Profumi

 Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Gianfranco Scorrano, ex Presidente della SCI

Il ruolo degli odori nello sviluppo di attività e sentimenti, nonchè la (spesso) inconsapevole sapienza chimica necessaria per svilupparle, è stato già accennato in precedenti post (vedi ‘Na tazzulella ‘e cafè!. e L’odore dei libri).

Vorrei riprendere il discorso a partire da una riflessione di Marcel Proust nell’opera Alla ricerca del tempo perduto (1913):

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Quando di un antico passato non sussiste niente, dopo la morte degli esseri, dopo la distruzione delle cose, soli, più fragili ma più intensi, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore restano ancora a lungo, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sulla rovina di tutto il resto, a reggere, senza piegarsi, sulla loro gocciolina quasi impalpabile, l’immenso edificio del ricordo.

L’odore è il senso essenziale per l’uomo fin dai primordi, per la propria difesa da aggressori così come per ritrovare le sorgenti di cibo. E secondo Proust permane tale anche dopo la morte.

Così non è sorprendente il culto per il profumo sviluppatosi già fin dalla fine del IV millennio a.C. come testimoniato dai ritrovamenti nelle tombe egizie predinastiche di cosmetici, profumi, e ingredienti per la loro preparazione. Invenzione egizia è anche quella della boccetta porta profumo, l‘Alabastron, piccolo vaso di alabastro che conservava al fresco e al buio preziosi oli profumati. Molti di questi contenitori sono stati ritrovati nelle tombe, in Egitto e nelle zone del mediterraneo, e sono chiara

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Figura 1. Alabastron corinzio, alt. ca. 8 cm

indicazione della diffusione dell’uso dei profumi. Dall’Egitto l’uso dei profumi si estese all’area mediterranea e ebbe particolare sviluppo nella Grecia antica: qui nacque e operò Teofrasto (nato ca 317- morto 287 a.C.) il quale scrisse, con l’aiuto di interviste a molti venditori di profumi, il trattato De Odoribus, un opuscolo di 71 brevi capitoli (di cui gli ultimi due lacunosi).

Nei primi sei capitoli il filosofo si sofferma sull’origine degli odori, sugli odori di animali e piante e sulle differenze di animali e piante. Evidenzia la difficoltà di definire gli odori (e la necessità di prendere in prestito dagli altri sensi aggettivi adatti a definirli: piccanti, forti, deboli, dolci, pesanti). Rivolge quindi la sua attenzione alla lavorazione delle spezie e alla creazione di oli, vini e polveri profumate: da qui si rivela la rilevanza storica di quello che deve essere considerato il primo manuale di profumeria antica, ampiamente utilizzato in seguito sia da Plinio il vecchio (Nato nel 23 dC morto a Stabia nel 79 dC durante l’eruzione del Vesuvio che seppellì Pompei e altre città vicine) e da Ateneo di Nacrauti (vissuto dopo il 192 d.C.) quando parla di profumi nel libro I dotti a banchetto libro XV.

Nei capitoli successivi Teofrasto parla del solvente nel quale andavano sciolte le sostanze odorose: acqua, vini ed oli, con minima profumazione, in particolare olio di balano (quercia), di olive selvatiche, di olive e di mandorle amare. L’estrazione delle essenze dalle spezie avveniva attraverso la bollitura in acqua, o la macerazione in olio freddo o caldo: la scelta dei solventi era limitata, così come le operazioni di estrazione condotte con competenze diverse da quelle dei moderni operatori; si trattava comunque di estrazione con solvente.

Ma quali sostanze venivano adoperate per creare profumi? C’è da sbizzarrirsi. Oltre alle piante floreali, venivano trattate molte sostanze derivanti da animali. Vedremo dopo in qualche dettaglio.

Ma prima riflettiamo sulla divisione fatta nei tempi della parte odorosa dei profumi. Furono presto identificati nei profumi tre componenti, rappresentati anche in tempi moderni come si vede dallo schema seguente

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L’odore che proviene da un profumo può essere diviso in tre stadi: le note più alte del profumo vengono dette “note di testa” e sono quelle che si percepiscono subito e che per prime impressionano chi le prova; sono le essenze più volatili, spesso essenze agrumate o fruttate come limone o bergamotto.

Le note medie, “le note di cuore”, rappresentano la parte più caratterizzante del profumo: per esempio l’olio di rosa o l’essenza di gelsomino. Infine le “note di fondo” , quelle provenienti dalle sostanze meno volatili e che emergono dopo le note di cuore, almeno mezz’ora dopo l’applicazione.

Prendiamo ad esempio l’ambra. L’ambra grigia è un prodotto dell’intestino dei capodogli, Physeter macrocephalus: questi cetacei ingeriscono i calamari giganti, l’affilato becco dei quali può divenire una minaccia per l’apparato digerente della balena. L’ambra è una particolare secrezione biliare che riveste tali scarti alimentari, facilitandone l’espulsione. Il materiale espulso è soffice e galleggia e col passare dei mesi e degli anni in mare si trasforma in una massa cerosa del colore grigio, nerastro e anche l’odore diventa caldo, dolce marino e terroso. Naturalmente, dare la caccia ai pochi capodogli rimasti rende difficile accedere all’ambra.

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I tempi ora sono cambiati. Cosa è successo? Nel diciannovesimo secolo la tecnica chimica ebbe un grande sviluppo e per la prima volta divenne possibile estrarre gli ingredienti attivi dalle loro sorgenti naturali usando solventi organici a temperatura ambiente. A seguire, nella seconda metà del diciannovesimo secolo, i chimici cominciarono ad esplorare la sintesi organica come sorgente per riprodurre gli odori naturali. Nel 1868 il chimico inglese William Henry Perkin William_Henry_Perkinpreparò la cumarina (odore di fieno)* aprendo così la strada alla sintesi di un numero impressionante di odori, sollevandoci dal problema di inseguire i capodogli e gli altri animali portatori di odori.

Ora, se si vuole riprodurre l’odore dell’ambra si può ricorrere, tra l’altro, ai due composti seguenti:

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Ovviamente, per tutti gli odori finora noti, è possibile partire dai prodotti di sintesi per realizzare profumi.

Un’ultimo cenno: molti anni fa ho assistito ad un colloquio tra un produttore di aromi ed una signora, professoressa. L’argomento consisteva, da parte della signora, nel confutare quanto affermato dal produttore: e cioè che lui realizzava sinteticamente in laboratorio il profumo delle mele, completamente uguale a quello ricavabile dalla frutta. La signora non era convinta, neanche quando le si spiegò che, in questi anni, è possibile essere certi dell’uguaglianza di due composti e quindi se il profumo delle mele deriva dall’ etil isobutirrato prodotto in fabbrica o da quello prodotto in natura non fa differenza.

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etil isobutirrato

Ovviamente la signora credeva che quello naturale fosse migliore. Purtroppo il lavoro dei chimici non viene apprezzato come sarebbe doveroso: quante piante di mele sarebbero state usate per preparare le saponette alla mela?

Molte delle informazioni sono ricavate dal libro

I profumi delle società antiche, Pandemus, Paestum 2012, a cura di Alfredo Carannante e di Matteo D’Acunto

Le maggiori compagnie mondiali del settore sono riunite nell’ IFRA (International Fragance Association) che attraverso la RIFM (Research Institute for Fragance Materials) emette raccomandazioni sull’uso di prodotti sintetici per cosmesi. Ovviamente anche REACH ha a che fare con la registrazione dei cosmetici e affini.

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* La cumarina

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e

l’esanale 200px-Hexanal

sono entrambe caratteristiche molecole presenti nell’odore dell’erba appena tagliata.

Si veda anche: http://www.rescogitans.it/main.php?articleid=354

Depuratori di acqua casalinghi e case dell’acqua. C’è qualcosa da sapere.

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Mauro Icardi (siricaro@tiscali.it)

Negli ultimi tempi si è verificato un notevole incremento degli impianti di filtrazione dell’acqua del rubinetto di casa. Nei centri commerciali molto spesso ci sono stand che propongono questo tipo di installazione. Gli impianti per il trattamento dell’acqua di casa possono essere ad osmosi inversa, con resine a scambio ionico, o con filtri a carbone attivo.

Per affrontare in maniera corretta il tema bisogna partire da una prima considerazione: gli italiani sono i secondi al mondo per consumo di acqua minerale.

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Confronto fra acqua minerale e acqua “del sindaco” – Laboratorio ARPAM 2009 ph è il pH ovviamente

 

 

La crisi però sta facendo piano piano cambiare le abitudini a molti. Se facciamo un semplice calcolo, prendendo come paragone una marca di acqua minerale in bottiglia (che ovviamente non verrà citata) ci accorgiamo che il prezzo di vendita di 29 centesimi al litro vale 290 euro al metro cubo. E’ il prezzo di vendita che possiamo trovare al supermercato, quindi ha subito molti ricarichi dall’imbottigliamento allo scaffale. Ma se facciamo il confronto con le tariffe al metro cubo dell’acqua potabile, ci accorgiamo che per lo stesso metro cubo per esempio a Varese, la tariffa per un consumo giornaliero minimo di 200 L/giorno è pari a 26 centesimi al metro cubo e per un consumo massimo eccedente i 750L/ giorno arriva ad 1,26 euro.

Il paragone potrà sembrare non corretto, visto che l’acqua potabile serve non solo per bere, ma anche per lavarsi e cucinare i cibi. E ancora tante persone non la bevono, convinte a priori che sia acqua di pessima qualità. Spesso si lamentano della tariffa, ma accettano di pagare una cifra esorbitante per acqua minerale in bottiglia, che lo ricordo è pur sempre un bene demaniale. Gli importi per l’emungimento di acque in bottiglia hanno canoni che per l’azienda imbottigliatrice possono variare da 1 a 2,5 euro per metro cubo di acqua imbottigliata.

Credo che le cifre fotografino da sole una situazione che ha del surreale, una incomprensibile passione per l’acqua minerale da parte degli italiani.

Qualcuno però ha cominciato a tornare a bere acqua del rubinetto. Spinto forse da motivi etici o  da motivi economici. Io ho bevuto per anni acqua di rubinetto. Negli dell’infanzia e dell’adolescenza al massimo additivata dalle polveri per acqua da tavola. Ricordo bene  una poesiola pubblicitaria.

“Disse l’oste al vino, tu mi diventi vecchio,

ti voglio maritare con l’acqua del mio secchio.

Rispose il vino all’oste, fai le pubblicazioni,

sposo l’idrolitina del cavalier Gazzoni !”

Idrolitina_1

Le polveri per acqua da tavola composte da acido malico e tartarico, e bicarbonato di sodio. I due acidi forniscono l’acidità necessaria ad idrolizzare il bicarbonato di sodio che sviluppa le bollicine di anidride carbonica, cosi piacevoli al palato.

Continuo a bere acqua del rubinetto, senza però più aggiungere le “polveri magiche.” Spesso però mi sento dire da alcune persone che l’acqua potabile per ha un cattivo sapore, e quindi si rifiutano di berla.

L’acqua potabile deve essere additivata di un disinfettante per evitare eventuali problemi sanitari dovuti ad eventuale contaminazione batterica. Quindi in qualche caso, a qualcuno può dar fastidio il sapore o l’odore di cloro.

Ma in questo caso è sufficiente far riposare l’acqua per una decina di minuti in una caraffa, oppure conservarla in frigorifero in una bottiglia o in una caraffa non tappate.

Se si vuole affrontare la spesa di un impianto per il trattamento dell’acqua bisogna prima conoscere la qualità dell’acqua erogata nel proprio comune. Le aziende che gestiscono il servizio di erogazione dell’acqua potabile, pubblicano i risultati delle analisi eseguite ai sensi del d.lgs 31/2001 che disciplina le caratteristiche di qualità delle acque destinate al consumo umano sul proprio sito internet.

Molte volte la qualità dell’acqua è già buona. Se si installa un impianto di filtrazione domestica in molti casi si effettua una spesa inutile. Nel giugno 2007 la rivista “Altroconsumo” condusse un inchiesta in 11 città italiane, da nord a sud.

I risultati di quella inchiesta rivelarono cose che io stesso ho verificato quando qualche conoscente o collega mi porta campioni di acqua da analizzare all’uscita dall’impianto di trattamento che ha fatto installare in casa. L’acqua, specialmente all’uscita dagli impianti di osmosi inversa è troppo addolcita. Quindi priva di sali minerali utili al nostro organismo. Decisamente più adatta per evitare incrostazioni nel ferro da stiro.

Anche il trattamento con resine  scambio ionico può molte volte impoverire troppo l’acqua, alterandone negativamente le caratteristiche organolettiche.

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Altra tecnica è quella della microfiltrazione, che può essere utile per trattenere i residui solidi, terriccio o residui di ferro in sospensione.

Rimangono poi i filtri con carbone attivo, che per essere efficaci devono essere seguiti da un trattamento con lampade uv, in quanto possono in molti casi peggiorare la qualità microbiologica delle acque trattate. E questo problema si può verificare anche per gli altri tipi di trattamento.

Anche le caraffe filtranti possono dare problemi nel tempo a seguito del deterioramento del filtro. Utilizzano carbone attivo ed una parte di resina a scambio ionico.

Quindi prima di effettuare la spesa per un depuratore casalingo, ci si deve pensare bene. Così come si dovrebbe evitare di cadere nella trappola della psicosi che si origina dalle notizie, purtroppo reali, di situazioni in cui l’acqua potabile non ha una qualità adatta al consumo umano.

Alcuni interventi importanti devono essere eseguiti a monte. Per esempio la rimozione dell’arsenico nelle zone in cui questo metallo è presente in concentrazioni superiori ai dieci microgrammi/ litro. I depuratori casalinghi non sono adatti ad effettuare questa rimozione in maniera corretta ed efficace. E occorre prestare attenzione alle informazioni che ci vengono fornite da chi vende questo tipo di apparecchi.

Ritengo che per un chimico sia facile capire se sono veritiere.  Non altrettanto facile per chi chimico non è.

Qualche parola sulle case dell’acqua che molti comuni stanno installando sul loro territorio. Sono impianti che distribuiscono  acqua di rete, la stessa dell’acquedotto cittadino. In genere l’acqua subisce un trattamento di microfiltrazione e di sterilizzazione. Viene resa frizzante e refrigerata. Personalmente utilizzo abbastanza spesso l’acqua di queste casette. Soprattutto in estate quando esco in bicicletta. Spesso su lunghi percorsi è necessario bere poco e spesso. Quando decido di fare uscite che possono essere anche di 130-150 km e la borraccia è ormai vuota, un impianto di questo tipo è quasi come un oasi nel deserto!


La diffusione capillare di questi impianti sul territorio può essere uno stimolo in più a preferire acqua del rubinetto. A risparmiare bottiglie di plastica. Ad evitare di comprare bottiglie di acqua che magari sono state imbottigliate a molti chilometri di distanza, ed hanno attraversato l’Italia da un capo all’altro per arrivare sulla nostra tavola. Insomma, grazie alle case dell’acqua l’acqua del rubinetto piace sempre di più.   Anche per questo tipo di impianti, come per quelli domestici, è fondamentale eseguire controlli (che di solito vengono delegati all’azienda erogatrice dell’acqua di rete) e manutenzioni regolari e periodiche.


Tutto quanto è stato detto ovviamente è un suggerimento. Non è una crociata contro l’acqua in bottiglia. Ma vale la pena di ricordare che l’acqua, che pure ha un suo ciclo, sta diventando sempre più preziosa. E che assumere comportamenti virtuosi nell’utilizzo che ne facciamo è un atteggiamento di saggezza.

L’ultima considerazione che mi sento di fare mi riguarda personalmente. Ma credo riguardi tutti i chimici. A mio parere siamo chiamati ad un grande impegno. Quello di divulgare la chimica soprattutto ai non chimici. L’acqua è un composto davvero particolare. La chimica dell’acqua, la sua singolarità. I ponti idrogeno, i vincoli strutturali della sua molecola, che a loro volta ne influenzano le caratteristiche fisiche come la capacità termica e la conduzione del calore ci sono note.

Ai non chimici non è necessario spiegare queste cose. Possiamo però aiutarli a non cadere in inganno. Per esempio a non credere che esista nelle bottiglie di acqua che acquistano al supermercato, una “particella di sodio” azzurrina che si sente tanto sola. Un minimo  di nozioni. Poi ovviamente la scelta finale rimane la loro.

Ma noi possiamo dire di avere fatto la nostra parte per informarli correttamente.

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Nota del blogmaster.

Le case dell’acqua sono strutture per la distribuzione dell’acqua potabile pubblica eventualmente raffreddata e gasata in genere finanziate con soldi pubblici e in alcuni casi con distribuzione gratuita, ma in altri a pagamento (per esempio una tessera una tantum mi risulta, ma non è chiara la situazione generale, non si trovano dati esaustivi, in alcuni casi come in provincia di Catania, l’acqua gestita da privati costerebbe sui 5-8 centesimi al litro, che è meno della minerale, ma molto più dell’acquedotto); il loro obbiettivo dichiarato è quello di incrementare la consapevolezza dei cittadini sulla qualità dell’acqua pubblica ed anche il suo consumo.

Ce ne sono poco meno di mille in moltissime regioni italiane; almeno sulle prime hanno catalizzato le proteste di chi istituzionalmente difende il mercato e il settore privato (l’istituto Bruno Leoni, IBL, per esempio ha attaccato pubblicamente l’amministrazione di Milano sostenendo che faceva concorrenza ai venditori di minerale e che l’acqua minerale sarebbe “diversa”, ma se date un occhio alla tabella del post vi renderete conto che non è vero, l’acqua del sindaco non ha nulla a invidiare a quella minerale, anzi; per le posizioni dell’IBL sul tema comunque si veda qui)

La cosa è comprensibile dato che negli ultimi anni le statistiche dicono che milioni di persone hanno smesso di comprare la minerale (prima di tutto a causa della crisi economica, certo non per le case dell’acqua) e la cosa ha dato fastidio; ma il mondo si sa cambia; al momento è facile vedere che ci sono parecchi “produttori” di questi dispositivi il cui costo è dell’ordine delle decine di migliaia di euro; il tempo ci dirà se l’iniziativa prenderà la solita strada degli affari o rimarrà un tentativo di indirizzare in modo più sano ed energeticamente sostenibile i consumi degli italiani.

Una filtrazione ferrea.

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Luigi Campanella (ex presidente SCI)

I processi mondiali di industrializzazione ed urbanizzazione hanno prodotto come risultato un crescente inquinamento delle acque. Le sorgenti della contaminazione includono le attività agricole, domestiche, industriali, minerarie, medico-chimiche, di smaltimento tanto che oggi si guarda alle acque superficiali di molti ambienti come a dei veri e propri cocktail di inquinamento.

Il numero di gruppi di specie chimiche potenziali contaminanti è molto vario:dai composti organici clorurati ai coloranti, dai metalli pesanti ai nitro aromatici, dai farmaci ai fenoli. Ciascuna classe è costituita da sostanze singole con differenti proprietà chimiche e fisiche. Per esempio i coloranti sono di varia dimensione molecolare e differente solubilità, possono essere anionici, cationici, o neutri. Alcuni di essi sono composti redox attivi. In altre parole parlare dei coloranti come di una classe di sostanze non è appropriato, e questo vale anche per il risanamento, che si basa su specifiche interazioni fra la tecnologia di rimozione ed il contaminante (assorbimento, co-precipitazione, coagulazione, scambio ionico, ossidazione, riduzione, esclusione molecolare, delle quali assorbimento coprecipitazione e esclusione molecolare si applicano anche alla contaminazione microbica). Poiché come si diceva le acque naturali possono essere considerate un cocktail di inquinanti, risulta evidente come la rimozione non possa essere affidata ad una sola tecnica ma debba risultare dalla integrazione fra metodi diversi in vere e proprie catene,alla fine delle quali gli effetti di ogni trattamento si somma agli altri.

Alla ricerca di metodi più compatti,scartati i sistemi centralizzati perché troppo costosi ci si è orientati verso le tecnologie di membrana che combinano ultra- filtrazione ed osmosi inversa, risultate idonee per eliminare contaminazioni chimiche, fisiche e microbiche. Quando si parla di tecnologie appropriate si intende enfatizzare che la soluzione preposta deve essere perseguibile su piccola scala, con basso consumo energetico, non inquinante, affidabile, capace di utilizzare risorse prevalentemente se non esclusivamente locali, con relativi controlli possibili da parte della popolazione interessata.

Il ferro come tale è da oltre un secolo considerato un agente di rimozione e recupero dei metalli disciolti. La sua applicazione alla preparazione delle acque potabili è recente:si basa sulla azione riducente esercitata sugli ioni dei vari metalli con deposizione dei metalli ridotti sulla superficie del filtro di ferro. Il principio è ulteriormente migliorato dal fatto che il pH sperimentale comporta l’ossidazione del Ferro (0) a Ferro (II) con la formazione di prodotti di corrosione fra i quali quelli del Fe (II) agiscono da ulteriori riducenti. Il parametro principale di controllo è la concentrazione dell’ossigeno disciolto che non dovrebbe eccedere 1,5 mg/l. Questo controllo può essere realizzato con biofiltri a sabbia.

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Nota dell’amministratore.

Questa piccola ma densa e brillante (lasciatemelo dire) nota di Luigi Campanella, mi ha messo in crisi (e non solo me ma anche altri membri della redazione), perchè il fenomeno citato relativo al ferro elementare mi risultava del tutto sconosciuto; ebbene devo ringraziare Luigi per avermi insegnato una cosa; ho scoperto che i filtri a sabbia arricchiti di ferro elementare sono un recente ed efficace ritrovato di grande efficienza depurativa.

Si tratta di un ulteriore esempio della “dualità” della Chimica; la ossidazione del ferro, la formazione della ruggine, la corrosione, cioè uno fra i più midiciali nemici della tecnologia umana che diventa una sussidio fondamentale per combattere le malattie che vengono dall’acqua, che oggi condannano alla morte milioni di uomini!

I due meccanismi principali del funzionamento del ferro elementare sarebbero:

1) la formazione di particelle cariche positivamente che tendono a far aderire particelle di segno opposto; i batteri e i virus tendono ad avere una leggera carica negativa (i polisaccaridi extracellulari tendono a comportarsi da polianioni!!)

2) il Fe(II) tende a comportarsi come riducente verso altri elementi in soluzione mentre si ossida a Fe(III).

Chi è interessato può leggere :

http://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1002/clen.200900114/pdf

https://www.ideals.illinois.edu/bitstream/handle/2142/26107/Bradly_Ian.pdf

http://web.mit.edu/watsan/Docs/Other%20Documents/KAF/NgaiWalewijk-%20ABF%20Report2003.pdf

http://cee.illinois.edu/biosand_filters

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PS E dato che una citazione letteraria qui non può mancare, con mera azione preventiva, aggiungo che Primo Levi nel suo racconto “Cromo”, dove fra l’altro narra del suo primo incontro con la moglie, parla di corrosione e vernici anticorrosione, di ricette la cui origine di perde nei secoli o nel tempo e nessuno la sa più e di come il cloruro di ammonio, che certo non previene la formazione di ruggine, ma anzi la favorisce venisse cionondimeno aggiunto in una vernice antiruggine ai cromati per prevenire l’impolmonimento della medesima, con una ricetta di cui lui medesimo era l’origine, ma di cui si era velocemente persa la motivazione; un’argomento, questo della perdita della memoria, che gli stava particolarmente a cuore, come certamente capirete da voi.

Storia moderna dello zolfo.

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Giorgio Nebbia (nebbiaquipo.it)

Accompagnatemi un po’ indietro nel tempo, all’alba della rivoluzione industriale chimica, alla fine del Settecento. In quel tempo per lavare i panni e per produrre il vetro occorreva il carbonato sodico, la “soda”, che si poteva ottenere o da alcuni laghi salati dell’Egitto, o dalle ceneri di alcune piante che crescevano sulle rive del mare. Si trattava quindi di una materia scomoda e costosa per un mondo industriale che stava espandendosi rapidamente. Nei primi anni della rivoluzione francese il medico Nicolas Leblanc (1742-1806) inventò un processo con il quale si poteva ottenere la soda facendo reagire insieme sale, acido solforico e carbone. Costruì anche una fabbrica, col finanziamento di Filippo Egalité (1747-1783), il nobile rivoluzionario a cui la rivoluzione tagliò la testa, con conseguente fallimento della ditta del povero Leblanc che si suicidò. Il suo metodo sopravvisse e si diffuse in tutti i paesi industriali con successo.

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Nicholas Leblanc

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Schema del processo Leblanc

Il processo presentava due difficoltà: richiedeva acido solforico che allora si produceva dallo zolfo che veniva estratto, nel mondo, soltanto dalle miniere della Sicilia. I padroni delle miniere, grandi latifondisti privi di mentalità industriale, si preoccupavano soltanto di ricavare il massimo profitto vendendo ad alto prezzo lo zolfo che veniva estratto sfruttando in modo disumano il lavoro, anche dei bambini; lo stesso recupero dello zolfo dal minerale comportava una perdita di circa la metà dello zolfo, usato come combustibile per la fusione dello zolfo rimanente. Solo più tardi l’ingegner Gill introdusse un sistema per recuperare parte del calore di combustione dello zolfo e aumentare la resa in zolfo vendibile.

Per sfuggire all’esosità dei produttori siciliani gli industriali inglese cominciarono ad utilizzare le piriti spagnole come fonte di zolfo, ma restava il secondo inconveniente: nel processo di fabbricazione della soda, tutto lo zolfo del costoso acido solforico, prodotto sia dallo zolfo sia dalle piriti, finiva in un residuo fangoso molto puzzolente di solfuro di calcio che veniva lasciato in discariche all’aria aperta. I contadini e gli abitanti dei paesi vicino alle fabbriche cominciarono a lamentarsi e a chiedere delle leggi che impedissero agli industriali di avvelenare l’aria con l’idrogeno solforato di queste discariche.

Naturalmente gli industriali per anni si opposero perché qualsiasi norma avrebbe fatto aumentare i costi di produzione e diminuire i loro profitti, ma alla fine il governo inglese emanò una legge contro l’inquinamento, l’Alkali Act. Gli industriali inglesi, per limitare l’inquinamento dell’aria cercarono di “riciclare” il rifiuto sgradevole, il solfuro di calcio, per recuperare lo zolfo che esso conteneva.

La soluzione fu offerta da due tecnici, Alexander Chance (1844-1917) e Carl Claus, che misero a punto un processo per trasformare il solfuro di calcio in zolfo, la stessa materia che veniva importata dalle miniere siciliane; con lo zolfo era possibile produrre di nuovo quell’acido solforico che occorreva per produrre la soda e fu questo il primo esempio di guadagni ottenuti inquinando di meno e riciclando sottoprodotti, secondo il principio che l’ambiente pulito è anche fonte di profitti.

Interguglielmi,_Eugenio_(1850-1911)_-_Sicilia_-_Carusi_all’imbocco_di_un_pozzo_della_zolfara,_1899

I “carusi”, ragazzzi siciliani che lavoravano nelle miniere (1899)

Nello stesso tempo diminuì la richiesta di zolfo e i proprietari delle miniere siciliane dovettero affrontare una dura crisi che fu pagata in gran parte dai poveri minatori che persero il posto e la cui miseria aumentò ulteriormente in quegli ultimi anni del dominio borbonico, prima dell’annessione della Sicilia al regno d’Italia nel 1860. Anche questa parte della storia può insegnare qualcosa: quando un gruppo di potere economico possiede una materia prima o una risorsa naturale o una tecnologia in condizioni di monopolio, non si illuda che questa condizione di privilegio duri a lungo e non ne approfitti, perché i clienti prima o poi cercano qualche alternativa o perché la materia, prima o poi, finisce e, dopo un picco, la produzione declina e scompare. E uno. Le miniere di zolfo siciliano sopravvissero per alcuni anni con protezioni statali, ma alla fine chiusero.

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Intanto, alla fine dell’Ottocento alcuni scoprirono che nel sottosuolo della Lousiana, uno degli stati meridionali degli Stati uniti, esistevano grandi giacimenti di zolfo purissimo che poteva essere portato in superficie con un ingegnoso processo inventato da un ingegnere americano, Herman Frasch (1851-1914): per parte del Novecento lo zolfo usato dall’industria chimica è stato ottenuto con questo processo, negli Stati Uniti, in Polonia e altrove. A poco a poco i giacimenti si impoverirono e la produzione di zolfo Frasch, dopo aver raggiunto un picco, è declinato fin quasi a scomparire. E due.

Nella metà del Novecento altre norme antiinquinamento hanno imposto di eliminare lo zolfo dai prodotti petroliferi e dal gas naturale. E’ stato allora resuscitato il processo Claus, prima ricordato, che consente di trasformare l’idrogeno solforato dei gas naturali “acidi” o i composti solforati dei prodotti petroliferi in zolfo commerciale di recupero. Lo zolfo di recupero è diventato la principale materia prima per l’industria chimica, al fianco di quello ancora recuperato dalla metallurgia dei solfuri. La produzione mondiale annua di zolfo è oggi intorno a 60 milioni di tonnellate all’anno; l’instancabile Cina nel 2012 ha superato con 11 milioni di tonnellate all’anno, la produzione di zolfo degli Stati Uniti.

Ma siccome la tecnica e l’economia hanno strani cicli, adesso di zolfo ce n’è troppo nel mondo, molto di più di quanto possa essere venduto, e lo zolfo in eccesso viene a rappresentare un nuovo problema ambientale: come ci si può liberare di esso, dove lo si può nascondere, è possibile utilizzarlo per qualche altra cosa, oltre alla produzione dell’acido solforico e agli altri usi consolidati ?

produzione mondiale zolfo

E’ ironico che appena un secolo e mezzo fa l’Inghilterra mandasse la flotta militare al largo di Palermo per costringere i produttori di zolfo siciliani ad abbassare i prezzi, e adesso non si come dove mettere lo zolfo. Ultima modesta osservazione: economia, ecologia e tecnologia sono talmente intrecciate e velocemente mutevoli che il successo economico dipende in gran parte dalla capacità di prevedere le innovazioni tecnico-scientifiche…….e anche dalla conoscenza della storia.

La depurazione delle acque come arte (parte 4)

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

precedenti puntate di questo post qui, qui e qui.

a cura di Mauro Icardi (siricaro@tiscali.it)

La chiacchierata sulla depurazione come arte ha preso spunto da un romanzo pubblicato ormai vent’anni fa. Un romanzo che mi incuriosì perché era abbastanza singolare che  trattasse di un argomento poco conosciuto dai non addetti ai lavori.


Io lavoravo in questo settore da quattro anni, e mi rendevo conto che, come per ogni altro tipo di lavoro, era necessario imparare le malizie, i trucchi. Bisognava “imparare il mestiere”. Perché molte volte quello che è scritto sui libri non basta. Perché il fango che dovrebbe sedimentare perfettamente dall’acqua depurata proprio non ne vuole sapere di adagiarsi sul fondo del sedimentatore per essere raccolto, e docilmente accompagnato al suo trattamento. Ma flotta, viene a galla, diventa quasi ingestibile. E allora cominciano i dispiaceri, le arrabbiature, le classiche rogne. E mi ponevo le classiche domande.

Sarà un problema di processo? Per qualche motivo l’impianto starà trattando un liquame non bilanciato, quello che  non rispetta il famoso rapporto scritto in ogni testo che tratta di quest’arte, e che ti dice tra sostanze organiche, azoto e fosforo deve esserci una proporzione di 100: 5:1 ?

Sara stato scaricato qualche scarico tossico o inibente ?

Tutte le apparecchiature staranno funzionando regolarmente ?

Col passare degli anni ci si fa il callo. Si riesce quasi sempre ad identificare un problema se non immediatamente, con una buona approssimazione.

Ricordo una domenica, quando venni chiamato a casa mentre stavo giocando con mia figlia che aveva allora quattro anni. La voce del collega al telefono mi descriveva una situazione quasi apocalittica, nuvole di schiume da tensioattivi, la possibilità di un avvelenamento di tutto il fango biologico nella vasca di ossidazione (il nostro reattore biologico). In realtà era semplicemente il blocco di una pompa di ricircolo che non ricircolava il fango in testa al reattore per un guasto elettrico. Ma il quadro, che allora era di vecchio tipo, non segnalava l’allarme di blocco pompa per una banale lampadina bruciata.

Col tempo ci si rende conto che bisogna stabilire un legame stretto con i collaboratori dei settori della manutenzione elettrica e meccanica. Ognuno di noi può imparare qualcosa dall’altro. E anche se tu, “chimico implume”, (citazione dall’ amatissimo Primo Levi) hai passato  ore a studiare le caratteristiche delle pompe degli impianti chimici, i diagrammi portata-prevalenza, le curve di isorendimento, ti rendi conto che c’è qualcuno che forse ha letto meno libri di te, ma che al momento la sa più lunga.

Arriva poi il momento che ti viene chiesto di istruire studenti che stanno preparando una tesi, o di parlare di come si svolge il lavoro in un depuratore. A partire dal 2008 ho avuto modo di iniziare una collaborazione con l’Università dell’Insubria di Varese. Sperimentazione terminata lo scorso anno.

Abbiamo testato cosa si può aggiungere ai  fanghi in un digestore, per farlo funzionare meglio, e per produrre più biogas. Reflui dell’industria della produzione della birra, della produzione lattiero casearia, fino alla frazione umida dei rifiuti solidi, ed ai residui delle deiezioni di allevamento. Chimica umile, campionamenti di materiale che per le sue caratteristiche può anche far storcere il naso quando lo si  maneggia o lo si campiona. Un’esperienza che mi ha fatto capire quanto si potrebbe e si dovrebbe ancora fare. Realizzando ulteriori sperimentazioni a livello di impianto pilota, fino alla realizzazione operativa.  La codigestione di reflui organici per migliorare il rendimento dei digestori anaerobici municipali è  suggerita dall’agenzia europea di protezione ambientale. Il biogas prodotto dagli impianti in Norvegia ed in Francia viene riutilizzato per riscaldamento, cogenerazione. Ad Oslo il biogas compresso deumidificato e desolforato viene utilizzato come carburante per gli autobus del servizio urbano.

Questo è un ringraziamento a tutti gli studenti che ho seguito in questi anni. Mi hanno dato davvero tanto dal punto di vista umano. E ai loro docenti che hanno voluto attivare questo ciclo di collaborazione. E’ stato a volte faticoso gestire  il progetto contemporaneamente alla routine del mio lavoro quotidiano. Insegnare a studenti che non vi erano mai entrati come muoversi in un laboratorio chimico. Come usare gli strumenti, le pipette e la mitica propipetta a tre valvole.


Insegnare loro che agli acidi è pericoloso “dare da bere”. Spiegare loro sul campo cos’è un depuratore, visto che lo avevano visto solo sulle fotografie nei loro testi universitari.  Ma  l’emozione il giorno della loro laurea, è stata anche la mia. E le loro parole di riconoscenza e stima mi hanno davvero fatto piacere. Praticamente tutti hanno trovato occupazione. Alcuni hanno proseguito il loro percorso universitario fino alla laurea magistrale. Ogni tanto mi chiamano per qualche suggerimento e consiglio. Ed è molto bello che il contatto con loro non si sia mai interrotto.
Qualche considerazione ancora. La depurazione (ma in generale la gestione del ciclo idrico nel suo insieme) deve affrontare problemi nuovi. Per gestire il bene acqua occorre fare ancora tanto. Dal punto di vista tecnico bisogna adeguare gli impianti più obsoleti.  Affrontare il tema degli inquinanti emergenti. Normarli, capire quali sono i limiti che gli impianti possono tollerare. Capire come trattarli in maniera efficace ed economica. Servirà impegno. Serviranno risorse economiche. E personale adeguatamente formato e preparato.  I chimici sono pronti e adatti a questo impegno.

Rispondo adesso a due domande che mi vengono spesso fatte, ma che credo ogni collega si sia sentito rivolgere .
“Il depuratore pesca acqua dal fiume?”

Risposta.

” Il depuratore non preleva acqua dai fiumi o dai laghi per depurarla. Riceve le acque delle fognature di una città o di un paese, le sottopone ad una serie di trattamenti, e poi le restituisce all’ambiente, o meglio ad un corpo idrico ricettore (fiume , lago o mare) dopo avere trattenuto mediamente l’ottanta per cento di queste sostanze inquinanti.”

“L’acqua in uscita dal depuratore si può bere ?”
Risposta

“L’acqua in uscita dal depuratore è idonea ad essere scaricata in un corpo idrico ricettore (fiume, lago o mare). Esistono dei limiti per i principali inquinanti normati (limiti tabellari) che il depuratore deve rispettare. Se questi limiti non sono rispettati possono essere erogate sanzioni amministrative o penali. Per ora in Italia non esistono ancora impianti di recupero integrale dell’acqua, impianti cioè che dopo aver depurato l’acqua di fogna, la sottopongano ad un successivo trattamento di potabilizzazione. Ma in paesi come il Sudafrica o gli Stati Uniti ne sono stati realizzati”

Queste due domande mi sono state fatte centinaia di volte. Le prime volte mi sembravano domande assurde. Poi ho capito che rivelavano la necessità di informare cittadini, studenti e persone interessate su quello che si fa in un depuratore, o nella gestione di una rete di acquedotto.
La risposta alla seconda domanda ha lasciato molte persone perplesse. Eppure questa possibilità tecnicamente esiste. E’ una possibilità limite. Per non arrivare a questa situazione occorre gestire e preservare le fonti di acqua per uso potabile di cui disponiamo. Sembra banale. Non lo è.
La gestione del bene acqua si intreccia con altri problemi a cui stiamo assistendo. Primo fra tutti il cambiamento climatico. Si dice da anni che dobbiamo risparmiare acqua. Rinnovo l’invito. Anzi, dove è possibile, recuperiamo anche l’acqua piovana. Laviamo meno l’automobile. Usiamo i riduttori di flusso. Questi sono alcuni suggerimenti. Applichiamoli. L’acqua va difesa e non sprecata.

Concludo questa ultima chiacchierata sulla depurazione, ma che ha finito per parlare di acqua e di ciclo idrico raccontando un curioso episodio.
Quando si parla di fogne, molti ricordano la leggenda degli alligatori nelle fogne di New York. La leggenda pare avere radici storiche. Nel febbraio del 1935 un coccodrillo fu davvero avvistato nelle fogne della città americana da un gruppo di adolescenti. Anzi, le cronache d’epoca riportano che uno di essi fu morso dalla bestia, che finì poi uccisa dagli altri, armati delle pale con cui stavano buttando la neve nella fogna. Dalle ricerche effettuate, risultò che l’animale poteva essere fuggito da una nave che lo stava portando a nord dalla Florida. Raggiunto il fiume Harlem, il coccodrillo probabilmente aveva cercato rifugio nelle fogne per via della tempesta di neve.

Ebbene all’incirca verso la metà degli anni novanta, i miei colleghi di un altro impianto ebbero la sorpresa di trovare nella griglia di ingresso un esemplare di pitone reticolato. La nuova moda di tenere in casa animali esotici (che poi diventano impegnativi e di fatto ingestibili) deve aver spinto il proprietario ormai non più in grado di gestire questo tipo di animale a disfarsene.


.Purtroppo non riuscì a sopravvivere sia per la pemanenza nella fognatura, sia  perché il pettine della griglia automatica lo ferì. Gli agenti della guardia forestale che vennero chiamati lo misurarono. Era un esemplare di quattro metri.

Nell’impianto dove lavoro invece, a parte i molti stormi di gabbiani  che in primavera stazionano nella zona della sedimentazione primaria, abbiamo salvato e consegnato al centro di recupero della fauna selvatica un esemplare di svasso maggiore, ed uno di albanella minore.

E visto che ci troviamo in una zona dove è molto amato il volo ( Varese è chiamata oltre che la provincia dei sette laghi, anche la provincia con le ali ) abbiamo permesso ad una mongolfiera in difficoltà di atterrare nell’area di impianto. E sempre in tema di palloni recuperato anche un pallone sonda per misure meteorologiche proveniente dalla Svizzera come la mongolfiera. In conclusione penso di poter dire che un depuratore, nonostante il tipo di materia prima che lavora, sia un luogo apprezzato. Dove di certo non ci si annoia.

La fiera del sole

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Giorgio Nebbia, nebbia@quipo.it

Il futuro dell’energia solare è stato discusso nel corso di un convegno tenutosi il 10 ottobre 2014 a Rodengo Saiano (alla periferia di Brescia) presso il Museo dell’Industria e del Lavoro MusIL (www.musil.brescia.it) con il contributo fondamentale del Gruppo per la Storia dell’Energia Solare (www.gses.it).

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L’energia solare può fornire calore a bassa ed alta temperatura, elettricità con pannelli fotovoltaici, genera i venti e il moto ondoso, produce biomassa vegetale per fotosintesi. Il calore di origine solare a bassa temperatura permette di scaldare l’acqua o gli edifici o di distillare l’acqua di mare per ottenere acqua potabile; il calore solare ad alta temperatura, concentrato mediante specchi può azionare macchine termiche. Per queste tecnologie ci sono stati importanti contributi pionieristici italiani sotto forma di pompe solari, di distillatori solari e di centrali a specchi. Di alcuni di tali contributi il Museo, emanazione della Fondazione Luigi Micheletti di Brescia, ha raccolto, donati da privati ed esposti ai partecipanti, reperti di grande interesse e una documentazione bibliografica unica in Italia. Di tutte le conoscenze tecnico-scientifiche degli ultimi 150 anni nel campo dell’utilizzazione dell’energia solare solo una piccola parte viene oggi utilizzata per soddisfare i bisogni energetici in forma rinnovabile e pulita.
Il Sole irraggia ogni anno sulla Terra (in particolare sui continenti) una quantità di energia che è duemila volte superiore a quella totale consumata nello stesso periodo dai sette miliardi di terrestri, ma purtroppo oggi ancora soltanto poco più dello 0,5 per cento dei consumi mondiali di energia è ottenuto dal Sole con i pannelli fotovoltaici o le pale dei motori eolici. Nel corso del convegno sono state passate in rassegna le molte altre tecnologie, già note, che potrebbero trarre energia utile dal Sole. Molte di queste avrebbero un ruolo fondamentale per aiutare nel loro sviluppo le persone, oltre un miliardo nel mondo, che sono prive di elettricità o di prodotti petroliferi e che sono poi quelle che vivono in zone in cui è maggiore l’intensità della radiazione solare. Con tecnologie appropriate il Sole consentirebbe di essiccare i prodotti agricoli, distillare le acque saline per ottenere acqua potabile, estrarre con eliopompe l’acqua dal sottosuolo, scaldare i cibi nei fornelli in modo non inquinante. Impianti fotovoltaici di piccole dimensioni potrebbero fornire elettricità per azionare pompe o frigoriferi o impianti di telecomunicazioni per comunità isolate. L’energia del Sole assicura il ciclo di evaporazione e condensazione delle acque che scorrono continuamente nei torrenti e nei fiumi e dal moto di tali acque è possibile ricavare energia con impianti compatibili con il territorio. Il MusIL ha in corso un inventario delle località in cui le testimonianze di antiche ruote ad acqua indicano la presenza di forze idrauliche utilizzabili con moderni macchinari. Nel corso del convegno è stato infine ricordato che dalla riscoperta di tecnologie solari dimenticate e dal perfezionamento di quelle esistenti possono venire occasioni durature di impresa e di lavoro, capaci di contribuire allo sviluppo sociale e umano di molti territori e paesi, di diminuire la dipendenza dai combustibili fossili nei paesi industriali e di rallentare lo spettro del riscaldamento globale planetario e dei suoi disastrosi effetti, sotto gli occhi di tutti. Di grande interesse l’aggiornamento dello stato dell’arte del fotovoltaico e della sua evoluzione tecnologica che ha permesso un aumento dei rendimenti ed una notevole riduzione dei costi. Per il solare termodinamico, se per l’Italia non sono praticabili i grandi impianti con specchi piani a concentrazione che richiedono grandi estensioni desertiche, promettente sembra il termodinamico di piccola scala ed a bassa e media temperatura, con specchi parabolici o semoventi in funzione di un asse focale longitudinale, dove sostanze particolarmente reattive al gradiente termico, come i sali fusi, permettono di azionare motori o turbine per la produzione di energia elettrica. Dunque tecnologie italiane che potrebbero avere un grande sviluppo, come il prototipo di eliopompa Nova Somor esposto per la prima volta al pubblico in questa occasione, che riprende, con le opportune innovazioni, l’eliopompa progettata e costruita nel lontano 1935 da Daniele Gasperini.

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il prototipo Somor esposto al MusIL

Insomma un convegno che ha offerto tante prospettive di ricerca, innovazione e possibile industrializzazione, potenzialmente di grande interesse anche per un’economia buona e per un’occupazione di qualità di cui il nostro Paese ha urgente bisogno.
Fondazione Museo dell’Industria e del Lavoro.

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Nota del blogmaster:

Il MusIL è una iniziativa basata su ben 4 poli museali che meriterebbe certamente una maggiore divulgazione e conoscenza; invitando i lettori a visitare questa splendida iniziativa che si trova nella provincia di Brescia, ricordo anche il gruppo GSES, ossia il Gruppo per la Storia dell’energia solare, di cui Giorgio Nebbia è membro, presieduto dall’ing. Cesare Silvi; Silvi è autore fra l’altro di un pregevole articolo da cui abbiamo preso l’immagine della eliopompa Somor, inventata nel lontano 1935 da Daniele Gasperini e da Ferruccio Grassi e commercializzata per decenni, ma di fatto sconosciuta ai più.

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L’articolo è liberamente scaricabile ed è un piacere leggerlo per la qualità e la completezza e anche lo stile piacevole con il quale è scritto; ci racconta un episodio significativo della nostra storia industriale; l’articolo inoltre fa cenno ai moderni sviluppi dei dispositivi solari a bassa temperatura, un  capitolo tecnologico ancora aperto, sul quale vi consiglio di leggere per esempio:

 Renewable and Sustainable Energy Reviews 14 (2010) 3059–3067

un articolo sul tema scritto daHuijuan Chen, D. Yogi Goswami *, Elias K. Stefanakos e dal titolo A review of thermodynamic cycles and working fluids for the conversion of low-grade heat.

Sempre sul medesimo tema vi consiglio anche dalla medesima rivista Renewable and Sustainable Energy Reviews 7 (2003) 131–154
http://www.elsevier.com/locate/rser
A review of solar-powered Stirling engines and low temperature differential Stirling engines
scritto da Bancha Kongtragool, Somchai Wongwises che fra l’altro accenna alla possibilità di accoppiare il motore Stirling con l’energia solare a bassa temperatura.

Vedreste così che nonostante la bassa efficienza termodinamica i dispositivi solari a bassa temperatura riscuotono un enorme interesse tecnologico e forniscono un campo di futuribili sviluppi assolutamente da non trascurare; l’efficienza bassa di questi dispositivi viene bilanciata dal costo assolutamente gratuito della energia primaria che essi sfruttano; ma non solo, una eliopompa a bassa temperatura può arrivare senza grossi problemi a circa il 10% di rendimento che non è poi così lontano da quelllo del fotovoltaico soprattutto tenendo conto dei costi molto limitati della sua tecnologia (che non significa basso livello, al contrario). Non a caso l’interesse per questi dispositivi rimane vivo nel paesi a più basso reddito e privi di risorse fossili, come era poi l’Italia degli anni 30 del secolo scorso (ed è in parte ancora oggi); ma ci sono lezioni di vita e di tecnologia che possiamo apprendere da quel passato e che ci serviranno verosimilmente nel prossimo futuro. Grazie a Nebbia e Silvi di mantenere vivo il ricordo.

‘Na tazzulella ‘e cafè!

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

 a cura di Gianfranco Scorrano, già Presidente della SCI

 Una tazza di caffè! In quanti modi l’abbiamo preparata (e gustata)!

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I più vecchi tra di noi ricorderanno le prime “napoletane” usate fino oltre al secondo dopoguerra per preparare, in casa, qualche tazza di caffè. I due raccoglitori con il manico, uno riempito d’acqua, che veniva poi scaldata e quando pronta, mettendo sotto sopra il contenitore, fatta scorrere attraverso il caffè, in modo da raccogliere nel secondo contenitore il caffè.  caffe2

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Da allora le cose sono ovviamente progredite con la caffettiera tipo Bialetti, dalla quale siamo poi passati a quelle con le cialde e quindi alla Nespresso che è una delle più in voga.

caffe4caffe5Cosa ci aspetta nel futuro? La più grossa sorpresa ci viene da Argotec, l’azienda di giovani ingegneri torinesi che l’ha realizzato insieme a un Noto Marchio Italiano: una macchina per fare il caffè nello spazio! Tra l’altro il primo esperimento sarà fatto dalla spedizione in cui parteciperà l’astronauta italiana Samantha Cristoforetti, la cui missione di lunga durata inizierà il prossimo 23 novembre 2014.

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La macchina per il caffè è una interessante costruzione, come si vede dal prototipo Argotec. Ovviamente, come racconta Claudia Di Giorgio su Sapere, preparare e consumare un caffè, cioè una roba che si fa a pressione e a temperature (75° C) assolutamente proibitissime nello spazio, non è una banalità, ma comporta raffinate competenze in materia di controllo del trasferimento di calore, dinamica dei fluidi e altre faccende ingegneristicamente esoteriche, visto che deve a) resistere alle sollecitazioni del lancio b) lavorare in microgravità e c) fare un caffè eccellente.

Ma passiamo ad un po’ di chimica. Ci aiuta un bell’articolo pubblicato da Marino Petracco, sul Journal of chemical education, 82,1161 (2005), in cui l’autore, che lavorava nella Illycaffè, racconta come nasce e cosa c’è nel caffè. Rimando i curiosi all’articolo per i dettagli.caffe7

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Delle molte piante appartenti alla famiglia delle Rubiacee, le due importanti sono la Caffea arabica e la Caffea canefora (detta anche robusta), L’arabica rappresenta più dei 2/3 della produzione mondiale. Appena raccolte le bacche contengono due chicchi di caffè che vengono destinati ai centri di tostamento.

Il caffè (arabica) appena raccolto contiene circa il 12% di umidità, più del 50% di carboidrati, 16% di lipidi, e 10% di materiale proteico. Nell’arabica vi è l’ 1,2% di caffeina e il 6,5% di acido clorogenico (come si vede dalla figura 2 non c’entra il cloro; il nome deriva dal greco: chloros (=verde pallido) e ghennao (=genero) dal momento che, ossidato, genera appunto un colore verdino).

caffe9Figura 2 Acido clorogenico

La differenza maggiore tra robusta e arabica è il maggiore contenuto di caffeina (2,2%), il minore contenuto di lipidi (10%) e il più alto contenuto di acido clorogenico (10%). La presenza di robusta, meno costosa, in miscela con l’arabica è facilmente determinata analizzando la presenza del diterpene 16-metossi cafestolo, specifico per

la specie canefora

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Figura 3 16-metossicafestolo

Naturalmente il caffè appena colto non è edibile ed è necessario procedere alla tostatura. Una procedura che avviene in condizioni abbastanza drastiche (fino a 25 bar di pressione interna nei chicchi, e fino a temperature esterne di 220°C): in queste condizioni mentre il contenuto di caffeina e di lipidi rimane quasi intatto, la quantità di zuccheri e di aminoacidi invece decresce sostanzialmente (reazione di Maillard). E’ facile apprezzare come la tostatura porti alla formazione di centinaia di sostanze, ancora non tutte identificate.

Per il riconoscimento, le moderne tecniche gas cromatografiche, accoppiate a quelle di spettrometria di massa, facilitano le analisi. Da notare la tecnica GC-olfattometrica che richiede di controllare l’uscita dei prodotti dal cromatografo “sniffando” l’odore del gas di trasporto in corrispondenza dell’uscita del picco.

La tecnica chimica della estrazione con solvente (acqua) di prodotti inglobati in un solido (caffè) porta comunque ad un efficiente risultato: una bella tazza di caffè, un utile momento di riposo gioioso. Talvolta la chimica fa bene.

Per approfondire: http://www.coffeeresearch.org/science/sourmain.htm

Crescita e declino del nitro

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Giorgio Nebbia, nebbia@quipo.it

 Se mi chiedessero quale sostanza ha avuto maggiore importanza nella rivoluzione chimica risponderei: il nitro cileno. Il 1800 comincia con le guerre napoleoniche, ma anche con un eccezionale sviluppo tecnico scientifico nel campo della metallurgia, della chimica, della meccanica, dell’industria tessile. Il miglioramento delle condizioni di vita, l’alimentazione un po’ migliore e qualche progresso nell’igiene facevano diminuire la mortalità infantile e allungavano la vita umana; la popolazione mondiale passò da 850 milioni di persone nel 1800 a 1100 milioni nel 1850.

J. Liebig op. cit. Napoli 1852

J. Liebig op. cit. Napoli 1852

L’aumento della popolazione determinava anche un aumento della richiesta di alimenti, ma le rese delle campagne restavano basse e gli scienziati cominciarono a chiedersi come aumentare le rese agricole e reintegrare la continua sottrazione al terreno degli elementi essenziali per la nutrizione vegetale: azoto, fosforo, potassio. La nascente industria chimica cercò dei sali che potessero “fertilizzare” i terreni e le uniche sostanze azotate utilizzabili, a parte il concime di stalla, erano il guano e il nitrato di sodio. Il guano, costituto da escrementi di uccelli, solidificati e mineralizzati, si trovava in abbondanza soltanto in alcune lontane isole dell’Atlantico o del Pacifico. Giacimenti di nitrato di sodio si trovavano sull’arido altopiano desertico che si estende fra la Cordigliera e il Pacifico, fra il 18° e il 26° grado di latitudine Sud, per una lunghezza di circa 600 chilometri, diviso fra Bolivia, Perù e Cile.

bandiera cilena

Gli invasori spagnoli avevano conosciuto il nitrato di sodio che veniva estratto in quantità e in zone limitate e con tecniche primitive. Intono al 1770 i Gesuiti avevano cominciato ad usare il nitrato di sodio sudamericano come fertilizzante. Nel 1813 entra in scena Taddeo Haenke (1761-1816), un boemo appassionato di botanica, imbarcato nella spedizione di Alejandro Malaspina, un italiano della Lunigiana, ammiraglio al servizio del re di Spagna, incaricato di esplorare i mari e le isole del Pacifico. Arrivato nel Cile e in Peru Haenke si dedicò alla identificazione di nuove piante e si inoltrò nella zona desertica interna scoprendo che enormi estensioni di terreno erano coperte da sali, il “caliche”, residui dell’evaporazione di antichi mari, una miscela di nitrato di sodio, nitrato di potassio, cloruro di sodio e altri sali.

Taddeus Haenke

Taddeus Haenke

Haenke incoraggiò alcuni imprenditori a estrarre e raffinare il nitrato di sodio, economico surrogato del nitrato di potassio come ingrediente per la polvere da sparo e come concime. In queste prime fabbriche, o “oficinas”, aperte, a partire dal 1810, nella zona mineraria peruviana di Tarapaca, il “caliche” veniva trattato con acqua bollente in calderoni di ferro o rame. Cristallizzava dapprima il cloruro di sodio, si separavano poi altri sali e infine si otteneva una soluzione satura di nitrato di sodio che, per raffreddamento, cristallizzava e veniva poi essiccato in forma di sale bianco abbastanza puro.

Ben presto gli industriali soprattutto inglesi videro che il nitrato di sodio poteva sostituire con vantaggio il più costoso nitrato potassico usato nel processo delle camere di piombo per la produzione dell’acido solforico e per la produzione dell’acido nitrico, indispensabile per la nascente industria dei coloranti derivati dal catrame di carbon fossile.

Cominciò così, sempre più intenso a partire dal 1830, un flusso di esportazione di nitrato di sodio che veniva imbarcato principalmente nei porti boliviani da cui raggiungeva, dopo un lungo viaggio attraverso il Capo Horn, i mercati europei e nord americani. Vari perfezionamenti tecnici fecero aumentare la produzione di nitrato di sodio e diminuire i costi industriali. Per diminuire il consumo di energia — ci pensavano anche 150 anni fa — l’inventore cileno Pedro Gamboni (1825-1895) nel 1853 perfezionò il processo di estrazione iniettando direttamene nel tino di dissoluzione vapore anziché acqua. Gamboni fece anche altre invenzioni, come un processo per estrarre dalle acque madri lo iodio, di cui cominciava ad esistere un certo mercato.

Pedro_Gamboni_Vera

Pedro_Gamboni_Vera

Negli anni 60 dell’Ottocento la produzione di nitrato di sodio si estese in Bolivia, dove pure esistevano grandi giacimenti di “caliche”. Nel 1866 il cileno Jose Santos Ossa ottenne le prime concessioni minerarie dal governo e ben presto arrivarono in Bolivia capitali cileni e inglesi. La Bolivia, in cambio delle concessioni minerarie, impose sulle esportazioni un dazio che colpì e destò le proteste della principale compagnia cilena operante in Bolivia nel campo minerario e nella gestione della ferrovia che collegava i porti costieri alle miniere. Tale imposta di esportazione era un po’ come quella che era applicata dai Borboni per lo zolfo siciliano e come quella che i paesi petroliferi applicano alle loro esportazioni di petrolio.

Il Cile, militarmente ed economicamente più forte, per difendere gli interessi cileni in Bolivia il 14 febbraio 1879 occupò Antofagasta, il porto boliviano dove veniva imbarcata la maggior parte del nitrato. Il Perù intervenne in difesa della Bolivia e negli anni dal 1879 al 1883 si svolse la “Guerra del Pacifico”, una delle tante guerre per le materie prime. Seguirono combattimenti vittoriosi per il Cile che conquistò i porti di Tacna e Arica e alla fine occupò anche Callao e Lima. Col trattato di Ancòn, che mise fine alla guerra, furono ridisegnati i confini fra i tre paesi. La Bolivia fu costretta a cedere al Cile la regione di Antofagasta, ricca di minerali, col porto omonimo, perdendo l’accesso al mare e il Peru a cedere al Cile la regione mineraria di Tarapaca col porto di Iquique, col che il Cile conquistava di fatto il monopolio della produzione e dell’esportazione del nitrato, divenuto l’ “oro bianco”. Oro anche per il Cile che applicò anch’esso subito una imposta sulle esportazioni,

Un po’ come era successo con lo sfruttamento della gomma brasiliana, pochi imprenditori locali e stranieri realizzarono enormi guadagni; ci fu in alcune città cilene una ondata di benessere e lusso, pagati dal lavoro estenuante dei minatori; i capitalisti stranieri influenzavano e corrompevano i politici locali per assicurarsi concessioni e riduzioni di imposte. Uno di questi imprenditori, l’inglese John Thomas North (1842-1896), fece una leggendaria fortuna al punto da essere soprannominato “Il re dei nitrati”. (William Edmundson, The Nitrate King: A Biography of “Colonel” John Thomas North. Studies of the Americas, Palgrave Macmillan, 2011).

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Caricatura del “Coronel” North. En la leyenda se lee “El rey del salitre”.

Qui interessa però mettere in evidenza che l’estrazione e la purificazione del nitrato sodico furono migliorati grazie ad alcune invenzioni che fecero del Cile uno dei paesi avanzati dal punto di vista industriale. Nel 1872 vennero fondate da Guillermo Wendell le prime raffinerie a Santa Laura, mentre questa faceva ancora parte del Peru; nello stesso anno l’inglese Santiago Humberstone (1850-1939) costruì le raffinerie di La Palma che divenne una delle zone minerarie più importanti, anche grazie all’introduzione di un perfezionamento della estrazione del nitrato dal “caliche”, ispirato al processo inventato dall’inglese James Shanks (1800-1877) per la lisciviazione del carbonato sodico dalla miscela di sali che si formavano nel processo Leblanc. Santa Laura fu ceduta nel 1902 e cessò la produzione nel 1913.

Fra le innovazioni si può ricordare che nel 1872 l’ingegner Charles Wilson costruì a Quebrada de Las Salinas, nel deserto di Atacama, il primo impianto con cui, mediante il calore solare, era possibile distillare 20.000 litri di acqua dolce al giorno dall’acqua salina disponibile sul posto. Il distillatore di Las Salinas restò in funzione fino al 1908.

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Charles Wilson

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Il distillatore di Las Salinas

Il prezzo crescente del nitrato di sodio, dovuto anche all’imposta cilena sulle esportazioni, spinse i paesi europei a cercare dei processi per produrre nitrati dall’azoto dell’aria, gratuito e accessibile a tutti, dapprima col processo della sintesi dell’acido nitrico con l’arco elettrico, inventato da Kristian Birkeland (1867-1917) e Sam Eyde (1866-1940), e poi con la sintesi, realizzata in Germania da Fritz Haber (1868-1934) e Carl Bosch (1874-1940), dell’ammoniaca che poteva essere facilmente ossidata ad acido nitrico; nel frattempo erano stati inventati processi di fabbricazione dell’acido solforico che non avevano più bisogno di acido nitrico. Agli inizi del 1900 si avvertivano anche i segni dell’impoverimento delle riserve di nitrati; il picco della produzione fu raggiunto nei primi decenni del Novecento, anche per la crescente richiesta di esplosivi durante la prima guerra mondiale.

picco dei nitrati cileni

picco dei nitrati cileni; dati da

https://www.uvm.edu/~econ/documents/finalutrechtpaper.pdf

L’estrazione di nitrati nel Cile fu razionalizzata con l’intervento, nel 1924, di nuovi capitali e con altri perfezionamenti introdotti nel 1930 da Elias Anton Cappelen-Smith 1873-1949) e macchinari per la frantumazione e l’estrazione del “caliche”. Si ebbe una breve ripresa della produzione negli anni 30 del Novecento, ma nel frattempo i nitrati sintetici si stavano diffondendo in tutto il mondo e il declino del nitro cileno fu inarrestabile e le “oficinas” chiusero una dopo l’altra. Intorno al 1940 La Palma, ribattezzata “Oficina Santiago Humberstone”, in onore del suo fondatore, continuò per qualche anno a produrre nitrato di sodio fino a quando è stata chiusa e abbandonata. I ruderi di archeologia industriale sono stati restaurati e il luogo è stato dichiarate monumento nazionale cileno e, nel 2005, è stato dichiarato “Patrimonio dell’umanità” dall’Unesco.

800px-2005.11.14_24_Humberstone_ChileLa fortuna economica del Cile continuò con la estrazione del rame, ma questa è un’altra storia.

Un articolo di analogo tema è stato pubblicato nel 2012 su http://www.educazionesostenibile.it/portale/sostenibilita/tecnica-a-ecologia/racconti/1430-nel-cuore-delle-merci-il-racconto-mensile-di-giorgio-nebbia.html

Ah…, le bollicine!

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Gianfranco Scorrano, ex Presidente della SCI

In occasione di una recente ricorrenza familiare, in qualità di anziano, ho dovuto aprire una bottiglia di spumante. Già il fatto che non si può chiamare champagne, (in vari trattati è specificato che il nome champagne è riservato al prodotto derivato da viti coltivate nella regione Champagne, capitale Reims localizzata a 150 km da Parigi), mi ha fatto innervosire. Per rilassarmi ho cominciato a fare alcune riflessioni chimiche, che vi racconto.

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Ma quante bollicine ci sono in una bottiglia di champagne? Per fortuna ci sono stati alcuni bontemponi (pardon, ricercatori) che si sono cimentati con questo problema. Vi riferisco il ragionamento del Sig.Bill Lembeck il quale,conscio che ogni bottiglia avrà il suo numero di bollicine, si contentò di una stima ragionevole. Dunque, il sig Lembeck partì con il calcolare il volume di CO2 nella bottiglia di champagne da 750ml per dividere questo numero per il volume di una singola bollicina.

Per prima cosa Lumbeck stabilì che la pressione media nella bottiglia di champagne sia di circa 5,5 atmosfere (dato confermato da parecchie altre stime) a 20°C: in altri termini una bottiglia di champagne contiene 5,5 volte il suo volume nella forma del gas prodotto nella seconda fermentazione (vedi dopo) e quindi in una bottiglia da 750 ml vi sono disciolti (alla pressione atmosferica standard) 4125 ml di CO2: di questi 750 ml rimangono sciolti nel liquido e quindi non vengono espulsi dalla bottiglia al momento di fare saltare il tappo. In conclusione solo 3375 ml di anidride carbonica (4125-750) spariscono in bollicine.

Quant’è il volume di una bollicina? Qui Lembeck ricorre a complicate misure, di cui vi racconto solo il risultato: 69 milionesimi di un ml!

Il calcolo è presto fatto: le bollicine sono 3375/69 x 10-6 = 49 milioni

Lo studio delle bollicine di gas nelle bottiglie di spumante sembra un gioco di bontemponi, è invece importante non solo per meglio apprezzare le proprietà organolettiche dello spumante, ma anche in relazione, per esempio, agli studi sull’embolia, sulla salita della linfa nelle piante, sulla modellizzazione dei processi di nucleazione delle bolle nelle rocce porose petrolifere che permettono il recupero del petrolio in esse inglobato.

Non è perciò sorprendente che seri studi sono dedicati a questo problema. Per esempio il prof.Gerard Liger-Belair dell’Univeristé de Reims Champagne-Ardenne (è professore di fisica), da tempo attivo nello studio degli spumanti, ha pubblicato sull’americano J.Phys.Chem. B,2014, 118, pp.3156-3163 un articolo intitolato “Quante bollicine nel vostro bicchiere di champagne?”. Ci sono molti altri lavori sull’argomento, per esempio quello dei chimici dell’università di Bologna, F.Lugli e F.Zerbetto apparso su Phys.Chem.Chem.Phys., 2007, 9,pp.2447-2456, ma mi riferisco al lavoro più recente.

Dunque Ligier-Belair conclude che la scelta del bicchiere è importante e bisogna adoperare il bicchiere a flauto (vedi foto) e non la coppa larga, che fa disperdere più efficacemente la CO2 . In questo bicchiere, bisogna versare lo champagne di preferenza facendolo scorrere lungo le pareti, piuttosto che versarlo al centro del bicchiere. Comunque il calcolo, per i dettagli vi rinvio al testo citato, ci dice che nel bicchiere contenete circa 100mL di spumante restano all’incirca 1 milione di bollicine, se si versa al centro del bicchiere, numero che cresce di svariate centinaia di migliaia se si versa di lato.

Non ci resta che riflettere da dove viene tutta quella anidride carbonica. Ricordo brevemente il metodo champenois che comunemente si adopera per preparare lo champagne e anche lo spumante.

La fermentazione si svolge in due fasi: nella prima il lievito scinde, tramite l’enzima invertasi, gli zuccheri complessi (disaccaridi, come il saccarosio), mentre nella seconda avviene la formazione di etanolo (o alcol etilico) a partire dagli zuccheri semplici (ad esempio il fruttosio).

La reazione che caratterizza la prima fase è:

C12H22O11 + H2O → C6H12O6 + C6H12O6

con formazione di glucosio e fruttosio (due isomeri).

Nella seconda fase (che distingue la vera e propria fermentazione) a partire dal glucosio nel citoplasma dell’organismo anaerobico si verifica la glicolisi:

Glucosio + 2 NAD+ + 2 ADP + 2 Pi → 2 NADH + 2 piruvato + 2 ATP + 2 H2O + 2 H+

La formula generale che sintetizza la formazione di etanolo e anidride carbonica a partire dal glucosio è quella del chimico-fisico francese Joseph Louis Gay-Lussac:

C6H12O6 → 2 CH3CH2OH + 2 CO2

Al termine della prima fermentazione il vino viene separato dal mosto e messo a riposo e poi imbottigliato. In questo modo la fermentazione è fermata, un fenomeno che era noto anche ai vinai dei tempi antichi. In particolare in Francia si accorserò però che il vino così imbottigliato poteva dare luogo, quando la temperatura esterna aumentava, ad una successiva fermentazione che conduceva a produrre anidride carbonica all’interno delle bottiglie e quindi alla frequente esplosione delle medesime.

E’ nata poi la leggenda che ad inventare lo champagne fu il frate Dom Perignon (1639-1725). Il compito a lui affidato fu quello di risollevare la produzione di vino della regione Champagne nella cui abbazia di Saint-Pierre d’ Hautvillers ebbe il compito di cellario dal 1668 alla morte. Messe da parte le versioni più o meno romanzate, i veri grandi meriti di Dom Pérignon nell’evoluzione della tecnica di produzione dello champagne furono quelli di definire il vitigno più adatto (il pinot noir), di applicare metodicamente la tecnica dell'”assemblaggio” (dei vari tipi di uva) e di sostituire i tappi di legno a forma tronco-conica, usati fino ad allora, con tappi di sughero, ancorati al collo della bottiglia per mezzo di una gabbietta metallica. La prima fermentazione, chiamata fermentazione alcolica, è identica a quella che subiscono i vini cosiddetti “tranquilli” (cioè non effervescenti). Quando questa prima fermentazione si conclude (di solito in primavera), si imbottiglia il “vino di base” con un tappo metallico a corona (lo stesso impiegato per chiudere le bevande gassate) in grado di sopportare la pressione che si svilupperà all’interno della bottiglia, dopo avergli aggiunto lieviti selezionati (prelevati da ceppi della zona dello champagne) e zucchero, al fine di far avviare la seconda fermentazione; questa seconda fermentazione produce anidride carbonica che determina la formazione di bollicine, cioè della spuma. Tuttavia, questa seconda fermentazione provoca anche la formazione della feccia, costituita dai residui dei lieviti esausti, che intorbidisce il vino, e che è necessario eliminare. Per far ciò occorre sistemare le bottiglie sulle pupitres strutture a “V” rovesciata costituite da due tavole di legno incernierate su un lato e dotate di fori in cui inserire i colli delle bottiglie. Ogni giorno le bottiglie vengono ruotate con un movimento secco (remuage sur pupitres), con una rotazione inizialmente di un ottavo di giro e successivamente aumentata a un sesto e, alla fine del processo, a un quarto di giro. Tale operazione ha lo scopo di staccare la feccia dalla parete interna della bottiglia e farla scendere in basso verso il collo della stessa. Infatti, dopo ogni scuotimento, le bottiglie sono riposizionate inclinandole sempre più, fino a quando saranno in posizione quasi verticale; in tal modo le fecce saranno tutte a contatto del tappo. Per eliminare le fecce si inserisce il collo della bottiglia in una soluzione salina a bassissima temperatura, che provoca l’istantaneo congelamento delle fecce; a questo punto si toglie il tappo (questa operazione si chiama dégorgément, e se fatta a mano è definita à la volée), e con esso il deposito dei lieviti.

Rabboccata la bottiglia, lo champagne è pronto.

La depurazione delle acque come arte (parte 3)

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

precedenti puntate di questo post qui e qui

a cura di Mauro Icardi (siricaro@tiscali.it)

Questo articolo tratterà della gestione e del trattamento della linea dei fanghi,nel trattamento delle acque reflue.

La descrizione della fase di trattamento e di origine della linea dei fanghi che segue, è riferita ad un impianto di grandi dimensioni, tipicamente quelli delle grandi città. Per gli impianti al servizio di piccoli paesi, si possono trovare schemi impiantistici  diversi.

I fanghi residui negli impianti di depurazione si originano in due punti diversi dell’impianto.  Il primo è il fango proveniente dalla sedimentazione primaria. Questo tipo di fango si riesce a separare nelle acque reflue grezze senza necessità di nessuna trasformazione di tipo biologico. Il fango che viene estratto dai decantatori primari è una miscela costituita in prevalenza da:

sostanze organiche facilmente degradabili (cellulosa,zuccheri,lipidi).

sostanze inorganiche inerti (ossidi metallici e carbonati)

sostanze organiche non facilmente degradabili (semi e fibre).

Eliminando questi solidi sedimentabili per sola decantazione si ottiene nel refluo in ingresso un abbattimento di circa il 20-25% del BOD, e del 10% del fosforo e dell’azoto. Il liquame chiarificato viene inviato successivamente alla vasca di ossidazione dove subisce il trattamento di ossidazione biologica.

Questo è quello che si legge di solito nei testi di depurazione. Ma non sempre le cose vanno così bene. Spesso può capitare che all’uscita della fase di sedimentazione primaria, ci si trovi di fronte ad un dato anomalo. In particolare che la concentrazione dell’ammonio (NH4+) sia addirittura maggiore di quella che viene riscontrata all’ingresso dell’impianto. A questo punto iniziano delle discussioni piuttosto accanite, e spesso il povero chimico viene accusato di essere quasi un visionario. Il problema si risolve con molta pazienza e l’esperienza acquisita. L’aumento della concentrazione di ammonio all’uscita di un sedimentatore primario deriva quasi sempre dal fatto che all’ingresso di questa sezione vengono fatte confluire tutte le acque di risulta e di lavaggio della sezione di trattamento dei fanghi. Che sono ricche di ammonio che proviene dalla fase di digestione anaerobica. Per quanto riguarda la questione delle sostanze non degradabili, ricordo che qualche anno fa un sedimentatore primario venne praticamente intasato da una quantità piuttosto elevata di semi di colore nero, di cui non riuscimmo mai ad identificare ne l’origine ne la provenienza.

Il secondo tipo di fango con cui si ha a che fare è quello secondario. Dopo che nella vasca di ossidazione sono avvenute le reazioni biochimiche, il fango che era nella vasca di ossidazione viene separato dal liquame depurato nel sedimentatore secondario.

Il liquame depurato può subire ancora un trattamento chimico-fisico di chiariflocculazione  per abbattere il fosforo inorganico, nel caso che il recapito finale dell’acqua depurata sia un lago che ha limiti più restrittivi per quanto riguarda i nutrienti quali azoto e fosforo, responsabili del processo di eutrofizzazione.

Il fango secondario è costituito principalmente da biomassa batterica, dalla frazione dei solidi sedimentabili che non sono stati trattenuti nelle fase di sedimentazione primaria (che non ha mai un rendimento del 100%), dalle sostanze attaccate dai batteri, ma rimaste incorporate nella biomassa.

A questo punto si deve procedere al trattamento di questi flussi di fanghi. La parte solida contiene sostanze organiche putrescibili, ragione per cui si devono effettuare una serie di trattamenti che consentano il successivo smaltimento senza inconvenienti per la salute umana e l’ambiente.

Di solito i fanghi (primari e secondari) si mescolano dando origine al fango misto. Questa operazione permette in seguito di disidratare piu’ facilmente il fango. Il fango misto ha un tenore di acqua pari al 98%. Occorre diminuire questo tenore di acqua con trattamenti a gravità in ispessitori dinamici, per flottazione, o tramite un tamburo rotante. Al termine di queste operazioni il tenore di acqua si riduce al 95%. In queste condizioni il fango si comporta ancora come un liquido ed è pompabile con pompe resistenti all’abrasione (solitamente pompe a membrana). La riduzione seppur modesta del tenore di umidità comporta una notevole riduzione del volume di materiale da trattare, e quindi una riduzione del dimensionamento delle successive fasi, e quindi dei costi di investimento, di esercizio e di smaltimento dei fanghi.

Al termine di questa fase, il fango viene inviato al trattamento successivo di stabilizzazione e mineralizzazione. La stabilizzazione è anche chiamata digestione dei fanghi. Un fango misto si può convenientemente trattare per digestione anaerobica.

Qui parlerò della digestione anaerobica dei fanghi di depurazione. La controversa questione dei digestori anaerobici per biomassa, di quelli delle aziende agricole meritano una trattazione a parte. Così come può essere interessante parlare della possibilità di codigestione di frazioni organiche biodegradabili come la frazione umida dei rifiuti urbani negli impianti di depurazione municipali, per aumentarne la resa in biogas e migliorarne il funzionamento.

In assenza di ossigeno microrganismi anaerobici trasformano le sostanze organiche tramite vari stadi in metano ed anidride carbonica.

In una prima fase il fango subisce una fermentazione di tipo acido. Molecole quali carboidrati, proteine e grassi vengono scisse ad opera di batteri idrolitici in monosaccaridi, acidi grassi, glicerolo.  Contestualmente avviene l’ulteriore scissione in molecole ancora più semplici come gli alcoli e acidi grassi volatili (acetico, propionico, butirrico). Questa fase produce come sottoprodotti ammoniaca, anidride carbonica, acido solfidrico.

Le molecole che sono state precedentemente prodotte vengono ulteriormente digerite producendo anidride carbonica, idrogeno ed acido acetico.

L’ultima fase del trattamento porta alla produzione di metano per azione dei batteri metanigeni, con formazione di metano, anidride carbonica ed acqua.

Con questa tecnica i fanghi derivanti dal trattamento risultano parzialmente igienizzati. La riduzione percentuale della sostanza organica inizialmente presente (che se la digestione anaerobica è soddisfacente e ben gestita è maggiore del 40%) rende più agevole il successivo processo di disidratazione.

Generalmente negli impianti di depurazione si effettua una digestione anaerobica di tipo mesofilo (condotta nell’intervallo di temperatura 16-38°C con temperatura ottimale di 35° C per i batteri mesofili).

I batteri metanigeni  sono a crescita più lenta, e possono lavorare in un range di pH abbastanza ristretto (tra 6,8 e 7,5) . Costituiscono perciò il fattore limitante del processo. Per lo stesso motivo, visto che i batteri acidificanti crescono più velocemente, nella fase di avviamento del digestore anaerobico, ed in tutti i casi in cui si verifichi un accumulo di acidi volatili con abbassamento del pH  che causa inibizione dei metanigeni, possono essere dosate nel digestore quantità idonee di idrossido di calcio, che servono a ripristinare le condizioni ottimali per la fermentazione alcalina.

Il biogas prodotto ha di solito una percentuale di metano che va dal 60 al 75%. Il resto è costituito da anidride carbonica e da acido solfidrico. Ha mediamente un potere calorifico di 5000 kcal/Nm3. Viene quindi utilizzato per il riscaldamento dei digestori dopo essere stato sottoposto a trattamenti di deumidificazione e desolforazione.

Nella gestione di un digestore anaerobico i principali parametri di processo che il laboratorio chimico al servizio dell’impianto di depurazione deve controllare sono il pH, la quantità di acidi volatili ed il loro rapporto con l’alcalinità. Questi tre parametri servono a verificare che le condizioni all’interno del digestore siano favorevoli per lo sviluppo dei batteri metanigeni, che la produzione di biogas sia costante. Si eseguono poi semplici analisi gravimetriche sui fanghi. Si determina la percentuale di umidità dei fanghi, e successivamente gli stessi vengono calcinati in muffola per determinarne la frazione inerte. Per differenza da questa si determina la percentuale di sostanza organica volatile. Le verifiche vengono effettuate sul fango che viene alimentato al digestore, e su quello che dopo aver subito il processo di digestione viene inviato al trattamento di stabilizzazione. Come detto precedentemente, se la riduzione percentuale della sostanza organica tra il fango in alimentazione, e quello digerito è maggiore del 40% significa che il processo sta funzionando in maniera soddisfacente.

Ma ritornando a quanto avevo scritto nei precedenti articoli, può essere utile una sommaria analisi sensoriale. Il fango prima del trattamento di digestione ha ovviamente odore sgradevole ed è solitamente di colore grigiastro. Un fango che ha subito un processo corretto di digestione anaerobica è di colore nero, e il parziale trattamento di igienizzazione lo ha reso meno sgradevole e quindi emana meno cattivo odore.

L’ultimo trattamento che il fango deve subire prima dello smaltimento finale è quello di disidratazione. Ridurre il tenore di acqua, rendere il fango palabile cioè con una percentuale di sostanza secca almeno del 20%.

Prima di subire un trattamento di centrifugazione, o di nastropressatura il fango viene condizionato con il dosaggio di un flocculante (polielettrolita) che facilita l’addensamento del fango, ed il successivo rilascio  dell’acqua.

Le macchine maggiormente usate per ottenere una buona disidratazione del fango sono principalmente le centrifughe e le nastropresse.

Il processo di centrifugazione permette di separare l’acqua dal fango mediante l’applicazione della forza centrifuga. Il fango viene immesso nella centrifuga attraverso un tubo centrale che corre al centro di un tamburo cilindrico in rotazione ad un elevato numero di giri. I solidi si addensano contro la parete interna del tamburo. All’interno del tamburo cilindrico è posizionata una coclea che ruota nello stesso senso del tamburo ma a velocità inferiore e trascina il fango disidratato verso l’estremità del tamburo dove è situato lo scarico dei fanghi. L’acqua che si elimina dal fango viene convogliata all’esterno attraverso un disco sfioratore, e viene sempre rimandata in testa all’impianto di trattamento delle acque per ripetere il ciclo depurativo.

Schema di centrifuga per fanghi.

Schema di centrifuga per fanghi.

La nastropressa per fanghi è  una macchina in cui il fango viene caricato da un tramoggia e viene fatto passare attraverso dei teli coniugati, e sottoposti alla pressione di rulli che pressano il fango. Il fango viene a contatto con il rullo di drenaggio che essendo di grande diametro permette una prima leggera pressione del fango. Il fango subisce quindi pressioni sempre più elevate fino alla zona di alta pressione. Dopo l’evacuazione dei fanghi i due teli subiscono un lavaggio per l’allontanamento del materiale residuo.

Schema di nastropressa per fanghi

Schema di nastropressa per fanghi

 

Il trattamento dei fanghi residui è la fase più importante a mio parere del trattamento depurativo. Se non si allontanano correttamente i fanghi prodotti dal processo di depurazione, e si accumula troppo fango, il depuratore non può più garantire adeguati livelli di abbattimenti sulla linea acqua. La sezione dei fanghi è anche il collo di bottiglia. La maggior parte degli sforzi, e dei costi che si devono sostenere sono proprio quelli di trattamento e smaltimento dei fanghi. La linea fanghi è anche quella che spesse volte provoca qualche ripensamento sugli studi scelti da qualche studente universitario particolarmente sensibile o schizzinoso. In diversi casi qualche rappresentante del gentil sesso in visita all’impianto si è sentita per così dire un po’ spaesata. E molti anni fa una professoressa inglese che insegnava alla scuola europea di Varese mi disse in italiano ma con un inconfondibile e delizioso accento british che “le sembrava impossibile che una struttura così strana potesse davvero servire a qualcosa”.

In effetti parlare di acqua di fogna, e del suo trattamento può sembrare quasi un tabù.

Eppure qualche anno fa, precisamente nel 2010 è uscito per Bompiani un libro (che io ho molto apprezzato) dall’inequivocabile titolo “Il grande bisogno. Perché non dobbiamo sottovalutare l’ultimo tabù: la nostra ca**a”.

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Questa è la nota di copertina : ““Due terzi della popolazione mondiale sono privi di misure sanitarie. Oltre un miliardo di persone bevono quotidianamente acqua inquinata. Se il mondo può parlare di cibo, allora non è il momento  di parlare anche di come smaltire questo cibo?  “Un viaggio intrepido, erudito, appassionante, attraverso le conseguenze pubbliche dei nostri più privati comportamenti.”

Depurare l’acqua, e occuparsi di restituirla all’ambiente pulita, dopo che è stata sporcata dai gesti che consideriamo normali, come lavarci ed utilizzare i servizi igienici, credo sia un mestiere particolare, ma che i chimici possono fare bene. Perché i chimici sanno che “la materia è materia, ne nobile ne vile, infinitamente trasformabile” (Primo Levi  Azoto “Il sistema periodico”

E per chiudere questa parte direi che è giusto tornare a citare il libro che mi ha ispirato a voler scrivere questi articoli sulla depurazione come arte. Dove descrivendo la linea dei fanghi Piero Bianucci in “Benvenuti a bordo”, dopo avere parlato di gestione anaerobica e di metano, scrive questo brano, punteggiato di ironia.

 “I tecnici hanno calcolato con soddisfazione che un impianto di depurazione può cavare la potenza di due cavalli vapore ogni mille abitanti serviti. Nel caso di Torino, poiché l’impianto serve un comprensorio di un milione e quattrocentomila abitanti, ciò significa che tali cittadini con le loro deiezioni sviluppano la considerevole potenza di  duemilaottocento  cavalli vapore. La cosa è poco risaputa, minoranza esigua sono i torinesi consapevoli del contributo energetico dei propri escrementi.”

Spero che questa trattazione non abbia disgustato ne annoiato. Per un chimico la materia è materia. Per un chimico che si occupa di depurazione, può essere una materia particolare, ma pur sempre materia è…

Per completare queste chiacchierate rimane da scrivere ancora un ultimo articoletto. Varie ed eventuali, nuove tecnologie, e le leggende e bufale sui depuratori, e qualche caso davvero curioso a cui ho personalmente assistito.