Anche la divulgazione chimica cambia verso

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Marco Taddia

Con “viva e vibrante soddisfazione”, come direbbe il simpatico Crozza, abbiamo accolto le notizie giunte da Roma (CNR), lo scorso 19 dicembre, a seguito del conferimento del Premio Nazionale di Divulgazione Scientifica 2014,

http://www.cnr.it/cnr/news/CnrNews?IDn=3132

Le opere presentate a questa edizione, inerente le pubblicazioni del biennio 2013-2014, sono state 525, per un totale di 677 autori. I libri erano 312 e gli articoli 213.

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Se a qualcuno dei vostri cari piace ricevere libri in regalo, potete ricorrere all’elenco dei 124 finalisti http://www.associazioneitalianadellibro.it/site/2014/11/01/premio-nazionale-di-divulgazione-scientifica-lelenco-dei-libri-in-finale/. La scelta è molto vasta e si può dire che interessi tutto ciò che di valido è stato pubblicato nel Bel Paese. La Giuria, composta da 170 personalità del panorama scientifico italiano ha avuto il suo bel daffare per scegliere i vincitori. Le soddisfazioni per i chimici cominciano dal primo classificato in assoluto.

Si tratta di Marco Malvaldi che insieme a Dino Leporini ha pubblicato da Laterza “Capra e calcoli. L’eterna lotta tra gli algoritmi e il caos”. Il chimico teorico Malvaldi, ormai passato alla letteratura e alla divulgazione, dopo un breve periodo da precario in Università, è così noto che non ha bisogno di presentazione. Se volete vederlo in azione

https://ilblogdellasci.wordpress.com/2014/05/07/narrare-la-chimica-rompere-lisolamento/

9788858111925

Al terzo posto si è piazzata Eleonora Polo con il libro “C’era una volta un polimero” (Apogeo) https://ilblogdellasci.wordpress.com/2014/03/24/polimeri-per-tutti/.

Polimeri_EleoPoloSono stati assegnati anche premi per area. Nell’area A, Scienze matematiche, fisiche e naturali ha vinto un altro chimico. Si tratta di Silvano Fuso che ha sbaragliato tutti con “Chimica quotidiana. Ventiquattro ore nella vita di un uomo qualunque” (Carrocci Editore).

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Meritano le nostre congratulazioni anche quelli già recensiti sul blog ma che, pur giunti in finale, non hanno vinto:

Luca Pardi “Il paese degli elefanti. Miti e realtà sulle riserve italiane di idrocarburi”, Lu:Ce edizioni;pardi1

https://ilblogdellasci.wordpress.com/2014/10/03/il-paese-degli-elefanti-recensione/

Piero Martin, Alessandra Viola, ” L’era dell’atomo. Energia, medicina, nanotecnologie“9788815253729 Ed. Il Mulino

https://ilblogdellasci.wordpress.com/2014/12/03/latomo-e-davvero-immenso/

Nell’area D, Scienze storiche:

Pietro Greco, Lelio Mazzarella, Guido Barone, Alfonso Maria Liquori “Il risveglio scientifico negli anni ’60 a Napoli“, Bibliopolis;

https://ilblogdellasci.wordpress.com/2013/11/28/alfonso-maria-liquori-il-risveglio-scientifico-a-napoli-negli-anni-60/

A loro si aggiungono:

Simona Galli, Massimo Moret, Pietro Roversi “Cristallografia: la visione a raggi x, Istituto Italiano di Cristallografia”, Zaccaria Editore;

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Vincenzo Villani, Luciano D’Alessio, Gaetano Giammarino “Verità e bellezza. La Chimica nell’Immagine”, Aracne editrice.

9788854874114

Nell’area B, Scienze biologiche, è giunto in finale:

Romualdo Caputo e Italo Giudicianni  “È buono per condire? e altre storie di alimentazione…”, Casa Editrice Idelson Gnocchi.

Per quanto riguarda gli articoli, vi suggerisco di consultare l’elenco da soli perché sono un po’ in imbarazzo. Qualche chimico, che magari conoscete di persona, c’è anche lì.

Dopo parecchi anni in cui le opere divulgative a carattere chimico, firmate da italiani, si contavano sulle dita di una mano, il panorama che emerge dal Premio di Divulgazione 2014 è assai confortante e ci fa sperare che nell’ambito chimico si cambi verso per davvero. Speriamo di continuare e, chissà, di migliorare ancora. Auguri a tutti.

Non era un chimico

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Giorgio Nebbia (nebbia@quipo.it)

Non era un chimico, anzi non era neanche laureato, eppure ha influenzato la chimica e l’ambiente come poche altre persone. Thomas Midgley era nato nel 1889 in una cittadina della Pennsylvania negli Stati Uniti, era per davvero; senza aspettare di laurearsi in ingegneria meccanica all’Università Cornell, si cercò un lavoro come disegnatore nel reparto invenzioni della società National Cash Register. Ci restò solo un anno e passò poi nell’officina del padre che si occupava di copertoni per automobili. L’impresa fallì e Midgley passò nel 1916 a lavorare in una società, la Dayton Engineering Laboratories Co., la Delco, che era stata fondata da un favoloso personaggio, Charles Kettering (1876-1958), per migliorare il sistema di accensione dei motori delle automobili.

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ThomasMIdgley 1889-1944

Kettering gli affidò il compito di perfezionare un motore a scoppio capace di generare elettricità per le case isolate nelle quali, per motivi di sicurezza, non si poteva usare benzina, troppo infiammabile; il motore avrebbe dovuto essere alimentato con cherosene, ma fino allora nei motori a scoppio alimentati a cherosene ogni tanto si verificavano delle reazioni esplosive che rovinavano i pistoni. Kettering affidò a Midgley il compito di eliminare l’inconveniente. Midgley pensò che forse l’aggiunta di un colore rosso al cherosene avrebbe facilitato l’assorbimento del calore della combustione e avrebbe reso più regolare la combustione delle gocce di carburante. La leggenda vuole che un sabato pomeriggio Midgley sia andato in laboratorio a cercare un colorante rosso; non ce n’erano, i negozi erano chiusi e l’unico colorante rosso disponibile era lo iodio che Midgley addizionò al cherosene scoprendo che aveva le proprietà antidetonanti cercate.

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Charles_F._Kettering, 1876-1958

Questo avveniva nel 1916 e per due anni — l’America era ormai entrata nella prima guerra mondiale — Midgley cercò senza tregua un antidetonante ancora migliore che era intanto richiesto per i carburanti usati nei motori a scoppio per aerei con elevato rapporto di compressione. Finalmente nel 1919 scoprì che l’anilina si comportava meglio dello iodio, ma non era ancora soddisfacente.

Per farla breve, dopo aver provato 35.000 sostanze Midgley scoprì che un composto metallorganico poco noto, il piombo tetraetile, aveva un potere antidetonante soddisfacente in concentrazione bassissima, anche di 0,25 grammi per litro di benzina. L’annuncio della scoperta fu data nel 1922, ma ben presto si vide che il suo uso dava luogo alla formazione di incrostazioni di ossido di piombo nel motore; l’inconveniente poteva essere eliminato aggiungendo al piombo tetraetile il dibromuro di etilene; durante la combustione si formava bromuro di piombo, volatile, che veniva eliminato all’esterno del motore, attraverso il tubo di scappamento, nell’aria — e nei polmoni delle persone che passavano per la strada.

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Intanto si vide che il processo di fabbricazione del piombo tetraetile era pericoloso; i primi morti per incidenti in fabbrica si ebbero già nel 1924 e 1925, ma soprattutto ben presto le autorità sanitarie misero in guardia sul pericolo di inquinamento dell’aria ad opera dei derivati del piombo. I produttori di benzina con piombo e di automobili lottarono duramente contro norme che limitassero o vietassero l’uso del piombo tetraetile nelle benzine; solo l’addizione del piombo tetraetile permetteva di mettere in commercio benzine con numero di ottano fra 90 e 100, quali erano richieste dai motori a scoppio sempre più compressi prodotti dall’industria automobilistica per poter offrire ai clienti automobili sempre “più brillanti” e veloci e con elevata “ripresa”.

Le benzine ad alto numero di ottano erano inoltre indispensabili per i motori da aereo, prima della diffusione della propulsione a reazione. Sta di fatto che per quasi mezzo secolo il piombo tetraetile è stato prodotto e usato in tutto il mondo e addizionato a decine di miliardi di litri di benzina. La protesta contro il crescente inquinamento atmosferico si è accompagnata ad una crescente attenzione per gli incidenti che si susseguivano nelle fabbriche di piombo tetraetile, per le perdite di composti di piombo nel suolo, eccetera. Alla storia della SLOI è stato dedicato un interessante post di Nicola Salvati: https://ilblogdellasci.wordpress.com/2013/02/04/le-zone-morte-1-la-sloi-di-trento-intervista-a-nicola-salvati/.

Per farla breve, a partire dagli anni sessanta sono state emanate norme nei singoli paesi per vietare l’addizione del piombo tetraetile alle benzine. Sulla crescita e il declino del piombo tetraetile il lettore curioso potrà leggere vari articoli di William Kovarik nel sito Internet http://www.radford.edu/wkovarik/papers/.

Ormai nella maggior parte dei paesi industriali l’uso del piombo tetraetile è stato abbandonato; come antidetonanti sono stati usati vari altri composti, dall’etere metilico butilico terziario, MTBE, al benzene, poi abbandonato per la sua tossicità, a composti aromatici meno tossici; le industrie automobilistiche hanno dovuto adattarsi a produrre autoveicoli con motori meno compressi e le raffinerie hanno dovuto immettere in commercio carburanti con minor numero di ottano.

Ma le invenzioni di Midgley non si erano fermate. Nel 1930 stava cominciando la diffusione di frigoriferi commerciali anche a livello domestico. Un giorno un funzionario della Frigidaire, una divisione della General Motors che produceva frigoriferi, portò a Midgley un messaggio di Kettering che lo invitata a scoprire un fluido frigorifero non infiammabile, non tossico, poco costoso, che potesse sostituire i fluidi frigoriferi usati allora, come anidride solforosa, cloruro di metile, ammoniaca.

Anche qui la leggenda racconta che Midgley e i suoi collaboratori, un giorno, dopo colazione, si misero a consultare le International Critical Tables, la bibbia delle proprietà di tutte le sostanze chimiche note; molti dati erano sbagliati, ma col buon senso e un po’ di fantasia Midgley ritenne che ideale avrebbe potuto essere una sostanza poco nota chiamata diclorofluorometano. Midgley riuscì a preparare alcuni grammi di questa sostanza per reazione fra il trifluoruro di antimonio e il tetracloruro di carbonio, e vide che era proprio il fluido frigorifero cercato.

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Il diclorofluorometano, battezzato CFC-21, fu il primo di una numerosa famiglia di idrocarburi contenenti cloro e fluoro che trovarono ben presto applicazione non solo come fluidi frigoriferi, ma anche come propellenti per spray, nella preparazione di resine espanse, come solventi, soprattutto per la nascente industria elettronica; altri idrocarburi alogenati contenenti anche bromo (halon) ebbero successo come fluidi per estintori di incendio.

Centinaia di migliaia di tonnellate di idrocarburi clorurati, fluorurati e bromurati sono stati usati nel corso di quarant’anni e sono finiti nell’atmosfera. Il bel sogno di Midgley ha cominciato ad offuscarsi nel 1974 dopo la pubblicazione di un articolo di Molina e Rowland (https://ilblogdellasci.wordpress.com/2013/09/20/ozono-facciamo-il-punto/) che misero in evidenza il rapporto fra l’immissione nell’atmosfera dei cloroflurocarburi e la diminuzione della concentrazione dell’ozono nella stratosfera, fra 15 e 30 mila metri di altezza. Dal momento che l’ozono stratosferico filtra la radiazione ultravioletta B proveniente dal Sole, dannosa per gli esseri viventi, la diminuzione della concentrazione dell’ozono rappresentava un potenziale danno ecologico. Poco dopo si è visto anche che i clorofluorocarburi si comportano come “gas serra” e contribuiscono a trattenere una parte della radiazione solare incidente dentro l’atmosfera che viene così lentamente riscaldata.

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Dopo lunghe discussioni si è arrivati ad un accordo, il “protocollo di Montreal” dell’autunno 1987, che ha deciso di vietare la produzione e l’uso dei clorofluorocarburi in quanto responsabili sia del cosiddetto “buco dell’ozono” sia del riscaldamento globale. Il divieto è stato rafforzato nel 1989 dalla conferenza di Helsinki. E così anche la seconda grande invenzione di Midgley si è tradotta in un insuccesso, dal punto di vista ecologico, il che non oscura l’ingegnosità dell’inventore. Senza contare che Midgley ha inventato molte altre cose, dalla prima benzina ad alto numero di ottano per aviazione, ad un aeroplano telecomandato, a vari perfezionamenti nel campo della gomma e della vulcanizzazione.

Midgley ebbe una morte prematura e tragica. Nel 1940 fu colpito dalla poliomielite che lo rese invalido; col suo solito spirito inventò un meccanismo di pulegge e cavi che poteva comandare da solo e che gli permetteva di alzarsi dal letto. Purtroppo proprio i cavi di questo sistema una sera si sono arrotolati intorno al suo collo e lo hanno strangolato. Era il 2 novembre 1944 e Midgley aveva solo 55 anni.

ENA, che vuol dire?

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Luigi Campanella, ex Presidente SCI

Recentemente la prestigiosa rivista Environmental Science & Policy ha pubblicato l’articolo scientifico “The contribution of food waste to global and European nitrogen pollution”, a firma di Ugo Pretato e di Bruna Grizzetti, Luis Lassaletta, Gilles Billen e Josette Garnier del Centre National de la Recherche Scientifique e della Université Pierre et Marie Curie di Parigi.

Lo studio individua nella domanda di cibo uno dei maggiori fattori d’immissione di azoto nell’ambiente, con impatti negativi sulla salute umana e sugli ecosistemi. Nonostante il costo economico e ambientale, la quantità di cibo sprecata è assai rilevante. Il lavoro degli autori quantifica la dispersione di azoto nell’ambiente dovuta allo spreco di cibo su scala europea e globale, e ne analizza il potenziale impatto ambientale lungo il ciclo di vita dei prodotti.

L’impronta d’azoto (nitrogen footprint) costituisce uno strumento utile e innovativo per fornire supporto alla decisione nel quadro delle politiche europee di riduzione del carico ambientale di azoto.

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Sulla stessa lunghezza d’onda l’Unione Europea ha introdotto l’ENA, sigla poco conosciuta, ma molto importante, che rappresenta la valutazione Europea sullo stato dell’azoto e quest’anno ha individuato nell’agricoltura anche finalizzata alle produzioni alimentari la maggior sorgente di perdite di azoto come ammoniaca, nitrato e nitrito. In particolare viene evidenziato il peso minore che le produzioni alimentari basate su piante hanno rispetto alle altre, rapporto circa 1: 4. E’ anche stata calcolata l’impronta azoto per singolo cittadino rilevando che al livello dei Paesi Europei c’è notevole disomogeneità con un fattore compreso fra 2 e 4 fra i valori più alti e quelli più bassi. Il consumo di proteine in Europa è circa del 70% superiore alle raccomandazioni dell’organizzazione Mondiale della Sanità, il che indirizza verso la necessità di diete meno proteiche. Anche per i grassi fra il dato reale e l’optimum si registra una differenza di circa il 40% suggerendo anche in questo caso adattamenti dietetici. Su questi aspetti in uno dei prossimi numeri di Chimica e Industria comparirà un articolo con dati assai più dettagliati, dai quali anche emerge che una riconsiderazione delle diete avrebbe come conseguenza virtuosa una riconsiderazione di come utilizzare il terreno coltivabile a favore di minori emissioni di azoto secondo quanto si diceva all’inizio con presumibile conseguenza anche sul piano sociale ed economico da un lato con attenzione alle produzioni più accessibili a tutti e dall’altro alle produzioni che vengono esportate con conseguente vantaggio per la bilancia dei pagamenti. Tali modifiche possono anche rispondere ad un criterio strettamente ambientale: riduzione dell’inquinamento, riduzione delle emissioni di gas serra e dei conseguenti cambiamenti climatici.

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Nell’aprile di quest’anno-in accordo con quanto sopra detto- è stato pubblicato dalla stessa Ue un Rapporto speciale che fornisce una valutazione di che cosa accadrebbe se l’ Europa decidesse di fare diminuire il suo consumo di carne e di prodotti lattier-caseario.Il rapporto mostra quanto ridurre carne e latte nelle nostre diete diminuirebbe l’inquinamento azotato nell’aria e nell’acqua,nonchè le emissioni di gas effetto serra, al tempo stesso liberando ampie aree di terreno coltivabile per altri scopi quali l’esportazione o la bioenergia.Nel rapporto viene anche considerata l’indennità malattia derivante dal consumo diminuito di carne.

Due stelle di Natale.

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di C. Della Volpe

Ad intervalli fissi la SCI assegna alcune medaglie ai chimici meritevoli; devo dire che con tutta la buona volontà ed i pur potenti mezzi del sito non è così semplice capire quante esattamente e a chi siano assegnate; comunque da una breve disamina e sperando di non sbagliare, quest’anno sono state assegnate 10 medaglie d’oro, di cui due a donne, Margherita Venturi e Elena Groppo; inoltre la divisione di Chimica Organica ha assegnato altri 7 fra premi e medaglie, di cui due a donne, Emanuela Licandro e Manuela Oliverio. Quindi in totale 4 su 17 riconoscimenti. E’ probabile che ce ne siano altri ma sinceramente non sono stato stato in grado di trovarli tutti.

E’ stato un anno in cui abbiamo ripetutamente parlato delle donne nel lavoro e nella ricerca, del soffitto di cristallo (1) e (2), della difficoltà per le donne di affermarsi nel mondo del lavoro; e così ci è sembrata una buona idea festeggiare queste quattro medaglie per le quali ci congratuliamo con tutte le vincitrici; ed in particolare per le due medaglie assegnate alle due colleghe più giovani, due ricercatrici (una a tempo intedeterminato ed una a tempo determinato ma di tipo B, come lei stessa più avanti ci racconta), come se fossero due stelle di Natale, ossia come il preavviso che qualcosa sia pur lentamente sta cambiando in meglio per le donne e ovviamente per tutti noi.

Entrambe, Manuela Oliverio di UniCz (medaglia Ciamician) e Elena Groppo di UniTo (medaglia Bertini) hanno accettato di rispondere a qualche domanda; vi proponiamo qui le loro risposte.

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Manuela Oliverio, medaglia Ciamician 2014

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Elena Groppo medaglia Bertini 2014

 

Intervista.

D:: Quale è stato il motivo del premio che hai ricevuto? puoi raccontarci il tuo argomento di ricerca’? quanto lo senti tuo e come pensi evolverà il tuo lavoro di ricerca? 

 

oliverioR::Ho ricevuto la Medaglia Ciamician per i giovani ricercatori della Divisione di Chimica Organica della SCI. Sulla pergamena si legge: “per aver contribuito ad implementare vie alternative e sostenibili di processi di uso comune nell’industria farmaceutica, in particolare, sviluppando trasformazioni veloci ed economicamente sostenibili, come la riduzione nella produzione di rifiuti e la minimizzazione del fabbisogno energetico”. La motivazione del premio è essa stessa un racconto della mia attività di ricerca, sostanzialmente volta alla ottimizzazione di processi chimici tradizionali attraverso vie catalitiche, energetiche e strategiche alternative, ecocompatibili e scalabili. Il mio interesse verso tematiche di green chemistry è stato da un lato una diretta conseguenza delle tematiche di ricerca affrontate nel gruppo presso cui ho svolto il periodo del dottorato, dall’altro una scelta consapevole conseguente alla frequentazione di una bellissima Scuola Dottorale organizzata dall’INCA che mi ha letteralmente folgorata. La chimica sostenibile non è soltanto una disciplina scientifica, ma anche una filosofia che si nutre di principi di equità economica e sociale, principi che mi appartengono come persona prima che come ricercatore. Se penso al mio lavoro di ricerca in futuro lo immagino volto alla interdisciplinarietà con ambiti attinenti alla fisica e all’ingegneria che consentano un domani anche l’applicabilità su scala industriale dei risultati delle mie ricerche.

EG_PhotoR:La medaglia d’oro Ivano Bertini, quest’anno alla sua prima edizione, viene conferita a giovani ricercatori (età inferiore ai 40 anni) che si siano distinti in un campo della chimica. La motivazione ufficiale del premio è la seguente: “Per la sua creativa e autonoma attività di ricerca di alto livello in un campo strategico sia per la ricerca fondamentale che industriale. Al confine tra catalisi e scienza delle superfici, la sua ricerca ha dimostrato sia il dominio di tecniche spettroscopiche avanzate sia ottime conoscenze nel campo della catalisi industriale”. In effetti la motivazione riassume perfettamente gli aspetti principali della mia attività di ricerca. Mi occupo in prevalenza di catalisi e catalizzatori eterogenei, ma con l’occhio del “caratterizzatore” (soprattutto mediante tecniche spettroscopiche) più che dell’”utilizzatore”. Per orientarsi in questo mondo, tanto affascinante quanto complesso, è assolutamente necessario riuscire a stabilire una costante sinergia con la realtà industriale, che è dove i catalizzatori trovano applicazione. È solo dalla realtà industriale che possono emergere le domande fondamentali per migliorare continuamente un catalizzatore, ed è attraverso uno scambio continuo di esperienze tra ricerca fondamentale di base e industriale che si possono trovare le risposte.

Mi sono formata sotto la guida di Adriano Zecchina, in un contesto culturale che mi ha garantito la possibilità di apprendere le basi delle principali tecniche spettroscopiche, e i fondamenti della catalisi eterogenea. Con gli anni penso di essere diventata progressivamente più autonoma, sia nella scelta degli argomenti di ricerca, che nel lavoro sperimentale. Ritengo di aver contribuito all’apertura di alcune linee di ricerca nel nostro gruppo. La prima riguarda lo studio spettroscopico di catalizzatori eterogenei di polimerizzazione (quelli per fare le plastiche, per intenderci): pur continuando gli studi sul catalizzatore Phillips, che costituivano la tradizione nel gruppo, sono riuscita ad ampliare gli orizzonti, spostandomi dapprima sul catalizzatore Union Carbide e poi più recentemente iniziando ad investigare gli ancora più complessi catalizzatori Ziegler-Natta, nella convinzione che i problemi e le domande aperte siano fondamentalmente gli stessi per le tre categorie di sistemi catalitici, e quindi possano e debbano essere affrontati con gli stessi metodi. La seconda linea di ricerca che ritengo di avere aperto riguarda lo studio di particelle metalliche su diversi supporti, in particolare di natura polimerica, come catalizzatori per reazioni di idrogenazione e ossidazione. Nell’affrontare questi ed altre tematiche mi sono scontrata con molteplici difficoltà sperimentali, che mi hanno portato a contribuire allo sviluppo di set-up sperimentali per lo studio di sistemi catalitici via via più complessi, anche e soprattutto in condizione di reazione.

I risultati raggiunti in tutti questi campi sono il frutto del lavoro in collaborazione con molti colleghi qui a Torino o in giro per il mondo, più giovani e meno giovani, a cui devo molto. Mi auguro che quanto iniziato possa trovare un proseguo, pur nelle difficoltà sempre crescenti di reperire fondi per sostenere la ricerca di base.

D: come hai maturato e quando la decisione di studiare chimica? che problemi o che aiuti hai avuto lungo il tragitto di studio? la tua famiglia ha cercato di dissuaderti? gli amici e le amiche come ti vedono? insegnanti che ti abbiamo motivato?o sconcertato? è stata dura?

EG_PhotoR::In realtà non ho studiato Chimica, ma l’allora appena nata Scienza dei Materiali. Mi sono laureata nel 2002, tra i primi laureati in Scienza dei Materiali a Torino. È una scelta di cui sono sempre stata fiera e ancora oggi resto una convinta sostenitrice del Corso di Laurea in Scienza dei Materiali, che ritengo offrire competenze a cavallo tra la Chimica e la Fisica, e mezzi per comunicare tra i Chimici e i Fisici. Non ho mai avuto grossi problemi durante il tragitto di studio, mi è sempre piaciuto quello che facevo e ho trovato lungo la strada amici e colleghi con cui ho condiviso il percorso e che lo hanno reso leggero e stimolante. Ho avuto la fortuna di avere ottimi insegnanti, alcuni dei quali sono stati in grado di trasmettermi la passione per le propria disciplina. La mia famiglia ha sempre sostenuto la mia scelta, standomi vicino con molta discrezione. Gli amici… bhè, è innegabile che quelli esterni all’ambiente scientifico guardino i miei interessi con un po’ di stranezza, talvolta con un briciolo di curiosità.

oliverioR:Ho deciso di voler diventare un chimico da ragazzina, dopo aver visto il film “L’olio di Lorenzo”; a far da sfondo alla storia c’era la figura di un anziano chimico sulle soglie della pensione che, opponendosi alla decisione della sua casa farmaceutica di sintetizzare il farmaco che avrebbe potuto guarire il protagonista dalla malattia rara che lo aveva reso un vegetale, afferma: “se questa molecola dovesse funzionare anche solo con Lorenzo potrei dire che il lavoro di una vita non sarà stato invano”. La mia decisione è vacillata al momento della scelta definitiva solo per un istante perché allo stesso modo mi piaceva il teatro e avrei voluto iscrivermi all’Accademia d’arte drammatica. A questo punto la reazione di mio padre fu decisiva, mi disse che trovava chimica una ottima idea. Per contro mia madre con la stessa decisione mi disse che era troppo dura e non ci sarei mai riuscita. Devo il fatto di essermi laureata ad entrambi i miei genitori perché devo riconoscere che avevano ragione: è stata una ottima idea ma decisamente un percorso duro e più d’una volta non ho mollato perché non avrei sopportato il “te lo avevo detto” di mia madre che, per inciso, è orgogliosissima che non l’abbia ascoltata. La reazione all’esterno della famiglia al sentire la mia professione è piuttosto di ammirazione inconsapevole e stupita, il più delle volte ci si sente rispondere che la chimica era la materia più incomprensibile a scuola. A parte questo però la mia vita all’esterno del laboratorio è talmente varia – continuo col teatro ancora adesso – che conoscenti ed amici finiscono per dimenticare presto lo stupore iniziale.

D:: l’ingresso nell’università: come è avvenuto? hai incontrato problemi particolari collegabili al tuo essere una donna? hai avuto altre esperienze lavorative? il dottorato è stato impegnativo?

oliverioR::Il mio ingresso nell’Università è stato un vero colpo di fortuna, se penso a quanti amici e colleghi, che hanno fatto lo stesso percorso, sono oggi ancora in una dimensione di precarietà, sono costretti a cambiare stato e città ogni anno o due o, nei casi più sfortunati, hanno dovuto loro malgrado cambiare mestiere. Non posso dire in onestà di aver incontrato mai troppe reticenze per il fatto di essere donna; piuttosto le ho incontrate per il fatto di essere giovane che nell’Università italiana, e nell’Italia tutta, spesso significa essere inesperto e quindi sciocco, privo di senso critico e capacità decisionale. Mi è toccato dimostrare sempre di essere all’altezza dei compiti che mi venivano affidati quanto e a volte più di colleghi più anziani, dentro e fuori l’Università. Ricordo il preside di una scuola dove mi capitava di collaborare durante il Dottorato di ricerca senza borsa, altra vergogna tutta italiana, che proprio non ci riusciva a darmi del lei o a non trattarmi come una degli studenti della sua scuola. D’altro canto però ho avuto la fortuna di aver incontrato un tutor di dottorato, il Prof. Antonio Procopio, col quale oramai costituiamo una squadra, che non mi ha mai negato un confronto alla pari su qualunque questione professionale.

EG_PhotoR::L’inizio dell’Università è stato per me il proseguimento naturale della scuola superiore. Ricordo, anzi, che il primo semestre mi era parso estremamente leggero, a confronto con l’ultimo anno di Liceo e le ore sui libri prima della maturità. Dopo la Laurea ho proseguito il percorso in Università, senza mai interruzioni. Prima il Dottorato (questa volta in Scienze Chimiche), poi un periodo di assegni di ricerca, contratti da tecnico amministrativo e svariate borse di studio… insomma, il percorso di tutti i “ragazzi” della mia generazione, che sembrano destinati a un’epurazione dopo la Legge Gelmini, nonostante ormai più di dieci anni di esperienza nel settore della ricerca.

Il Dottorato è stato forse, dal punto di vista scientifico, il momento più bello e costruttivo della mia vita da ricercatrice… solo che allora non me ne rendevo conto. È stato solo dopo, quando la possibilità di fare esperimenti tutti i giorni per dimostrare una teoria è via via diminuito, che ho iniziato ad accorgermi di quanto fossi libera scientificamente durante i tre anni di Dottorato. Per questo devo dire grazie al Professor Zecchina, che non ha mai smesso di incoraggiarmi a sviluppare fantasia e senso critico.

Problemi per il fatto di essere donna? Solo quando devo spostare bombole pesanti e devo chiudere raccordi con chiavi inglesi… ma qui forse sono le mie dimensioni fisiche extra-small a penalizzarmi…

D:: quali prospettive di vita e di lavoro hai adesso? 

EG_PhotoR::Speranze e prospettive di vita… spero molte! Di lavoro… da maggio ho un contratto da ricercatore a tempo determinato RTDB, uno di quelli “buoni”, che porteranno (si spera) all’associatura. Dunque, penso di avere ottime prospettive di lavoro. Sono stata fortunata.

oliverioR::Qualche anno fa, grazie all’assunzione all’Università, sono riuscita ad accendere un mutuo e ad acquistare casa, ad arredarla e a conquistare una autonomia di vita che per molti miei coetanei è ancora un miraggio. Il mio obbiettivo futuro è quello di riuscire a ritagliarmi uno spazio di autonomia anche sul lavoro, di accedere a finanziamenti della ricerca che mi consentano di approfondire alcuni aspetti che mi stanno a cuore, di instaurare collaborazioni fruttuose con altri Istituti di ricerca. Per il momento aspetto lo sblocco della prossima tornata di abilitazioni e aspetto di vedere dove mi porterà il mio prossimo futuro. Fortunatamente ho un compagno che condivide con me la scelta di fare ricerca, la disponibilità alla mobilità ed a variazioni di rotta spesso necessarie in questo lavoro.

D:: cosa consiglieresti ad altri giovani in particolare donne che volessero scegliere una laurea scientifica?

oliverioR::…..intende in questa Italia dove la massima aspirazione è la Scuola di Amici di Maria de Filippi? Consiglio assolutamente di seguire le proprie inclinazioni e perseguire la qualità della propria preparazione. Per quanto le soddisfazioni siano magre e poche, quando sono conquistate per merito, la soddisfazione ripaga di ogni sacrificio. Alle donne dico di prepararsi ad una dura competizione. Le regole del mondo della ricerca sono state scritte da uomini e, nel nostro paese in particolare, si fa fatica a mettere le donne nelle condizioni di poter competere alla pari: sapeva ad esempio che in Italia hanno diritto al congedo parentale solo i padri di figli che non hanno madri lavoratrici perché il periodo di paternità non è cumulabile alla maternità? Le donne del nostro paese devono a maggior ragione non lasciarsi scoraggiare, studiare, proporre e raggiungere ruoli ove queste proposte possano essere ascoltate e possano migliorare per tutte l’accessibilità alle professioni.

EG_PhotoR::Consiglio loro di seguire i loro sogni e di non stare troppo a pensare alle prospettive di lavoro e di non lasciarsi influenzare dal pensare comune (una laurea scientifica è difficile). Le prospettive di lavoro non si possono conoscere a priori (e comunque nel settore ce ne sono) e poi è incredibilmente più difficile studiare qualcosa per cui non si ha interesse o non si è portati. Niente può sostituire la soddisfazione e il piacere di impegnarsi per qualcosa a cui si crede.

D:: C’è qualcosa altro  in particolare che vorresti dire su questa pagina pubblica ai nostri lettori?

EG_PhotoR::Buone feste e… Viva la Chimica in tutte le sue sfaccettature!

oliverioR::Mi è già stata data una occasione unica di dire una quantità enorme di cose che avrei voluto dire. Mi limiterò ad augurare ai lettori del blog un 2015 ricco di soddisfazioni, di studio e di idee, fino a quando le buone idee non mancheranno non ci sarà da disperare.

 per approfondire:

TETRAHEDRON LETTERS, Volume:49 Issue:14 Pages:2289-2293 DOI:10.1016/j.tetlet.2008.02.010 Published:MAR 31 2008

CHEMICAL REVIEWS  Volume: 105   Issue: 1   Pages: 115-183   Published: JAN 2005

La Chimica e l’Industria pubblicherà in uno dei prossimi numeri un testo corrispondente alla Lecture di Elena Groppo.

Eternit e Bussi: diritto e giustizia sono cose diverse.

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Claudio Della Volpe

“La prescrizione non risponde a esigenze di giustizia ma ci sono momenti in cui diritto e giustizia vanno da parti opposte”. Il sostituto procuratore della Cassazione Francesco Iacoviello usa queste parole davanti ai giudizi della Cassazione che dovranno emettere l’ultimo verdetto sul processo Eternit: oltre 2000 persone uccise dall’amianto “respirato” in quattro fabbriche. “Per me l’imputato è responsabile di tutte le condotte che gli sono state ascritte” sottolinea il magistrato, il problema è “che il giudice tra diritto e giustizia deve sempre scegliere il diritto”. Ed è per questo che la pubblica accusa chiede di dichiarare prescritto il reato di disastro ambientale doloso di conseguenza, di annullare la condanna a 18 anni di carcere per l’unico imputato, il magnate svizzero Stephan Schmidheiny.Il Fatto Quotidiano 19 nov 2014:

index

Ci sono cose che risultano legali ma ingiuste; e questa differenza fra legalità e ingiustizia ci indigna come cittadini prima di tutto; ma come chimici dobbiamo anche occuparci di tutto ciò che ha reso la nostra disciplina una parolaccia, un aggettivo negativo; spesso ce lo chiediamo; bene negli ultimi giorni ci sono stati due episodi che si assomigliano tantissimo e che ci hanno fatto fremere, imbarazzare, indignare, sia come cittadini che come chimici e che contribuiscono alla nostra fama di chimici avvelenatori, di ribaldi, di intellettuali senza scrupoli morali.

Il caso Eternit e il caso Bussi sul Tirino: due episodi di inquinamento ambientale, generati dalle attività pluridecennali di grandi aziende chimiche, con sequela di morti, con distruzione del territorio, inquinamento ambientale, con discariche a cielo aperto non eliminate, con responsabili che sono legalmente irresponsabili e in libertà; con la Chimica stampata sulla carta come la responsabile di qualcosa che è invece responsabilità dell’avidità e del profitto. E per non essere corresponsabili come Chimici dobbiamo per forza non solo raccontarne brevemente la storia, le storie, ma dire a gran voce, gridare: mai più, da subito a partire da quello che di analogo succede oggi. Già ma come fare?

Il caso Eternit è legato alle attività di produzione del cemento amianto, un materiale contenente l’amianto che è un silicato naturale le cui fibre se respirate possono dare luogo anche a distanza di anni ad uno specifico tipo di tumore.

La conoscenza di questo problema è antica, molto più delle attività della ditta in Italia; la ditta di proprietà del miliardario svizzero Schmidheiny.

E’ grave anzi gravissimo notare che tale personaggio abbia potuto seppure in passato svolgere ruoli ufficiali nell’ONU ed in altre organizzazioni internazionali che si occupavano di ambiente, un ridicolo ed insopportabile tentativo di greenwashing.

In altri paesi (Inghilterra (1930) e Germania (1943)*) le leggi hanno seppur parzialmente riconosciuto i danni potenziali dell’amianto ben prima del suo riconoscimento scientifico internazionale. Questo è avvenuto solo nel 1989 con 25 anni di ritardo sulla pubblicazione del lavoro fondamentale di Irving Selikoff (Annals of the New York Academy of Sciences Volume 132 ( 1965)) il quale nonostante i violenti attacchi dell’industria dell’amianto degli USA (http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/18184623) iniziò e portò a termine un fondamentale lavoro su decine di migliaia di lavoratori ammalati.

Irving-Selikoff

Quando dunque le fabbriche italiane furono costruite o entrarono in funzione la conoscenza del problema medico era mondiale e i produttori e i tecnici non possono dire non lo sapevo. L’Italia riconobbe il problema solo nel 1992 vietando la produzione ma non la vendita del prodotto.

E’ a causa di questo enorme ritardo dovuto anche alla lobby dell’amianto che ha lavorato come quelle del tabacco (o oggi quella dei fossili, del carbone e del petrolio o del gas)  con grande efficacia per difendere i profitti che le corti di giustizia che difendono il diritto prima della giustizia oggi non riescono a condannare i responsabili. Ritardo dovuto anche alla pochezza di una classe dirigente che è “pittata” con efficacia nel film La ricotta di Pierpaolo Pasolini (https://www.youtube.com/watch?v=SDVZT0EWQuY). Dice Orson Welles, intervistato in quel film del 1963 e che interpreta il regista del film immaginario raccontato da Pasolini: La società italiana? Il popolo più analfabeta. La borghesia più ignorante d’Europa.

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Nel film (http://www.pasolini.net/cinema_ricotta.htm) l’interprete del buon ladrone, Stracci muore di indigestione dopo essersi strafocato di ricotta, cercando di recuperare la sua atavica fame di poveraccio. Stracci rappresenta in modo lucido il popolo di poveracci, sottoproletari storicamente affamati e che in quel periodo di boom accettarono le produzioni più inquinanti del mondo pur di lavorare ed uscire dall’angolo della povertà e dell’emigrazione con la dignità del lavoro, come oggi fanno miliardi di uomini e donne del terzo mondo. Oggi noi siamo tutti i discendenti “morali” di Stracci e ne paghiamo le conseguenze, qui come a Bhopal.

L’INAIL che si era costituito parte civile nel processo Eternit sperava di recuperare qualcuno delle centinaia di milioni di euro (280 milioni) che il nostro paese ha pagato per le vittime dell’amianto alle famiglie degli uccisi. Un danno quindi che è fatto a tutti noi, almeno ai nostri interessi se non alla nostra anima o al nostro corpo.

Situazione analoga per Bussi, la cui storia abbiamo raccontato (per la penna di Giorgio Nebbia, http://wp.me/p2TDDv-kN).

Una discarica segreta di sostanze di sintesi molto varie costituita dalla Montedison, scoperta nel 2007 dalla guardia forestale, un inquinamento che ha contribuito ad intossicare l’acqua che dava da bere a 700.000 persone, ma nonostante questo la giuria ha derubricato a colposa la cosa e quindi ha prescritto la non procedibilità per avvenuta prescrizione del reato colposo. Ma come fa ad essere colposo un reato, degli atti dei quali i responsabili, 19 fra tecnici e dirigenti Montedison, potevano dire in modo documentato “non ci conviene intervenire”?

Il PM ha mostrato i documenti del 1993 quando una società esterna segnalò a Montedison la grave situazione di inquinamento, sottolineando che le attività erano inadeguate e proponendo investimenti sia per il risanamento che per lo studio degli effetti sulla salute. E su un appunto sequestrato, riconducibile ai vertici Montedison, rispetto allo studio e con riferimento alle vecchie discariche c’è scritto “non ci conviene”. Secondo quanto emerso e riferito dal pm, lo studio fu consegnato ad uno degli amministratori della società, oggi imputato, ma Montedison decise di non seguire le indicazioni e di fare internamente «noi», come si legge sull’appunto sequestrato. Gli investimenti ambientali da parte di Edison – avrebbe evidenziato il pm – furono ridotti da 36 miliardi di lire del 1991 a sei miliardi del 1994, ovvero un sesto.

(http://ilcentro.gelocal.it/pescara/cronaca/2014/12/19/news/discarica-dei-veleni-a-bussi-tutti-assolti-1.10527800)

Difesi anche dall’ex-ministro della Giustizia (ma sarebbe il caso di cambiare il nome del Ministero) Paola Severino i 19 se la son cavata; per il momento. Sostenendo che fra il 63 e il 71 le leggi non proteggevano l’ambiente dal fenomeno delle discariche e quindi la discarica non era abusiva.

Gli inquinati abruzzesi e le famiglie dei morti dell’amianto non demordono; e nemmeno noi. D’altronde perfino il Governo per bocca del ministro Galletti, il Ministro dell’Ambiente,  ha promesso di fare ricorso contro la sentenza Bussi
(http://www.tgcom24.mediaset.it/cronaca/abruzzo/bussi-galletti-faremo-ricorso-_2085544-201402a.shtml); vedremo.

In una lettera personale Giorgio Nebbia che voi tutti conoscete mi scriveva qualche tempo fa :

hai ragione Claudio a dire che dovremmo commentare perché la sentenza del processo Eternit riguarda aspetti anche chimici e tecnico-scientifici. Purtroppo, a quanto pare, la prescrizione è stabilita dalle norme del codice penale, modificate nel 1975 e nel 2005. Purtroppo non so leggere delle norme che contengono continui riferimenti aarticoli di altre leggi. Secondo me, le modifiche al codice penale sono state fatte senza tenere conto di fatti tecnico-scientifici, come quello che certe esposizioni sul posto di lavoro e della popolazione a certi agenti manifestano i danni dopo un periodo di induzione che può durare molti anni (anche idrocarburi e ammine aromatici, forse anche coloranti per capelli).

La responsabilità sta quindi nel fatto che l‘inquinatore non ha tenuto conto che i processi e i prodotti hanno effetti nocivi lontani nel tempo, anche dopo anni, sulla base di conoscenze scientifiche note ai tempi in cui ha svolto la produzione. Se uno guadagna soldi producendo certi prodotti deve anche essere informato sulle conseguenze e deve essere punito, anche a molti anni di distanza, se non ne tiene conto. Questo credo che valga anche per l’esposizione a un eccessivo numero di radiografie mediche.

Occorrerebbe un controllo tecnico-scientifico nel processo di scrittura delle leggi. Chi sa quanti altri casi esistono. Le stesse statistiche dei “morti sul lavoro” (o anche morti per incidenti stradali) non tengono conto che si può morire mesi o anni dopo l’incidente, nel qual caso la morte viene contabilizzata per altre cause.

Un appello dei chimici ? Ci vorrebbe qualcuno che sappia leggere le norme del codice penale per suggerire di togliere quelle che riguardano la prescrizione per reati che manifestano i loro effetti lontano nel tempo.

Il governo Renzi e il Parlamento sanno adesso cosa fare. E se non fanno nulla saranno corresponsabili. Noi da parte nostra dobbiamo esser vigili nei luoghi dove viviamo e lavoriamo ed alzare alta la nostra voce contro tutti gli abusi che in nome del PIL ma contro le leggi della Chimica e del buonsenso vengono perpetrati ai danni delle persone e l’ambiente.

per approfondire:

Annals of the New York Academy of Sciences Volume 132 ( 1965).

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/18184623

New Solut. 2007;17(4):293-310. doi: 10.2190/NS.17.4.f.

Science is not sufficient: Irving J. Selikoff and the asbestos tragedy.

*interessante articolo sulla medicina nazista

http://archive.adl.org/braun/dim_14_1_nazi_med.html#.VJawF0AID9A

Indagini su un manoscritto alchemico

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Antonio Seccia* (antonio@ilcassero.it) e Andrea Turchi (andreaturchi@hotmail.com)

Premessa

Il manoscritto che abbiamo iniziato ad analizzare proviene da una collezione privata. Il suo proprietario, Enrico Jermini, ce lo ha sottoposto al fine di individuarne datazione, provenienza, rilevanza del contenuto. Jermini ci ha riferito che il testo appartiene alla biblioteca della sua famiglia da molto tempo ma non è in grado di indicare il momento in cui fu acquisito. I suoi antenati, provenienti dal Canton Ticino, migrarono alla corte dei Medici di Firenze nel Quattro-Cinquecento, tramandandosi incarichi notarili (o comunque nel notabilato legale). Dopo l’unificazione, alcuni di essi intrapresero la carriera giudiziaria come procuratori del Re e tutti furono fortemente legati alla massoneria

Sin da una prima sommaria analisi, l’oggetto è risultato molto avvincente: 740 pagine in buona carta vergatina di stracci fatta a mano, priva di marchi in filigrana, che già porta indietro di almeno due secoli. Il contenuto è altrettanto interessante: si tratta di una compilazione di ricette alchemiche, variamente commentate.

Struttura del volume

Il volume misura 16 cm di base per 22 di altezza e 5,3 di dorso. Ha una coperta in pergamena cronologicamente congrua con la compagine del testo, ma non originale. Il libro è infatti stato restaurato in epoca non recente, presumibilmente nel XIX secolo, applicandovi la copertina recuperata da un’opera antica. Procedimento, questo, assolutamente censurabile, pur in considerazione dei mutevoli criteri metodologici del restauro. Restauro qui eseguito, peraltro, in modo particolarmente infelice per il verosimile duplice danno documentale: al libro donatore, forse improvvidamente distrutto privandolo del suo adeguato rivestimento, ma soprattutto al prezioso manoscritto ricevente, il quale, per essere adattato alle più ridotte dimensioni dei piatti, è stato rifilato al piede, alla testa e in parte anche anteriormente, mutilando talvolta il testo, le note a margine e la numerazione delle pagine. L’imbrunimento e la consunzione della prima pagina del testo, che reca il numero 13, testimonia che al momento del restauro il volume era già privo di copertura, del frontespizio e delle prime 12 pagine; nessuna traccia, pertanto, del titolo e della data. Sul dorso dell’attuale coperta è stato scritto a mano «Chimica».

Dorso

La cucitura originale, ancora solida, è conservata ed è costituita da spago di canapa passato a punto indietro su tre nervi di pelle, che dovevano marcare a rilievo il dorso della coperta della prima rilegatura e i cui prolungamenti erano sicuramente incartonati nei piatti. Questa tipologia di legatura è compatibile con una datazione anteriore all’anno 1700. Il restauro non ha quindi comportato la scucitura dei fascicoli e i nervi sono stati mantenuti ma tagliati a filo dei bordi del dorsetto. Il collegamento con la nuova copertina, il cui dorso non presenta più le nervature in rilievo, è avvenuto mediante una cucitura che penetra all’interno di alcuni fascicoli e poi va ad avvolgersi, formando dei capitelli, su due nervetti di pergamena impunturati nelle cerniere dei piatti, in prossimità delle cuffie del dorso.

Il manoscritto presenta comunque tracce di aggressione da parte di insetti parassiti della carta, per cui sarà opportuno sottoporlo a bonifica in atmosfera anossica.

La composizione del volume

La compagine del testo è composta da 16 fascicoli aventi ciascuno un numero di fogli variabile da 9 a 12 (da 36 a 48 pagine). Come accennato, le prime 12 pagine sono mancanti. Inoltre risultano mancanti anche le pp. 661-668 e 727-736. La pagina 669 è tagliata vicino alla rilegatura. Risultano bianche le pagine da 709 a 712 e da 717a 740. La p. 708 riporta solo il titolo. Tra p. 708 e p. 709 è interpolata un’ulteriore pagina, che sembra appartenere al testo originale.

In fondo al volume compare una sorta di indice analitico, di cui rimangono solo le prime 6 pagine non numerate (fino alla lettera R). Sull’ultima pagina compare un lacerto di indice, diverso dal precedente, di sole 4 righe. Tra la terzultima e la penultima pagina compare un cartiglio volante di piccole dimensioni e di grafia diversa da quella del testo[1].

Gli inchiostri

In tutte le pagine del testo sono compresenti l’inchiostro nero ferrogallico e l’inchiostro rosso da legno brasile; quest’ultimo usato per i titoli, i richiami, le annotazioni, la numerazione delle pagine. In realtà, per il primo centinaio di pagine circa, la numerazione (sull’angolo alto esterno delle pagine) è apposta in nero, ma è una evidente (e deprecabile anche questa) giustapposizione effettuata dal “restauratore” che ha tagliato via la numerazione autentica.

L’inchiostro nero non è tutto della stessa composizione: mentre in molte pagine esso appare virato in bruno per effetto ossidativo e trapassa il foglio macchiandone il lato opposto, in altre compare più stabilizzato e nitido. Da rilevare il frequente uso di tempera bianca coprente per le correzioni, spesso soprascritta.

La scrittura è abbastanza leggibile, il linguaggio è arcaico, ricco di simbolismi grafici. Talune pagine, scritte con una grafia attribuibile ad altra mano e di più ardua lettura, con titoli e richiami in inchiostro nero anziché rosso, sembrano addizioni postume, ma l’omogeneità tipologica della carta in tutto il volume e la mancanza di fogli aggiunti alla legatura originale escluderebbero rimaneggiamenti redazionali in forte distanza temporale.

Struttura del testo

Come accennato, il titolo apposto sul dorso del volume recita «Chimica», scritto a mano. Tale titolo risulta incongruo rispetto al contenuto schiettamente alchemico e si può giustificare con l’ipotesi che sia stato inserito all’epoca del restauro. La datazione da noi proposta, che colloca il restauro nel corso del XIX secolo, è coerente con questa ipotesi: in quel periodo, il termine alchimia era diventato scientificamente desueto e l’anonimo restauratore ha creduto bene di etichettare l’opera con un più moderno «chimica», designante una scienza che aveva da almeno un secolo acquistato lo statuto di disciplina autonoma.

Il testo riporta ricette da varie fonti, seguite da annotazioni, aggiunte, considerazioni dell’autore, spesso molto estese. A volte le note sono puntuali, e in quel caso richiamate con lettere maiuscole in rosso sopra il testo e trattate alla fine della ricetta. Molte ricette sono indicate con numerazione romana: non è chiaro se si tratti di una numerazione interna o riportata dai testi da cui sono state desunte [2].

Gli argomenti trattati, il lessico e i riferimenti dotti sono quelli dell’alchimia rinascimentale, ossia dell’alchimia tarda, all’epoca frequentata non più solo da studiosi e adepti ma anche da dilettanti, uomini di cultura, aristocratici, suggestionati dalle possibilità demiurgiche di questa scienza esoterica. Il testo fa riferimento a un’alchimia pratica, ma nel contesto del consueto paradigma trasmutativo, con riferimenti impliciti ed espliciti alla Grande Opera e alla Pietra filosofale.

Molte ricette trattano della trasmutazione dei metalli (si noti però che la parola ‘trasmutazione’ non è usata nel testo, almeno per quanto finora analizzato): dal mercurio all’argento, dall’antimonio al mercurio, dal mercurio all’oro. Il mercurio svolge il ruolo centrale consueto nei ricettari alchemici del periodo, che risentono dell’opera di Paracelso[3]. Altre ricette trattano della preparazione di prodotti tipici del reagentario alchemico: olio di tartaro, acqua forte, mercurio, tinture minerali, ecc.

Parte delle ricette sono dedicate a preparati medicinali. Per esempio, a p. 477, sotto il titolo «Medicina quarta di [nda, simbolo alchemico dell’oro] e Antimonio», viene sotto riportato (carattere rosso). «Dal quale potrai valerti alle catarate, alla lepra, et al mal caduco». Da notare che tali ricette si avvalgono quasi sempre di sostanze minerali e non vegetali, secondo l’impostazione spagirica di Paracelso[4].

L’ultima parte del manoscritto (da p. 679) è dedicata al modo di fabbricare le perle artificiali, preparazione consueta nella farmacopea medievale e rinascimentale, e le cui ricette sono presenti nel celebre papiro di Leida e quindi risalenti al periodo dell’alchimia alessandrina.

All’interno del contesto pratico-sperimentale non mancano riflessioni morali e religiose di ambito cattolico. La commistione con la religione non era infrequente nella tarda alchimia europea, medievale e rinascimentale, che innestò il pensiero cristiano nella cultura esoterica e spiritualistica dell’alchimia araba e alessandrina.

pag.15

L’autore

Il testo non è firmato. La sigla D.G.Z., associata alle considerazioni sulle ricette, è ripetuta più volte. A p. 464 viene riportato a titolo «Considerationi di D. Gir.mo Zini», che corrisponde alla sigla. Ancora più avanti (p. 675) compare un titolo «Discorso di D. Girolamo»: il testo che segue riporta il discorso in prima persona. Nelle nostre ricerche preliminari, basate sulla datazione e sulla presumibile collocazione territoriale del manoscritto (vedi oltre), abbiamo trovato traccia di un tal Girolamo Zini (Hieronimo Zino), monaco benedettino, ma l’attribuzione è da considerarsi incerta[5].

Nelle pagine più alte compare la sigla D.G.D (p. 604) che si alterna a quella D.G.Z. Difficile dire se si tratta di due autori diversi: la grafia è molto simile ma l’inchiostro usato sembra differente.

Nel testo compaiono altre sigle. Per es. nel titolo a p. 695 «Terzo modo di far perle chiamate perle capuzzine da D.V. inn una l’ra scritta a D.A.B.». La prima lettera D che compare in tutte le sigle potrebbe derivare da “Dom”, appellativo dei monaci benedettini. Questo costituirebbe ulteriore prova indiziaria dell’attribuzione del manoscritto a Dom Girolamo Zini.

L’autore mostra di essere uomo di buone conoscenze classiche, come evidenzia, per esempio, la citazione di Avicenna (p. 361). Le comunicazioni epistolari presenti nel manoscritto mostrano inoltre uno spirito aperto e libero: l’autore aveva relazioni con altri studiosi anche molto distanti, come mostra la citazione dello scambio epistolare con l’ambiente della reggia di Danimarca. Si noti che il regno di Danimarca era protestante fin dalla metà del XVI secolo e, se la collocazione monastica fosse confermata, sarebbe interessante indagare sui rapporti avvenuti tra ambienti culturali divisi al tempo da forti polemiche teologiche e reciproci anatemi.

Lo scritto mostra che l’autore era probabilmente un abile sperimentatore, dotato di senso critico: le sue annotazioni sono molto precise, così come le sue indicazioni sperimentali e le critiche alle ricette trascritte. Talvolta la rubrica (le annotazioni in colore rosso) prevale nettamente sulla fonte citata in termini di approfondimento e di lunghezza del testo.

Lo stile e la grafia

L’autore conosceva bene l’arte della copiatura e lo stile amanuense (capilettera in colore, abbreviazioni, riporto dell’incipit di pagina seguente nella pagina precedente) nota da secoli tra i monaci benedettini. In particolare, il riporto dell’incipit a piè di pagina pari (quindi con la pagina dispari a fronte), del tutto superfluo per una lettura a libro aperto, sembrerebbe suggerire che il testo è stato compilato su fogli volanti e solo in seguito rilegato.

pag.14

Non è chiaro se la grafia sia di un unico autore, anche se da questo punto di vista il manoscritto presenta una unità stilistica considerevole. Tuttavia, l’utilizzo di maniere calligrafiche standardizzate condivise, quali quelle di un ambiente monastico, potrebbe giustificare la mancanza di diversificazione delle grafie. A volte la grafia si presenta più fine, soprattutto nelle ultime pagine (da p. 712), ma questo può dipendere dall’inchiostro e dalla penna usati.

  • L’ambiente di riferimento

Diversi riferimenti ad abazie e parrocchie confermerebbero che la stesura del manoscritto sia avvenuta in un ambiente monastico o chiesastico. Per esempio, a p. 464 si legge: «Fissation di dal prete da Zano provata». Ancora, nella rubrica a p. 659 :«Questa l’ebbi dalli heredi del frate di S. Francesco che faceva questa Medicina scritta di sua propria mano». Né mancano formule e preghiere quali «adsit cogitato virga beata meo» (p. 78).

Alcuni riferimenti farebbero ritenere che lo scritto sia stato compilato in un luogo non identificato del vicentino. A p. 220, per esempio, è riportato: «La prima manera fu data al sig. Gregorio Valenti dottore legista vicentino da fra’ Gregorio Zoccolanti infirmi ero nel monastero di S. Biagio di Vicenza, il quale ne nota la …avendone veduto il mercurio (come dice nel fine) quando si ruppe la bolla». Nella pagina precedente l’autore riferisce di una sua visita il 20 giugno 1593 proprio a fra’ Gregorio. Compare in altra parte (p. 464) il cognome (e forse toponimo) Zano, frequente nel vicentino.

pag.13

Se fosse confermato che il testo è stato scritto in ambito chiesastico o conventuale, la questione sarebbe interessante, perché l’opera si colloca temporalmente (primi del XVII secolo, v. oltre) durante la Controriforma, quando la Chiesa vedeva con forte sospetto non solo le attività magiche (che venivano inquisite) ma anche quelle alchemiche. C’è però da dire che nell’area geografica e politica in cui presumibilmente il testo è stato scritto, ossia quello della Repubblica veneta, vigeva un regime più tollerante rispetto ad altre zone di influenza della Chiesa.

  • La datazione

I riferimenti espliciti e impliciti mostrano che il testo è stato scritto in un arco temporale abbastanza ampio, che copre sicuramente i primi decenni del XVII secolo. Nel testo compaiono riferimenti con date precise: per esempio, a p. 372 è riportata la data del 1621: «Considerationi di me D.G.Z. sopra la retroscritta operazione, mandata al P.D.A.B. dal S. Giorgio Frise in tre lettere da Othense cita [intende la città danese di Odense] reggia del Re di Danemarca 1621». O ancora, a p. 377: «L’anno 1623 fu fatta la sopra scritta operazione…».

Il manoscritto – sin dalle prime pagine – riporta riferimenti ai primi tre volumi del Theatrum chemicum (dall’autore riportato come «Theatro»), pubblicati nel 1602, che godettero di ampia diffusione in tutta Europa. Per esempio, a p. 17 l’autore scrive «Nel primo volume del Theatro in fol. 243, cap. 2° [?] Omnes fire …docent. Argomenta e giudica a’ simili il Dorneo. Se nel fondere il metallo per far campane overo artigliarie il metallo tanto più calla quanto più sta nel foco, lo stesso farà ancora lambicandosi». Il nome Dorneo riportato nel testo compare in effetti nel primo volume del Theatrum come Gerard (o Gerardus) Dorn, alchimista belga vissuto tra il 1530 e il 1584.

Allo stato attuale della nostra lettura, non ci sembra ci siano riferimenti ai volumi successivi: si consideri che il quarto volume del Theatrum fu pubblicato nel 1613 e quindi forse ancora non diffuso come i precedenti. Questo permetterebbe, con buona approssimazione, di collocare la stesura del manoscritto nel secondo decennio del XVII secolo.

  • Conclusioni provvisorie

La struttura fisica del testo, le pur arbitrarie manipolazioni avvenute in epoche successive, il carattere finemente strutturato dello scritto, i numerosissimi riferimenti culturali, mostrano che si è di fronte a un reperto di grande interesse storico, scientifico e librario.

Volume aperto

Se venisse confermato l’ambiente monastico, la datazione e la collocazione geografica, sarebbe interessante indagare sulla produzione scientifica di quel periodo nella Repubblica di Venezia, per confrontarlo con quanto riporta l’autore, in particolare in relazione ai rapporti tra la comunità scientifica e la Chiesa della controriforma in quel contesto.

Dal punto di vista scientifico l’interesse è dovuto alla notevole qualità dello scritto. L’autore mostra di essere aggiornato, di possedere orizzonti culturali vasti, di essere un valido sperimentatore: intesse relazioni con molti altri studiosi e cita opere diffuse da poco in Europa e in Italia come il Theatrum Chemicum, il Gemmarum et Lapidum Historia (1609) di Anselm de Boot, il De arte vitraria di Antonio Neri, ecc. Per tali motivi, una più approfondita esegesi da parte di specialisti di storia dell’alchimia potrebbe portare alle luce rilevanti aspetti storico-scientifici del testo.

Infine, dal punto di vista librario, lo studio del manoscritto potrebbe procedere indagando le modalità di scrittura, per meglio contestualizzare l’ambiente di scrittura e i rimaneggiamenti subiti dal volume. Questo al fine di capire se il suo uso sia stato limitato a un singolo autore o abbia riguardato più studiosi.

 Volume chiuso

[1]          Lo scritto, parzialmente illeggibile, riporta «….1758 Mon. Orazio Del…il giorno di giovedì verso le due ora ….in la Parochia …giorno di sabato».

[2]   Propendiamo per la seconda ipotesi in quanto in diversi casi il testo rinvia a numerazioni successive, e questo è incompatibile con una numerazione ‘in progresso’.

[3]    Come è noto, secondo Paracelso, la costituzione delle sostanze risultava dalla combinazione dei cosiddetti tria prima: sale, mercurio, zolfo. È vero che il mercurio dei tria prima non è il mercurio ordinario ma una sorta di quintessenza delle sue proprietà, ma è anche vero che nei ricettari e nelle argomentazioni di Paracelso il mercurio metallico svolge un ruolo molto importante.

[4]    A p. 479, sotto il titolo «Considerationi sopra la quarta Medicina» è scritto «Questa credo sia cavata da Theofrasto come si può vedere nel Theatro Vol. …ripreso dal Dorneo… fol. 304 nondimeno l’ho trasportata qua secondo l’intintione di Bernardo [n.d.a.: prob. uno degli autori del Theatrum Chemicum, Bernardus Prenotus, v. oltre]…». Teofrasto era uno dei nomi di Paracelso: Philippus Aureolus Theophrastus Bombastus von Hohenheim detto Paracelso.

[5]          In Memorie storico-critiche della vita e delle opere di Giovanni Pierluigi di Palestrina, compilate da Giovanni Baini, viene citato un Girolamo Zini, amanuense e musicista, monaco benedettino, generale della congregazione di S. Giorgio in Alga di Venezia, operante tra la fine del XVI secolo e l’inizio del XVII.

* Antonio Seccia è un restauratore di libri antichi mentre Andrea Turchi lo conosciamo già come autore per questo blog di un post https://ilblogdellasci.wordpress.com/2013/02/07/tanti-nomi-per-una-cosa-un-nome-per-tante-cose-il-caso-nitro-natron/

Zucchero amaro e anche …salato.

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Annamaria Raspolli Galletti

Il post precedente sulla depurazione dell’acqua ricca di zuccheri mi ha riproposto una domanda che spesso mi ero fatta: ”Quali sono, in Italia, le prospettive dell’industria saccarifera?”.

La domanda è di stretta pertinenza chimica considerando anche le possibili filiere correlate con l‘industria saccarifera in ambito della “green chemistry” e della valorizzazione delle biomasse anche di scarto. In realtà questo settore è stato ed è tuttora critico per il nostro paese e lo zucchero ha rappresentato un prodotto il cui mercato è stato sempre significativamente alterato dalle scelte politiche nazionali e comunitarie ed anche dai ricarichi dovuti ad accise.

Non a caso negli anni ’30-’40 l’accisa sullo zucchero rappresentava per l’Italia la seconda entrata fiscale dopo l’imposta sui redditi ed il prezzo dello zucchero era circa sei volte quello della vicina Svizzera, tanto da diventare oggetto di contrabbando. La stretta correlazione tra scelte politiche e industria saccarifera è poi proseguita nel dopoguerra: il titolo provocatorio “Zucchero amaro” era stato usato da Ernesto Rossi sulle pagine del giornale “Il Mondo” e poi in un bel libro edito da Laterza per denunciare il doppio filo che legava il neonato Governo repubblicano agli industriali dello zucchero, finanziati da una forte politica protezionistica. Le parole di Ernesto Rossi contro i monopoli in una realtà ormai lontana nel tempo meritano però una profonda riflessione per la loro validità dopo 60 anni:

ernestorossi

Ernesto Rossi, antifascista 1899-1967

“…L’uomo della strada, che conosce gusti, abitudini, avventure sentimentali di attori, calciatori e cantanti, non sa neppure che faccia abbiano, anzi neppure conosce i nomi, delle poche decine di persone dalle cui decisioni molto spesso dipende, in Italia, l’occupazione o il licenziamento di decine di migliaia di lavoratori, i prezzi dei generi di più largo consumo, lo sviluppo o il ristagno dell’economia di intere regioni, la formazione dell’opinione pubblica attraverso giornali e televisioni, i nostri rapporti con l’estero e anche la nomina dei ministri. Niente sa, dei veri “padroni del vapore”…”.

Questa situazione di forte condizionamento della politica italiana da parte della lobby saccarifera viene in parte stravolta dall’adesione dell’Italia alla Comunità Europea, quando nel 1968 la gestione della politica dello zucchero passa a Bruxelles. Nei decenni successivi la riforma e la ristrutturazione dell’industria europea dello zucchero hanno avuto un grande impatto per il settore bieticolo-saccarifero in Italia. Il nostro Paese ha rinunciato ad oltre 1 milione di tonnellate di quota zucchero, passando da 1,5 milioni di tonnellate prima della riforma alle attuali 508.379 t di quota, usufruendo dei relativi aiuti alla ristrutturazione.

Gli zuccherifici sono passati da 19 a 4 con la chiusura di ben 15 stabilimenti e le superfici a barbabietola sono scese da 250 mila a circa 50-60 mila ettari. La quota di produzione dell’Italia nell’Ue è passata dall’ 8,6% al 3,8% ed oggi l’Italia produce soltanto il 30% del suo fabbisogno di zucchero. La politica attuale comunitaria sta procedendo alla soppressione delle quote, con l’obiettivo di smantellare le vecchie misure di mercato abolendo tutte le forme di restrizione della produzione. Infatti, oltre le quote zucchero, la nuova Ocm unica prevede la soppressione delle quote latte e dei diritti di impianto dei vigneti. Se la riforma sarà approvata, dal 2016 ci sarà la totale liberalizzazione del mercato dello zucchero e si porrà fine ad una politica trentennale di contenimento dell’offerta. L’abolizione delle quote zucchero trova, tuttavia, in Italia la ferma opposizione del mondo bieticolo-saccarifero ed è guardata con grande apprensione anche dai lavoratori del settore per il timore di destabilizzare ulteriormente il comparto, a favore della bieticoltura del nord Europa. Inoltre anche nel settore dello zucchero, a livello mondiale, si è venuta a creare la stessa situazione del mercato delle altre commodities, con una forte instabilità dei mercati mondiali e un’elevata volatilità dei prezzi. Il timore della deregulation e della scarsa competitività della produzione europea rispetto alla canna da zucchero ha spinto le organizzazioni bieticole europee a dichiararsi contro una politica di liberizzazione e all’abolizione delle quote, mentre la Commissione ritiene che la liberalizzazione accrescerà la competitività e semplificherà le regole del settore. Se in Italia il timore della concorrenza nord-europea e mondiale è ragionevole, nel lungo periodo sarebbe più opportuno rafforzare la competitività del settore, inserendolo in una più ampia e versatile filiera dell’industria chimica di trasformazione delle biomasse, piuttosto che mantenere vecchi strumenti di controllo e dipendere da un mercato mondiale instabile. Il rischio, in assenza di competitività, è che lo zucchero italiano diventi…salato.

Chiudo questa riflessione con una immagine dell’ormai dismesso zuccherificio di Cecina, che un tempo dava lavoro a centinaia di persone ed è da circa trent’anni mestamente in attesa di una qualche forma di recupero.cecinazuccherificio

…………Per approfondire: http://mpigreco.altervista.org/a/recensioni/zucchero.html

http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/425334.pdf

http://agriregionieuropa.univpm.it/sites/are.econ.univpm.it/files/FinestraPAC/Editoriale_5/Collegamenti/Programma_Zucchero.pdf

http://www.oxfamitalia.org/wp-content/uploads/2013/10/BRIEFING-NOTE-Zucchero-Amaro_FINAL.pdf

http://espresso.repubblica.it/attualita/2013/10/01/news/boicottate-coca-cola-la-battaglia-in-difesa-della-terra-1.135479

Musei, che noia! o no?

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Luigi Campanella, ex presidente SCI

I Musei sono stati considerati per lungo tempo come vetrine che spesso andavano migliorate per renderle più allettanti. Le vetrine erano spesso enciclopediche, ispirate al paradigma illuminista sulla collezione come ordinamento del sapere. Questa visione del Museo è particolarmente diffusa fra i Musei di Scienze Naturali, ma anche di Arte, dove l’esposizione delle opere segue un percorso strettamente tradizionale per scuole, autori, epoche.

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Tramoggia esposta al Museo della Chimica di Roma

Alternativi a questo sono i modelli del Museo-Impresa con prevalente carattere commerciale e del Museo Servizio, una tipologia diffusa soprattutto nell’Europa del Nord ed in Gran Bretagna, dove i servizi pubblici sono un contratto esplicito fra Stato e contribuente.

Oggi la realtà museale sta cambando e la distinzione può in buona parte considerarsi superata. Il Museo ha trasformato la sua funzione da quella dell’informazione a quella della conoscenza e fra i due termini c’è una profonda differenza, la seconda non essendo una mera somma di unità della prima, ma piuttosto un integrale critico-analitico, capace di risolvere contraddizioni, eliminare ripetizioni, correlare fra loro singole informazioni.

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Città della Scienza di Napoli

In questa concezione trasformata le funzioni fondamentali del Museo rimangono le stesse, conservazione ed esposizione, ma con un maggiore peso della seconda rispetto alla prima. Nel nostro Paese molti esempi di realtà museale sono espressione di questa evoluzione e di questa contingente espressione: dal Museo della Scienza e della Tecnica di Milano all’Immaginario Scientifico di Trieste, dal Museo di Storia della Scienza di Firenze al Muse di Trento, dalla Città della Scienza di Napoli al Polo Museale di Sapienza a Roma. Si riparla anche in questa prospettiva di una Città della Scienza a Roma, qui però pesano le esperienze negative del passato, pure sotto guide di indiscussa capacità (Ruberti,Veltroni,Borgna).

Il cittadino è sempre più al centro dell’attenzione del Museo che così incrementa la sua opera come produttore di cultura. D’altra parte il numero dei visitatori è in continuo aumento a dimostrazione che la trasformazione del Museo sta pagando in termini di ricaduta civile e siociale. Il cittadino,inoltre, non è più una lavagna bianca sulla quale si può scrivere ciò che si vuole. Le forme di comunicazione ed informazione (TV,giornali,media,web) incidono continuamente su ciascuno di noi stimolando la nostra curiosità.

Oggi c’è una generale concordia sul fatto che il Museo debba ritenersi una struttura pubblica, cioè aperta al pubblico, e non un luogo privatizzato e per eletti. Da questo punto di vista i Musei Univertsitari stanno subendo una vera rivoluzione passando da una fase in cui erano considerati dote e patrimonio esclusivo dei docenti del Dipartimentoto di riferimento, e spesso neanche di tutti, ad una nella quale invece gli stessi Dipartimenti e le (residue) Facoltà li utilizzano come chiave di apertura al territorio. Il Museo deve dare adeguata illustrazione di quanto esposto, evidenziando di ogni reperto non solo gli aspetti storici, ma anche quelli scientifici e, se è il caso, quelli sociali e civili in modo da porre il visitatore nelle condizioni migliori per un’esatta comprensione del valore culturale dell’oggetto esposto. Da ciò deriva l’esigenza di un’innovazione organizzativa del Museo stesso.

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MUSIL di Brescia

Da presidente della Società Chimica Italiana ho lanciato la creazione di una catena di Musei di Chimica capace di allargare il patrimonio cultrurale chimico dei cittadini e di offrirsi come opportunità, anche turistica, al territorio ed ai visitatori. Mi aspetto di collegare a questa istituenda rete un’altra che si basi sulle strutture scolastiche alla quale lavoro invece da molto tempo. Viviamo un momento particolare della vita scientifica e culturale: da un lato i problemi economici mondiali richiedono un sempre maggiore impegno della ricerca in favore di problemi e tematiche di acquisito ritorno economico, dall’altro il gusto dei valori storici e delle tradizioni culturali è in grande rilancio come componente essenziale della formazione dei singoli e dello sviluppo della società intesa come depositaria di valori irrinunciabili e di stimoli insostituibili alla crescita intellettuale. Così mentre si rivendicano maggiori impegni finanziari per la ricerca applicata, intesi come investimenti in favore delle future generazioni, contemporaneamente si fanno più pressanti le richieste in favore di risorse da elargire verso programmi ed iniziative che, per la loro stessa natura, possono considerarsi alternativi rispetto ai valori quantificabili in termini di entrate ed uscite e di bilanci finanziari.

A causa delle difficoltà economiche in cui ci dibattiamo e delle esiguità dei finanziamenti si moltiplicano le imprese. i programmi finalizzati a valorizzare l’esistente, quindi a prescindere da grossi investimenti di tipo strutturale. In questo senso sono state recuperate numerose iniziative, di carattere museale sparse sul territorio, correlandole tra loro e rendendole fruibili dai cittadini: con l’attivazione degli “itinerari”, sorta di viaggio tra la scienza, finalizzata all’esplicazione di singole tematiche, il Museo multipolare si è di fatto costituito come alternativa al museo unipolare. Sono anche state predisposte iniziative nuove: mostre, esposizioni mai presentate, raccolte di materiali, documentazione, strumentazioni riassestate, ed illustrate, cicli di conferenze, molte delle quali in rapporto con la scuola di cui si parlerà più avanti

D’altra parte a questo recupero ha anche contribuito l’aspirazione a valori storici della cultura, un processo, questo, ormai in atto nel nostro Paese, come in molte altre società industriali che ha conseguito un progressivo riequilibrio del bilancio della ricerca scientifica e tecnologica per lunghi anni in precedenza, troppo spostato sul fronte produttivistico a danno di quelli culturale e sociale. Tale recupero ha prodotto nel campo delle scienze strumentali un progressivo riavvicinamento ed un crescente interesse per la strumentazione e per le raccolte e gli archivi, intesi non più come semplice documentazione. ma come componenti essenziali di una disciplina, sulla base di una stretta correlazione fra teoria e sperimentazione, fra idee e fatti, fra storia,presente e futuro..

Un punto importante riguarda il rapporto con la scuola: da questo punto di vista il ruolo formativo ed informativo del Museo nel quale gli aspetti storici risultano prevalenti è stato mitigato, contemperato, direi riequilibrato, da una visione più sociale e più didattica, mettendo a disposizione della scuola, attraverso il materiale raccolto e illustrato, strumenti nuovi e non altrimenti disponibili.

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MUSE di Trento

I giovani hanno più volte mostrato un interesse crescente e una grande disponibilità verso le tematiche dei musei, la loro storia, gestione e sviluppo. Non bisogna deludere i loro entusiasmi; bisogna così accoppiare al lavoro organizzativo e strettamente propositivo, una attività di formazione e divulgazione nella quale il ruolo dell’ Università è evidentemente prioritario. Con la convinzione che i due aspetti non possano e non debbano procedere separatamente, quantunque, in alcuni casi, con delle realizzazioni parziali, ma che sottolineano tuttavia il debutto di un piano d’azione unitario, si deve pensare alla Istituzione dei Dottorati per Tecnici di gestione dei Musei, che possono rappresentare nuovi sbocchi scolastici e occupazionali per i diplomati della scuola secondaria. Vanno proposti programmi sui temi della Divulgazione Scientifica, della Sperimentazione didattica, della Storia e della Filosofia delle Scienze, dell’Archeologia Industriale e sulla trasformazione dell’esistente attraverso l’Arte e la Scienza. Bisogna non farsi attrarre dalla logica dei sipari e delle wunderkammer, alla ricerca ingannevole e pericolosa di un’epifania della scienza, ma mantenere stretti contatti con la realtà per avvicinarsi ai giovani.è molto significativo che questa interazione sia stata già attivata per mezzo di iniziative partite proprio dalla scuola secondaria. Si è giunti in tal modo a due importanti risultati:

  • la scuola secondaria superiore si è aperta verso l’esterno, realizzando con tecnologie avanzate dimostrazioni di laboratorio, visite guidate, conferenze, mostre e incontri con la cittadinanza
  • si è realizzata la saldatura fra la scuola secondaria e la scuola primaria e di entrambe con l’università, mediante la partecipazione e l’elaborazione autonoma congiunta ad itinerari scientifici.

C’è poi un aspetto di produttività culturale; si pensi ai costi di una mostra, al tempo per il quale resta in visione in un Museo, al numero dei visitatori; perché non pensare ad un itinerario scolastico delle mostre dismesse? Potrebbe essere una nuova interessante forma di collaborazione fra sistema scolastico e sistema museale mettendo a disposizione di quello i prodotti di questo e consentendo di utilizzare a fini didattici strumenti talvolta di eccezionale validità ed inusitato impiego, quali per l’appunto le mostre. Un’ulteriore importantissima funzione del rapporto scuola Università mediato dalla struttura museale può essere quello della ricomposizione culturale e della riunificazione delle conoscenze. La tradizionale articolazione della cultura in umanistica e scientifica è una articolazione che per molti motivi non ha ragione di essere e che soltanto in tempi recenti si sta cercando di superare, anche se ci sono ancora forze contrarie, che ritengono certi temi di propria esclusiva pertinenza, in una sorta di colonializzazione della cultura. Purtroppo è una posizione che deriva da una visione sbagliata, ma soprattutto da una politica di potere delle scuole e della scienza. Segnali di un cambio verso l’unilateralità della cultura ce ne sono; fra questi la visione e concezione di bene culturale: prima era sostanzialmente il reperto umanistico; oggi anche lo strumento scientifico; e la bellezza estetica degli strumenti ne valorizza la ricollocazione all’interno di un ambiente; di un atmosfera, similmente a quanto avviene per le opere d’arte. Un’altra ricomposizione culturale, con la rivalutazione della storia della scienza e degli archivi storici, riguarda il rapporto fra teoria ed esperienza: anche a questo la valorizzazione della strumentazione e della sua storia ha dato un notevole contributo.

L’approfondimento delle relazioni fra teoria e ricerca perimentale e del contributo della sperimentazione alla definizione delle teorie ha segnato questi momenti come integrati fra loro e con la cultura in generale.

La storia della strumentazione con le sue linee evolutive, a partire dall’introduzione degli strumenti classici, fa capire in che direzione ci si muove.

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Atti Giornata di studio 23 nov. 2012, Villa Celestina Pineta Marradi di Castiglioncello (LI) L.CAMPANELLA e V. DOMENICI

Come l’artista si esprime attraverso una sua creazione, così lo scienziato attraverso l’ideazione di uno strumento idoneo a verificare una propria ipotesi teorica traccia in esso le linee del proprio pensiero e le confronta con gli altri. Questo confronto, che storicamente era ritenuto proprio delle scuole artistiche, ora comincia ad essere considerato con sempre maggiore attenzione anche a livello delle scuole scientifiche, capaci di esprimersi non soltanto attraverso le teorie e le ricerche di oggi, ma anche attraverso le esperienze e prove sperimentali di ieri. Il ruolo dei musei laboratorio è così evidentemente correlato con una rivisitazione del modello del museo scientifico.

All’interno di un quadro così articolato per certi aspetti innovativi sono nati Musei scolastici, rappresentazione concreta del rapporto fra scuola e cultura e di quello fra scuola e territorio. Moltissime scuole partendo dalle proprie tradizioni e dai propri parametri hanno realizzato propri musei, non nel senso più obsoleto della parola, ma in quello di veri e propri centri culturali aperti sulla ed alla realtà territoriale circostante. Ciò ha consentito di realizzare una rete dapprima sul territorio capace nei suoi poli di portare l’interesse per la cultura e l’occasione per viverla un po’ dappertutto nella città, specialmente nelle periferie più lontane e abbandonate.

Nuovi farmaci essenziali: quanto ci costano?

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Claudio Della Volpe

Qualche tempo fa avevamo iniziato a parlare di Sofosbuvir, (http://wp.me/P2TDDv-Jw) un farmato di nuovissima generazione, un nucs, un ossia nucleoside and nucleotide analogue, molecole che hanno come target il sito attivo di un enzima virale, imitando il suo substrato ed agendo come terminatori della catena di reazione.

Sofosbuvir, che è stato approvato in vari paesi contro l’epatite C, una delle malattie più diffuse del mondo con almeno 140 milioni di casi (http://www.who.int/mediacentre/factsheets/fs164/en/), di cui almeno un paio di milioni in Italia, è in grado di agire senza accompagnarsi con l’interferone e la sua efficacia e tollerabilità sono molto elevate. Senza la terapia questa malattia evolve verso la cirrosi o il tumore epatico e porta alla morte in un elevatissimo numero di casi (350.000 all’anno). Dato il suo ruolo Sofosbuvir è da considerare un farmaco essenziale.

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Ma non vorrei parlarvi qui della chimica del farmaco (o della malattia) che troverete nel primo post ma di cosa succede per la sua distribuzione.

Gli scopritori del Sofosbuvir e fondatori della Pharmasset sono docenti della Emory university, una grande università privata. La Pharmasset ha ceduto i sui diritti alla Gilead per circa 11 miliardi di dollari che si potrebbero intendere comprensivi dei costi di sviluppo; la Gilead si è curata di tutta la fase di introduzione sul mercato; al momento la situazione è questa: nei paesi avanzati il farmaco verrà commercializzato ad un prezzo attorno ai 70.000 euro a terapia per i privati e a circa 30-50.000 euro per le aziende sanitarie; la terapia consiste nella maggior parte dei casi della somministrazione di circa 34g totali di farmaco in dodici settimane (in effetti le cose possono essere più complicate a seconda del tipo esatto di virus da combattere). Nei paesi poveri dove vive la maggior parte dei malati il farmaco sarebbe invece venduto a circa 1800 dollari a terapia, anche attraverso un accordo di produzione con altre ditte farmaceutiche locali.

La domanda è quanto costa produrre il farmaco e quanto è costato svilupparlo.

I costi di sviluppo sono certamente inferiori al valore della Pharmasset quando è stata comprata, quindi potrebbero essere valutati in 11 miliardi di dollari per eccesso dato che il valore della Pharmasset comprendeva certamente un notevole profitto; per il costo di produzione ci aiuta una stima dei costi di produzione di questo tipo di farmaci presentato al 64rd Annual Meeting of the American Association for the Study of Liver Diseases
tenutosi a Washington, DC nel Novembre del 2013 (http://www.natap.org/2013/AASLD/AASLD_124.htm).

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Come si vede il costo del Sofosbuvir per una terapia completa è stimato attorno ai 100 dollari, al massimo 136.

In Italia con 2 milioni di malati il governo ha stanziato per il momento 1.5 miliardi di euro che basterebbero per soli 37000 malati; ovviamente si sceglieranno i più gravi e se no chi vorrà potrà curarsi da solo al costo di 70.000 euro circa; dico circa perchè potrebbe essere necessario usare anche altre molecole in un cocktail di farmaci che costa prezzi analoghi.

Quali profitti sono attesi quindi dai produttori del farmaco? Facciamo due conti:

Per curare tutti gli uomini ammalati, e facendo l’ipotesi che basti il sofosbuvir occorrerebbero circa 136×140.000.000=19 miliardi di dollari di costi vivi; supponiamo di remunerare il lavoro di ricerca del farmaco pagando il doppio o anche il triplo del valore della Pharmasset nel 2012, saremmo a circa 30 miliardi di dollari (profitto +200%); più il costo di produzione 19 miliardi di dollari che potremmo remunerare anch’esso in una certa percentuale(profitto 50%); la spesa complessiva non supererebbe i 60 miliardi di dollari e porterebbe alla cura di questa malattia in poche settimane in tutto il mondo.

Se invece accettiamo le condizioni capestro contrattate dal produttore che impongono per i paesi poveri un prezzo superiore di ca 15 volte a quello di produzione e per i paesi ricchi un costo superiore di 300-600 volte (trecento-seicento volte) avremo un costo che nessuna comunità potrà permettersi (sarebbero 80 miliardi di euro solo in Italia e 160 negli USA) e che quindi inevitabilmente comporterà che solo alcuni saranno curati e che i profitti del produttore saranno enormi, ma paradossalmente inferiori a quelli possibili perchè non tutti potranno curarsi, ma solo una piccola percentuale; e ciò a causa di una smania di profitto incontenibile, ma sostanzialmente becera, tanto da essere criticata perfino da Forbes, una rivista che certo non pecca di estremismo rivoluzionario (http://www.forbes.com/sites/edsilverman/2013/11/11/will-the-new-hepatitis-c-drugs-trigger-a-battle-over-cost/).

Paradossalmente big pharma nella sua incontenibile smania di profitto farà meno profitti di quelli possibili e riuscirà perfino a far morire alcuni milioni di persone mentre esistono i farmaci per guarirli a costi bassissimi.

Voi che ne pensate?

Conference of Parties 20, ma cosa è?

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Luigi Campanella, ex Presidente SCI

Sono circa 4.000 i delegati provenienti da 196 paesi che si incontrano a Lima, in Perù in occasione della ventesima Conferenza delle Parti (COP 20). Questo vertice delle Nazioni Unite sul clima è l’ultimo prima di quello, decisivo, di Parigi, che si terrà tra un anno esatto e durante il quale si spera di firmare un nuovo accordo internazionale che sostituisca quello di Kyoto. I capi di Stato di tutto il mondo saranno chiamati a trovare un accordo per fermare il cambiamento climatico nei prossimi anni ma sono purtroppo spaventati dall’idea di prendere decisioni ambiziose, bloccati da una fredda burocrazia. Si tratta di un vertice cruciale contro il cambiamento climatico, e l’appello per un pianeta alimentato da energia pulita al 100% è già nella bozza su cui stanno lavorando!

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(dati in °C).

Questo incontro si allinea ai precedenti sullo stesso tema a partire da quello di Tokyo (da cui il ben noto protocollo) che, sottoscritto nel 1997 ed entrato in vigore nel 2005, quando anche la Russia lo ha ratificato, è un trattato che aveva lo scopo di obbligare i paesi aderenti a ridurre le proprie emissioni di gas a effetto serra di un minimo dell’8% tra il 2008 e il 2012 rispetto ai livelli del 1990. Con l’Accordo di Doha, la validità del Protocollo di Kyoto è stata prorogata fino al 2020. A Parigi, durante il Cop 21 che vi si svolgerà a dicembre del 2015, dovrà essere raggiunto un nuovo accordo universale, legalmente vincolante, che sostituisca il Protocollo di Kyoto, e coinvolga tutti i paesi del mondo nell’impegno di tagliare le emissioni. Ai paesi in via di sviluppo il protocollo firmato in Giappone non richiedeva infatti alcun impegno sul fronte della mitigazione.

Il nodo principale è costituito dall’atteggiamento non omogeneo dei Paesi del mondo. I due big (USA e Cina) hanno stretto qualche giorno fa un accordo bilaterale:è la prima volta che i due paesi prendono un serio impegno a mitigare le emissioni. I tagli promessi sono però modesti, del 26-28% (rispetto però ai livelli del 2005) entro il 2025 per gli USA, mentre la Cina ha promesso che si impegna a far calare i gas serra dopo il 2030. Viste queste recentissime dichiarazioni non pare probabile (ma la speranza è l’ultima a morire) un loro impegno per tagli significativi in tempi rapidi. Alcuni altri (Canada, Australia e Giappone) non si sono formalmente impegnati a nessun taglio. Più ambiziosa è stata storicamente l’Europa. L’Unione europea ha infatti accettato un taglio vincolante alle emissioni del 40% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990. Il WWF però chiedeva una riduzione del 55% delle emissioni di CO2 oltre a un aumento dell’uso di energie rinnovabili al 45% e dell’efficienza energetica al 40%.

I Paesi poveri dal canto loro vogliono che i paesi ricchi, che hanno prosperato emettendo a proprio piacimento per decenni, si facciano carico dei potenziali rischi causati dal proprio comportamento sconsiderato e aiutino i paesi più in difficoltà a prepararsi al cambiamento che li aspetta. In questo aiuto c’è un aspetto tecnico ed uno economico.Esiste in effetti un Fondo Verde per il clima dell’Onu che punta a raccogliere 10 miliardi di dollari entro la fine del 2014, ma per adesso è fermo a 9,4. Una cifra che i rappresentanti dei paesi poveri giudicano risibile, chiedendo lo stanziamento di almeno 15 miliardi, comunque lontanissimi da quei 100 miliardi l’anno il cui stanziamento era stato promesso alla fine della Conferenza sul clima di Copenaghen del 2009 entro il 2020.

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Lo scopo finale di un accordo legamente vincolante sulle emissioni è sostanzialmente quello di frenare l’aumento delle temperature prima che raggiunga i 2 °C in più rispetto ai livelli medi pre-industriali. Forse ormai è tardi per raggiungere questo traguardo, ma non deve servire questo a creare un alibi per non intervenire: in ogni caso un vantaggio ci sarebbe, la ridotta cinetica del processo di riscaldamento in atto.E’ di questi giorni la notizia che, in base ai dati dell’americana National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA), la temperatura media globale della terra e degli oceani tra gennaio e ottobre 2014 è stata la più calda da quando sono cominciate le misurazioni nel 1880.

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Trends in global CO2 emissions: 2013 Report
© PBL Netherlands Environmental Assessment Agency The Hague, 2013