Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.
a cura di Antonio Seccia* (antonio@ilcassero.it) e Andrea Turchi (andreaturchi@hotmail.com)
Premessa
Il manoscritto che abbiamo iniziato ad analizzare proviene da una collezione privata. Il suo proprietario, Enrico Jermini, ce lo ha sottoposto al fine di individuarne datazione, provenienza, rilevanza del contenuto. Jermini ci ha riferito che il testo appartiene alla biblioteca della sua famiglia da molto tempo ma non è in grado di indicare il momento in cui fu acquisito. I suoi antenati, provenienti dal Canton Ticino, migrarono alla corte dei Medici di Firenze nel Quattro-Cinquecento, tramandandosi incarichi notarili (o comunque nel notabilato legale). Dopo l’unificazione, alcuni di essi intrapresero la carriera giudiziaria come procuratori del Re e tutti furono fortemente legati alla massoneria
Sin da una prima sommaria analisi, l’oggetto è risultato molto avvincente: 740 pagine in buona carta vergatina di stracci fatta a mano, priva di marchi in filigrana, che già porta indietro di almeno due secoli. Il contenuto è altrettanto interessante: si tratta di una compilazione di ricette alchemiche, variamente commentate.
Struttura del volume
Il volume misura 16 cm di base per 22 di altezza e 5,3 di dorso. Ha una coperta in pergamena cronologicamente congrua con la compagine del testo, ma non originale. Il libro è infatti stato restaurato in epoca non recente, presumibilmente nel XIX secolo, applicandovi la copertina recuperata da un’opera antica. Procedimento, questo, assolutamente censurabile, pur in considerazione dei mutevoli criteri metodologici del restauro. Restauro qui eseguito, peraltro, in modo particolarmente infelice per il verosimile duplice danno documentale: al libro donatore, forse improvvidamente distrutto privandolo del suo adeguato rivestimento, ma soprattutto al prezioso manoscritto ricevente, il quale, per essere adattato alle più ridotte dimensioni dei piatti, è stato rifilato al piede, alla testa e in parte anche anteriormente, mutilando talvolta il testo, le note a margine e la numerazione delle pagine. L’imbrunimento e la consunzione della prima pagina del testo, che reca il numero 13, testimonia che al momento del restauro il volume era già privo di copertura, del frontespizio e delle prime 12 pagine; nessuna traccia, pertanto, del titolo e della data. Sul dorso dell’attuale coperta è stato scritto a mano «Chimica».

La cucitura originale, ancora solida, è conservata ed è costituita da spago di canapa passato a punto indietro su tre nervi di pelle, che dovevano marcare a rilievo il dorso della coperta della prima rilegatura e i cui prolungamenti erano sicuramente incartonati nei piatti. Questa tipologia di legatura è compatibile con una datazione anteriore all’anno 1700. Il restauro non ha quindi comportato la scucitura dei fascicoli e i nervi sono stati mantenuti ma tagliati a filo dei bordi del dorsetto. Il collegamento con la nuova copertina, il cui dorso non presenta più le nervature in rilievo, è avvenuto mediante una cucitura che penetra all’interno di alcuni fascicoli e poi va ad avvolgersi, formando dei capitelli, su due nervetti di pergamena impunturati nelle cerniere dei piatti, in prossimità delle cuffie del dorso.
Il manoscritto presenta comunque tracce di aggressione da parte di insetti parassiti della carta, per cui sarà opportuno sottoporlo a bonifica in atmosfera anossica.
La composizione del volume
La compagine del testo è composta da 16 fascicoli aventi ciascuno un numero di fogli variabile da 9 a 12 (da 36 a 48 pagine). Come accennato, le prime 12 pagine sono mancanti. Inoltre risultano mancanti anche le pp. 661-668 e 727-736. La pagina 669 è tagliata vicino alla rilegatura. Risultano bianche le pagine da 709 a 712 e da 717a 740. La p. 708 riporta solo il titolo. Tra p. 708 e p. 709 è interpolata un’ulteriore pagina, che sembra appartenere al testo originale.
In fondo al volume compare una sorta di indice analitico, di cui rimangono solo le prime 6 pagine non numerate (fino alla lettera R). Sull’ultima pagina compare un lacerto di indice, diverso dal precedente, di sole 4 righe. Tra la terzultima e la penultima pagina compare un cartiglio volante di piccole dimensioni e di grafia diversa da quella del testo[1].
Gli inchiostri
In tutte le pagine del testo sono compresenti l’inchiostro nero ferrogallico e l’inchiostro rosso da legno brasile; quest’ultimo usato per i titoli, i richiami, le annotazioni, la numerazione delle pagine. In realtà, per il primo centinaio di pagine circa, la numerazione (sull’angolo alto esterno delle pagine) è apposta in nero, ma è una evidente (e deprecabile anche questa) giustapposizione effettuata dal “restauratore” che ha tagliato via la numerazione autentica.
L’inchiostro nero non è tutto della stessa composizione: mentre in molte pagine esso appare virato in bruno per effetto ossidativo e trapassa il foglio macchiandone il lato opposto, in altre compare più stabilizzato e nitido. Da rilevare il frequente uso di tempera bianca coprente per le correzioni, spesso soprascritta.
La scrittura è abbastanza leggibile, il linguaggio è arcaico, ricco di simbolismi grafici. Talune pagine, scritte con una grafia attribuibile ad altra mano e di più ardua lettura, con titoli e richiami in inchiostro nero anziché rosso, sembrano addizioni postume, ma l’omogeneità tipologica della carta in tutto il volume e la mancanza di fogli aggiunti alla legatura originale escluderebbero rimaneggiamenti redazionali in forte distanza temporale.
Struttura del testo
Come accennato, il titolo apposto sul dorso del volume recita «Chimica», scritto a mano. Tale titolo risulta incongruo rispetto al contenuto schiettamente alchemico e si può giustificare con l’ipotesi che sia stato inserito all’epoca del restauro. La datazione da noi proposta, che colloca il restauro nel corso del XIX secolo, è coerente con questa ipotesi: in quel periodo, il termine alchimia era diventato scientificamente desueto e l’anonimo restauratore ha creduto bene di etichettare l’opera con un più moderno «chimica», designante una scienza che aveva da almeno un secolo acquistato lo statuto di disciplina autonoma.
Il testo riporta ricette da varie fonti, seguite da annotazioni, aggiunte, considerazioni dell’autore, spesso molto estese. A volte le note sono puntuali, e in quel caso richiamate con lettere maiuscole in rosso sopra il testo e trattate alla fine della ricetta. Molte ricette sono indicate con numerazione romana: non è chiaro se si tratti di una numerazione interna o riportata dai testi da cui sono state desunte [2].
Gli argomenti trattati, il lessico e i riferimenti dotti sono quelli dell’alchimia rinascimentale, ossia dell’alchimia tarda, all’epoca frequentata non più solo da studiosi e adepti ma anche da dilettanti, uomini di cultura, aristocratici, suggestionati dalle possibilità demiurgiche di questa scienza esoterica. Il testo fa riferimento a un’alchimia pratica, ma nel contesto del consueto paradigma trasmutativo, con riferimenti impliciti ed espliciti alla Grande Opera e alla Pietra filosofale.
Molte ricette trattano della trasmutazione dei metalli (si noti però che la parola ‘trasmutazione’ non è usata nel testo, almeno per quanto finora analizzato): dal mercurio all’argento, dall’antimonio al mercurio, dal mercurio all’oro. Il mercurio svolge il ruolo centrale consueto nei ricettari alchemici del periodo, che risentono dell’opera di Paracelso[3]. Altre ricette trattano della preparazione di prodotti tipici del reagentario alchemico: olio di tartaro, acqua forte, mercurio, tinture minerali, ecc.
Parte delle ricette sono dedicate a preparati medicinali. Per esempio, a p. 477, sotto il titolo «Medicina quarta di [nda, simbolo alchemico dell’oro] e Antimonio», viene sotto riportato (carattere rosso). «Dal quale potrai valerti alle catarate, alla lepra, et al mal caduco». Da notare che tali ricette si avvalgono quasi sempre di sostanze minerali e non vegetali, secondo l’impostazione spagirica di Paracelso[4].
L’ultima parte del manoscritto (da p. 679) è dedicata al modo di fabbricare le perle artificiali, preparazione consueta nella farmacopea medievale e rinascimentale, e le cui ricette sono presenti nel celebre papiro di Leida e quindi risalenti al periodo dell’alchimia alessandrina.
All’interno del contesto pratico-sperimentale non mancano riflessioni morali e religiose di ambito cattolico. La commistione con la religione non era infrequente nella tarda alchimia europea, medievale e rinascimentale, che innestò il pensiero cristiano nella cultura esoterica e spiritualistica dell’alchimia araba e alessandrina.

L’autore
Il testo non è firmato. La sigla D.G.Z., associata alle considerazioni sulle ricette, è ripetuta più volte. A p. 464 viene riportato a titolo «Considerationi di D. Gir.mo Zini», che corrisponde alla sigla. Ancora più avanti (p. 675) compare un titolo «Discorso di D. Girolamo»: il testo che segue riporta il discorso in prima persona. Nelle nostre ricerche preliminari, basate sulla datazione e sulla presumibile collocazione territoriale del manoscritto (vedi oltre), abbiamo trovato traccia di un tal Girolamo Zini (Hieronimo Zino), monaco benedettino, ma l’attribuzione è da considerarsi incerta[5].
Nelle pagine più alte compare la sigla D.G.D (p. 604) che si alterna a quella D.G.Z. Difficile dire se si tratta di due autori diversi: la grafia è molto simile ma l’inchiostro usato sembra differente.
Nel testo compaiono altre sigle. Per es. nel titolo a p. 695 «Terzo modo di far perle chiamate perle capuzzine da D.V. inn una l’ra scritta a D.A.B.». La prima lettera D che compare in tutte le sigle potrebbe derivare da “Dom”, appellativo dei monaci benedettini. Questo costituirebbe ulteriore prova indiziaria dell’attribuzione del manoscritto a Dom Girolamo Zini.
L’autore mostra di essere uomo di buone conoscenze classiche, come evidenzia, per esempio, la citazione di Avicenna (p. 361). Le comunicazioni epistolari presenti nel manoscritto mostrano inoltre uno spirito aperto e libero: l’autore aveva relazioni con altri studiosi anche molto distanti, come mostra la citazione dello scambio epistolare con l’ambiente della reggia di Danimarca. Si noti che il regno di Danimarca era protestante fin dalla metà del XVI secolo e, se la collocazione monastica fosse confermata, sarebbe interessante indagare sui rapporti avvenuti tra ambienti culturali divisi al tempo da forti polemiche teologiche e reciproci anatemi.
Lo scritto mostra che l’autore era probabilmente un abile sperimentatore, dotato di senso critico: le sue annotazioni sono molto precise, così come le sue indicazioni sperimentali e le critiche alle ricette trascritte. Talvolta la rubrica (le annotazioni in colore rosso) prevale nettamente sulla fonte citata in termini di approfondimento e di lunghezza del testo.
Lo stile e la grafia
L’autore conosceva bene l’arte della copiatura e lo stile amanuense (capilettera in colore, abbreviazioni, riporto dell’incipit di pagina seguente nella pagina precedente) nota da secoli tra i monaci benedettini. In particolare, il riporto dell’incipit a piè di pagina pari (quindi con la pagina dispari a fronte), del tutto superfluo per una lettura a libro aperto, sembrerebbe suggerire che il testo è stato compilato su fogli volanti e solo in seguito rilegato.

Non è chiaro se la grafia sia di un unico autore, anche se da questo punto di vista il manoscritto presenta una unità stilistica considerevole. Tuttavia, l’utilizzo di maniere calligrafiche standardizzate condivise, quali quelle di un ambiente monastico, potrebbe giustificare la mancanza di diversificazione delle grafie. A volte la grafia si presenta più fine, soprattutto nelle ultime pagine (da p. 712), ma questo può dipendere dall’inchiostro e dalla penna usati.
- L’ambiente di riferimento
Diversi riferimenti ad abazie e parrocchie confermerebbero che la stesura del manoscritto sia avvenuta in un ambiente monastico o chiesastico. Per esempio, a p. 464 si legge: «Fissation di dal prete da Zano provata». Ancora, nella rubrica a p. 659 :«Questa l’ebbi dalli heredi del frate di S. Francesco che faceva questa Medicina scritta di sua propria mano». Né mancano formule e preghiere quali «adsit cogitato virga beata meo» (p. 78).
Alcuni riferimenti farebbero ritenere che lo scritto sia stato compilato in un luogo non identificato del vicentino. A p. 220, per esempio, è riportato: «La prima manera fu data al sig. Gregorio Valenti dottore legista vicentino da fra’ Gregorio Zoccolanti infirmi ero nel monastero di S. Biagio di Vicenza, il quale ne nota la …avendone veduto il mercurio (come dice nel fine) quando si ruppe la bolla». Nella pagina precedente l’autore riferisce di una sua visita il 20 giugno 1593 proprio a fra’ Gregorio. Compare in altra parte (p. 464) il cognome (e forse toponimo) Zano, frequente nel vicentino.

Se fosse confermato che il testo è stato scritto in ambito chiesastico o conventuale, la questione sarebbe interessante, perché l’opera si colloca temporalmente (primi del XVII secolo, v. oltre) durante la Controriforma, quando la Chiesa vedeva con forte sospetto non solo le attività magiche (che venivano inquisite) ma anche quelle alchemiche. C’è però da dire che nell’area geografica e politica in cui presumibilmente il testo è stato scritto, ossia quello della Repubblica veneta, vigeva un regime più tollerante rispetto ad altre zone di influenza della Chiesa.
I riferimenti espliciti e impliciti mostrano che il testo è stato scritto in un arco temporale abbastanza ampio, che copre sicuramente i primi decenni del XVII secolo. Nel testo compaiono riferimenti con date precise: per esempio, a p. 372 è riportata la data del 1621: «Considerationi di me D.G.Z. sopra la retroscritta operazione, mandata al P.D.A.B. dal S. Giorgio Frise in tre lettere da Othense cita [intende la città danese di Odense] reggia del Re di Danemarca 1621». O ancora, a p. 377: «L’anno 1623 fu fatta la sopra scritta operazione…».
Il manoscritto – sin dalle prime pagine – riporta riferimenti ai primi tre volumi del Theatrum chemicum (dall’autore riportato come «Theatro»), pubblicati nel 1602, che godettero di ampia diffusione in tutta Europa. Per esempio, a p. 17 l’autore scrive «Nel primo volume del Theatro in fol. 243, cap. 2° [?] Omnes fire …docent. Argomenta e giudica a’ simili il Dorneo. Se nel fondere il metallo per far campane overo artigliarie il metallo tanto più calla quanto più sta nel foco, lo stesso farà ancora lambicandosi». Il nome Dorneo riportato nel testo compare in effetti nel primo volume del Theatrum come Gerard (o Gerardus) Dorn, alchimista belga vissuto tra il 1530 e il 1584.
Allo stato attuale della nostra lettura, non ci sembra ci siano riferimenti ai volumi successivi: si consideri che il quarto volume del Theatrum fu pubblicato nel 1613 e quindi forse ancora non diffuso come i precedenti. Questo permetterebbe, con buona approssimazione, di collocare la stesura del manoscritto nel secondo decennio del XVII secolo.
La struttura fisica del testo, le pur arbitrarie manipolazioni avvenute in epoche successive, il carattere finemente strutturato dello scritto, i numerosissimi riferimenti culturali, mostrano che si è di fronte a un reperto di grande interesse storico, scientifico e librario.

Se venisse confermato l’ambiente monastico, la datazione e la collocazione geografica, sarebbe interessante indagare sulla produzione scientifica di quel periodo nella Repubblica di Venezia, per confrontarlo con quanto riporta l’autore, in particolare in relazione ai rapporti tra la comunità scientifica e la Chiesa della controriforma in quel contesto.
Dal punto di vista scientifico l’interesse è dovuto alla notevole qualità dello scritto. L’autore mostra di essere aggiornato, di possedere orizzonti culturali vasti, di essere un valido sperimentatore: intesse relazioni con molti altri studiosi e cita opere diffuse da poco in Europa e in Italia come il Theatrum Chemicum, il Gemmarum et Lapidum Historia (1609) di Anselm de Boot, il De arte vitraria di Antonio Neri, ecc. Per tali motivi, una più approfondita esegesi da parte di specialisti di storia dell’alchimia potrebbe portare alle luce rilevanti aspetti storico-scientifici del testo.
Infine, dal punto di vista librario, lo studio del manoscritto potrebbe procedere indagando le modalità di scrittura, per meglio contestualizzare l’ambiente di scrittura e i rimaneggiamenti subiti dal volume. Questo al fine di capire se il suo uso sia stato limitato a un singolo autore o abbia riguardato più studiosi.

[1] Lo scritto, parzialmente illeggibile, riporta «….1758 Mon. Orazio Del…il giorno di giovedì verso le due ora ….in la Parochia …giorno di sabato».
[2] Propendiamo per la seconda ipotesi in quanto in diversi casi il testo rinvia a numerazioni successive, e questo è incompatibile con una numerazione ‘in progresso’.
[3] Come è noto, secondo Paracelso, la costituzione delle sostanze risultava dalla combinazione dei cosiddetti tria prima: sale, mercurio, zolfo. È vero che il mercurio dei tria prima non è il mercurio ordinario ma una sorta di quintessenza delle sue proprietà, ma è anche vero che nei ricettari e nelle argomentazioni di Paracelso il mercurio metallico svolge un ruolo molto importante.
[4] A p. 479, sotto il titolo «Considerationi sopra la quarta Medicina» è scritto «Questa credo sia cavata da Theofrasto come si può vedere nel Theatro Vol. …ripreso dal Dorneo… fol. 304 nondimeno l’ho trasportata qua secondo l’intintione di Bernardo [n.d.a.: prob. uno degli autori del Theatrum Chemicum, Bernardus Prenotus, v. oltre]…». Teofrasto era uno dei nomi di Paracelso: Philippus Aureolus Theophrastus Bombastus von Hohenheim detto Paracelso.
[5] In Memorie storico-critiche della vita e delle opere di Giovanni Pierluigi di Palestrina, compilate da Giovanni Baini, viene citato un Girolamo Zini, amanuense e musicista, monaco benedettino, generale della congregazione di S. Giorgio in Alga di Venezia, operante tra la fine del XVI secolo e l’inizio del XVII.
* Antonio Seccia è un restauratore di libri antichi mentre Andrea Turchi lo conosciamo già come autore per questo blog di un post https://ilblogdellasci.wordpress.com/2013/02/07/tanti-nomi-per-una-cosa-un-nome-per-tante-cose-il-caso-nitro-natron/