

Nel gran discorrere che si fa sempre di rifiuti si insiste continuamente
sulla necessità della raccolta differenziata, un termine riferito alle azioni dirette a separare, dai rifiuti misti, quelle componenti suscettibili di essere sottoposte a riciclo, cioè alla trasformazione di nuovo in merci utilizzabili, una operazione del resto indicata come obbligatoria dalla legge europea e italiana sul trattamento dei rifiuti.

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La massa dei rifiuti urbani in Italia si aggira, come è ben noto, fra i 30 e i 40 miliardi di chilogrammi all’anno, il che significa che ogni persona, in media, produce ogni anno una massa di rifiuti solidi corrispondente a oltre sei volte il proprio peso. Tali rifiuti sono miscele molto variabili di merci usate: dagli imballaggi di plastica, vetro, alluminio, ferro, ai residui di alimenti, ai giornali e alla carta e cartoni usati, a indumenti usati, e innumerevoli altre cose, come è facile osservare guardando il flusso quotidiano di sacchetti che arrivano ai cassonetti.
Almeno la metà di questi oggetti potrebbe essere trattata per recuperare la materia che essi contengono, col che si avrebbero molti vantaggi: si dovrebbe estrarre e usare meno petrolio, metalli, prodotti agricoli e forestali, tutti beni naturali scarsi, si diminuirebbe l’inquinamento delle acque e del suolo e dell’aria, si darebbe lavoro a migliaia di persone. Il recupero dei materiali dai rifiuti, anche questo è ben noto ai lettori, presuppone la raccolta separata delle varie frazioni di materiali presenti nei rifiuti — carta tutta insieme, vetro tutto insieme, plastica tutta insieme, eccetera — e l’avvio dei materiali omogenei ad apposite industrie che trasformano le varie frazioni in nuovi materiali.

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Il successo dei processi di riciclo dipende innanzitutto dalla conoscenza della natura e composizione dei materiali di partenza. Mentre esiste una (abbastanza accurata) merceologia della carta, della plastica, dei metalli, si sa molto poco della composizione delle innumerevoli sostanze presenti nelle merci usate. Per esempio: la carta dei giornali è costituita in gran parte da cellulosa, ma contiene anche molte altre sostanze, collanti, additivi e, soprattutto inchiostro al quale è affidata l’informazione che il giornale distribuisce. Se esistesse una macchina magica, un diavoletto di Maxwell, capace di separare la cellulosa dagli additivi e dagli inchiostri, sarebbe facile recuperare cellulosa adatta per nuovi fogli di carta; senza tale macchina, per il recupero della cellulosa riutilizzabile bisognerebbe
avere informazioni chimiche precise sui diversissimi additivi e inchiostri presenti nei molti milioni di tonnellate di carta da giornali che vengono usati ogni anno in Italia.

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Attualmente dal riciclo di un chilo di carta da giornali si recupera molto meno di un chilo di cellulosa adatta per nuova carta, e si formano alcune centinaia di grammi di fanghi in cui sono concentrate le sostanze estranee alla cellulosa. Il riciclo diventa più difficile se fra la carta straccia finiscono imballaggi contenenti sostanze cerose o plastiche.

Prendiamo il vetro: le innumerevoli bottiglie di vetro in circolazione
contengono gli ingredienti di base del vetro, dei silicati di calcio e di
sodio, ma anche sostanze coloranti; da un chilo di rottami di vetro bianco si ottiene, per fusione e riciclo, quasi un chilo di vetro bianco, ma dai rottami di vetro misto colorati non solo non si recupera più vetro bianco, ma si ottengono vetri colorati di minore valore merceologico. Bisogna inoltre stare attenti che fra i rottami di vetro da riciclare non finiscano dei rottami di vetro delle lampade fluorescenti o dei video dei televisori che contengono sostanze tossiche.

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E ancora: se si avessero dei rifiuti di plastica costituiti da una sola materia — polietilene, pvc (cloruro di polivinile), PET (poletilen-tereftalato), eccetera — sarebbe possibile rifonderli e ottenere nuovi oggetti della stessa materia, ma quando siamo in presenza di miscele di varie materie plastiche è possibile al più ottenere oggetti di plastica di limitato valore, come piastrelle da pavimenti o paletti.
Al fine della caratterizzazione degli oggetti adatti per essere riciclati e
dello sviluppo di tecniche e processi per separare e ritrattare con successo le varie frazioni di materie presenti nei rifiuti è centrale il ruolo della chimica e della merceologia, a cominciare dalla analisi degli oggetti in commercio e di quelli che finiscono nei rifiuti.
Esiste un gran numero di nostri colleghi chimici impegnati in queste operazioni spesso raffinate, dalla chimica analitica dei rifiuti da riciclare e delle merci riciclate, all’invenzione di accorgimenti, spesso molto ingegnosi, per rendere più efficiente il riciclo e sarebbe bello ascoltare la loro voce che spesso non arriva nelle aule universitarie, benché ciascuno di noi sia debitore al loro lavoro se ci sono meno discariche e inceneritori. Almeno un grazie.
E almeno un grazie anche ad altri colleghi chimici, che, senza camici bianchi o tute, lavorano indefessi al riciclo di una parte dei rifiuti organici arrecando addirittura beneficio alla vita dei campi e degli animali.

Geotrupes stercorarius

Geotrupes stercorarius

Mi riferisco al paziente scarabeo, il coleottero Geotrupes stercorarius L., molto, più umile, ma anche molto più utile, dei suoi parenti che erano tanto apprezzati e riprodotti in forma di amuleti da Egizi, Fenici e anche Greci.
Non so se lo avete mai visto al lavoro: non è bello e sembra sempre alle prese con qualcosa da fare; non appena trova dei rifiuti organici, soprattutto feci di animali, se ne impossessa e comincia a farli rotolare fino a quando non hanno raggiunto la forma di palline da ping-pong, e intanto si nutre di una parte delle molecole che essi contengono e alla fine trasporta queste palline, ormai ridotte a cellulosa e lignina, nella sua tana per poter finire di mangiarle con calma. Con queste operazioni contribuiscono al ciclo del carbonio e dell’azoto, fra l’altro con processi di grande interesse chimico e biologico. Qualche volta questi, che ho chiamato impropriamente e genericamente scarabei, vengono schiacciati dalle automobili mentre cercano di raggiungere la loro tana, altre volte si dimenticano in giro queste palline sulle spiagge (quando ero bambino le palline abbandonate dagli scarabei erano usate per giocare nelle ”piste” scavate nella sabbia). Lo scarabeo vive, insomma, alleviando il lavoro e i costi delle aziende di raccolta e trattamento dei rifiuti e, nel suo piccolo, lo fa bene, senza discariche, senza CDR e senza inceneritori. Il suo comportamento è estremamente sofisticato, sembra infatti che usi le stelle per orientarsi, muovendosi prevalentemente di notte per trasportare i suoi carichi (http://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0960982212015072)

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Propongo che qualche azienda del genere lo adotti come proprio emblema.

Nota del Blogmaster. Le palle marroni che si trovano sulle spiagge a volte possono anche essere egagropili di Poseidonia, ossia resti spiaggiati di Poseidonia.

Noterelle sull’energia elettrica (parte 4)

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Claudio Della Volpe

I post precedenti di questa serie sono pubblicati qui, qui e qui.

E siamo finalmente arrivati a parlare di rinnovabili; dato che le “rinnovabili” servono a produrre ESSENZIALMENTE energia elettrica (anche se il solare termico, l’aqua calda solare per intenderci puo’ essere importante) per entrare in argomento occorrerebbe ricordare anche quanto pesa l’energia elettrica nel panorama energetico complessivo.

Sunrise_over_Nordgermersleben

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Nel nostro paese consumiamo ogni anno un totale di energia primaria (ossia dell’energia presente in Natura e all’origine di tutte le altre che usiamo e trasformiamo) pari alla energia ottenuta per combustione da circa 200 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio, quindi MTEP (M=mega=milioni, equivalenti= come se fosse); si tratta solo di una unità di misura non di un riferimento di specie vero e proprio, seppure non lontanissimo dalla verità; se trasformiamo tale unità in una meno tecnologica, ossia in Joules, otteniamo un numero a molti zeri; consideriamo quindi che una tonnellata di petrolio produce per combustione circa 42GJ (G=giga=miliardi); 200×106 TEP x 42 x 109 J= 8.4×1018J=8.4EJ (1 exa Joule=1018 J, E= miliardi di miliardi); questo numero a 18 zeri è ancora circa 1/60 del totale mondiale dell’ energia primaria che assomma quindi a circa 500 EJ=12GTEP=12000MTEP (noi italiani consumiamo circa il doppio della media perchè siamo circa 1/120 della popolazione).

La quantità di energia elettrica prodotta in italia la conosciamo bene dai post precedenti, si tratta di circa 300 TWh annui (T=tera=migliaia di miliardi), ossia 3×1014*3600J=1.08*1018J =1.08 EJ.

Ecco quindi che arriviamo ad una prima conclusione, la energia elettrica italiana corrisponde solo a circa 1/8, il 13% dell’energia primaria; tuttavia qui c’è un trucco termodinamico da svelare.

Per produrre l’energia elettrica che è una energia di elevata “qualità” termodinamica occorre pagare il prezzo del 2 principio; per esempio nel caso della produzione termoelettrica rispettare il teorema di Carnot; in termini pratici questo vuol dire che l’energia termoelettrica ha una efficienza media di produzione da fossile di circa il 40%; per cui quei due terzi circa (a valori 2013) di energia elettrica di origine fossile ci costano 2.5 volte di più in termini di primaria; quindi il peso dell’energia elettrica sul totale della nostra richiesta energetica sale a poco oltre un quarto del totale dell’energia primaria (gli altri ¾ servono al resto).

Questo ci fa capire due cose: l’energia elettrica è importante ma comunque ATTUALMENTE pesa per non oltre un quarto delle nostre richieste energetiche complessive; se ci sposteremo verso un mondo più elettrico e meno termico questa percentuale crescerà; ed è complesso valutare di quanto crescerà in assoluto perchè ci sono fattori contraddittori da considerare; ma questo è anche il limite di una scelta nucleare (uno dei tanti): anche col nucleare si farebbe quasi solo energia elettrica.

I motori elettrici per esempio sono più efficienti, e di gran lunga, di qualunque motore termico, ma la cosa è molto più evidente se a produrre la loro energia elettrica si arriva con metodi non termici, se no il teorema di Carnot si mangia gran parte del guadagno. (Supponiamo che un motore elettrico (con batteria) abbia una efficienza del 85% ma che la sua elettricità sia prodotta termicamente, l’efficienza complessiva scende al 35%, che è migliore ma non è molto lontano da quella di un motore diesel). In parole povere SE non decideremo come trasporteremo noi e le nostre cose e come ci riscalderemo con le rinnovabili sarà difficile capire quante rinnovabili ci serviranno effettivamente. Secondo me pensare di riflettere il nostro modello attuale di trasporto individuale, privato nel campo elettrico sarebbe solo l’ennesima follia.

Comunque sia, questa osservazione fa risaltare all’interno della quota di elettricità il ruolo dei motori elettrici; è da dire che il consumo di elettricità è IN MASSIMA PARTE, consumo di motori elettrici; secondo i calcoli del Sole-24 ore (2011) in Italia sono installati 19 milioni di motori elettrici con un consumo generato che è pari al 50% del consumo elettrico nazionale ed a oltre il 75% del consumo nel settore industriale. 5.725 GWh.

Il totale della potenza installata da motori elettrici è di 101 GW. Il settore con la maggiore concentrazione è l’industria (80 GW), seguito da terziario (20 GW) e agricoltura (459 MW).

Ne segue che diventa molto importante considerare la reale efficienza dei motori elettrici, ma questo argomento lo riprenderemo più avanti e ci chiederemo se la politica di sostituire le lampade ad incandescenza con altre ad alta efficienza sia altrettanto utile allo scopo di ridurre i consumi che non un aggiornamento generalizzato dei motori elettrici; anche perchè certi motori elettrici sono più adatti di altri ad accoppiarsi con le tecnologie rinnovabili.

Ma cosa si intende per “rinnovabili”? E qua mi rendo conto che non è facile dire le cose bene; ci provo.

C’è da dire che c’è stata una notevole parte della nostra storia “elettrica” in cui l’Italia è stata un paese virtuoso; dopo la seconda guerra mondiale la nostra elettricità era essenzialmente di origine idroelettrica e se guardate bene il grafico 3 del primo post cioè questo di seguito

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vedrete che fino al 1968 l’idro la ha fatta da padrone e l’Italia si sarebbe potuta vantare (ma all’epoca non era di moda) di essere un paese virtuosamente rinnovabile per quanto riguardo la produzione di elettricità, perchè oltre metà della potenza installata era rinnovabile.

Cosa intendiamo per “rinnovabile”? Intendiamo anzitutto una tecnologia energetica la cui sorgente primaria sia talmente grande da rimanere sostanzialmente immodificata dal nostro sfruttamento o comunque da essere in una situazione tale per cui la disponibilità annua del sistema Terra (o del territorio cui facciamo riferimento) è sempre significativamente superiore alla nostra esigenza e pari a quella del sistema Terra nel suo complesso, noi compresi. Il tempo di analisi è per lo meno un tempo pari all’esistenza stessa della nostra civiltà (un po’ pomposo lo ammetto), diciamo almeno 10.000 anni.

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Se il flusso di prelievo è superiore a quello di ricrescita andiamo in overshoot, in disequilibrio, in sovraconsumo ed iniziamo ad intaccare il patrimonio della risorsa. Se invece il flusso di prelievo è inferiore a quello di ricrescita rimaniamo nella zona della sostenibilità, della stazionarietà. In questo modo lo sfruttamento della risorsa diventa “sostenibile” e quindi la risorsa potrà essere usata con soddisfazione da noi e dai nostri discendenti; un corollario di questo concetto è che se le cose stanno così la biosfera ne sarà certamente intaccata ma sarà anche capace di rinnovare la risorsa con le sue sole forze in modo sufficiente.

In altre parole il carico ecologico relativo alla risorsa che imporremo al sistema sarà inferiore a quello massimo sostenibile; due esempi chiariranno la differenza.

Il petrolio (ed in genere le risorse di idrocarburi fossili) si è generato negli ultimi 400 milioni di anni a partire dalla degradazione del materiale biologico delle grandi foreste primordiali e della biosfera, si stima che la quantità di petrolio disponibile all’inizio della rivoluzione industriale fosse dell’ordine di 3600 miliardi di barili; da allora ne abbiamo consumato quasi 1200 ossia un terzo.

3600 Gb/400My=9000 barili all’anno in media è la produzione media della risorsa petrolio della biosfera terrestre, il petrolio continua a prodursi nel ciclo geologico; ma sfortunatamente ne consumiamo molto di più; al momento oltre 30Gb/anno, ossia 3 milioni di volte di più! Ne segue che questa risorsa non è rinnovabile, perchè la consumiamo troppo velocemente. Poi ci sono altri problemi ambientali, di inquinamento di cambiamento climatico, ma a parte questi altri problemi la risorsa fossile NON è rinnovabile prima di tutto perchè la consumiamo troppo velocemente.

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The mean annual radiant energy and heat balance of the Earth. From Houghton et al., (1996: 58), which used data from Kiehl and Trenberth (1996).

Consideriamo invece la luce solare; il Sole ci invia in media 342 W/m (al confine atmosferico) e lo fa da miliardi di anni e lo farà per miliardi di anni; in realtà la quota media è aumentata del 30% negli ultimi 4 miliardi di anni e continuerà a crescere a causa dell’invechiamento del Sole che ne cambia la composizione. Rapportata alla latitudine e alla superficie del nostro paese tale potenza corrisponde in un anno a circa 3.2×1021 J=3.2ZJ= (Zetta joule=1021, migliaia di miliardi di miliardi), ossia circa l’equivalente di 77 miliardi di ton di petrolio (77 GTEP), una quantità che supera di 380 volte il nostro fabbisogno di energia primaria attuale. Dato che non siamo capaci di raccogliere questo ben-di-dio con una efficienza superiore al 20%, ci servirebbero all’incirca 3000kmq di pannelli FV per ottenere la sola energia elettrica che usiamo ora (trascurando per il momento ogni problema di accumulo); questo calcolo è basato sulla energia effettivamente prodotta dagli impianti FV italiani esistenti adesso, quindi si tratta di un numero affidabile e realistico, corrispondente alla produzione unitaria dei soli 180kmq di pannelli che abbiamo montato finora; come si vede siamo ben lontani dal traguardo che dicevo.

Comunque ai fini della nostra definizione la energia FV è rinnovabile e sostenibile in quanto noi ne useremmo una quantità ben minore di quella che ci continuerà ad arrivare in futuro.

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Però attenzione; facciamo un discorso per assurdo; una forma di energia è “rinnovabile” per definizione? Cioè il FV è rinnovabile in quanto tale o anche esso soggiace alla definizione precedente?

La risposta è che non ci sono eccezioni; anche il FV soggiace agli stessi limiti; se noi ad esempio volessimo usare solo energia FV per ogni nostra esigenza, la quantità di pannelli necessaria (sempre a parte ogni problema di accumulo) salirebbe a 21000 kmq, in quanto come sappiamo l’energia elettrica costituisce solo 1/8 dei nostri consumi netti (anche se necessita del doppio di energia primaria per essere prodotta); dato che ne rimangono quindi scoperti altri 6/8 o ¾ occorre moltiplicare quei 3000kmq per 7.

Ovviamente sto qua ragionando a parità di ogni altro parametro e questa è una notevole approssimazione in quanto come dicevo prima non abbiamo ancora deciso se e come modificheremo il nostro modo di vivere passando alle rinnovabili o anche solo all’elettrico “totale”, al “mondo elettrico”, come lo chiama qualcuno.

Beh 21000 kmq sono una gran bella superficie da sottrarre o da adattare ad ogni altra applicazione; per esempio l’agricoltura intensiva è da escludere; dato che 21000 kmq sono un 1/14 della nostra superficie nazionale questo porrebbe dei limiti, sia pure ampi, al nostro sviluppo energetico, anche perchè serve superficie per ogni altra attività (abitare, coltivare la terra, muoversi etc.) anche includendo la ricopertura di tetti adatti; inoltre la energia solare è il motore complessivo della biosfera (clima, vita, etc.), non si potrebbe ridurla a piacimento senza effetti enormi, che so una variazione dell’albedo planetaria poniamo. Quindi, attenzione anche il FV potrebbe diventare “insostenibile” e non rinnovabile se la nostra crescita continuasse con lo stesso ritmo; in Italia dal 1914 quando consumavamo meno di 2600GWh/anno di elettricità, siamo passati a oltre 300.000GWh odierni, quindi la crescita è stata di 120 volte in 100 anni, quasi 7 raddoppi, ossia poco meno del 5% all’anno nella media degli ultimi 100 anni; se usassimo solo FV e  crescessimo anche solo del 3% all’anno entro qualche decennio ci servirebbe la metà del nostro territorio a FV. E’ chiaro che c’è un limite a tutto e che la crescita esponenziale a cui siamo abituati non può continuare anche usando questo metodo attualmente “rinnovabile”.

In altri termini già adesso per produrre l’elettricità dal solo FV dovremmo usare circa l’1% di tutta la energia che il Sole manda sul nostro territorio e se volessimo fare tutta l’energia necessaria ci vorrebbe già oggi il 7%, una superficie pari a quella di una regione come la Lombardia, la Toscana o la Sicilia; direi che questo pone dei limiti stringenti al nostro sviluppo già adesso e rimanda ad ottobre tutti coloro che continuano a fare considerazioni basate sull’immensità della Natura; immensa si, ma noi uomini agiamo già adesso a livello di una forza planetaria e quindi dobbiamo prenderci le nostre responsabilità.

C’è un altro significato che si da di solito al termine “rinnovabile” e cioè il fatto che l’ambiente non venga modificato in modo significativo attraverso l’inquinamento e il cambiamento di uno o più parametri significativi.

Qui la questione si fa complessa, perchè non esistono tecnologie che non comportino una qualche forma di modifica dell’ambiente; c’è modo di misurare attraverso la cosiddetta impronta ecologica quale è l’impatto di una tecnologia energetica.

Se volessimo considerare rinnovabile una tecnologia energetica nel senso più ampio delle modifiche ambientali “sostenibili” e non solo dal punto di vista della produzione di energia, allora le cose si complicano; un esempio può essere proprio l’idro in quanto l’intercettazione del flusso superficiale di acqua altera certamente e spesso in modo profondo la biosfera almeno nel contesto ambientale vicino, implicando per esempio (a parte il bilancio energetico della costruzione e manutenzione) differenze nell’evaporazione, nel flusso dei detriti, nelle specie che possono vivere nel fiume e quindi le grandi dighe di accumulo hanno certamente effetti pur rimanendo rinnovabili nel senso energetico (almeno fino a quando una variazione climatica profonda non alteri il ciclo idrologico in modo sufficiente). Abbiamo quindi una gamma di “rinnovabilità” che dovrebbe essere analizzata molto in dettaglio ma certo non in questo breve post. Questo effetto ha un costo che può essere valutato anche in termini energetici e in un bilancio globale sostenibile dovrebbe essere sottratto all’energia ottenuta, un po’ come si fa quando si considera il cosiddetto “decommissioning” del nucleare; c’è un decommissioning di qualunque tecnologia energetica, incluse le rinovabili.*

Ovviamente ancora una volta le energie fossili non sono rinnovabili nemmeno in questo secondo senso perchè provocano e hanno provocato profonde alterazioni climatiche ed ambientali che sono diventate visibili quando la scala del trasferimento dei reagenti della combustione verso l’atmosfera si è fatta più imponente. Il loro decommissioning sarebbe quindi molto costoso: E’ molto costoso. In altro post ho calcolato che se attribuiamo la fusione dell’Antartide Occidentale, attualmente in corso e stimata avvenire nei prossimi 2-9 secoli con l’effetto di innalzare il livello oceanico di circa tre metri, alla combustione dei fossili, possiamo concludere che per rimediare a questo solo evento negativo dovremmo impiegare per mille anni tutta l’energia attualmente prodotta annualmente allo scopo di ricongelare in ghiaccio l’acqua implicata nel processo (ovviamente il congelatore necessario non è ancora stato costruito).

Beh a questo punto sono costretto a posporre ancora una volta di una puntata la fine di questa commedia dell’energia elettrica; spero di non annoiarvi.

*Nota su EROEI: La quantità definita EROEI, acronimo di Energy Returned On Energy Invested viene spesso usata per fare confronti della qualità delle tecnologie energetiche; occorre tuttavia mettersi d’accordo su questa grandezza in termini di definizione; alcuni problemi li trovate in questi lavori **; secondo il mio modesto parere il decommissioning della tecnologia dovrebbe sempre essere incluso nei suoi costi energetici (oltre al costo di costruzione, di manutenzione e di smaltimento del dispositivo), intendendo per decommissioning l’eliminazione degli effetti diciamo così indiretti dell’uso di quella tecnologia (alterazione della composizione atmosferica, alterazione del numero di specie viventi in un certo habitat, alterazione della concentrazione di specie radioattive, rischi “cigno nero”, ossia accadimenti molto poco probabili ma potenzialmente estremamente dannosi, alterazione della distribuzione dei venti o del mescolamento atmosferico, etc) ; questo tipo di calcolo è tuttavia molto discusso ed in alcuni casi non viene accettato al momento dalla comunità dei ricercatori che si occupa del problema.

A parte l’esempio fatto prima delle conseguenze climatiche del fossile si potrebbero considerare le conseguenze della geotermia sulla concentrazione di specie radioattive in superficie o l’alterazione del paesaggio dovuta all’eolico terrestre o l’alterazione del flusso dei venti dell’eolico troposferico; che costo energetico implicano tali modifiche?

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Energy intensities, EROIs (energy returned on invested), and energy payback times of electricity generating power plants

  1. Weißbach a, b, *, G. Ruprecht a, A. Huke a, c, K. Czerski a, b, S. Gottlieb a, A. Hussein a, d

Energy 52 (2013) 210e221

 

Comments on “Energy intensities, EROIs (energy returned on invested), and energy payback times of electricity generating power plants”dMaking clear of quite some confusion

Marco Raugei Energy 59 (2013) 781e782

 

Reply on “Comments on ‘Energy intensities, EROIs (energy returned on invested), and energy payback times of electricity generating power plants’ e Making clear of quite some confusion”

  1. Weißbach a, b, *, G. Ruprecht a, A. Huke a, K. Czerski a, b, S. Gottlieb a, A. Hussein a, c

Energy 68 (2014) 1004e1006

L’acqua vera.

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Giorgio Nebbia, nebbia@quipo.it

La più importante e diffusa sostanza del pianeta, l’acqua, è praticamente un’astrazione. Dell’acqua si conoscono tutte le proprietà e caratteristiche benché pochissime persone l’abbiano mai vista e conosciuta come H2O. Praticamente tutta quella che esiste sulla superficie della Terra allo stato solido, liquido o gassoso è acqua miscelata con altre sostanze: quella allo stato liquido è presente in soluzioni denominate confidenzialmente acqua di falda, acqua di mare, acqua potabile, acqua di fogna, urina, sudore, sangue, e in altre innumerevoli soluzioni più o meno diluite la cui esatta composizione è quasi sempre esattamente sconosciuta.

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Delle soluzioni acquose considerate ”potabili” vengono analizzate alcune sostanze che non dovrebbero essere presenti in concentrazioni superiori a certi limiti; sali totali, calcio, sodio, pesticidi, elementi radioattivi — non più di tanto per litro, e alla misura di tali valori si dedicano i chimici delle acque. Una delle popolari campagne di contestazione per diminuire la presenza di capitali privati nelle aziende erogatrici di “acqua potabile” era basata sulla frase: “L’acqua non è una merce”, molto suggestiva ma abbastanza priva di senso perché l’”acqua potabile” è una merce, una sostanza che viene venduta per soldi (in Italia circa 6 miliardi di metri cubi all’anno, venduta ad un prezzo fra mezzo euro a due euro per metro cubo*) da aziende, private o pubbliche, che prelevano le soluzioni acquose dai fiumi o dai pozzi, le trattano, filtrano, analizzano e le mettono in tubazioni che le portano fino ai rubinetti delle abitazioni. La chimica ha un ruolo poco noto ma molto importante in ciascuna di queste operazioni, dall’analisi in tutte le varie fasi, alle operazioni per evitare incrostazioni, corrosione nelle tubazioni, eccetera.

L’acquirente delle soluzioni acquose adatte ad uso potabile viene chiamato utente o consumatore ma un chimico sa bene che l’acqua di tali soluzioni non si consuma affatto e che quasi tutta quella che entra in una famiglia o in una fabbrica (salvo piccole perdite per evaporazione quando si cuoce la minestra e si fa il bagno o nei vari processi) esce dalle famiglie o dalle fabbriche come soluzione addizionata di numerose altre sostanze. Le soluzioni acquose delle fogne urbane talvolta passano attraverso processi di filtrazione o depurazione ma talvolta tali e quali finiscono nel sottosuolo, nei fiumi, nel mare. Anche in questo caso le analisi chimiche, quando sono fatte, si propongono di accertare che alcune sostanze siano presenti in questi flussi in concentrazione non superiore a certi valori. Particolare attenzione viene dedicata a riconoscere l’assenza di batteri, virus, eccetera.

Ci sono bravi nostri colleghi chimici che si occupano in silenzio di analisi delle soluzioni acquose nelle aziende di distribuzione, nelle agenzie di igiene pubblica, nelle fabbriche, tanto che, nonostante le enormi quantità in gioco, le malattie dovute a tali soluzioni sono fortunatamente rare; almeno un grazie,

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Il ciclo dell’acqua fa cadere sulla superficie dell’Italia ogni anno circa 300 miliardi di metri cubi di acqua piovana con bassissimo contenuto di sali e gas; di questi circa la metà rievapora e circa 150 miliardi di metri cubi costituiscono il flusso delle soluzioni acquose nei fiumi, nel sottosuolo e che tornano al mare, arricchite (si fa per dire) di sali e di altre sostanze incontrati nel loro moto. Dalle soluzioni acquose presenti nei fiumi e nel sottosuolo ogni anno vengono prelevati, oltre ai 6 miliardi di m3 per usi potabili e urbani, già ricordati, altri circa 6 per l’industria e circa 40 per l’agricoltura e la zootecnia.

In certe zone e in certe stagioni le soluzioni acquose “utili” scarseggiano e ci si chiede come sia possibile intercettare quelle che vanno “perdute” dopo essere passate nelle città, negli allevamenti zootecnici e nelle fabbriche.

Chiamano depurazione l’insieme di operazioni che cercano di eliminare alcune delle sostanze presenti nelle soluzioni acquose “usate” per ricavarne soluzioni utilizzabili in alcune delle operazioni commerciali. Numerosi settori industriali e numerose ricerche sono dedicate a queste operazioni durante le quali si formano inevitabilmente soluzioni residue arricchite di sostanze contaminanti o fanghi acquosi da smaltire in qualche modo. Tutta roba da chimici.

acqua2Questo un po’ frivolo — e mi scuso per questo, ma è ferragosto — intervento vorrebbe invitare molti nostri colleghi a considerare che il campo delle soluzioni acquose è uno dei più importanti e bisognosi di innovazioni e ricerche; mi rendo conto che può sembrare non gratificante dedicarsi all’analisi e allo studio dei liquami zootecnici o dei reflui degli impianti di depurazione urbana, anche se si tratta, solo in Italia, di alcuni miliardi di metri cubi all’anno, da cui potrebbero essere ricavate altre soluzioni forse non potabili, ma utilizzabili in agricoltura (e, con un po’ di furbizia, anche come fonti di metano). La chimica modesta è spesso molto utile per il, paese.

C’è poi un capitolo che ha bisogno di chimici; quello della dissalazione, o trasformazione delle soluzioni acquose presenti nel mare o in molte false saline del sottosuolo, in soluzioni, con minori concentrazioni saline, adatte ad usi potabili. Si tratta di processi per distillazione o per filtrazione attraverso membrane semipermeabili che producono nel mondo circa 20 miliardi (miliardi, avete letto bene) di metri cubi di soluzioni saline utili (la chiamano acqua dissalata, ma naturalmente non è affatto acqua priva di sali, neanche quella distillata).

C’è tanta scarsità di acqua nel mondo che la produzione di “acqua dissalata” aumenta rapidamente ogni anno come aumentano le imprese che fabbricano impianti di dissalazione e i chimici che si occupano dei controlli analitici. Ci fu una breve passione per la dissalazione in Italia negli anni dal 1955 al 1980, poi molto diminuita.

Negli Stati Uniti il Dipartimento dell’Interno (il quale non è il ministero di polizia come in Italia e in Francia, ma il ministero delle risorse naturali), creò un Office of Saline Water che funzionò dal 1954 al 1983 e pubblicò sulla dissalazione circa mille relazioni (OSW Research and Development Progress Reports), molte di carattere chimico (La mia collezione, quasi completa, è stata donata al Museo dell’Industria e del Lavoro www.Musilbrescia.it).

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http://www.musilbrescia.it/documentazione/dettaglio_fondo.asp?id=119&sezione=archivio

Adesso è stato resuscitato un Desalination and Water Purification Program. Chi vuol sapere che cosa fanno i chimici e che cosa c’è ancora da scoprire, può consultare le relazioni, tutte in rete, in: www.usbr.gov/research/AWT/DWPR_Reports. Per la dissalazione si può usare anche l’energia solare.

Per chimici e imprese che volessero dedicarsi alla tanta invocata innovazione vorrei ricordare che nel mondo le persone che hanno bisogno delle soluzioni di “acqua potabile” sono mille milioni, sparsi in abitazioni isolate, villaggi, città, molti lungo le coste dei mari e degli oceani, con fabbisogni che vanno da poche diecine di litri a migliaia di metri cubi al giorno. Buon lavoro.

* ma se diventa minerale allora 500-1000 euro per metro cubo

Noterelle sull’energia elettrica (parte 3)

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Claudio Della Volpe

Nella seconda puntata di questo post abbiamo visto come abbia funzionato il CIP6 assicurando indebiti sovraprofitti ad alcuni grandi produttori elettrici italiani che bruciavano materiali in una modalità che un inopportuno regolamento (CIP6) “assimilava” (ed assimila ancora, fino al 2021) alle rinnovabili ed alcuni altri modi non troppo trasparenti di avere contributi sempre da parte di pochi grandi produttori o consumatori di energia elettrica a spese del resto dei consumatori.

Ho avuto risposte sia pubbliche che private; in particolare ho ricevuto un documento interno di una delle associazioni di categoria dei grandi consumatori, più vicina all’ambiente dei chimici; non ne rivelo il titolo per conservare la privacy dei miei informatori; il documento è una presentazione dell’organizzazione di settore e di un suo team per la suddivisione delle quote di interrompibilità; in essa ci sono alcuni dati sulla situazione italiana e poi alcune proposte; i dati che riporta non sono cosi’ facili da reperire e quindi piuttosto che parlarvi oggi delle rinnovabili e del loro futuro nella produzione di energia elettrica italiana (come avevo in programma in questa terza parte) vi racconterò alcune delle cose che questo documento dice.

La prima è l’andamento delle richieste di picco anno per anno; è un dato che non ero riuscito a trovare nei documenti ufficiali (certamente per mia inesperienza) e che qui trovo invece dal 1990 al 2013; si nota che mentre fino al 2007-2008 tali picchi si verificavano d’inverno negli ultimi anni si sono verificati di estate; (sempre di giorno comunque; ricordate invece che il grande blackout del 2003 si verificò di notte e quindi non dipese dalla nostra incapacità di produrre energia) i dati sono mostrati qui sotto;

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Per meglio confrontarli con i dati che vi ho già mostrato, li ho ricavati numericamente tramite un programma che si chiama GraphClick e che legge i numeri da un grafico (il contrario di quel che si fa di solito) e li ho posti a confronto con i dati di potenza installata che avevo riportato già nel primo post; ecco qua:

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Come potete notare la quota di massima potenza è sempre almeno inferiore ai due terzi dell’installato totale. Quindi avevo ragione quando dicevo che MAI abbiamo avuto un vero problema di difetto di produzione di generazione elettrica; al contrario già nel 1990 quando si sono introdotte molte delle misure di “liberalizzazione” del mercato elettrico avevamo già un eccesso di circa il 50% sulla massima richiesta.

Notate il titolo della slide originale, che sembrerebbe dire il contrario, ma riporta solo i picchi, non l’installato.

Teniamo presente che i fenomeni principali che abbassano la potenza effettiva rispetto a quella nominale sono legati alle dissipazioni della rete (attorno al 6%) e ai problemi di manutenzione e quindi di fermo tecnico (attorno al 10-15% in una grande centrale); siamo quindi ben lontano dal 50%.

I dati della massima potenza richiesta così tanto più bassi di quella installata sono la spia del fatto che la crescita enorme di potenza installata NON è stata dovuta ai problemi di deficit di produzione, ma al contrario alla attrattività del settore, considerato una mucca da mungere, una occasione di profitto; al momento con una sovrapotenza installata dell’ordine del 100% e più, chi ha investito chiede ai gestori del sistema e al governo remunerazione mentre sarebbe necessario chiudere e tagliare, almeno a stare ai medesimi principi economici (liberistici!!) che si sono invocati nel 1990 per rompere il monopolio ENEL.

Ma le reazioni al problema di queste centrali che esistono in gran numero e sono di fatto in eccesso sono varie; potete leggere qui un esempio: http://www.assoelettrica.it/blog/?p=1379 ; si tratta di una moderna centrale a turbo-gas, che lavorando solo un quarto della quantità standard pensa di trasformarsi da metano a carbone, perchè dato il costo molto inferiore del carbone questo la farebbe rientrare sul mercato; capite la follia cui obbliga questo modo di produrre?

Un secondo punto che il documento analizza in qualche dettaglio è quante interruzioni ci sono e quanti sono interessati; anche se non dice quante sono le loro perdite.

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Anche qui i dati confermano quello che ho scritto nella seconda parte del post; il numero medio di interruzioni dell’energia elettrica per queste società che sono “interrompibili” ed il cui disturbo viene pagato non si distaccano dai valori medi che si hanno per il cliente medio; poche interruzioni all’anno; 4-5 non di più.

Una descrizione più dettagliata della situazione è in questa altra slide

noterelle34nella quale si legge che le regioni più industrializzate sono quelle che subiscono il maggior numero di distacchi, ma il valor medio per utente è sostanzialmente costante; in definitiva i clienti distaccabili non subiscono più interruzioni di quelli comuni. Tuttavia qua si vede anche che i distacchi peggiori possono durare anche trenta minuti; ora quale è il costo per una azienda di queste interruzioni? Questo non si evince dalla relazione nè sono in grado di dirlo io; certo è che per i grandi clienti interrompibili la remunerazione media è di milioni di euro all’anno pro/capite, pagati da tutti noi. Questa quota si limita a ripagare i danni subiti o rappresenta (come mi sembra più verosimile) una ulteriore riduzione di prezzo pagata dal resto dei clienti?

Da una mia personalissima e quindi limitata ricerca la spesa cui vanno incontro i grandi interrompibili può essere dell’ordine di centinaia di migliaia di euro in alcuni casi una tantum, mentre il loro vantaggio (se superano un minimo numero di interruzioni) è, o almeno è stato in passato , spropositato, milioni di euro all’anno; appunto.

Certo non sono a conoscenza di statistiche esatte sul tema, ma ho solo come dire forti indicazioni; la prossima volta chiudero’ il cerchio parlando della situazione rinnovabili italiane.

Acqua nei monumenti

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Luigi Campanella, ex Presidente SCI

Per molto tempo si è creduto che i pericoli dovuti alle infiltrazioni di acqua nelle struttture fossero da collegare alla capacità dell’acqua di penetrare nelle strutture medesime legandone i componenti attraverso legami deboli (fisici) e forti (chimici,covalenti o ionici o dativi) o sciogliendoli.

Questa convinzione si è progressivamente rivelata errata in quanto non è l’acqua come tale il pericolo maggiore,quanto piuttosto i composti che essa trasporta e trasferisce,primi fra tutti i sali che essa nel suo percorso ascendente scioglie e veicola. Questi, all’evaporare del solvente, precipitano in forma amorfa o,più spesso e con maggiore pericolo, in forma cristallina.

638px-leonardo_ultima_cena_restored_03Queste efflorescenze e depositi rappresentano una fonte di pericolo e di danno,aggredendo la struttura di supporto sia meccanicamente, in quanto occupano spazi crescenti, che chimicamente. Per di più questo processo è di intensità crescente in quanto il ripetersi dei cicli solubilizzazione/evaporazione/precipitazione provoca un aumento del deposito salino capace di intaccare e distruggere beni architettonici,archeologici ed artistici (come affreschi e sculture).Come rimediare?

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Due sono gli approcci possibili.

Il primo è sperimentale e si basa sulla simulazione in laboratorio dei processi descritti,con tutte le approssimazioni che dalle simulazioni derivano.

Il secondo è più empirico, ma anche più reale e si basa sull’analisi e valutazione dei numerossimi casi di questo tipo di danno riscontrati nel patrimonio artistico e sull’indagine critica di come differenti situazioni ambientali e condizioni di conservazione abbiano avuto riscontri diversi rispetto ai danni prodotti,deducendo
da ciò quali possano essere gli interventi preventivi e protettivi capaci di ostacolare e rallentare il processo di degrado, così, fornendo un prezioso contributo a quanti hanno il compito istituzionale o la vocazione scientifica di proteggere il patrimonio culturale.La prevenzione in particolare può evitare che processi di degrado chimico,fisico e strutturale e di perdita del valore culturale
ed economico raggiungano livelli tali da risultare irreversibili.

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Anche in questo caso la chimica fornisce un contributo fondamentale.Il concetto di solubilità differenziale applicato al caso in questione consente fi prevedere quali sali precipiteranno con maggiore probabilità e quindi quali sono gli ioni trasportati dall’acqua in risalita responsabili primi del danno alle strutture.La collaborazione
da sempre attiva fra chimici e cristallografi potrà contribuire all’inibizione del processo di cristallizzazione responsabile ulteriore del danno.

Il difficile compito di insegnare la Chimica

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Margherita Venturi e Vincenzo Balzani

Prendendo spunto dagli ultimi e interessanti post pubblicati sul blog della SCI vorremmo aggiungere alcune considerazioni del tutto personali sui problemi che incontra l’apprendimento della Chimica, problemi che ci stanno particolarmente a cuore come discusso in una nostra recente pubblicazione [1].

È indubbio che questa disciplina viene vissuta dagli studenti come un qualche cosa di astruso e per nulla associato agli interessi quotidiani; non ci dobbiamo allora stupire se dalle poche nozioni che restano nella loro mente, che consistono spesso in formule o frasi fatte, imparate a memoria e recitate come una litania, scaturiscono idee distorte e luoghi comuni. E, quindi, non c’è neanche da meravigliarsi se i giornalisti, i parlamentari, gli amministratori e perfino le persone generalmente considerate colte esprimono sulla chimica giudizi inappropriati. Questo è doppiamente grave perché il cittadino comune non arriva a comprendere il ruolo fondamentale che la chimica svolge per la collettività e, senza un minimo di conoscenze chimiche di base, diventa preda della disinformazione diffusa e non riesce a fare scelte personali ed esprimere un parere ponderato e coerente su alcune tematiche di grande impatto sociale, come ad esempio l’inquinamento ambientale, le risorse energetiche, il riscaldamento globale.

Cosa fare allora per avvicinare gli studenti, che saranno i cittadini di domani, a questa disciplina?

Il problema (che non è solo italiano) è complesso e nessuno sembra avere la soluzione in tasca neanche a livello internazionale. Certo è che nel nostro paese la situazione, soprattutto nelle scuole superiori, è particolarmente difficile per il concorso di molti fattori: docenti poco gratificati, sia dal punto di vista remunerativo che di considerazione sociale, riduzione sempre più pesante delle ore di insegnamento della chimica, abolizione dei laboratori, mancanza di corsi di aggiornamento seri, e chi più ne ha più ne metta.

È anche vero che non ci si può affidare solo alla metodologia didattica; come non esiste il catalizzatore universale così non esiste la didattica che va bene per tutti: ogni classe e, addirittura, ogni studente sono casi speciali che necessitano di interventi “personalizzati”. Ci sono però, a nostro parere, tre indicazioni metodologiche che possono aiutare:

1) affrontare temi collegati alla realtà quotidiana e al contesto sociale;

2) utilizzare un approccio interdisciplinare;

3) sfruttare una didattica di tipo laboratoriale, intesa però in senso lato.

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Affrontare temi collegati alla realtà e usare un approccio interdisciplinare

Questi aspetti sono strettamente legati alla necessità di svecchiare i programmi, limitare i contenuti e seguire un ben preciso percorso logico che evidenzi la natura interdisciplinare della chimica.

Un corso di chimica che si esaurisce nella descrizione, sia pure chiara e corretta, degli elementi, delle molecole, del legame e delle reazioni chimiche, senza affrontare i problemi che l’uomo incontra nella vita di tutti i giorni, manca il suo più importante obiettivo educativo.

È infatti necessario che il linguaggio elementare della chimica sia utilizzato per approfondire la conoscenza della natura e per evidenziare il diretto coinvolgimento di questa disciplina nei grandi problemi dell’umanità: cibo, acqua, energia, salute, ambiente e informazione. Può essere anche stimolante per gli studenti dare uno sguardo al futuro: le grandi aspettative che riguardano la nanotecnologia, che permetterà di affrontare da un punto di vista completamente nuovo il problema della miniaturizzazione; i nuovi orizzonti che la chimica offrirà alla biologia e alla medicina, con la possibilità di realizzare macchine a livello molecolare, capaci di intervenire sulle singole cellule; il ruolo sempre più importante che la chimica svolgerà per il controllo di qualità dei prodotti e per il monitoraggio degli ambienti di lavoro.

Tutti questi argomenti si prestano, per la loro natura interdisciplinare e la loro complessità, a lezioni con la compresenza di più docenti in cui discutere le molte implicazioni di tipo etico, culturale e sociale e mettere a confronto le opinioni dei docenti di estrazione scientifica con quelle dei docenti di lettere, filosofia, storia e religione. Fra l’altro questo approccio interdisciplinare, come dice Edgar Morin, permette di far capire allo studente che la conoscenza è unica e che la realtà non può essere frazionata.

 

Sfruttare una didattica di tipo laboratoriale

Se per uno studente motivato studiare la chimica su un libro di testo può essere interessante, vedere la chimica in azione e toccare con mano i fatti attraverso esperimenti appropriati è certamente molto più affascinante e stimolante. Utilizzare questo approccio didattico, permette di proiettare lo studente nel mondo vero della chimica facendogli assaporare la bellezza della ricerca e facendolo salire sulla meravigliosa giostra che comincia a muoversi per effetto della curiosità e che si alimenta di domande per rispondere alle quali si organizzano esperimenti. Dai risultati degli esperimenti deriva la conoscenza che genera stupore e da questo nascono nuova curiosità e nuove domande. Allora, si parte per un secondo giro di giostra, alla fine del quale, inebriati dal fascino della scoperta, non si vorrebbe più scendere. Quando scatta la scintilla della curiosità lo studio perde la sua connotazione di dovere e diventa un’occasione invidiabile di imparare a conoscere, come concorderebbe Albert Einstein, che era ben conscio del valore incredibile della curiosità tanto da dire di se stesso: “Io non ho particolari talenti, sono solo appassionatamente curioso!

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È importante ricordare che la didattica laboratoriale non riguarda in modo specifico le discipline scientifiche, ma è piuttosto da intendersi come un approccio che, utilizzando la metodologia della ricerca e della risoluzione dei problemi, mira all’acquisizione di competenze invece che all’accumulo di nozioni. Il laboratorio, infatti, non va inteso solo come spazio chiuso e attrezzato, in cui poter svolgere con gli studenti un certo numero di esperimenti e dimostrazioni, ma come l’insieme di tutte le opportunità che consentono di esercitare osservazione, progettazione e sperimentazione. Si tratta, quindi, di un luogo in cui non solo si elaborano saperi, ma da cui si possono ricavare tutte le opportunità formative trasversali di carattere osservativo, logico, linguistico, utili per produrre nuove conoscenze e sviluppare nuove competenze nel pieno rispetto dei diversi stili di apprendimento. In questa prospettiva l’azione educativa si sposta dall’insegnamento all’apprendimento, cioè ai processi del far apprendere e del riflettere sul fare, allo scopo di rendere gli allievi consapevoli del processo che vivono.

Questo ambiente del laboratorio è in qualche modo assimilabile a quello della bottega rinascimentale, dove tutto partiva dalla sperimentazione creativa e nella quale gli apprendisti imparavano facendo e vedendo fare, comunicando fra loro e con i maestri, rubando con gli occhi quello che poi sarebbe diventato tecnica: le attività di laboratorio favoriscono l’apprendimento nella forma fa’ e impara, a cui sottende una forte motivazione del soggetto a impegnarsi per costruire/ricostruire il proprio modello di realtà e insegnano a sfruttare in modo positivo anche l’errore che diventa così un efficace mezzo per maturare la propria conoscenza (sbagliando si impara, recita un vecchio adagio). Questo, però, è vero solo se lo studente non è costretto a duplicare pedissequamente una ricetta predisposta dal docente, ma costruisce in maniera autonoma l’esperimento e lo vive in prima persona.

Un altro aspetto particolarmente interessante di questo approccio didattico riguarda il fatto che il lavoro in laboratorio è normalmente organizzato in gruppi e quindi l’esperienza di apprendimento è vissuta in un contesto relazionale. Il laboratorio è allora anche il luogo e l’ambiente per maturare competenze sociali, perché durante un lavoro cooperativo entrano sempre in gioco abilità comunicative, di leadership, di soluzione negoziata, di gestione dei conflitti e soprattutto di soluzione di problemi. In tale prassi, studenti e insegnanti rivestono ruoli ben definiti che invertono le idee guida della tradizione didattica trasmissiva e mettono lo studente-protagonista al centro della relazione e del processo di insegnamento-apprendimento, mentre il docente si colloca in secondo piano, quale organizzatore, guida e facilitatore nei percorsi didattici. Questo, ovviamente, non significa che il docente deve tenere un atteggiamento distaccato e passivo; al contrario, deve partecipare con gioia alle scoperte dei suoi studenti e accogliere con entusiasmo nuove idee, che potrebbero rivelarsi interessanti e innovativi spunti didattici. Come giustamente ha detto Seneca: “C’è un duplice vantaggio nell’insegnare, perché, mentre si insegna, si impara”.

La grande potenzialità dell’approccio sperimentale è molto ben descritta in un articolo della letteratura chimica americana di cui è protagonista un giovane ragazzo, Ira Remsen, diventato poi un noto chimico: “Leggendo un testo di chimica arrivai alla frase l’acido nitrico agisce sul rame. Mi stavo stancando di leggere cose così assurde e allora decisi di vedere quale fosse il significato reale di quella frase. Il rame era per me un materiale familiare, perché a quei tempi le monete da un centesimo erano in rame. Avevo visto una bottiglia di acido nitrico sulla tavola dell’ufficio del dottore dove mi mandavano per passare il tempo. Non sapevo le proprietà dell’acido nitrico, ma ormai lo spirito di avventura si era impossessato di me. Così, avendo rame e acido nitrico, potevo imparare cosa significassero le parole agisce sul. In questo modo, la frase l’acido nitrico agisce sul rame sarebbe stata qualcosa di più che un insieme di parole. Al momento, lo era ancora. Nell’interesse della scienza ero persino disposto a sacrificare uno dei pochi centesimi di rame che possedevo. Ne misi uno sul tavolo, aprii la bottiglia dell’acido, versai un po’ di liquido sulla monetina e mi preparai a osservare quello che accadeva. Ma cos’era quella magnifica cosa che stavo osservando? Il centesimo era già cambiato e non si poteva dire che fosse un cambiamento da poco. Un liquido verde-blu schiumava e fumava dalla moneta e l’aria tutt’intorno si colorava di rosso scuro. Si formò una gran nube disgustosa e soffocante. Come potevo fermarla? Provai a disfarmi di quel pasticcio prendendolo con le mani per buttarlo dalla finestra. Fu così che imparai un altro fatto: l’acido nitrico agisce non solo sul rame, ma anche sulle dita. Il dolore mi spinse a un altro esperimento non programmato. Infilai le dita nei calzoni e scoprii che l’acido nitrico agisce anche sui calzoni. Tutto considerato, quello fu l’esperimento più impressionante e forse più costoso della mia vita. Fu una rivelazione e mi spinse a desiderare di imparare di più su quel rimarchevole agisce sul”.

Forse è proprio questo che dovremmo insegnare: desiderare a imparare di più! È infatti importante sottolineare che l’insegnante di scienze non deve preoccuparsi se, durante il suo corso, non riesce a dare una risposta del tutto esauriente o conclusiva ai molti perché; deve, anzi, considerare questa limitazione come un aspetto positivo del suo insegnamento, utile per stimolare la fantasia e la curiosità dello studente e per spingerlo a cercare spiegazioni più rigorose in un livello superiore di studi.

Un’ultima considerazione riguarda il fatto inevitabile e forse giusto che ci siano discipline che interessano di più gli studenti e discipline che interessano di meno. Ciò succede in tutti i campi e in ogni momento della vita; noi esprimiamo sempre preferenze e facciamo continuamente scelte. È quindi, importante dire agli studenti che è un bene avere delle preferenze: è un contributo essenziale alla formazione della personalità che è il risultato di un continuo processo di selezione. Ma è anche altrettanto importante far capire agli studenti che è fondamentale studiare, sempre e comunque, con impegno e caparbietà tutte le discipline, comprese quelle che non amano perché un domani potrebbero riscoprirle e amarle, o avere la necessità di usarle.

[1] V. Balzani, M. Venturi: Chimica! Leggere e scrivere il libro della natura, Scienza Express, 2012;

V. Balzani, M. Venturi: Reading and Writing the Book of Nature, Royal Society of Chemistry, 2014.

Il caso aiuta la mente preparata

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

Vi ricordate quando Edmond Dantès, il Conte di Montecristo del celebre romanzo di Alessandro Dumas, fa arrivare per telegrafo un’informazione sbagliata al malvagio e avido banchiere Danglars, che lo aveva ingiustamente fatto arrestare e finire per anni nel tetro carcere del castello d’If a Marsiglia ? E così Danglars è punito con una ingente perdita di denaro ? Siamo nel 1838 e il Conte di Montecristo si mette di persona a muovere le tre braccia del telegrafo ottico che collegava tutta l’Europa, trasmettendo i segnali da una torre di osservazione ad un’altra. Il telegrafo ottico era stato inventato alla fine del Settecento dai fratelli Chappe ed era sembrato una macchina talmente importante che l’Assemblea rivoluzionaria francese l’aveva ufficialmente adottato nel 1792.

Il racconto di Dumas si riferisce comunque ad uno degli ultimi periodi di vita del telegrafo ottico. Nella lontana America Samuel Morse (1791-1872) aveva realizzato un sistema per trasmettere lettere e messaggi utilizzando la corrente elettrica e un alfabeto da lui inventato, composto di linee e punti; il 24 maggio 1844. Morse trasmise il primo messaggio telegrafico da Washington a Baltimora e da quel momento il telegrafo elettrico passò da un successo all’altro.

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Una sezione di un moderno cavo sottomarino per le telecomunicazioni. 1 – Polietilene 2 – nastro in Mylar 3 – cavi d’acciaio 4 – Aluminium water barrier 5 – Policarbonato 6 – Tubo di rame o d’alluminio 7 – Vaselina 8 – fibra ottica

Il passo successivo consisteva nel superare mari e oceani e qui interviene l’inglese Willoughby Smith (1828-1891), impiegato in una fabbrica chimica che lavorava la guttaperca, una gomma elastica naturale estratta da piante dell’Indonesia e che presentava buone proprietà isolanti dell’elettricità e buona resistenza all’acqua. Coprendo dei fili di rame con questa guttaperca la società di Smith fabbricò i primi cavi elettrici che potevano essere immersi nel mare, adatti quindi alle trasmissioni telegrafiche sottomarine; il primo, lungo 50 chilometri, collegò nel 1850 Dover in Inghilterra con Calais in Francia

L’importante passo successivo fu fatto quando un cavo telegrafico ben più lungo fu steso fra la città di La Spezia, ancora nel Regno di Sardegna, con la Corsica e poi con la Sardegna e l’Africa settentrionale, unendo per la prima volta direttamente due continenti. I collegamenti intercontinentali continuarono nel 1858 con la posa del cavo telegrafico sottomarino che univa l’Irlanda con l’isola di Terranova nel Nord America. Nasceva la società moderna e la globalizzazione, mezzo secolo prima delle trasmissioni “senza fili” della radio di Marconi e un secolo prima delle trasmissioni con satelliti artificiali.

WilloughbySmithMa i satelliti artificiali non sarebbero mai stati realizzati se Willoughby Smith non avesse fatto anche un’altra scoperta. Per le prove di isolamento, durante l’immersione dei cavi telegrafici sottomarini, Smith usò delle barrette di selenio metallico, considerato un cattivo conduttore dell’elettricità. Smith scoprì però che le proprietà elettriche del selenio variavano quando era tenuto al buio, rispetto a quando era esposto al Sole. Al buio le barrette di selenio non lasciavano passare l’elettricità e alla luce diventavano, sia pure limitatamente, conduttrici di elettricità. Colpiti da questa strana proprietà altri due inglesi, Adams e Day, condussero altri esperimenti e scoprirono che nel selenio esposto alla luce addirittura si generava una corrente elettrica che cessava quando la superficie di selenio era tenuta al buio e chiamarono questo fenomeno “fotoelettricità”. Fra tutti questi stranieri non dimentichiamo che anche gli italiani hanno avuto un ruolo nell’utilizzazione dell’energia solare; al professore pisano Antonio Pacinotti (1841-1912) si devono alcuni fondamentali studi sulle proprietà fotoelettriche del selenio, pubblicati nel 1863-64.

Ormai erano aperte le porte per la produzione di elettricità direttamente dalla luce del Sole. Al fianco di alcune applicazioni commerciali come le celle fotoelettriche per l’apertura e chiusura automatica delle porte o per gli esposimetri delle macchine fotografiche, il selenio fu impiegato per la costruzione delle prime cellule fotovoltaiche solari in senso moderno. L’americano Charles Fritts (1850-1903) realizzò un pannello fotovoltaico stendendo un sottile strato di selenio su una lastra di metallo e constatò che il pannello produceva una corrente elettrica quando era esposto sia alla luce solare, sia alla luce artificiale.

Fritts mandò uno dei suoi pannelli fotovoltaici al grande fisico tedesco Werner von Siemens (1816-1892) che ne riferì all’Accademia reale di Prussia e pubblicò nel 1885 un articolo “sulla forza elettrica generata dal selenio esposto alla luce, scoperta dal sig. Fritts di New York”. Il cammino per la comprensione del fenomeno della fotoelettricità era ancora lungo: ci sarebbe voluto addirittura Albert Einstein (1879-1955) per spiegare che la luce “contiene” dei fotoni dotati di energia, i quali mettono in moto gli elettroni all’interno di alcuni materiali come il selenio e, si vide in seguito, il silicio e altri ancora.
Per farla breve il primo pannello solare fotovoltaico in senso moderno, a strato di selenio, fu costruito nel 1931, ma il suo rendimento era molto basso; solo meno dell’uno per cento della energia solare veniva trasformata in energia elettrica. Soltanto nel 1953 fu scoperto, nei laboratori americani della società elettrica Bell, che il selenio poteva essere sostituito dal silicio opportunamente trattato; in pochi anni le celle fotovoltaiche al silicio sarebbero diventate commerciali e avrebbero raggiunto, oggi, la capacità di trasformare (massimo commerciale) circa il 20 per cento dell’energia solare in energia elettrica (NdB: la massima efficienza teorica di una cella a singola giunzione , il limite di Shockley–Queisser è del 33.7% e quella effettiva di laboratorio è del 29%)
Sono i pannelli solari che forniscono continuamente l’elettricità ai satelliti artificiali che trasmettono notizie, film, le partite di calcio, le informazioni meteorologiche, eccetera. I pannelli solari, che si stanno diffondendo in tutto il mondo, producono, alle nostre latitudini, circa 100-200 chilowattora di elettricità all’anno per ogni metro quadrato di superficie esposta al Sole (a seconda del tipo di pannello).

Pannelli solari, senza parti in movimento, di semplice funzionamento, possono portare l’elettricità per far funzionare frigoriferi per la conservazione dei medicinali, per portare conoscenze e per illuminare le case in milioni di villaggi nei deserti, nelle foreste, sulle montagne, grazie al Sole. Ma niente di quello che abbiamo oggi sarebbe stato possibile senza il contributo talvolta glorificato, ma spesso dimenticato e ignorato, di tante persone che ci hanno preceduto. Almeno un grazie !

Olimpiadi internazionali scientifiche

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Giorgio Cevasco, DCCI, UniGe

cevascoQuesto è un primo confronto tra le diverse gare internazionali di tipo scientifico destinate agli studenti delle scuole superiori.
Le squadre nazionali sono formate da alcuni studenti, tra i 4 e i 6, ed un paio di tutor.
Queste competizioni coinvolgono giovani provenienti da numerosi paesi (80-100) di tutti i continenti, i partecipanti oscillano quindi tra i 200 e i 500.
Le classifiche sono redatte in base ai punteggi individuali che vengono infine raggruppati in tre fasce a cui corrispondono le medaglie d’oro, d’argento e di bronzo: sono perciò attribuite diverse decine di medaglie per ciascun tipo.
In alcune competizioni sono elaborate anche classifiche a nazione.
Nella tabella sottostante sono riportati alcuni dati relativi alle varie Olimpiadi prelevati da siti WEB ufficiali con il numero di medaglie complessivamente conquistate dalle squadre italiane a partire dall’anno della loro prima partecipazione.

tabellaoòimpiade

Di seguito vengono sottolineati alcuni dati (sempre prelevati dai siti WEB ufficiali) relativi alle diverse competizioni.

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Matematica
• Impressionanti i risultati della Cina: negli ultimi 15 anni si è piazzata 12 volte al primo posto della classifica a squadre e 3 volte al secondo posto.
• Nel 2014 la classifica a squadre è, per le prime posizioni: Cina, USA, Taiwan, Russia, Giappone, Ucraina, Corea, Singapore.
• L’Italia si è piazzata al 26mo posto avendo vinto 1 oro, 2 argento e 1 bronzo.
• Interessante notare che prima dell’Italia troviamo (tra parentesi la posizione): Romania (11), Olanda (13), Germania (16), Turchia (17), Inghilterra (20); dopo troviamo: Portogallo (33), Francia (45), Spagna (48).
• Fino al 2004 la squadra italiana aveva vinto solo 2 medaglie d’oro ma nel corso degli ultimi anni ne ha conquistate ben 9.

2015iphologoFisica
• Purtroppo il sito italiano delle Olimpiadi è fermo per manutenzione e quello internazionale è spezzato in più tronconi. I dati in tabella sono riferiti alle edizioni 1988-2010
• Nell’edizione 2014 i partecipanti italiani hanno vinto 1 argento e 2 bronzo; come nel caso della Matematica la parte del leone l’hanno fatta, in ordine decrescente: Cina, Vietnam, Taiwan, Corea, Kazakistan, Singapore, Austria, Russia
• Nell’edizione 2013 per l’Italia 5 medaglie di bronzo. Per il resto nessuna novità, la Cina domina con gli altri paesi asiatici già citati e con la comparsa di Ungheria, Polonia, USA nelle prime posizioni. Con l’eccezione degli USA nessun studente di un paese occidentale ha vinto una medaglia d’oro.
• Nel 2012 i ragazzi italiani hanno ricevuto 2 medaglie di bronzo. Solite considerazioni per i paesi asiatici e dell’est, con l’incursione di India ed Iran.
• L’unica medaglia d’oro assegnata ad uno studente italiano risale al 1995.

ioi2014Informatica
• Pochi dati disponibili, l’edizione 2014 pur conclusa il 20 luglio non ha ancora i risultati on-line
• Nel 2013 la squadra italiana ha conquistato 1 oro e 1 bronzo. Nell’edizione 2012 (svolta in Italia) 1 argento e 2 bronzi.

ibo2014_logo_baruBiologia
• L’Italia partecipa da soli sei anni
• Nell’edizione 2014 la squadra italiana ha collezionato 1 argento e 2 bronzi. Anche in questa disciplina predominano i paesi asiatici (Corea, Singapore, Taiwan, Indonesia, Giappone) e gli USA.

IChO46Chimica
• Hanoi 2014: sono state assegnate 28 medaglie d’oro, 63 d’argento e 92 di bronzo. Le due medaglie di bronzo vinte da studenti italiani sono relative al 126mo e al 141mo posto in graduatoria generale. I primi dieci studenti della graduatoria provengono da Singapore (2), Taiwan (2), Ucraina (2), Giappone, Vietnam, Cina e -al decimo posto- Inghilterra
• Mosca 2013: 4 medaglie di bronzo agli studenti italiani (piazzamenti: 125, 128, 162, 240). Ancora una volta i primi dieci studenti in base al punteggio provengono da Cina (3), Taiwan, Corea (2), Slovacchia, Bielorussia, Russia.
• Washington 2012: 4 medaglie di bronzo agli studenti italiani (piazzamenti: 131, 139, 142, 146). Per quanto riguarda i primi dieci: Germania, Corea, Taiwan (2), Russia (3), Cina e India (2).

Alcune considerazioni generali:
• A livello internazionale è palese il dominio incontrastato dei paesi asiatici e dell’est europeo con la eccezione degli USA. Modesti, e soprattutto sporadici, sono i risultati di rilievo di tutti o quasi i paesi dell’Europa occidentale.
• A livello nazionale i risultati migliori sono quelli relativi a Chimica e Matematica: il medagliere è molto simile (la maggior consistenza numerica della squadra che partecipa alle Olimpiadi della Matematica si riflette nel maggior numero di medaglie di bronzo). Quindi i risultati nazionali relativi alla Chimica non sono inferiori a quelli di ogni altra disciplina. Tuttavia un aspetto va sottolineato: come detto in precedenza, dal 2006 ad oggi la squadra per la Matematica ha raccolto ben 9 medaglie d’oro, mentre l’ultimo oro per la Chimica risale all’ormai lontano 2003. Nel tentativo di capire questo andamento (in crescita per la Matematica e in diminuzione per la Chimica) si può pensare al fatto che i partecipanti alla gara matematica sono prevalentemente liceali (popolazione numerosissima) e che per questa disciplina non c’è laboratorio! E un buon liceale italiano ha le stesse opportunità di un buon liceale di ogni altro paese, se dispone di capacità, testi adatti e buoni docenti. Per la Chimica, invece, oltre ad una solida preparazione teorica è indispensabile -per puntare in alto nelle Olimpiadi- un’ottima conoscenza e pratica di laboratorio e perciò le maggiori opportunità sono per forza ristrette agli studenti degli istituti tecnici di tipo Chimico e la contrazione, talvolta drammatica, del numero degli studenti di questi istituti nel nostro paese gioca senz’altro un effetto fortemente negativo. Se poi consideriamo che le risorse destinate alla scuola in generale, e in particolare ai laboratori, sono in Italia anno dopo anno in costante ed inesorabile declino, il quadro che emerge è sempre più fosco. Il fatto poi che la Chimica sia una scienza vista con sospetto e diffidenza nei paesi occidentali, e più in particolare in Italia, mentre al contrario nei paesi asiatici e dell’est europeo sia ritenuta di fondamentale importanza per il loro sviluppo economico e sociale spiega i risultati delle Olimpiadi della Chimica, anche se la “fame” di conoscenza di questi ultimi paesi riguarda tutta la Scienza in generale.

Nel tentativo di contrastare questo andamento il Presidente della SCI Raffaele Riccio e il Consiglio Direttivo dei Giochi della Chimica sono già impegnati ma il contributo di tutti i Soci è assolutamente indispensabile: idee, proposte, suggerimenti sono attesi!

http://it.wikipedia.org/wiki/Olimpiadi_Scientifiche

http://olympiads.win.tue.nl/

http://ipho.phy.ntnu.edu.tw/

Il paradosso di Gibbon

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Claudio Della Volpe

Molti colleghi avranno letto sulla stampa nazionale del caso Lo Schiavo;

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La collega prof. Sandra Lo Schiavo di UniMe

qualche altro avrà letto invece il breve resoconto che è comparso finora sulle due medaglie di bronzo della squadra italiana alle Olimpiadi Internazionali della Chimica svoltesi quest’anno ad Hanoi.
Ma su questo blog dovremmo o vorremmo tentare un passo ulteriore, ossia capire se i due episodi che riguardano entrambi la Chimica e il suo insegnamento, siano connessi e se lo sono in che modo lo sono.

IChO46
La collega Lo Schiavo che insegna chimica generale a Messina (se non sbaglio in un corso di laurea per biologia marina) ha avuto gli onori della pagina nazionale su un paio di quotidiani che in modo più o meno equilibrato hanno riportato la notizia che era la professoressa più severa d’Italia avendo un tasso di bocciati del 70%. La collega era stata “portata agli onori della cronaca” con l’accusa di essere troppo severa e si è difesa egregiamente in un successivo articolo del Corriere della sera, su Huffington post etc.
La collega si è difesa argomentando (con un certo successo se vi leggete gli articoli) la scarsa preparazione di base e l’inefficiente metodo di studio degli studenti.
Le medaglie di bronzo alle Olimpiadi Internazionali della Chimica di Hanoi tutto sommato confermano le cose che la nostra collega dice, perchè non sono in realtà un brillante risultato; eh si, perchè ci sono all’incirca 100 posizioni prima di arrivare alle nostre: una trentina di medaglie d’oro e circa il doppio d’argento per cui vincere una medaglia di bronzo significa essere arrivati men che meno dopo la centesima posizione. E questo ad onta del notevole sforzo che tanti colleghi e anche gli studenti vincitori, (compresi gli altri due partecipanti ed i quattro che hanno partecipato agli allenamenti per le Olimpiadi, ai quali TUTTI va il nostro plauso) hanno speso per arrivarci.

(Noto qui per inciso che uno studente di Merano delle scuole di lingua tedesca ha partecipato per l’Austria vincendo una medaglia d’argento.)

Ma come mai un paese dalle notevoli tradizioni scientifiche come il nostro, anche nello specifico della Chimica, si trova in queste condizioni? Come vanno gli altri paesi avanzati?
La cosa abbisogna di una analisi approfondita e non voglio nè forse sono in grado di farla e comunque non in condizione di farla in queste poche righe; vorrei solo stimolare la discussione.
Dal mio modesto punto di vista vedo tre argomenti da considerare ed analizzare:
1) l’Italia ha scarsi risultati nei confronti internazionali, anche se occorre dire che tali confronti vanno presi con beneficio di inventario e che sono stati spesso criticati (per esempio le scuole private sono sistematicamente peggio di quelle pubbliche ma fanno media e si prendono in proporzione più risorse); di fatto nei confronti PISA, gli studenti di 15 anni sono sotto la media OCSE in lettura, matematica e scienze
2) l’Italia spende poco per scuola, università e ricerca; la spesa in questi settori è sotto la media europea di gran lunga e siamo molto lontani dagli obiettivi di Lisbona
3) fare buona didattica è difficile anche quando si è bravi e si lavora in condizioni eccezionali.
Su quest’ultimo problema ho avuto modo come genitore di lavorare un po’ nei vari ordini di scuola nella città dove abito da oltre 20 anni, Trento, che vanta una scuola ed una Università di italica eccellenza, nella quale mi onoro di insegnare. E direi quindi qualcosa di più.

Si tratta di un problema annoso, il famoso storico Gibbon scriveva:“Il potere dell’istruzione è raramente di grande efficacia eccetto che in quei felici casi nei quali è praticamente inutile”. In pratica la didattica non serve a molto; e quando pare servire in realtà è perché gli alunni fanno da se, non ne hanno veramente bisogno; la didattica non serve ai “bravi”, ma servirebbe a tutti gli altri, e specie agli “asini”, ma per quelli non riesce a funzionare.
La frase di Gibbon è stata citata da Richard Feynman, fisico e premio Nobel nella prefazione al suo libro di Fisica del 1963, uno dei più usati del mondo. Dopo essersi impegnato al Caltech, una delle più prestigiose università americane con un gruppo di colleghi per sviluppare didattica avanzata, esperienza da cui è poi uscito il suo libro, Feynman, guardando ai risultati didattici che ha ottenuto, dice: “il sistema è un fallimento” e aggiunge “il migliore insegnamento può essere fatto solo quando c’è un una relazione individuale diretta fra uno studente ed un buon docente”…..”è impossibile imparare molto semplicemente sedendo durante una lezione o perfino facendo i compiti assegnati”.
Capito? Didattica personalizzata e “saper fare”.
Insegnare non vuol dire riempire un vaso ma accendere un fuoco”; lo diceva già Teofrasto 2000 anni fa, nulla di nuovo.
In positivo mi sento di dire che mi sembrano mancare soprattutto due aspetti nella nostra didattica: il saper fare, la competenza, come si dice e la storia delle discipline o se volete il racconto.
Il programma ministeriale privilegia il sapere, la pratica scolastica e universitaria privilegiano la teoria, il sapere, la conoscenza, ma il saper fare e la storia, l’approccio storico (non la conoscenza dei dettagli storici ma dei meccanismi delle discipline, della loro evoluzione concettuale e pratica, che ben si collega con la serie di pre-concezioni degli studenti, pre-concezioni che spesso non vengono scalfite affatto dal classico insegnamento dottrinale) sono e rimangono a mio modestissimo parere i migliori insegnanti del mondo.
Forse che i nostri figli sono più fessi di noi? Voi pensate questo? Non credo, penso che avrebbero diritto a due o tre cose: maggiori risorse, insegnanti più motivati (non precari, sottopagati e poco rispettati come avviene sempre più spesso), strutture adeguate e non fatiscenti. Solo così potremmo avere come effetto di qualche decennio di cura risultati da medaglia d’oro in qualunque disciplina. Invece abbiamo altissimi tassi di abbandono scolastico! Rifiuto della scuola!
Ed ovviamente la cosa più importante: la motivazione! Mica possiamo dimenticare che in un mondo che oggi propone ai nostri studenti una percentuale di disoccupazione dell’ordine del 50% viene a mancare quel piccolo impulso che serve a qualunque scopo umano: la motivazione; forse dopo tutto nè la severità da sola nè l’investimento da soli possono risolvere il problema; senza un adeguato obbiettivo, senza una adeguata motivazione nessuno strumento potrà convincere i nostri figli a non diventare (come dicevano i recenti ministri super efficientisti e non a caso tutti economisti?) dei bamboccioni, choosy, o perfino sdraiati , come li definisce un recente libro; ma in un mondo come il nostro dove sono le motivazioni?

sdraiati
Non è che poi alla fine la colpa è proprio la nostra, e di questo assurdo mondo bloccato nella spirale di un impossibile sviluppo senza fine (u’ PILu!!!) e avviato verso un drammatico processo di surriscaldamento ambientale che abbiamo costruito negli ultimi decenni seguendo i consigli dei medesimi economisti?
Ci sono motivi più specifici per la Chimica? Voi che ne dite?