La chimica è sempre più di moda, negli istituti tecnici. (1 parte)

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Sergio Palazzi*

2014-047_02rpaginaIl titolo non è uno scherzo e nemmeno l’effetto dell’eccessiva calura.

Sappiamo benissimo che la chimica è stata fortemente ridotta in tutta la scuola superiore. Sappiamo pure che nei licei (cioè ad almeno il 50% degli studenti italiani) solo occasionalmente la chimica viene insegnata da docenti che ne abbiano una approfondita formazione specifica, perché la percentuale di chimici nella famosa graduatoria A060 è residuale rispetto ai laureati in altre discipline (i quali, per contro, hanno dedicato ad apprendere la chimica solo una parte poco più che residuale del loro curriculum).

Su quest’ultimo aspetto, del resto, la discussione è pluridecennale, ed è appena il caso di considerare come la proposta di “bidisciplinarietà” – almeno nella versione attuale, che è stata frutto di attente rielaborazioni nel direttivo della Divisione Didattica SCI – avrebbe offerto al legislatore un importante strumento per uscire dal ginepraio di una normativa perlomeno anacronistica. Chissà se se ne terrà conto nell’attuale fase.

Eppure, per quanto suoni strano, l’indirizzo “Sistema Moda” è uno dei pochissimi in Italia in cui si studi seriamente chimica applicata. Anzi, in questo senso è secondo solo all’articolazione “Chimica e materiali”.

È importante notare che nella cosiddetta riforma Gelmini, che è appena giunta a compimento del suo primo ciclo quinquennale, esiste l’indirizzo “Chimica, materiali e biotecnologie”, che avrebbe dovuto raggruppare le tante esperienze e sperimentazioni italiane.

Ma nel passare dalla progettazione originaria a ciò che poi è diventato legge, la ragione sociale delle due articolazioni ambientale e sanitaria ha perso la “chimica” mantenendo solo le “biotecnologie”. Togliendo quindi all’ambito chimico proprio le discipline che li caratterizzano in senso applicativo; è vero che quelle due articolazioni dedicano all’analitica ed all’organica una importante quota del monte ore, ma gli approfondimenti tecnologici – il core business – sono stati spostati su ambiti disciplinari decisamente diversi. Come del resto risulta chiaro nella declaratoria delle tre articolazioni di CM/B[1] dove l’articolazione chimica prevede tutto e ancora di più su ciò che ha a che fare con la chimica, teorica e pratica, mentre i due indirizzi biotecnologici (coerentemente) non mettono in evidenza nessuna specifica competenza di carattere chimico.

Non voglio adesso entrare nell’altro tema, cruciale per gli indirizzi di “Chimica e materiali”, cioè il fatto che essi devono tener conto delle tradizioni locali e delle esigenze del famoso territorio, orientando in tal senso sopratutto gli insegnamenti di “Tecnologie chimiche”. Per questi ultimi, le linee guida sembrano piuttosto chiare, nel presentare struttura e scopi ben diversi da come era in precedenza, quando vi erano almeno due insegnamenti applicativi tra loro complementari. Ma il fatto che in più di una realtà locale li si veda ancora confusi con i vecchi corsi di “impianti chimici”, e che la stessa prova scritta di questa prima maturità vada abbastanza in quel senso (oltretutto senza lasciare spazio alle esperienze territoriali), suscita più di una perplessità.

Di tutto questo, ovvero di alcuni timori sull’efficacia dell’indirizzo “Chimica e materiali” in assenza di un più forte e vincolante richiamo alle specificità locali, s’era già parlato e se ne continuerà a parlare in altre sedi.

Vorrei invece tornare all’argomento del titolo, guardandolo in positivo come un serio, concreto e quasi sorprendente passo avanti.

Gli indirizzi “Sistema moda” raccolgono principalmente l’eredità dei diversi indirizzi ad orientamento tessitura e maglieria (e, parallelamente, calzaturiero).

Nei diversi istituti di riferimento, per seguire i due aspetti complementari della produzione tessile, si affiancavano di solito ai corsi per perito chimico tintore (oggi riassorbiti nell’unico indirizzo generalista di cui sopra). Originariamente, erano corsi derivati dall’indirizzo meccanico, trattandosi di conoscere il funzionamento e l’impiego di macchine per tessere di vario genere. È vero che anche per i tessitori la chimica aveva un ruolo propedeutico abbastanza importante: per sapere cosa sono i materiali che si lavorano su un telaio, o quali saranno le trasformazioni che si subiranno prima di raggiungere il consumatore, sono sempre stati necessari elementi di base di chimica tessile e di chimica della nobilitazione. Ma, diciamolo, non è che fossero in cima ai pensieri degli studenti. Più o meno simmetricamente a come, per noi chimici tintori, non era poi fondamentale essere dei maghi dei filati e degli intrecci.

Gli anni e le successive ondate riformatrici avevano già portato alcune innovazioni, non sempre azzeccate. Poi si è arrivati alla versione attuale.

Che non è uscita dalla testa di Giove, ma almeno in questo caso è stata frutto del lavoro attento di esperti che hanno cercato di individuare una figura nuova, adeguata ai tempi. Il nucleo di base resta quello di ambito tessile, ma rafforzando alcune competenze oggi assolutamente indispensabili per affacciarsi non solo sui mercati del tessile/moda, ma anche su quello vastissimo del cosiddetto tessile tecnico, ovvero dei materiali a prestazioni specifiche elevate, meno legati alla logica delle passerelle.

Ed è qui che, a fianco del marketing e della storia del costume, con la bellezza di tre ore settimanali entra in gioco anche la chimica, facendo sì che i nostri modaioli possano essere, almeno nelle intenzioni, i diplomati con una visione più ad ampio spettro di tutta la scuola italiana.

Avendo ripreso ad insegnare su questo indirizzo già alcuni anni prima, le nuove tendenze non mi hanno sorpreso, perché (come diversi altri colleghi) trovavo naturale adeguare i vecchi programmi a quelle esigenze di rinnovamento che poi sono uscite delle linee guida.

La chimica va intesa come materia fondamentale e fondante di questo indirizzo, proprio perché oggi, e sempre più domani, sia le esigenze tecnologiche sia quelle legate al mercato impongono ai nuovi tecnici di avere queste competenze. A maggior ragione se poi decideranno di integrare e sviluppare la propria formazione con corsi universitari e di perfezionamento, il che accade sempre più spesso.

Dal punto di vista del consumatore / utente / cliente, credo che il tessile sia secondo solo al settore alimentare, per quanto riguarda l’associazione al prodotto (o alla sua immagine percepita) di valori o disvalori legati agli aspetti “chimici”. D’altro canto, non serve essere storici dell’industria per capire quanto i coloranti, le fibre, i detergenti abbiano rivoluzionato la qualità della vita a livello globale. Una strada costellata anche di gravi errori e di autentiche tragedie, ma solo una maggiore consapevolezza chimica può consentire un duraturo ed efficace cambio di rotta. A maggior ragione se poi consideriamo i vari impieghi dei materiali fibrosi e compositi (e delle tecnologie correlate) dall’edilizia all’elettronica alla medicina, è chiaro come stiano trasformando ancora una volta il nostro modo di interagire con ciò che ci circonda, ed anche qui è difficile sovrastimare il ruolo della chimica.

Ora che i primi modaioli si sono diplomati, penso tocchi a noi riflettere su alcuni aspetti che possono essere cruciali per far rendere al meglio questa opportunità, e su cui vorrei entrare nel dettaglio in un ulteriore intervento.

Per esempio: la scelta autonoma e continuamente aggiornata dei materiali di studio, visto che (fortunatamente, ed in linea con la modernità di questi corsi) non esistono dei libri di testo “omologati”.

Poi, il peso relativo da dare agli argomenti proposti dalle linee guida, che saggiamente hanno ridotto al minimo il solito “elenco della spesa” per concentrarsi sull’aspetto delle competenze, anche modulandoli secondo le specificità locali.

Tra questi una parte importante va data alla scienza del colore, dato che paradossalmente – nel paese del Made in Italy – essa entra nei programmi scolastici solo di quest’unico indirizzo.

Parallelamente, si deve trovare il modo di dare a dei non-chimici una presentazione concreta della chimica dei coloranti, delle fibre, delle materie prime, dell’acqua… In funzione delle prestazioni del prodotto ma altresì per comprendere le sacrosante esigenze di sostenibilità a tutela di lavoratori, ambiente e consumatori, senza però cadere in certi claim che coniugano integralismi ed interessi poco chiari.

Il che è più facile se si esce da una impostazione novecentesca. Di conseguenza, vanno visti gli aspetti metodologici.

Per esempio, pensare ad una didattica ricorsiva e non sequenziale, che sembra fatta apposta per studenti la cui formazione cresce in parallelo a quella proveniente da ambiti disciplinari estremamente diversi. Il che include l’opportunità di far discendere (finalmente) la teoria da una concreta esperienza sperimentale, interdisciplinare, meglio se legata alle attività di alternanza.

Tra gli altri, non trascurerei quello del CLIL: non dimentichiamoci che tra i diversi ambiti disciplinari in cui individuare la materia da svolgere in lingua straniera, la chimica applicata pare la più adatta per questo indirizzo: nelle altre materie legate alla moda è proprio l’italiano una delle lingue di riferimento, pare strano rinunciarvi!

Sperando di aver stimolato le riflessioni estive di qualche collega, sia insegnante sia del mondo produttivo, ci sentiamo presto con la seconda parte.

*Sergio Palazzi, chimico, insegnante, fotografo ed alcune altre cose. Questo, dal 2006, è il suo sito: http://www.kemia.it/index.htm

[1]          G.U. 30.3.12, s.o.60, p. 205

Altri riferimenti:

http://www.orientachimica.unimi.it/Iniziative/seminarioranucci2012.pdf