Cementi vecchi e nuovi

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Luigi Campanella, ex presidente SCI

Un nuovo studio apparso sui Proceedings of the National Academy of Sciences fornisce nuovi elementi che spiegano l’incredibile resistenza del calcestruzzo dell’antica Roma.

La ricerca, realizzata da un team di scienziati americani, cinesi e italiani, ha analizzato infatti la composizione chimica della malta utilizzata nelle opere in muratura dell’antica Roma, scoprendo che particolari reazioni chimiche tra i suoi componenti fornivano al materiale una resistenza paragonabile a quella di molti cementi odierni.

La formula della malta in questione è una ricetta perfezionata dai costruttori romani intorno al primo secolo a.C., e rimasta in uso per oltre 500 anni. Gli ingredienti principali del composto sono la pozzolana (un miscuglio di ceneri vulcaniche e limo estratto all’epoca nei Campi Flegrei di Pozzuoli e nel Lazio) e la calce, in cui venivano inseriti frammenti di tufo, mattoni e cocci per formare il cosiddetto cementizio, uno dei primi esempi di calcestruzzo della storia. Per scoprire il segreto di questo materiale, i ricercatori hanno riprodotto l’esatta mistura utilizzata nelle costruzioni romane e l’hanno lasciata indurire per 180 giorni, osservando i cambiamenti mineralogici che avvenivano al suo interno e confrontando i risultati con i campioni prelevati dai muri dei Mercati di Traiano.

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PNAS December 30, 2014 vol. 111 no. 52

 Hanno così scoperto che quando la malta romana si indurisce i materiali presenti al suo interno reagiscono tra loro, creando dei cristalli di un minerale estremamente resistente noto come statlingite. Quando la malta è completamente secca questi cristalli formano quindi al suo interno un’impalcatura che impedisce alle crepe di propagarsi, rendendo il materiale estremamente duraturo e resistente alle sollecitazioni meccaniche e sismiche, anche per gli standard attuali.

Queste conclusioni devono essere confrontate con quanto si sa oggi sul cemento moderno durante il suo invecchiamento per comprendere i grandi vantaggi della ricetta romana antica.La ricerca di parametri capaci di funzionare da marker dell’invecchiamento del cemento moderno parte da un confronto fra cemento preparato di fresco e cemento invecchiato naturalmente od artificialmente. Al fine di evidenziare le possibili differenze si è ricorsi all’uso di tecniche diffrattometriche e di metodi termici. Si è pervenuti alla conclusione che all’aumentare del tempo di invecchiamento aumenta la quantità d’acqua rilasciata al riscaldamento (dal 2-3% all’8-10%), diminuisce il rilascio di anidride carbonica (dal 35-40% al 6-10%) alla temperatura di decomposizione del carbonato e diminuisce il peso del residuo del processo di calcinazione (dal 40-42% al 16-20%). Tali differenze sono da attribuire a una degradazione subita durante l’invecchiamento dei composti che caratterizzano la formazione del cemento. A riprova di ciò a tali variazioni corrispondono ben individuate variazioni degli spettri di polvere ai raggi X per i quali sono state evidenziati due effetti di diffrazione diagnostici corrispondenti ai valori di dhkl 4,24 e 3,34 A˚ (probabile cristallizzazione con il tempo dell’ossido di silicio).

Se riuscissimo anche noi a incorporare un volume consistente di pietre vulcaniche nella produzione di cementi potremmo ridurre sensibilmente le emissioni di “anidride carbonica”.Si tenga presente che la produzione di cemento Portland richiede il riscaldamento di una miscela di calcare e argilla a 1.450 gradi Celsius, un processo che rilascia molto carbonio – visti i 19 miliardi di tonnellate di cemento Portland utilizzati annualmente – e rappresenta circa il 7% del totale del carbonio emesso in atmosfera ogni anno.

Protone e acqua

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

 

a cura di Gianfranco Scorrano, già Presidente SCI

In memoria di Alessandro Bagno (1958-2015)

Nel recente post di Della Volpe c’è un passaggio che mi ha riportato in mente un’altra mia epoca: quando nel gruppo formato da Modena, Scorrano, Tonellato, Lucchini, Bagno e altri ci interessavamo di acidi, in particolare acido solforico. Abbiamo pubblicato su riviste internazionali e chi volesse sapere cosa fa presto a ritrovare i lavori originari: per esempio l’ultima breve review scritta con Rory More O’Ferrall (Scorrano G. and O’Ferrall R. M. (2013), Beyond pH, Journal of Physical Organic Chemistry. doi: 10.1002/poc.3171 )

Torniamo al punto; dice Della Volpe, parlando di come si comporta il protone in acqua: “uno ione più complesso che seppure indicato come H3O+, in realtà sarà tipicamente ancora più grande: H5O2+ o perfino H9O4+, due cationi che sono comuni in soluzione acquosa acida e che prendono il nome di catione di Zundel e catione di Eigen, dal nome dei due scopritori.

Diamo un po’ un’occhiata a questi cationi:

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Quello di destra è il catione di Zundel: ho conosciuto personalmente Georg Zundel, professore di fisica a Monaco, il quale è venuto a Padova per uno o due congressi da noi organizzati. Abbiamo brevemente parlato e ci siamo scambiati copie dei rispettivi lavori scientifici. Zundel aveva studiato mediante infrarosso soluzioni acquose di acidi e, eliminando dallo spettro le assorbanze dell’acqua e del contro anione, aveva evidenziato la presenza di II:

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Vi è un bel sito (http://www.zundel.at/html/home.html ) dedicato dal figlio a Georg Zundel e al nonno Georg Frederick, un pittore, particolarmente di ritratti, alquanto famoso. Purtroppo in parte è in tedesco, in altre tedesco e inglese. Una lettura interessante per inquadrare le personalità dei due Zundel: socialista il nonno, pacifista il padre. Vivevano in una villa vicino a Tubingen che aveva il nome di “Berghof” (curioso che lo stesso nome avesse il rifugio in montagna di Adolf Hitler) nome poi utilizzato da Zundel sia per la sua fondazione Berghof Forschungszentrum , che continua la sua attività di sponsorizzare attività, incluse borse di studio, nel settore del superamento dei conflitti (attività di pace), che per la sua attività commerciale con la Berghof GmbH complesso industriale controllato dalla famiglia Zundel, particolarmente attiva nei settori elettrochimici, filtrazione con membrane e tecnologia plastica.

Tornando all’acqua, dobbiamo citare il modello di sinistra, chiamato di Eigen: bello per la sua simmetria, favorito dai calcoli, ma anche criticato da un recente lavoro (J.Am.Chem.Soc.,132,1484 (2010)) dove gli autori,usando una tecnica IR simile a quella di Zundell,riescono a vedere il catione protonesco3H(H2O)6+ in cui attorno al protone sono 6 molecole d’acqua (in azzurro) circondate attorno da altre molecole (in nero) che però non risentono più della carica positiva del protone.

Siamo quindi con la domanda: quante molecole d’acqua si legano al protone: 2 (Zundel), 4 (Eigen), o 6 (Reed,et al.)? Di acqua, in acqua, ce ne sono 55,5 moli/litro, abbondanti per ciascuna formula.

Incontro ci viene una tecnologia sviluppata all’incirca nella metà del secolo passato: quella della ion cyclotron resonance accompagnata alla spettrometria di massa. In questa, le molecole ionizzate vengono frammentate in diversi cationi; questi, a loro volta, possono essere separati secondo il peso molecolare e se vengono immessi in una apposita trappola le cui pareti caricate elettricamente di segno opposto, i cationi (o gli anioni) possono vivere senza il contro ione, ovviamente per alcuni secondi. In questo tempo si possono però studiare varie reazioni e vari equilibri. Nell’esempio che ora ci interessa vogliamo ripassare alcune esperienze fatte da Kebarle   (Kebarle et al. JACS, 89, 6393,(1967) e Kebarle et al. J.Phys.Chem.74,1466,(1970)) e in particolare i ΔH di formazione dei complessi con acqua, prima dei cationi alcalini e poi del protone

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Nei due grafici sono riportati i valori di ΔH° per la trasformazione di [(n-1) a(n)] molecole d’acqua legate al catione: per esempio il primo valore per il grafico di destra, che corrisponde al protone legato da (0 a 1) molecole d’acqua ha un ΔH° pari a 166,5 Kcal/mol: l’ H3O+ è un catione ben stabile rispetto al protone (ricordiamoci che un legame C-H vale meno di 100 Kcal/mol). Ma altre molecole d’acqua servono per stabilizzare la struttura: quello che meraviglia e che non si nota alcuna extrastabilizzazione di cationi tipo Zundel, Eigen o Reed. La diminuzione quasi esponenziale dell’entalpia per l’aggiunta al sistema di un’altra mole di acqua ci dice che nessuna struttura è particolarmente stabile.

In conclusione, le strutture nel tempo proposte sono state utili per capire che il protone prende intorno a sé tutte le molecole d’acqua che può. Ciascuna legata sempre più debolmente al sistema e che quindi più debolmente contribuisce alla sua stabilizzazione. Nessuna struttura comprendente un numero di molecole d’acqua è intrinsecamente capace di rappresentare “il protone in acqua”.

I gatti e il cloruro demonio

  Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Mauro Icardi (siricaro@tiscali.it)

Ho scritto il mio ultimo articolo, quello che parlava di cosa molto spesso viene inopportunamente gettato nelle fognature, pressato da mille cose, e (nella prima versione, che non ha passato il vaglio redazionale) sono incorso in un errore grossolano. Ho raccontato della lettiera per i gatti che era stata gettata nel water per anni, da e lì finita nella fossa Imhoff di un condominio riempiendola quasi per intero. Un mio amico titolare di una ditta di spurghi che era stato chiamato per ripulirla non aveva preso la cosa troppo bene. La botte del suo autospurgo era rimasta danneggiata a causa della gran quantità di questo materiale ( e delle tante altre cose che non dovrebbero essere gettate giù per il tubo ma ci finiscono ugualmente). Lui aveva dovuto non solo riparare la botte sostituendo guarnizioni e valvole, ma anche dovuto anticipare le revisione triennale della botte che rientra tra le apparecchiature che lavorano in pressione. Questa è la premessa. Adesso diventa interessante occuparsi dell’errore in se, e magari associarlo ai tanti che si leggono quando si parla di temi attinenti alla chimica.

Le lettiere per i gatti ho sono fatte principalmente di argilla, sepiolite e di gel di silice. Il prodotto deve garantire una buona assorbenza, non deve essere irritante per le zampine dei simpatici felini, e se possibile anche evitare che si sviluppino cattivi odori. Se però si va in un qualunque supermercato sulle confezioni delle lettiere in gel di silice si troverà scritto “lettiera per gatti in silicio”.

Lo si trova scritto così perfino nella pagina di Altrconsumo!(http://www.altroconsumo.it/vita-privata-famiglia/nc/news/lettiere-per-gatti) e nel testo accessibile ai soli soci che contiene l’analisi completa delle lettiere.

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Nella prima stesura dell’articolo ho scritto anche io “silicio”. Sbadatamente e senza riflettere. Quindi cerco di fare adesso una riflessione , ringraziando la redazione del blog, ed in particolare Marco Taddia e Claudio Della Volpe che hanno letto il testo del mio articolo prima della pubblicazione. Il primo per avermi fatto notare che era improbabile che il silicio potesse essere utilizzato nelle lettiere dei gatti. Soprattutto se si fosse trattato (cosa del tutto improbabile ) di silicio elementare. Il secondo che da questo episodio ha suggerito lo spunto per questo articolo. Le bufale, gli errori grossolani sono sempre in agguato. E dagli errori si prende spunto per imparare.

Per abitudine si dice di “cambiare la sabbia sporca del gatto” ma è improbabile che si dica nell’uso comune “vado a cambiare la sepiolite o il gel del gatto”

La sabbia è un materiale granulare che si può formare in modi diversi. Per erosione, per precipitazione, per accumulo di organismi marini quali foraminiferi ed altri.

Quindi direi che l’abitudine a parlare di sabbia del gatto mi ha decisamente tratto in inganno, visto che le sabbie silicee sono usate per la produzione del vetro. Il silicio cristallino ha aspetto grigio scuro. Nelle produzioni industriali partendo da quello di grado metallurgico che è puro al 98%, fino agli altri gradi di purezza necessari per l’uso nella produzione dei semiconduttori il silicio assume aspetto e colore decisamente metallico.

Niente a che vedere quindi con la “sabbia” che viene venduta nei supermercati.

Quella che sulle confezioni viene indicata come lettiera in silicio è “sabbia” a base di gel di silice.

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Sono andato a rinfrescarmi la memoria sullo storico dizionario di chimica e merceologia applicata e curiosando in rete. Principalmente il gel si ottiene acidificando una soluzione di silicato di sodio. Le condizioni chimico fisiche del processo influiscono sul grado di polimerizzazione. Ma il prodotto finale è quello che troviamo nei deumidificatori, nelle bustine disidratanti inserite in svariati prodotti commerciali. E che è presente nei nostri essiccatori in laboratorio.

Si tratta di un materiale molto poroso ed in grado di assorbire una enorme quantià di acqua in superficie, grazie alle funzioni “silanoliche” Si-OH ivi presenti, le stesse che si trovano sul vetro comune.

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Il silicio ed i suoi composti sembrano predisposti e predisporre alla confusione. Il temine inglese per silicio è silicon. La Silicon Valley è la valle del silicio, ed indica la parte meridionale dell’area di San Francisco che corrisponde con la Santa Clara Valley nell’omonima contea californiana. Qui si concentrarono inizialmente i primi costruttori di semiconduttori e microchip. Successivamente le aziende di computer e software. Ma spesso il termine silicon viene tradotto dall’inglese come silicone per assonanza. E il silicone è un polimero inorganico (un polisilossano per la precisione) che a seconda della lunghezza della catena, della ramificazione, dei sostituenti può avere le caratteristiche fisiche più diverse (dall’oleoso al gommoso) e gli usi più diversi. Probabilmente tutti abbiamo utilizzato il silicone per sigillare. E di silicone si è parlato molte volte relativamente all’impiego per le protesi per l’ingrandimento del seno in chirurgia estetica.

La conclusione è semplice e potrebbe sembrare banale Nessuno può sapere sempre tutto. Socrate aveva già espresso questo concetto. Il “sapere di non sapere” è la molla che ci deve in ogni momento spingere a continuare a voler conoscere. E quindi a non adagiarsi mai sugli allori, a non pensare mai che si possa smettere di studiare ed aggiornarsi.

C’è poi una seconda conclusione. Continuare a scrivere di chimica. Aiuta i chimici ed i non chimici. Perché se sentiamo parlare in giro la chimica è spesso considerata ancora oscura. E dal punto di vista del lessico e dell’immaginario collettivo si possono scoprire ancora tante cose. A partire per esempio dal termine acido che spesso viene usato anche quando i giornalisti scrivono di ustioni causate dalla soda caustica.

In chiusura vorrei segnalare due libri che trattano molto bene questi temi. Il primo è “Il cucchiaino scomparso” di Sam Kean edizioni Adelphi. Il secondo non ha bisogno di presentazioni. E’ “L’altrui mestiere” di Primo Levi. In special modo i capitoli “L’aria congestionata” e “La lingua dei chimici” che è decisamente ampio e diviso in due parti. E’ interessante rileggere l’etimologia dei termini che si usano in chimica, e alcuni divertenti strafalcioni. Uno su tutti il cloruro d’ammonio che nel gergo di fabbrica veniva chiamato “cloruro demonio”, un termine già usato in Cromo, Il sistema periodico.

(vedi anche Primo Levi – Cromo – Il sistema periodico http://www.dimnp.unipi.it/failli-f/Didattica/_10%20Primo%20Levi%20-%20Cromo.pdf)

La scoperta e la memoria

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Gianfranco Scorrano, già Presidente SCI

Recentemente abbiamo discusso della scoperta della penicillina e della assegnazione del Premio Nobel (1945) a Fleming, Florey e Chain, in cui abbiamo accennato al tempo trascorso tra la scoperta della penicillina (1928-29) e gli studi di Florey e Chain nel 1936-40 e oltre. Lo stile di premiare, oltre coloro che hanno verificato l’applicabilità della invenzione, anche il primo scopritore è una quasi costante nella assegnazione del Nobel: vedi ad esempio il premio Nobel sugli eteri corona (1987, Charles J.Pedersen con Donald J.Cram e Jean-Marie Lehn) o quello sul fullerene (1996, Robert F.Curl con Harold W.Kroto e Richard E.Smalley).

In realtà, è anche comune, quando si inizia la discussione su un nuovo lavoro, fare riferimento a chi nel passato si era interessato al problema: sia per porre l’argomento trattato in prospettiva, sia per riconoscere che l’argomento è stato all’attenzione di altri scienziati.

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Un esempio che qui ci interessa è quello del cis-platino, meglio detto cis-diamminodicloro-platino (II). Il composto cis-[PtCl2(NH3)2] venne per la prima volta descritto da Michele Peyrone in Ann.Chem.Pharm. 1844,51,1, ottenuto per reazione tra ammoniaca e platino cloruro. Ma come era andato a finire Peyrone sul platino? Una dettagliata biografia di Peyrone è apparsa su La Chimica e l’Industria,77,1995, 989-994 a cura di Sandro Doldi (1908-2001) alla cui lettura rimando chi è interessato ad approfondire. Prendo qui alcuni spunti.

scomem2Michele Peyrone nasce a Mondovì Breo, un piccolo villaggio vicino (ora incorporato in) Mondovì da una famiglia abbastanza ricca che gli permise di tenerlo al riparo dal doversi guadagnare la vita. I suoi genitori morirono quando era giovane, e non fu di salute fortunata tanto da poter iniziare le scuole solo in ritardo. Frequentato il ginnasio (a Brà) si spostò a Torino per l’Università: si iscrisse prima a legge, ma dopo pochi mesi si trasferì a Medicina in cui si laureò nel 1935. Prese servizio nell’ospedale di Mondovì e nei successivi anni visitò vari ospedali e università in Italia, dopo di che decise di abbandonare la medicina. Si spostò nel 1839 a Parigi per studiare chimica fisiologica da Jean Baptiste André Dumas. Nel 1842 Peyrone si trasferì presso l’Università di Giessen per lavorare nei laboratori di Justus von Liebig. Questo fu un periodo molto fruttuoso per Peyrone che assorbì, oltre all’organizzazione dei laboratori di Liebig, anche la sua passione in chimica agraria e in fisiologia. Dal 1842 al 1844 Peyrone si dedicò alla ricerca sui composti del platino, in particolare interessandosi del sale verde di Magnus [Pt(NH3)4][PtCl4]. Nel tentativo di sintetizzarlo per reazione di un eccesso di ammoniaca su una soluzione acida di PtCl2 , vide apparire due prodotti: uno [Pt(NH3)4][PtCl4] identico al sale verde di Magnus, l’altro di colore giallino [PtCl2(NH3)2] il sale di Peyrone. Dopo questo lavoro Peyrone, per motivi di salute partì da Giessen per visitare laboratori ed ospedali in Germania, Olanda, Belgio e Inghilterra approfittando della sua abilità linguistica in Latino, Francese, Inglese e Tedesco, oltre che in Italiano. Dopo questi viaggi, tornò a Torino dove divenne “ripetitore di chimica”nel laboratorio universitario diretto da G.L.Cantù. Il governo lo destinò in seguito a Genova per insegnare chimica applicata alle arti nella scuola serale dove rimase dal 1847 al 1854 anche con qualche corso all’Università. Nel 1854 fu sostituito da Carlevaris e quindi tornò a Torino ad insegnare Chimica agraria nel Regio Istituto Tecnico. Nel 1855 Cantù andò in pensione, la cattedra rimase vacante, si aprì un concorso al quale parteciparono anche Peyrone e Sobrero: il ministro Lanza, “onde acquetare i contendenti”, scelse Piria. Tre anni dopo Piria fece nominare Peyrone professore straordinario di chimica generale e vice direttore del laboratorio dell’Università di Torino.

Il 18 luglio 1865 Piria morì e nell’anno seguente (dal 16 al 30 novembre 1866) vi fu il concorso per la cattedra vacante. La commissione era così costituita: Francesco Brioschi (matematico milanese,è stato nel 1863 fondatore del Politecnico di Milano e rettore dl 1863 al 1897) presidente della commissione (Nota: come si vede la scelta dei commissari, decretata dal Ministro era fatta sui membri della Facoltà, e talvolta con poca competenza specifica); S.Cannizzaro (Palermo), A.Sobrero (Torino), P.Piazza (Bologna), P.Tassinari (Pisa). Gli ultimi 4 erano chimici rispettati e inseriti nella comunità: per esempio furono tutti sottoscrittori del contributo di 50 lire versato nel 1871 per la pubblicazione della Gazzetta Chimica Italiana (vedi La Chimica e l’Industria,104,2011).

Riporto dal magnifico lavoro fatto da Leonello Paoloni nella raccolta delle lettere a Cannizzaro, Quaderno 3, pag. 37 :”Al concorso per titoli avevano partecipato ben sette candidati: Giovanni Bizio, Francesco Chiappero, Giuseppe Missaghi, Alfred Naquet, Michele Peyrone, Antonio Rossi e Ugo Schiff. I commissari Cannizzaro e Piazza proponevano una valutazione dei candidati che anteponeva il valore dei lavori scientifici, selezionando una rosa (Naquet, Rossi, Schiff) tra i quali doveva scegliersi il vincitore.Sobrero e Tassinari privilegiavano l’anzianità di servizio e concordavano nel dare il primo posto a Peyrone. Il presidente non prese posizione tra queste due tesi ed il concorso non ebbe un vincitore. La lettura della lunga relazione (47 cartelle manoscritte) nella quale si confrontano tesi diverse, è di grande interesse.

Nel frattempo Peyrone aveva conservato il suo posto di professore universitario straordinario (incarico annuale) e vice direttore del laboratorio, posti che mantenne anche quando nel 1867 Lieben vinse il posto di professore ordinario. Tuttavia, Peyrone scrisse al ministro di non poter accettare “…una posizione subordinata ad un giovane straniero (Nota. All’epoca Lieben aveva 31 anni e Peyrone 54), che potrà forse diventare un grand’uomo, ma che per ora i lavori pubblicati dal medesimo, tengono ancora nel numero delle mediocrità…. Pertanto la prego di accettare la mia rinuncia al posto di prof. straordinario non solo, ma anche a quella di Vicedirettore del laboratorio di Chimica generale, ed ammettermi a far valere i diritti che, secondo le costituzioni prima del 1860 vigenti, mi competono alla pensione di riposo”.

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Adolf Lieben

La dimissione fu accolta, ma solo con una liquidazione. Peyrone riprese l’insegnamento presso l’Istituto

Tecnico di Torino dove restò fino al collocamento a riposo del 1 novembre 1879. Morì nel luglio (o agosto) 1883.

Pubblicato nel 1844 sugli Ann.Chem.Farm. il sale di Peyrone dovette aspettare il 1893 quando A.Werner pubblicò il suo lavoro sulla coordinazione chimica nella composizione dei complessi inorganici. Werner mostrò come complessi del platino bivalente con la struttura PtA2X2 cioè di coordinazione 4 debbano avere una geometria quadrata planare con il platino al centro e i sostituenti ai vertici. Nel sale di Peyrone i due atomi di cloro sono in posizione cis , mentre la seconda base di Reiset porta i due clori lontano, in posizione trans.

Nella metà degli anni 1960, Barnet Rosenberg, della Michigan State University, studiava l’effetto della corrente elettrica sulla crescita dell’ Eschirichia Coli . Il suo scopo iniziale era di provare a sterilizzare alcune apparecchiature medicali e di trovare un modo di conservazione del cibo e per questo scelse di studiare il batterio E.coli , particolarmente comune nel tratto intestinale e spesso trovato come contaminante; è anche facile da crescere in laboratorio, si riproduce facilmente, la sua struttura cromosomica è nota. Per valutare l’effetto della corrente elettrica sulla crescita dell’ E.coli Rosenberg aveva pensato ad un semplice metodo visuale ed aveva scelto il platino come elettrodo per la presunta inerzia chimica. Osservò che i batteri, sotto l’influsso della corrente, si riproducevano rapidamente facendo diventare torbida la soluzione; spenta la corrente, la soluzione in 2 ore tornava limpida. Esaminata la soluzione al microscopio, si osservava che l’ E.coli aveva cessato di riprodursi. Rosenberg attribuì questo effetto alla corrente elettrica; ben presto altre prove lo condussero a pensare che un inatteso rilascio di Pt ioni dagli elettrodi fossero la causa di quanto osservato. Con l’aiuto del National Cancer Institute alla fine trovò che proprio il cis-platino di Peyrone era il più efficace composto per attaccare l’ E.coli e altri batteri.

L’azione del cis-platino, e dei suoi derivati è ben descritta nel lavoro pubblicato su La Chimica e l’Industria,100,2012 da Giovanni Natile in occasione dell’assegnazione della medaglia Sacconi 2012. Riprendo brevissimamente alcune considerazioni rimandando all’articolo suddetto per altri particolari.

Il cis-platino [PtCl2(NH3)2] è stato approvato per l’uso contro il cancro dei testicoli nel 1978 (per gli USA) e l’anno successivo in Europa. Lo schema di reazione dovrebbe essere che nel primo passaggio uno dei cloruri è spostato dall’acqua per formare [PtCl(H2O)(NH3)2]+ in cui l’acqua può essere spostata da altre basi tra cui quelle del DNA e in particolare la guanina. Successivamente alla formazione di [PtCl(guanine-DNA)(NH3)2]+ può avvenire crosslinking, attraverso perdita dell’altro cloruro e ingresso di una nuova guanina. Il DNA danneggiato fa partire un meccanismo di riparo che a sua volta genera apoptosi, quando il riparo si rileva impossibile.

L’efficacia attuale del cis-platino (o derivati) contro il tumore ai testicoli è vicino al 100% di guarigione.

Sono passati più di 130 anni dalla scoperta del platino-cis al suo uso come farmaco. Hanno avuto rilevanza Peyrone, Werner, Rosenberg e tutti i loro collaboratori, inclusi i medici dell’ultimo passaggio. C’è voluto molto tempo, ma così è la ricerca. La passione, l’impegno, la scienza, la dedizione tutti fattori da ricordare assieme agli uomini che li hanno così bene sfruttati. Ricordare le radici è sempre appropriato.

 

La chimica modesta

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Giorgio Nebbia

Prima di arrivare a disporre di apparecchiature sofisticate i nostri predecessori si sono dovuti arrangiare a risolvere problemi importanti con mezzi modesti. Un esempio è offerto dalla misura della durezza delle acque con il metodo chiamato confidenzialmente “il Boutron-Boudet”.

Sull’importanza della misura della durezza delle acque, dovuta ai sali di calcio e magnesio disciolti, non ho bisogno di parlare, essendo noti a tutti gli effetti scomodi dovuti alla formazione di incrostazioni di ”calcare” sulle pentole in cui si cuoce la minestra, nei gabinetti e negli scaldabagni (ne ho appena dovuto cambiare uno), lungo le tubazioni degli acquedotti e soprattutto nelle operazioni di lavaggio dei panni con sapone.

I saponi si trasformano da sali di sodio a sali di calcio e magnesio insolubili in acqua che si depositano sulle fibre rendendole apparentemente “meno pulite”, ”meno bianche”. Soprattutto nelle operazioni di tintura la presenza di saponi di calcio rende meno omogenea la tintura. E’ stato proprio per questo che sono stati inventati i tensioattivi “sintetici”, costituiti dapprima da solfati degli acidi grassi, l’”olio di rosso turco”, poi da solfati e solfonati di idrocarburi alifatici, alifatici-aromatici, eccetera, e poi da tensioattivi non ionici.

Per conoscere la durezza delle acque occorreva un metodo semplice e rapido, anche se relativamente poco accurato. Nel 1847 il chimico scozzese Thomas Clark (1801-1867) in un articolo descrisse un metodo semplice e ingegnoso consistente nell’aggiungere all’acqua gradualmente una soluzione di sapone di sodio, uno stearato o oleato di sodio in soluzione idroalcolica con circa il 60 % di alcol etilico; fino a quando erano presenti in soluzione sali dei metalli alcalino terrosi si osservava la precipitazione di sali dei rispettivi saponi; quando i sali alcalino-terrosi erano precipitati tutti si formava la schiuma naturale delle soluzioni acquose di sapone; la presenza di tale schiuma era l’indicatore della fine della reazione; bastava misurare la quantità di sapone aggiunto per risalire alla “durezza”, espressa nelle appropriate unità. Come è ben noto, occorre conoscere sia la durezza totale, sia quella permanente, misurata nell’acqua dopo che, per ebollizione, è precipitato il calcio presente come bicarbonato e restano in soluzione solo i sali solubili in acqua. Clark propose anche una unità di misura della durezza, il “grado Clark”, corrispondente ad una presenza di sali alcalino-terrosi equivalenti a 14,2 mg di CaCO3 per litro di acqua.

Quasi contemporaneamente, e apparentemente in modo indipendente, i chimici francesi Antoine Boutron (1796-1879) e Félix Boudet (1806-1878) in un articolo datato 1856, descrissero lo stesso metodo che chiamarono idrotimetrico, proponendo come unità di misura della durezza il grado “francese”, definito come la concentrazione di sali alcalino terrosi equivalenti a 10 mg (0,1 mmole) di CaCO3 per litro di acqua, la gradazione utilizzata anche in Italia per molti decenni.

Boutron e Boudet proposero anche una ingegnosa “pipetta” costituita da un tubicino graduato con due fori di uscita; regolando con un dito (si faceva così una volta) l’apertura di uno dei due fori dall’altro usciva la soluzione saponosa goccia a goccia. Più modernamente si usa una pipetta con rubinetto. L’acqua da analizzare è posta in un vasetto graduato della capacità di 40 ml che viene agitato ad ogni aggiunta della soluzione saponosa. La reazione è finita quando si forma una schiuma persistente per 30 secondi.

Il metodo idrotimetrico è descritto nelle seguenti pubblicazioni: A.-F. Boutron-Charlard e F.-H. Boudet, Hydrotimétrie: Instruction sur l’emploi de l’hydrotimètre pour déterminer la valeur des eaux de sources et de rivières et leur composition, Clech et Deroche,‎ 1855, 12 p. e A.-F. Boutron-Charlard et F.-H. Boudet, Hydrotimétrie: Nouvelle méthode pour déterminer les proportions des matières en dissolution dans les eaux de sources et de rivières, Paris, V. Masson,‎ varie edizioni fra il 1856 e il 1882, 88 p. Altre notizie sulla storia del metodo Boutron-Boudet si trovano in: http://www.jstor.org/stable/41224933?seq=5#page_scan_tab_contents

Felix Boudet, divenuto direttore del Laboratoire de Ponts et Caussées si sarebbe occupato, nel 1873-74, fra l’altro, dell’analisi del piombo nelle acque: http://www.sisyphe.upmc.fr/piren/?q=webfm_send/431.

Più intensa la vita di Antoine Boutron che aggiunse al suo nome quello della moglie, figlia di Pierre Charland, un farmacista di Parigi; in un proprio laboratorio condusse ricerche di chimica sulla durezza delle acque, sui fosfolipidi e sulla presenza dell’amigdalina nelle mandorle amare. Inoltre condusse e pubblicò studi sulle frodi alimentari. Boutron fu collezionista di autografi, amico di intellettuali e fu coinvolto nei moti repubblicani conclusi con le “tre giornate gloriose” del 27-29 luglio 1830 che portarono alla deposizione del re Carlo X.

Benché sia ancora usato da qualcuno, il metodo Boutron-Boudet dopo molti decenni di onorata carriera è stato soppiantato dalla titolazione con il sale bisodico dell’acido etilendiammin-tetra-acetico EDTA (l’agente sequestrante scoperto nel 1935 dal chimico tedesco Ferdinand Munz che lavorava presso la I.G.Farben e che era poco solubile rispetto al suo sale), in ambiente alcalino con indicatore nero eriocromo T. I risultati sono ancora espressi in gradi francesi.

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Per approfondire:

http://myttex.net/forum/Thread-Durezza-nelle-acque-metodo-di-Boutron-Boudet

La durezza viene generalmente espressa in gradi francesi (°f, da non confondere con °F, che sono i gradi Fahrenheit), dove un grado rappresenta 10 mg di carbonato di calcio (CaCO3) per litro di acqua (1 °f = 10 mg/l = 10 ppmparti per milione). Alternativamente è possibile esprimere il risultato come millimoli di carbonato di calcio per litro di acqua, ad esempio: a 1,2 mmol/l corrispondono 12 °f. Attualmente si usa anche il grado MEC, che corrisponde a 1 g di CaCO3 in 100 litri ed è perciò uguale al grado francese.

 

In genere, le acque vengono classificate in base alla loro durezza come segue:

  • fino a 4 °f: molto dolci
  • da 4 °f a 8 °f: dolci
  • da 8 °f a 12 °f: medio-dure
  • da 12 °f a 18 °f: discretamente dure
  • da 18 °f a 30 °f: dure
  • oltre 30 °f: molto dure.

Altre unità di misura della durezza sono i gradi tedeschi (°T o °d) molto usati nell’analizzare l’acqua dell’acquario, con 1° T = quantità di sali equivalenti a 10 mg/l di ossido di calcio CaO (1 °T = 1,79 °f).

Tre ioni facili

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Claudio Della Volpe

Se c’è un protagonista della chimica conosciuto anche al grande pubblico ebbene questo è l’acido; l’acido è protagonista anche quando non c’entra nulla  o perfino quando sono le basi a fare qualcosa (vi ricordate a Vicenza?”donna ustionata dall’acido soda caustica“); acido è una parola ed un concetto legato alla aggressività, alla corrosione, addirittura ad uno dei sapori fondamentali che siamo in grado di sentire direttamente.

Lo sentiamo con i lati della lingua, con delle papille specializzate.(NdA: in effetti questa nozione, la separazione spaziale del gusto sulla lingua, appare superata dallo sviluppo della fisiologia)

E chi, pur non essendo chimico, di chimica ricorda qualcosa, certamente ricorderà che le proprietà acide corrispondono ad uno ione ben preciso e anche facile da ricordare, indicato per giunta sulle bottiglie di acqua minerale: chiamato ione idrogeno, H+, accapiù, ione idronio, ossonio, idrossonio o semplicemente protone. (E’ vero che ci sono definizioni molto più generali di acido e base, cui ha dato la stura Gilbert Lewis nel 1923, ma in questo post le trascureremo.)

Tuttavia è chiaro che protone nudo non può essere; per un semplice motivo.

Il protone, che è una particella elementare (vedi http://wp.me/p2TDDv-1Cw) , ha un diametro stimato di circa 1.76 femtometri, ossia 1.76 milionesimi di miliardesimo di metro (64000 volte meno dell’atomo di idrogeno) ma ha anche una carica di 1.6×10-19C; applicando l’equivalente della legge di Coulomb, in una forma un tantino più sofisticata, ossia il teorema di Gauss, posssiamo calcolare il campo elettrico corrispondente a queste proprietà.

La carica elettrica è considerata pari al cosiddetto flusso del campo elettrico uscente dall’area superficiale della sferetta protonica; il campo a sua volta è definito come il rapporto fra la forza generata e la carica.

la costante ε0 denominata permittività elettrica del vuoto, quantifica la tendenza del materiale a contrastare l’intensità del campo elettrico presente al suo interno e compare nella legge di Coulomb a denominatore, nel termine costante, è sostanzialmente la “costante dielettrica del vuoto”.

Il suo valore è pari a 8.85*10-12 Farad/metro, dove il Farad è l’unità di misura della capacità dei condensatori.

La superficie del protone è quindi poco meno di 10fm2, 10 quadratini di lato 1fm.

Il flusso totale uscente è quindi 1.6×10-19/8.85*10-12, che diviso per l’area, 10-29m2, corrisponde ad un campo elettrico di 1.8×1021N/C, o moltiplicando numeratore e denominatore per una lunghezza unitaria a 1.8×1021V/m!

Pensate! una differenza di potenziale elettrico pari a 1000 miliardi di miliardi di volt per ogni metro lineare o 1000 miliardi di volt per un solo nanometro!

E’ chiaro che una tale intensità di campo che attrae il protone ed elettroni di altri atomi, produca sfracelli dovunque arriva, rompe legami e ne riforma altri; in parole povere il protone libero non può esistere vicino ad altre particelle atomiche; e quindi si trasforma in uno ione più complesso che seppure indicato come H3O+, in realtà sarà tipicamente ancora più grande: H5O2+ o perfino H9O4+, due cationi che sono comuni in soluzione acquosa acida e che prendono il nome di catione di Zundel e catione di Eigen, dal nome dei due scopritori.

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Catione di Zundel

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Catione di Eigen

Cationi di queste dimensioni (J. Phys. Chem. B, 2014, 118 (1), pp 278–286 oppure Nature Chemistry 5, 29–35 (2013) doi:10.1038/nchem.1503) “diluiscono” la carica del protone in un volume molto maggiore, con un’area circostante molto più grande diminuendo il flusso del campo elettrico e la sua intensità ad un accettabile (si fa per dire!) 1.1×109 V/m, solo un misero miliardo di V/m, ovvero su un solo nanometro un solo V, che è poi lo stesso valore di ossidoriduzione dell’acqua se si vuole ottenere la sua elettrolisi.

In pratica è “come se” (con una immagine un po’ parecchio approssimata) i voltaggi che usiamo per le ossidoriduzioni fossero efficaci solo sull’ultimo nanometro attorno all’elettrodo e che la soluzione fosse per il resto a potenziale costante.

In conclusione H+ non esiste affatto, a causa della enorme intensità delle forze che scatena in soluzione con il suo mostruoso campo elettrico. Potrà esistere nel vuoto dello spazio e perfino in una fase gassosa diluita, ma non in una fase condensata, come un liquido o un solido; e infatti non ne abbiamo notizia nemmeno nei reticoli cristallini che conosciamo.

C’è un suo stretto parente, che invece è poco conosciuto dalle grandi masse di pubblico, ma silenziosamente presente in molti dispositivi di comune impiego come le pile ricaricabili cosiddette NiMH, o nichel-metallo idruro; ma andate a chiedere anche ad un giovane e baldanzoso studente universitario di ingegneria e quello dovrà fare uno sforzo per ricordare questo nome: ione idruro? Chi era costui?

Si tratta del medesimo protone che ha saturato ad abundantiam i suoi orbitali con ben due elettroni; c’è differenza da H3O+ in cui l’eccesso di cariche positive strizza il volume degli atomi ben oltre la densità dell’acqua (si calcola infatti che il volume parziale molare di H3O+ sia di soli 5.3cm3/mol, in pratica se fosse possibile separarlo avrebbe una densità di oltre 3.5g/cm3, grazie alla elettrostrizione (Y. Marcus, Volumes of aqueous hydrogen and hydroxide ions at 0 to 200 °C, J. Chem. Phys. 137 (2012) 154501); in pratica l’eccesso di carica positiva strizza, comprime la nuvola elettronica: le molecole non sono sfere rigide!

H è invece un anione ciccione con un eccesso di cariche negative, componente comune nelle atmosfere stellari e nel mezzo interstellare dove funziona come un efficiente assorbitore di radiazione.

Lo ione idruro, a differenza del protone esiste in fase condensata perchè la sua intensità di campo elettrico è molto più bassa, dell’ordine di quella di H3O+, seppure di segno opposto. Lo troveremo come ione puro in composti dove l’altro atomo ha meno capacità di attrare l’elettrone in eccesso, come NaH o KH. Tuttavia mentre lo troviamo in fase solida non possiamo trovarlo facilmente in acqua a causa della sua reattività, dovuta alla sua enorme forza basica, superiore a quella di OH–  (e qua rientrano dalla finestra le idee di Lewis sulla basicità, ma noi teniamo duro).  Lo troveremo facilmente invece in altri solventi, come gli eteri, ossia molecole del tipo R-O-R, dove R è una catena di tipo idrocarburico, o alchilica come si dice.

Ci sono atomi metallici, in particolare quelli del gruppo del Platino che sono in grado di assorbire facilmente l’idrogeno sotto forma di radicale H, formando dei composti idruri di tipo covalente; il palladio per esempio ne assorbe qualcosa come quasi 1000 volte il suo volume e quindi potrebbe funzionare da efficiente anche se costoso serbatoio di idrogeno. Comportamento simile hanno altri elementi come il Nickel; oppure composti intermetallici costituiti dal Nickel con alcuni tipi di terre rare, nel rapporto generico AB5. Questi ultimi sono in grado di formare degli idruri con l’idrogeno liberato nelle batterie NiMH e che se no volerebbe via. La parte M della batteria è proprio questo composto intermetallico capace di assorbire l’idrogeno sotto forma di idruro; qui l’idruro è in genere non uno ione, ma solo un atomo polarizzato negativamente in un legame.

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Quindi mentre H+ non esiste, H esiste eccome ed è anche molto utile, ma quasi nessuno (fra i non chimici) lo conosce.

Ma non è il solo ione negativo “strano”; quale ione negativo è più basilare della particella negativa principe della Chimica? Ossia dell’elettrone?

Beh certo direte voi, ma l’elettrone è una particella a carica negativa, mica un vero e proprio anione!

E invece certamente che lo è! può trovarsi “sciolto” in un solvente, esattamente come il protone, ossia legato a qualche molecola di solvente, o come si dice in gergo solvatato.(vedi anche https://ilblogdellasci.wordpress.com/brevissime/la-sai-lultima-sul-sodio/)

elettroni solvatati in ammoniaca liquida

L’elettrone solvatato è una specie comune in alcuni solventi poco comuni. Lo si trova in ammoniaca liquida (che non è poi così difficile da ottenere, basta abbassare la temperatura sotto -33°C e assicurarsi che l’ammoniaca sia sufficientemente anidra); se sciogliete sodio in ammoniaca liquida anidra per esempio, un pezzettino piccolissimo, avrete un bellissimo colore blù intenso, che è tipico dell’elettrone solvatato e condiviso con altre soluzioni simili di metalli alcalini, Litio ad esempio.

( http://chemed.chem.purdue.edu/demos/main_pages/9.4.html)

 

In modo più avventuroso, per esempio tramite un laser UV si riesce ad ottenerlo perfino in acqua, anche se a concentrazioni molto più basse (Phys. Chem. Chem. Phys., 2012,14, 22-34).

A concentrazioni molto elevate (>3M) il colore della soluzione vira verso quello del rame intenso e la conducibilità che eguagliava quella delle soluzioni elettrolitiche normali si alza verso valori da metallo vero e proprio.

Insomma anche l’elettrone solvatato non è così strano; anzi si trova in tutti i cosiddetti Outer sphere electron transpher processes, ossia tutte quelle volte che il trasferimento di un elettrone si effettua fra due specie che rimangono separate durante l’evento di trasferimento, un processo proposto oltre 60 anni da Rudolph Marcus e che domina alcuni processi biologici come il funzionamento delle proteine cosiddette Fe-S.

In effetti la prima osservazione dell’elettrone solvatato fu fatta addirittura nel 1805 da Sir Humphry Davy, una nostra vecchia conoscenza. Ma fu solo cento anni dopo nel 1907 che Charles Kraus propose l’esistenza dell’elettrone libero in soluzione per spiegare quelle osservazioni.

Il dibattito prosegue acceso su quale sia la struttura dell’elettrone solvatato in acqua; qui si scontrano almeno due visioni: l’elttrone solvatato sopravvive in una cavità come si è pensato a lungo oppure le cose stanno diversamente come sostiene qualcuno ed esistono anche componenti attrattive dell’interazione fra elettrone ed altre molecole? (Does the Hydrated Electron Occupy a Cavity?
Ross E. Larsen et al. Science 329, 65 (2010); DOI: 10.1126/science.1189588; Comment on ”Does the Hydrated Electron Occupy a Cavity?”
Leif D. Jacobson and John M. Herbert Science 331, 1387 (2011); DOI: 10.1126/science.1198191; Response to Comments on ”Does the Hydrated Electron Occupy a Cavity?” Ross E. Larsen et al. Science 331, 1387 (2011);
DOI: 10.1126/science.1197884)

Ma c’è da dire che a differenza del protone l’elettrone esiste anche allo stato cristallino come ione; si veda per esempio Dye, J. L. (2003). “Electrons as Anions”. Science 301 (5633): 607–608. doi:10.1126/science.1088103. PMID 12893933.

I materiali che lo contengono in tale forma prendono il nome di elettruri.

Dice Dye:

As is common with organic electrides and alkali metals in zeolites, adjacent electrons form spin-paired dimers or chains. The electrons are mobile enough to yield near-metallic electrical conductivity.

Because only one-third of the trapping sites are occupied, electrons can jump or tunnel from a full site to an empty one, thus avoiding the Coulomb repulsion that prevents double occupancy of cavities in most electrides. No reaction with air and moisture occurs because the small diameter (~0.1 nm) of the connecting channels makes the sites inaccessible at room temperature.

In questa immagine tratta dall’articolo di Science, si vedono le cavità (in color malva) che contengono l’elettrone spaiato.

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Insomma la chimica è sempre piena di sorprese, il famoso protone di cui ci parlano dalle medie non esiste libero, se non in casi particolari, mentre lo ione idruro e l’elettrone/anione sono molto più comuni, anche se meno conosciuti ed esistono perfino in materiali stabili a temperatura ambiente.

Questa differenza fra protone ed elettrone che sono entrambe particelle elementari però ci stupisce. Ma perchè poi il protone è così instabile e l’elettrone no? In fondo l’elettrone ha la medesima carica sia pur negativa e un raggio perfino inferiore, quindi una intensità di campo elettrico superiore!

Beh in realtà si potrebbe partire da una ancora più basilare asimmetria; in un precedente post (http://wp.me/p2TDDv-1Cw) abbiamo visto che l’elettrone è un leptone, una particella veramente elementare, mentre il protone è un adrone, formato da un certo numero di quarks (tre per la precisione); questo ci ricorda fra l’altro che la massa del protone è così tanto più alta dell’elettrone (2000 volte ca) da permettere di usare la cosiddetta approssimazione di Born-Hoppenheimer, cioè pensare nell’analisi degli atomi che il nucleo sia fermo mentre solo gli elettroni si muovono effettivamente, cosa che facilita enormemente i conti di MQ.

In effetti non è tanto la massa dei quarks che fa la differenza, ma la loro energia di legame, che tramite la equivalenza massa-energia di Einstein ci spiega perchè la massa del protone è così tanto più alta.

Particelle leggere i quark, ma legate con una forza mostruosamente grande.

Ma nonostante questa basilare differenza noi siamo abituati a considerare in primo luogo che sono entrambe particelle elettriche l’una positiva e l’altra negativa, di carica uguale. Ma allora perchè il protone non esiste in soluzione o nei cristalli e l’elettrone si?

Tutto ciò ci dice qualcosa sulla asimmetria dell’Universo; perchè se è pur vero che l’Universo ha una simmetria profonda, come già abbiamo visto nelle teorie supersimmetriche, tale simmetria si nutre di piccole asimmetrie.

E’ un pò come la bellezza dell’arte che nella simmetria da rapporto aureo dei templi greci nasconde la curvatura delle colonne (una forma che esprimeva la tensione della struttura); è un pò come la statua del David di Michelangelo che ha una gamba flessa in avanti e rappresenta in un certo senso nell’arte il punto di arrivo dell’uomo di Vitruvio, il disegno di Leonardo che sottolinea invece la simmetria del corpo inscrivendolo in un cerchio ed un quadrato; allo stesso modo la differenza fra la stabilità del protone e dell’elettrone ha un senso profondo, che introduce un ruolo dell’asimmetria, nella generale simmetria. (L’amico Mauro Icardi che avete imparato ad apprezzare sul blog, mi dice che questo argomento lo fa pensare al Primo Levi de “L’asimmetria e la vita”(una raccolta di saggi uscita postuma presso Einaudi nel 2002, a cura di Marco Belpoliti).

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Le superfici delle cose a livello microscopico sono fatte di elettroni, la parte esterna degli atomi è quindi carica negativamente anche se l’atomo è complessivamente neutro; la repulsione fra le nuvole atomiche è un aspetto dominante del mondo; la impenetrabilità della materia, che pure l’esperimento di Rutherford ci ha dimostrato essere essenzialmente vuota, si spiega proprio con tale repulsione generalizzata.

Le interazioni di tali nuvole elettroniche (che sono anche “diffuse” e quindi poco concentrate e posseggono quindi un campo molto meno intenso del nucleo) con l’elettrone sono molto meno forti che con il protone.

Un protone libero col suo mostruoso campo attrattivo non riesce a rimanere libero, interagisce fortemente con qualunque superficie elettronica vicina e si trasforma in qualcosa d’altro; mentre invece l’elettrone, pur avendo la medesima concentrazione di campo elettrico (o perfino superiore), non genera attraverso la repulsione con le nuvole esterne gli stessi effetti e riesce a sopravvivere in alcuni casi come negli elettruri o in certe soluzioni (e potrebbe perfino avere componenti attrattive in qualche caso).

Non viene prevalentemente attratto, ma prevalentemente allontanato, respinto, sparato via dalla repulsione o, se trova una nicchia (le zone disegnate in malva nella figura di Science), in cui le forze repulsive si eguagliano, può resistere per tempi molto lunghi; e questo avviene negli elettruri.

Gli elettruri sono quindi come la gamba flessa del David di Michelangelo, o la curvatura delle colonne greche, quelle piccole asimmmetrie che rendono il mondo più bello e degno di essere vissuto e nello stesso tempo ci rendono manifesta, almeno per un momento, la struttura profonda dell’universo (o della nostra mente).

La scienza comincia sempre così

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Marco Taddia

Recensione a “Esperimenti scentifici da fare per gioco” di Ian Graham e Mike Goldsmith (Le Scienze, Roma, 2015/ Dorling Kindersley, London, 2011 – pp. 144, Euro 9,90)

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A volte si ha l’impressione che i nostri bambini siano più affascinati dalla realtà virtuale piuttosto che da quella fisica. Anche noi corriamo un rischio simile, talvolta ignari della mutazione di cui siamo vittime. Il fenomeno non è privo di conseguenze e il progressivo distacco dalla natura, di cui siamo parte integrante, ha sempre un prezzo. Anche un libro, nel suo piccolo, può aiutare i nostri ragazzi (e forse anche noi) a correggere il tiro, ristabilendo la corretta gerarchia fra natura e tecnologia, aiutando a scoprire la scienza. Non c’è da meravigliarsi se questo libro è stato inizialmente pubblicato nel Regno Unito e si è avvalso anche di prestigiose collaborazioni di stampo accademico come il Reach Out Lab dell’Imperial College. L’editoria anglosassone ha, per quanto riguarda la divulgazione scientifica, un passato a dir poco glorioso che risale almeno al secolo XIX, interessa anche la chimica e non è guardata con sufficienza dagli esperti.

Ma veniamo a qualche esempio, preso dall’edizione italiana, uscita per il mensile “Le Scienze” un paio di mesi fa. Alle pp. 82-83 vengono fornite le istruzioni per costruire uno spettroscopio con i mezzi che ciascuno può trovare in casa propria. Viene in mente subito la vicenda di Robert Wilhelm Bunsen (Gottinga, 1811 – Heidelberg, 1899), riconosciuto caposcuola della chimica tedesca del secolo XIX, più famoso per ciò che non ha inventato (il becco) piuttosto che per gli importanti risultati ottenuti nei diversi settori della chimica. Bunsen costruì il suo primo spettroscopio utilizzando una scatola di sigari. Anche per il resto, utilizzò ciò che aveva sottomano. Da un piccolo telescopio prese gli oculari e poi completò l’opera con un prisma. Ciò non gli impedì di condurre osservazioni che lo fanno ricordare, insieme al fisico Gustav Kirchhoff (Königsberg, 1824–Berlino, 1887), come padre della spettroscopia atomica analitica, portandolo a scoprire nuovi elementi chimici (cesio, rubidio).

Oggi, per costruire uno spettroscopio in casa, occorre procurarsi (udite, udite): un tubo di cartone preso da un rotolo di carta igienica, un po’ di carta nera, un vecchio CD registrabile, del nastro adesivo da pacchi, un po’ di cartone resistente e un po’ di cartoncino. Un paio di forbici e la colla completano l’elenco. Come procedere? Beh, dovete leggerlo sul libro. Sarete aiutati da belle immagini e anche dai consigli per eseguire le vostre osservazioni. Non mancano le precauzioni d’uso. Ad esempio, si raccomanda di non guardare luci forti oppure di non puntare direttamente lo spettroscopio verso il Sole. Ci sono poi tre piccoli box esplicativi. Uno spiega come funziona, l’altro riassume in breve la scienza degli spettri (riportando quello del carbonio e quello del mercurio) e l’ultimo accenna alle applicazioni in campo astronomico. Fra i simboli convenzionali che accompagnano l’esperimento (tempo di realizzazione, livello di difficoltà ecc…) , chiaramente spiegati all’inizio del libro, c’è quello in cui si raccomanda la presenza di un adulto. In realtà, può darsi che gli adulti si appassionino a questo libro e agli esperimenti ivi descritti quasi quanto i ragazzi.

Probabilmente anche loro, professori compresi, ne ricaveranno qualche spunto di riflessione. Il libro è diviso in cinque parti: il mondo dei materiali, forze e movimento, energia in azione, elettricità e magnetismo, il mondo naturale. Nella parte riguardante i materiali ci sono esperimenti ben noti a chiunque abbia assistito a dimostrazioni introduttive alla chimica. Uno dei più curiosi (e semplici) s’intitola “nuova vita all’argento” e, probabilmente, verrà copiato dalle mamme per restituire brillantezza e luminosità agli oggetti d’argento anneriti dai depositi superficiali di solfuro. Meno facile, c’è da scommetterci, sarà l’interpretazione del fenomeno elettrochimico ma si sa che occorre procedere per gradi! Nella seconda parte troviamo un esperimento da realizzare con una bibita frizzante. Introducendo nella bottiglia alcune mentine si genera un’eruzione spettacolare, dovuta a un fenomeno di nucleazione che concentra le bolle di diossido di carbonio in uno spazio ristretto, e che può raggiungere un’altezza considerevole. Meno facile da spiegare perché le bibite light, che non contengono saccarosio, danno getti più alti e violenti. Un altro esperimento, nella sezione natura, riguarda la creazione delle nuvole. Finalmente, i vostri bambini capiranno cosa sono quelle formazioni mutevoli nella forma e anche nel colore che corrono sulle loro teste, hanno ispirato poeti e, spesso, attirato la curiosità degli scienziati. Se talvolta li vedrete con lo sguardo rivolto al cielo invece che allo schermo dello smartphone, vorrà dire che l’esperimento è riuscito.

 

Analisi forense

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Luigi Campanella, ex Presidente SCI

Nell’analisi forense due approcci differenti sono state applicati al monitoraggio delle droghe da abuso.

Il primo si basa su un test immunologico preliminare di screening che ha il vantaggio di rapidità, disponibilità in situ, kit analitici, elevate ricadute. Ci sono però anche degli svantaggi quali la specificità ridotta, i falsi positivi, la reattività traversale.

Per tali motivi a questi test preliminari ne seguono alcuni confermativi generalmente eseguiti mediante HPLC e gas cromatografia accoppiate alla spettrometria di massa. Con questi metodi si ottiene, oltre al rivelamento, la determinazione quantitativa dei composti. Recentemente l’elettroforesi capillare e le tecniche ad essa correlate hanno dimostrato il loro potenziale nell’analisi forense con elevate capacità separative, possibilità di automazione, ridotto consumo di reagenti e piccoli volumi da analizzare. L’elettroforesi capillare diviene pertanto una valida alternativa,complementare in ogni caso alla cromatografia convenzionale.

Capillaryelectrophoresis

L’elettroforesi capillare è pensata per separare le specie basandosi sulla dimensione del rapporto di carica all’interno di un piccolo capillare riempito con un elettrolita

Inoltre le tecniche elettroforetiche possono essere eseguite con dispositivi micro fluidici per le separazioni in situ e l’analisi quali-quanti-tativa dei composti di interesse. Questo aspetto di portabilità potrebbe essere molto utile per rinforzare le agenzie che testano droghe di abuso nell’ambiente di lavoro o controllano autisti sospettati di essere sotto effetto di droghe o ancora atleti durante una competizione sportiva. I vantaggi derivanti dai costi ridotti per lo smaltimento di solventi o rifiuti ha valorizzato l’ipotesi di miniaturizzare in cromatografia dove si sono progressivamente imposti sistemi microcapillari e sistemi cromatografici nanoliquidi.

Il numero di applicazioni di queste tecniche cromatografiche in campo forensico è ancora relativamente basso ma in continua crescita. Vale la pena di sottolineare che le tecniche miniaturizzate di separazione sia elettroforetiche che cromatografiche giocano un ruolo fondamentale nelle separazioni chirali. In questo contesto la discriminazione chirale di una droga e/o dei suoi metaboliti può essere utilizzata in farmacodinamica, in tossicologia, nel controllo per distinguere l’abuso dall’impiego farmaceutico/medico.

L’UNDOC, l’ufficio delle Nazioni Unite per crimini e droghe ha di recente riportato che l’abuso globale di oppiacei rimane essenzialmente stabile e continua ad essere uno dei principali problemi mondiali. Tra questi l’eroina è la più consumata e la sua determinazione è quella dei suoi metaboliti e delle sue impurezze è di certo una sfida alla comunità dei chimici analitici impegnati nell’analisi forense. L’elettroforesi capillare è di certo una soluzione comunemente accettata. La determinazione del rapporto delle impurezze di base dell’eroina come la morfina, la codeina, la monoacetilmorfina,la papaverina, l’acetilcodeina, la papaverina fornisce preziose informazioni circa la provenienza geografica di un campione illecito di eroina.

I principali problemi nella determinazione di droghe di abuso e loro metaboliti nei liquidi biologici sono rappresentati dalle interferenze endogene, dal tempo richiesto per la preparazione del campione e le sue manipolazioni ,dal piccolo volume in cui il campione deve essere trattato visto che ci riferiamo a tecniche miniaturizzate. Per risolvere questi problemi sono state adottate molte strategie per tecniche miniaturizzate appropriate alla manipolazione di piccoli volumi. Lo scopo di queste strategie è di garantire opportuni limiti di rivelazione per le tecniche miniaturizzate e di assicurare che essi siano paragonabili a quelli offerti dai dispositivi tradizionali. L’elettroforesi capillare accoppiata alla spettrometria di massa consente limiti di rilevazione dell’ordine di 0.01-0.2 ng/mL con un fattore di guadagno rispetto ai metodi tradizionali pari a 100-200 . Gli stessi limiti possono essere abbassati di 10 volte con alcuni accorgimenti sperimentali. La preconcentrazione consente ulteriori miglioramenti in quanto permette di partire da volumi più grandi di quelli contemplati dalla elettroforesi capillare. Queste tecniche sono oggi applicate anche all’analisi della cocaina, delle anfetamine e delle droghe biogeniche che si originano dalle medicine tradizionali e che rappresentano un nuovo campo dell’analisi forense.

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Stricnina

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Brucina

Gli alcaloidi stricnina e brucina possono ad esempio essere impiegati come adulteranti delle droghe di strada con conseguenti intossicazioni fino alla morte. Un altro problema al quale le tecniche miniaturizzate possono dare un significativo contributo è quello delle multi-droghe nelle quali a volte coesiste un numero elevatissimo di composti la cui determinazione può risentire, per ognuno di essi, delle interferenze da parte di altri per cui è necessario ricorrere a metodi ifenati capaci di accoppiare elevate capacità separative e caratteristiche analitiche .di elevata qualità in termini di accuratezza, precisione, limite di rivelabilità. Con questo approccio a livello dei laboratoro della Polizia e dei Carabinieri sono state risolte miscele di anfetamine, oppiacei e droghe ipnotiche e loro metaboliti.

Sostanzialmente possiamo concludere dicendo che il problema dell’uso crescente di droghe pone questioni di sicurezza, di igiene, di ambiente rispetto ai quali la chimica analitica con le sue tecnologie ed i suoi metodi ifenati e miniaturizzati può dare un contributo sostanziale consentendo di rivelare la presenza di tali droghe in materiali diversi ivi compresi i liquidi biologici e quindi lo studio di processi farmacocinetici e farmacodinamici. Le possibilità di lavorare in sistemi miniaturizzati riduce costi, rifiuti, tempi, difficoltà di automazione. Fra tali tecniche l’elettroforesi capillare e la cromatografia liquida sembrano le più promettenti.

Riferimenti.

S.Schiavone,Ann.Ist.Sup.San. 2004,40,41-46


I.Santori TAB 3,Ann.Sc.Sup.Medica Locarno,giugno 2006

J.Cai,J.Chromat 1995,703,677-692

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Nota del postmaster. Le tecniche cui si fa riferimento nel post sono in parte basate sulla cromatografia. La cromatografia è un metodo antichissimo di separazione basato sulla diversa afffinità di una sostanza per il mezzo poroso attraverso cui essa passa. Tracce di questa idea si trovano già a partire dagli egiziani e il metodo è citato nel Simposio di Platone e rappresentato artisticamente.

Modernamente la ripartizione di una miscela di composti gassosi o liquidi fra due fasi una fissa e l’altra mobile rappresenta l’essenza della cromatografia. Si usano colonne di materiali porosi, a volte molto sottili, “capillari”, impaccate in tubi di metallo; oppure semplicemente carta di caratteristiche opportune; la separazione fra le componenti avviene per trasporto da parte di una fase a sua volta scelta in modo opportuno nella quale viene iniettata la miscela da esaminare; si possono anche applicare le medesime tecniche per la separazione di quantità macroscopiche di prodotti diversi.

egyptsiphoning

Plat. Sym. 175d

[175δ] ἀπολαύσω, σοι προσέστη ἐν τοῖς προθύροις. δῆλον γὰρ ὅτι ηὗρες αὐτὸ καὶ ἔχεις: οὐ γὰρ ἂν προαπέστης.

καὶ τὸν Σωκράτη καθίζεσθαι καὶ εἰπεῖν ὅτι εὖ ἂν ἔχοι, φάναι, Ἀγάθων, εἰ τοιοῦτον εἴη σοφία ὥστ᾽ ἐκ τοῦ πληρεστέρου εἰς τὸ κενώτερον ῥεῖν ἡμῶν, ἐὰν ἁπτώμεθα ἀλλήλων, ὥσπερ τὸ ἐν ταῖς κύλιξιν ὕδωρ τὸ διὰ τοῦ ἐρίου ῥέον ἐκ τῆς πληρεστέρας εἰς τὴν κενωτέραν. εἰ γὰρ οὕτως ἔχει καὶ

“Vieni qui, Socrate, mettiti accanto a me, che io possa apprendere subito per contatto diretto i tuoi pensieri là nel vestibolo; a qualcosa devono pure aver condotto le tue riflessioni, se no saresti ancora là”. Socrate si siede e fa: “Sarebbe una buona cosa, Agatone, se i pensieri potessero scivolare da chi ne ha più a chi ne ha meno per contatto diretto, quando siamo accanto, tu ed io; come l’acqua che, attraverso un filo di lana, passa dalla coppa più piena alla più vuota. Se è così, voglio subito mettermi al tuo fianco, perché la tua grande e bella saggezza possa riempire la mia coppa. Che per la verità è un po’ così, incerta come un sogno, mentre la tua sapienza è limpida e può sfavillare ancora di più, lei che ha brillato con lo splendore della tua giovinezza e ier l’altro ha fatto faville davanti a più di trentamila greci, che prendo tutti a miei testimoni!”

Popular Science Monthly Volume 16 February 1880

(1880) Ancient Methods of Filtration By Henry Carrington Bolton

Riduzionismo e specificità della Chimica

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Rinaldo Cervellati*

(in ricordo di Leonello Paoloni e Giuseppe Del Re, chimici teorici, storici e eccellenti insegnanti)

 rinaldocervellatiE’ opinione diffusa fra i fisici (ma anche da qualche chimico) che la chimica sia compresa nella fisica. Questa idea fa parte di quella concezione epistemologica nota come riduzionismo che tende a considerare concetti e teorie di una scienza in termini di un’alta scienza o teoria considerata più fondamentale. Nello specifico fisica vs. chimica, l’opinione revisionista riemerge probabilmente da una frase attribuita a P.A.M. Dirac (Premio Nobel per la Fisica 1933) secondo cui “tutta la chimica è compresa nell’equazione di Schroedinger”[1]. Ma le cose stanno veramente così? Cerchiamo di scoprirlo.

Anzitutto va riconosciuto che la Chimica è la più “giovane” fra le Scienze della Natura, il grande filosofo-epistemologo Immanuel Kant non la prese, infatti, in considerazione fra le Scienze nella prima edizione della “Critica della Ragion Pura” (1781), lo fece nella seconda (1786) precisando però la Chimica di Lavoisier. Il lungo cammino che la chimica ha percorso per affermarsi come vera e propria Scienza si compie solo negli anni ’70 del 1700, quando viene riconosciuto che i corpi materiali sono costituiti o da aggregati di sostanze o da sostanze singole. In quel periodo, infatti, ad opera specialmente di chimici francesi come Maquer e Fourcroy si andava precisando il concetto di sostanza pura attraverso procedimenti operativi per determinare e controllare i gradi di purezza delle sostanze[2]. L’acquisizione di questo concetto e la sua traduzione operativa permisero finalmente di ottenere dati coerenti: poterono quindi essere enunciate le leggi empiriche che regolano le combinazioni chimiche (Proust, Lavoisier, Dalton, Gay-Lussac, Richter). Ciò condusse a quello straordinario lavoro di sintesi di Lavoisier prima [1] e di Dalton poi [2].

La formulazione di un’interpretazione teorica di tali leggi secondo un coerente modello particellare della materia richiese altri decenni e fu dovuta all’eccezionale opera di Stanislao Cannizzaro [3][3] che dimostrò la validità dell’ipotesi di Amedeo Avogadro formulata nel 1811 più di quaranta anni prima. La Tavola Periodica di Mendeleev diede poi conto delle variazioni periodiche delle proprietà chimiche e fisiche degli elementi, favorendone la scoperta di nuovi.

Infine la sistemazione spaziale degli atomi nelle molecole e la sua realtà fisica dovuta alla geniale intuizione di J. H. Van’t Hoff e la relazione fra questa e l’attività ottica precisarono ulteriormente il quadro concettuale della chimica[4].

Si può quindi affermare che alla fine del IXX secolo la scienza chimica aveva completato la strutturazione dei suoi fondamenti e precisato metodi e procedimenti per sintetizzare e caratterizzare nuove sostanze.

Tali fondamenti, insieme ai procedimenti operativi, sono illustrati nello schema che segue, adattato da un volume di Leonello Paoloni [4].

I fondamenti della chimica nella fase precedente la teoria sulla struttura atomica.

1) Le sostanze pure esistono sottoforma di corpi semplici o elementari, oppure sono composte di elementi. Ci sono criteri operativi per definire la purezza di una sostanza, e un procedimento operativo per la definizione di elemento.

2) Gli elementi e i corpi composti sono costituiti da molecole, e queste a loro volta sono costituite da atomi. Peso molecolare e peso atomico, misure di massa relativa, sono definiti in modo operativo.

3) La valenza è proprietà costitutiva degli atomi. La sua definizione operativa si fonda sui rapporti ponderali di combinazione di ciascun elemento e si esprime nel rapporto: valenza = (peso atomico) / (peso equivalente).

4) Ogni sostanza pura corrisponde a una formula molecolare che è unica e caratteristica di quella sostanza. Ogni formula molecolare corrisponde a un’unica e determinata sostanza pura.

5) Una data formula molecolare rappresenta l’organizzazione spaziale degli atomi che costituiscono la molecola e che appartengono a essa. Gli atomi adiacenti sono legati fra loro: la struttura molecolare è l’insieme di tali legami.

Accanto a questi fondamenti è necessario riconoscere la logica dei procedimenti adottati per stabilire la struttura molecolare e definire quindi le ipotesi fatte per interpretare i dati osservazionali che costituiscono il contenuto caratterizzante della chimica:

1) Le proprietà qualitative e quantitative di ciascuna sostanza pura sono definite in modo operativo (per es.: punto di fusione, composizione, peso molecolare, densità o volume molare, acidità, basicità, conducibilità elettrica, etc.). Si ammette che queste proprietà siano la manifestazione di caratteri propri della struttura molecolare.

2) Il comportamento reattivo di ciascuna sostanza pura è qualificato con aggettivi, ciascuno dei quali definisce una categoria di reattività (per es.: acido, base, riducente, ossidante, …). Ciascuna categoria di reattività è attribuita a un raggruppamento di atomi con una disposizione spaziale ben definita, un gruppo, che identifica una funzione chimica presente nella struttura molecolare.

3) Ogni determinata sostanza pura può essere riferita a una o a più categorie di comportamento reattivo, e può essere trasformata in altre che appartengono successivamente a differenti categorie. La formula di struttura molecolare esprime la connessione fra l’organizzazione spaziale degli atomi nella molecola e una determinata sequenza di reazioni.

calvin

http://www.metodifisici.net/ Calvin & Hobbes è opera di Bill Watterson e pubblicato in Italia da Linus

Attraverso i procedimenti 1) – 3) i chimici dell’800 e dei primi anni del ‘900 erano quindi in grado di stabilire la struttura e la composizione dei corpi materiali naturali e di sintesi con metodi essenzialmente chimici (v. ad es. G. Rosini in: “Ciamician profeta dell’energia solare”, Atti del convegno storico-scientifico, Bologna, 2007, pp. 83-98 e G. Nasini, ibid, pp. 113-124).

I fenomeni che hanno messo in crisi la fisica classica e condotto alla formulazione e sviluppo della MQ (radiazione di corpo nero, effetto fotoelettrico, spettri atomici di emissione, equipartizione dell’energia) sono in senso stretto fenomeni fisici, studiati e interpretati da fisici. La teoria quantistica della struttura atomica si è sviluppata in modo separato e autonomo dalla scienza chimica. La “ricaduta” di tale teoria nel dominio della chimica e sui chimici si ebbe solo più tardi, ad opera in particolare di Gilbert Newton Lewis che fu il primo a proporre l’interpretazione del legame chimico per condivisone di una coppia di elettroni fra due atomi [5][5], culminata poi nella sintesi di Linus Pauling [6]. In seguito all’applicazione della MQ ai fenomeni chimici in senso stretto, i fondamenti della chimica 2) – 5) dello schema precedente si sono modificati come illustrato nello schema che segue.

I fondamenti della chimica dopo l’acquisizione di una teoria della struttura atomica.

1) Invariato.

2) Gli elementi e i corpi composti sono costituiti da molecole e queste a loro volta sono costituite da atomi. Ciascun atomo è caratterizzato dal numero atomico. Esistono diverse specie atomiche di un medesimo elemento che hanno lo stesso numero atomico e massa atomica differente (isotopi). Peso molecolare e peso atomico, misure di massa relativa, sono definiti in modo operativo.

3) I modi di combinazione di ciascun atomo che conducono alla formazione delle molecole sono determinati dalla struttura elettronica dell’atomo stesso.

4) L’organizzazione spaziale degli atomi, definita come struttura molecolare, è determinata dalle interazioni tra atomi adiacenti e non adiacenti. Essa è direttamente osservabile (risultato di misure). La formula di struttura molecolare, costruita come reticolato di legami, definisce le relazioni di adiacenza fra gli atomi. Essa è un poliedro convenzionale unico e caratteristico di ciascuna sostanza solo nell’intervallo di temperatura in cui tali relazioni di adiacenza restano compatibili con l’ampiezza delle oscillazioni intorno alla posizione media di equilibrio dei singoli atomi.

5) Le potenzialità reattive di una sostanza sono collegate alla distribuzione elettronica della molecola e alla sua geometria.

Accanto ai procedimenti di riconoscimento della struttura molecolare elencati in precedenza, si aggiungono ora tutti i numerosi procedimenti basati sulla misura degli effetti che produce l’interazione delle molecole con la radiazione elettromagnetica (dai raggi X alle microonde) e con particelle elementari (elettroni, neutroni, etc.).

I nuovi procedimenti e la relativa strumentazione elencati nello schema sono applicazioni pratiche della MQ e permettono oggi ai chimici di identificare con relativa semplicità e in tempi molto più rapidi la struttura dei corpi materiali. Tuttavia provate a chiedere a un chimico organico sintetista se per sintetizzare e purificare un nuovo composto con una certa resa basta risolvere una o più equazioni d’onda. Vi risponderà (ridendo) che le cose non stanno affatto così, occorre un paziente lavoro in laboratorio con procedimenti e tecniche chimiche.

Va in particolare sottolineato che il primo fondamento della scienza chimica è rimasto invariato, anche se si sono arricchiti i criteri operativi per discriminare tra miscele e sostanze che le compongono. Pertanto possiamo riconoscere che il primo fondamento è peculiare della chimica e almeno fino ad oggi nessuna equazione o sistema di equazioni della MQ può stabilire se un corpo materiale è un aggregato di sostanze o una singola sostanza. Fra l’altro il fondamento 1) oltre ad essere peculiare della chimica costituisce un nodo concettuale che risulta preliminare anche per il suo apprendimento[6].

I recenti progressi sia in fisica che in chimica hanno fatto emergere alcuni ulteriori sottosettori di ricerca in entrambe le discipline, ad es. la materia oscura in fisica e i nanomateriali in chimica. A questo proposito la MQ non è soltanto parte della fisica ma anche parte della chimica sebbene non coinvolga tutto di entrambe le scienze.

Posso quindi concludere con una citazione di Giuseppe Del Re [7]: L’unità della Scienza non deve essere trovata riducendola a un singolo modello di interpretazione scientifica ma riguardando a essa nel modo degli Antichi: come la Filosofia della Natura.

Bibliografia

[1] M. Lavoisier, Traité Élémentarie de Chimie, Cuchet Librairie, Paris, 1789.

[2] J. Dalton, New System of Chemical Philosophy, Russel, Manchester, multivolume 1808, 1810 e 1827.

[3] S. Cannizzaro, Sunto di un Corso di Filosofia Chimica, fatto nella R. Università di Genova, Il Nuovo Cimento, 1858, 7, 321-366.

[4] L. Paoloni, Nuova Didattica della Chimica, Bracciodieta Editore, Bari, 1982.

[5] G. N. Lewis, The Atom and the Molecule, Journal of American Chemical Society, 1916, 38, 762-785.

[6] L. Pauling, The Nature of Chemical Bond, Cornell University Press – Ithaca, New York, 1939.

[7] C. Liegener, G. Del Re, Chemistry vs. Physics, the Reduction Myth, and the Unity of Science, Zeitschrift fur allgmeine Wissenschaftstheorie, 1987, XVIII/1-2, 165-174.

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[1] In effetti questo statement è estrapolato della seguente frase: “The underlying physical laws necessary for the mathematical theory of a larger part of physics and the whole of chemistry are thus completely known, and the difficulty is only that the application of these laws leads to equations much too complicated to be soluble” (P.A.M. Dirac, Proc. Roy. Soc. London, 1929, A112, 661)

[2] Ancora all’inizio del ‘700 ad es. il carbonato di potassio era designato con nomi diversi se era ottenuto da ceneri (alcali vegetale fisso) o per riscaldamento del tartrato (sal tartari) o dal salnitro. Chimici francesi e tedeschi ottenevano risultati diversi per la stessa reazione perché usavano inconsapevolmente acido muriatico a diverso grado di purezza (P. Cancellieri et al. Didattica delle Scienze, 1984, n.113, 9-15).

[3] Vale la pena ricordare che Cannizzaro pubblicò la sua opera sottoforma di una serie di lezioni.

[4] Jacobus Henricus Van’t Hoff (primo Premio Nobel per la Chimica, 1901) è stato uno dei principali fondatori della Physical Chemistry. A lui si devono le leggi che stabiliscono le condizioni termodinamiche dell’equilibrio chimico e l’assimilazione del modello di soluzione diluita a quello del gas ideale (R. Cervellati, Atti del XV Convegno di Fondamenti e Storia della Chimica, Rend. Cont. Acc. Naz. Sci., Serie V, Vol. XXXVII, 2013, pp. 197-209). Van t Hoff è stato uno di quei rari scienziati che uniscono in sé notevoli capacità teoriche e pratiche.

[5] Il lavoro di Lewis del 1916 fu preso inizialmente in scarsa considerazione dai chimici, cominciò ad avere successo quando le sue idee furono divulgate da Irving Langmuir attorno al 1923. Nonostante 35 nomination Lewis non ottenne mai il Premio Nobel. Fu però insignito con la medaglia Davy nel 1929 dalla Royal Society brittannica.

[6] L. Paoloni fa rilevare che mentre la matematica, la fisica e la biologia affrontano lo stadio iniziale del loro apprendimento utilizzando nozioni tratte direttamente dall’esperienza sensoriale, la chimica è invece priva di questa connessione diretta con il dato sensoriale. Infatti i caratteri percepiti in un corpo materiale qualsiasi non consentono di stabilire se esso è un aggregato di sostanze o una sostanza singola.

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a proposito dell’autore

*Rinaldo cervellati è Professore associato di Chimica Fisica all’Università di Bologna.
Titolare di numerose ricerche in spettroscopia molecolare, didattica chimica, cinetica chimica, è autore di oltre duecento pubblicazioni scientifiche su riviste internazionali e nazionali e di quattro monografie scientifico-didattiche.
È vincitore della V edizione (1984) del premio “Arturo Miolati” per il settore della didattica chimica.
È membro del Comitato Scientifico di CnS-La Chimica nella Scuola, della Società Chimica Italiana, della Royal Chemical Society (UK), della International Union of Pure and Applied Chemistry (IUPAC), della Swiss Chemical Society (CH).

Cosa buttiamo nelle fognature?

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Mauro Icardi (siricaro@tiscali.it)

 Il lavoro nel settore del ciclo idrico (che svolgo ormai da venticinque anni) ,oltre a darmi il necessario sostegno economico (e l’augurio è ovviamente che la cosa continui a lungo) mi ha permesso di acquisire una discreta esperienza. Potrei definirmi un “chimico fognario”. Come già scritto in altri articoli, sono molti gli episodi particolari o divertenti che capitano quando si lavora in un depuratore. E’ altrettanto vero che il chimico in un depuratore deve spesso uscire dal Laboratorio, ed occuparsi di verifiche sul campo.

In particolare quando mi reco dove è posizionato il campionatore di ingresso, cioè nella zona di grigliatura dove si accumulano i materiali grossolani trasportati dalle acque reflue, mi rendo conto che questa sezione può essere un particolare punto di osservazione per capire le abitudini dei cittadini.

Sewer_gator

Durante i primi anni del mio lavoro le sezioni di grigliatura erano moltissime volte letteralmente riempite di bastoncini per la pulizia delle orecchie. Le loro dimensioni e la forma erano tali che non riuscivano ad essere trattenuti anche dalle griglie fini. Il risultato erano intasamenti otturazioni e malfunzionamenti nelle sezioni a valle. Era frequente che si infilassero nelle camere ermetiche delle pompe sommerse, provocandone in molti casi l’arresto. Molti finivano nelle sezioni di sedimentazione finale. E per evitare che finissero scaricati nel fiume, si dovevano effettuare pulizie straordinarie degli stramazzi dei sedimentatori, con aggravo di tempo e di costi. Dal 2001 in Italia è stato proibito il modello il cui bastoncino è di materiale plastico che è stato sostituito da quello in cartoncino biodegradabile. Il problema sta cosi lentamente risolvendosi. Ma non del tutto. Lo scorso novembre un servizio di “Striscia la notizia” lamentava la presenza di questi oggetti sul litorale domiziano a Castel Volturno. La conclusione dell’inviato del tg satirico è stata che tutto dipenda dal malfunzionamento dei depuratori. Questo argomento è decisamente vasto e delicato. Rientra in generale nella situazione del sistema depurativo italiano. Che ha ovviamente luci ed ombre. Ma è altrettanto vero che spesso le persone non hanno alcuna idea di cosa gettino nello scarico del gabinetto e quali conseguenze possano derivare dalle loro abitudini sbagliate.

112826-RGilgrandebisogno300dpi-285x407Altro problema ricorrente è l’accumulo di sostanze grasse ed oleose. Questo è un brano tratto dal libro “Il grande bisogno” di Rose George, e si riferisce al sistema fognario di Londra

«La metà dei 100.000 intasamenti che si verificano ogni anno a Londra sono causati dal grasso. I costi di rimozione ammontano almeno a 6 milioni di sterline»!!!! (p. 49)

Spesso questi inconvenienti sono dovuti alla perdurante e scorretta abitudine di riversare nelle fognature i residui dell’olio di frittura in particolare dei ristoranti. Questo per evitare i costi di smaltimento.

Ma la disattenzione fa rinvenire nelle sezioni di grigliatura e di dissabbiatura veramente di tutto. Moltissime fedi nuziali, catenine. Monete, banconote (che qualcuno dei colleghi cerca di far asciugare) e invariabilmente questo tentativo mi ricorda la scena del film di Totò “La banda degli onesti”, dove gli improvvisati falsari stendono le banconote appena stampate. E ancora documenti di identità, tesserini, carte di credito.

Del pitone reticolato ho già raccontato. C’è poi il problema di un particolare oggetto. Decisamente molto usato da quel che riscontro. E che quando finisce impigliato nelle griglie, o nei dissabbiatori tende a mostrare le sue notevoli qualità elastiche, visto che è fabbricato in lattice principalmente.

preservativi

Sto parlando ( e qui devo pronunciare la parola tabu’) del profilattico. Questo oggetto tende a gonfiarsi riempiendosi con l’acqua di fognatura. Raggiunge anche dimensioni ragguardevoli senza rompersi. Spesse volte mi trovo in un certo imbarazzo, soprattutto se si sta svolgendo una visita all’impianto. Di solito viene visitato da studenti universitari. L’attenzione si perde in ilarità battutine ed espressioni di disgusto. Se a visitare l’impianto sono alunni delle elementari bisogna essere bravi a dissimulare. La riflessione più evidente è sempre la solita. Non sarebbero dovuti finire nel water e quindi nella fogna. Questo è sempre il concetto che cerco di fare capire.

coccodrillo

Anche i cellulari vengono rinvenuti spesso (sempre dal libro di Rose George si scopre che in Inghilterra ammontano a circa 850.000 ogni anno). Un operatore degli spurghi fognari mi raccontò che aveva dovuto far revisionare completamente la botte del suo autocarro. Aveva ripulito una fossa imhoff di in condominio dove qualcuno aveva svuotato (credo per anni) la lettiera del gatto. Alcune di queste lettiere sono costituite da gel di silice che ha proprietà assorbenti. La fossa ne era letteralmente piena. Una volta aspirata danneggiò a causa dell’abrasione le valvole e le tenute idrauliche dell’autospurgo.

cocco2

Ultima considerazione che riguarda le signore ( e non me ne vogliano ). Ovvio che non si possa generalizzare, ma assorbenti e collant come diavolo farete cacciarli giù per il wc?

Come direbbero i francesi non è proprio il caso di buttare “tout à l’egout” cioè tutto giù per il tubo.

E’ il caso di differenziare non solamente quando siamo davanti al bidone dei rifiuti. Bisogna farlo anche in bagno davanti al wc. Imparare a non inquinare anche partendo dai nostri puliti ed immacolati bagni.