Cieli sporchi

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Mauro Icardi

$T2eC16hHJGMFFo!(TFPyBSG)HchWjw~~60_12Il titolo del pezzo è ripreso da quello di un volume della collana scientifica Zanichelli uscito nel 1967. Quasi cinquant’anni fa quando i diversi problemi di inquinamento ambientale erano ormai evidenti, destando preoccupazione sia nell’opinione pubblica, sia nella comunità scientifica e tecnica. Il libro che è ormai fuori catalogo inizia con il racconto di quanto accadde a Londra nel dicembre del 1952. Nei giorni tra il cinque e il nove dicembre una situazione meteorologica del tutto simile a quella che si sta verificando in Italia proprio in questi giorni (alta pressione stabile, assenza di precipitazioni, calma di vento e inversione termica) provocò la morte di quattromila persone, per lo più anziani e persone già sofferenti per patologie respiratorie. Per gli asmatici fu una tortura, ma anche le persone giovani respiravano con difficoltà. Quella che a tutti gli effetti fu una catastrofe ambientale ebbe questi effetti anche per l’utilizzo di carbone come combustibile per il riscaldamento domestico. Il carbone che veniva destinato al mercato interno in quel periodo in Inghilterra era di qualità inferiore a quello che veniva esportato, in particolare era carbone ad alto tenore di zolfo. La situazione economica inglese risentiva della crisi economica successiva al secondo conflitto mondiale, ma tutta l’Europa stava faticosamente risollevandosi dai danni e dalle distruzioni di quella guerra.

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Oggi in Italia stiamo assistendo all’ennesima emergenza smog. E le prime pagine dei giornali ci informano delle decisioni che i sindaci delle principali città italiane stanno per emanare. Ordinanze di blocco totale del traffico come a Milano, o circolazione a targhe alterne come a Roma. Decisioni che ogni volta provocano discussioni e polemiche soprattutto perché interferiscono in qualche modo con il nostro modo di intendere la mobilità urbana, che è ancora incentrato sull’utilizzo massiccio dell’automobile. Per non parlare della situazione di Pechino, che non è esagerato definire apocalittica.

Le riflessioni che intendo fare in questo articolo non esulano dall’argomento chimica. La conoscenza della chimica la sua diffusione a livello divulgativo tra il pubblico di non chimici sarebbe di grande aiuto sia nella comprensione dei fenomeni, sia nella maturazione di una presa di coscienza della gravità del fenomeno che spesso viene sottovalutato. Sostengo da sempre che un chimico o un appassionato di questa scienza abbia strumenti di conoscenza adatti per adottare anche a livello di azioni personali decisioni che a prima vista sembrerebbero faticose. Faticose perché nonostante le tante evidenze dei danni da smog le politiche ambientali, o per meglio dire le politiche sulla mobilità, i piani urbanistici si scontrano ancora con troppe abitudini consolidate. Per anni ho sentito invocare la “cura del ferro” per le città o gli ambiti metropolitani. Ma sono poche le città italiane che possono vantare la presenza di reti tranviare. E dove queste sono presenti spesso vengono ridotte o limitate fortemente.

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E’ pur vero che scontiamo gli errori del passato, quando il petrolio a basso prezzo scatenò un’illogica corsa alla motorizzazione privata. Ma oggi non possiamo (o non dovremmo) più tardare nel cambiare decisamente rotta.

Ma nel combattere l’inquinamento atmosferico ci troviamo di fronte ad un problema in più, cioè la necessità di un’azione decisamente capillare di informazione e di educazione ambientale. Se per l’inquinamento idrico si sono costruiti depuratori consortili che hanno nel tempo contribuito a limitare l’inquinamento dei fiumi collettando le acque reflue verso impianti centralizzati di depurazione, altrettanto non è possibile fare per le emissioni atmosferiche. I filtri alle ciminiere o le marmitte catalitiche non intercettano tutti gli inquinanti. L’atmosfera è un sistema dinamico e le sostanze inquinanti si disperdono e raggiungono gli strati più alti. Esistono poi inquinanti secondari che reagiscono con quelli già dispersi causando il fenomeno dello smog fotochimico. Di molti inquinanti conosciamo gli effetti sulla salute umana. Conosciamo le caratteristiche chimiche per esempio dell’SO2 e sappiamo che è molto solubile in acqua. E quindi viene assorbita facilmente dalle mucose e dal tratto superiore del nostro apparato respiratorio.

Per i PM (particulate matters) sappiamo ormai da tempo che in Italia (dati ANPA riferiti al 1994) il 50% delle emissioni è dovuto alle attività industriali, il 30% al traffico veicolare ed il 15% al riscaldamento domestico.

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da Aria Pulita di Stefano Caserini, ed, Bruno Mondadori 2013

Un’altra fonte significativa di emissione di PM da attribuire al traffico è quella dovuta all’usura di freni, gomme, asfalto stradale.
Sempre nei centri urbani, una frazione variabile, che può raggiungere il 60-80% in massa del particolato fine presente in atmosfera è di origine secondaria, ovvero è il risultato di reazioni chimiche che, partendo da inquinanti gassosi sia primari (cioè emessi direttamente in atmosfera come gli idrocarburi e altri composti organici, gli ossidi di azoto, gli ossidi di zolfo, il monossido di carbonio, l’ammoniaca) che secondari (frutto di trasformazioni chimiche come l’ozono e altri inquinanti fotochimici), generano un enorme numero di composti in fase solida o liquida come solfati, nitrati e particelle organiche.

Ai fini degli effetti sulla salute è molto importante la determinazione delle dimensioni e della composizione chimica delle particelle. Le dimensioni determinano il grado di penetrazione all’interno del tratto respiratorio mentre le caratteristiche chimiche determinano la capacità di reagire con altre sostanze inquinanti (IPA, metalli pesanti, SO2). Le particelle che si depositano nel tratto superiore o extratoracico (cavità nasali, faringe e laringe) possono causare effetti irritativi locali quali secchezza e infiammazione; quelle che si depositano nel tratto tracheobronchiale (trachea, bronchi e bronchioli) possono causare costrizione e riduzione della capacità epurativa dell’apparato respiratorio, aggravamento delle malattie respiratorie croniche (asma, bronchite ed enfisema) ed eventualmente neoplasie.

Sono chimico e ciclista urbano. In questi giorni durante le mie uscite ho percepito distintamente l’odore pungente dell’ozono nell’aria. Sarà anche deformazione professionale, ma ho capito forse meglio di altri quanto la situazione sia oggettivamente grave. Continuo ad essere fortemente convinto che i chimici siano coloro che possono essere effettivamente impegnati in più settori per dare un contributo reale per modificare questa situazione.

Il primo è quello di un forte impegno divulgativo e didattico. Generalizzato ma rivolto soprattutto agli studenti anche giovanissimi, anche quelli delle scuole elementari. Conoscere i fenomeni di inquinamento, le modalità di diffusione degli inquinanti, le provenienze può contribuire a mio parere a formare cittadini consapevoli ed informati. Meno soggetti a credere a leggende e sciocchezze che circolano in rete e su alcuni articoli di giornale. Non sarà un ‘impresa facile, ma non si può rinunciarvi.

Cercare di essere propositivi e di informare anche i decisori politici ad ogni livello, iniziando da quello locale.

La terza cosa che auspico è la possibilità di un grande sviluppo nella ricerca in chimica. Perché la sfida di essere meno dipendenti dai combustibili fossili passa anche attraverso lo sviluppo di tutte le tecnologie legate alle energie rinnovabili, alle tecnologie di accumulo dell’energia prodotta, all’elettrochimica. Non sarà una transizione immediata.

Ma non solo abbiamo un solo pianeta abitabile, abbiamo anche una sola atmosfera, un guscio protettivo di pochi chilometri che ci permette di sopravvivere. Riempirla di ogni tipo di inquinanti è fondamentalmente un comportamento stupido ed irrazionale. Quasi come versarsi il veleno nella minestra. Se qualcuno ci ha avvisato che i cieli sono sporchi già nel 1967 non credo che si possa attendere oltre. Anche se questo potrà costare qualche sacrificio. E un cambiamento di mentalità. Un liberarsi da falsi bisogni indotti da pubblicità e necessità di approvazione sociale. Un cambiamento non facile, una rivoluzione culturale.

Riferimenti

per la situazione climatica di questi giorni si veda qui

un bel testo sul tema dell’inquinamento scritto di recente è Aria Pulita di Stefano Caserini, ed. Bruno Mondadori 2013, scritto da Stefano Caserini dell’Università di Milano

http://www.caserinik.it/ariapulita/

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Re carbone abdica (parte 1)

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Claudio Della Volpe

220px-KingCoalIl grande George Orwell scriveva nel 1930 (Down the mine), dopo un viaggio durante il quale era sceso personalmente in una miniera, :

Our civilization, pace Chesterton, is founded on coal, more completely than one realizes until one stops to think about it. The machines that keep us alive, and the machines that make machines, are all directly or indirectly dependent upon coal. In the metabolism of the Western world the coal-miner is second in importance only to the man who ploughs the soil. He is a sort of caryatid upon whose shoulders nearly everything that is not grimy is supported.

L’inghilterra è stata la patria della rivoluzione industriale, il primo paese del mondo in cui l’effetto dello sviluppo tecnico, dei fermenti culturali e scientifici, delle aspirazioni politiche e sociali, dei processi di accumulazione originaria e di distruzione dei beni comuni con la creazione di una enorme massa di contadini senza terra portò alla formazione di una industria moderna e di una organizzazione politica corrispondente. Dietro a questo enorme e complesso processo di crescita e trasformazione, così gigantesco e rapido da essere conosciuto appunto come la “rivoluzione industriale”, sta senza dubbio la disponibilità di una sorgente di energia primaria e della tecnologia per usarla: il carbone e la macchina a vapore.

Stiamo ricordando questo fenomeno perché pochi giorni fa, il 18 dicembre ha chiuso la miniera di carbone di Kellingley Colliery nella contea dello Yorkshire, chiamata familiarmente “Big K”; era la più grande in Europa con una capacità di produzione di 900 tonnellate all’ora, ed era anche l’ultima miniera di carbone al chiuso, in profondità, ancora funzionante sul suolo britannico, la classica miniera di racconti come “E le stelle stanno a guardare”o “la Cittadella” di A.J. Cronin.

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In effetti Big K era una miniera giovane, aveva aperto solo nel 1965 e nel suo ventre rimarranno oltre 30 Mton di carbone non ancora estratte che saranno tappate con un tappo di cemento.

Ma come si parte dalla rivoluzione industriale e si finisce così? E soprattutto perchè?

E’ una storia di risorse da studiare con attenzione. Essa è tutta scritta nella classica derivata della funzione logistica, la curva di Hubbert:

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Però non facciamoci fuorviare dai dati; il consumo di carbone minerale è molto più antico, potendo risalire al 3500aC in Cina e al III-IV secolo aC in Grecia, dove Teofrasto (Sulle pietre, par. 16) scriveva:

Fra tutti i materiali che sono scavati perchè utili, quelli conosciuti come carbone sono fatti di terra e una volta messi sul fuoco bruciano come carbone di legna. Si trovano in Liguria….e nell’Elide vicino ad Olimpia, dalla parte della montagna; ed essi sono usati da coloro che lavorano i metalli.

Anche in Inghilterra si può immaginare che la cultura del bronzo e poi del ferro abbiano usato le risorse di carbone minerale ampiamente presenti; tuttavia questo sfruttamento fu reso sistematico dai Romani certamente durante il II sec. dC inclusi materiali ricchi di pece che venivano usati per i bagni pubblici. Si tratta quindi di una tradizione molto molto antica.

Ma nonostante questa tradizione, fu solo nel XVIII secolo che avvenne quel salto di qualità che associamo alla rivoluzione industriale; le risorse di carbone (usate non dimentichiamo come materia prima energetica ma anche chimica per la metallurgia) possono essere superficiali o profonde e sono comunque soggette ad una elevata porosità; sia le risorse superficiali che quelle profonde tendono per questo motivo ad essere invase dall’acqua tanto più quanto più procede il lavoro di estrazione, con enormi problemi e spese di energia per pompare via l’acqua che invade mano a mano proprio le nuove zone da scavare, specie se profonde.

Nell’Inghilterra del primo ‘700 c’era quindi una notevole necessità di pompe efficaci, che in genere erano azionate dagli uomini o dagli animali da tiro; in questo contesto fu decisiva l’invenzione della macchina “atmosferica” (1712) da parte di Thomas Newcomen(1669-1729) un fabbro inglese aiutato dal suo socio Thomas Savery, che era alimentata a carbone; essi ne montarono una per la prima volta in una miniera di carbone nei pressi di Dudley, nelle West Midlands. Nonostante il primo utilizzo fosse stato sotterraneo, in un’area mineraria, per il trasporto, il motore di Newcomen avrebbe in seguito trovato un più specifico uso nel pompare acqua dalle miniere stesse, fossero quelle di carbone, oppure quelle di stagno in Cornovaglia.

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Newcomen

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La sua portata era dell’ordine di 10m3/h, un valore che farebbe ridere oggi. Comunque centinaia di macchine atmosferiche di Newcomen erano già installate in Inghilterra quando nel 1759 James Watt, un tecnico riparatore presso l’università di Glasgow, riuscì ad ottenerne una rotta e a ripararla, concludendo che il progetto era perfettibile e che c’era un enorme spreco di calore.

I perfezionamenti di Watt arrivarono solo nel 1765, dopo un lungo lavoro. Si potrebbe semplificare dicendo che Watt introdusse due modifiche fondamentali: il condensatore esterno che eliminava la necessità di raffreddare ogni volta la parete calda e il regolatore centrifugo; è da notare che il regolatore centrifugo in se (un esempio di retroazione meccanica negativa) non è una invenzione di Watt perchè era stato già applicato nel regolare il flusso energetico nei mulini a vento, è una invenzione tardo medioevale.

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Una nota filosofica: la retroazione è il modo tecnico che corrisponde al ragionamento dialettico, che proprio in questo medesimo periodo si sviluppa nella filosofia tedesca ad opera dell’idealismo hegeliano: il mondo non come effetto di una causa ma come causa ed effetto di se stesso in un eterno sviluppo a spirale. Ed è anche il cuore della futura rivoluzione informatica.

Con i perfezionamenti di Watt la macchina a vapore divenne l’interprete di un meccanismo “a retroazione positiva”: più cresceva il suo uso nelle minere di carbone nelle varie fasi della lavorazione più cresceva l’estrazione di carbone e ne diminuiva il prezzo; più diminuiva il prezzo più cresceva il suo uso in una girandola autoalimentatesi che fu il cuore attivo della rivoluzione industriale. Qualche anno dopo sulla base della ampia esperienza maturata in tutto il mondo a livello industriale e tecnico il giovane Carnot scriverà poi il suo testo fondamentale sulla potenza motrice del fuoco e su quello che diventerà il secondo principio della termodinamica, e badate lo scriverà ben prima che il primo principio fosse chiaro (tanto è vero che Carnot era almeno in un primo momento un sostenitore della teoria del calorico).

Nel 1865 la riflessione sull’industria del carbone raggiunse l’apice con Jevons, uno dei maggiori economisti inglesi che raccogliendo ed estendendo le idee di Malthus scrisse un interessante libello: La questione Carbone

http://oilcrash.net/media/pdf/The_Coal_Question.pdf

Il sottotitolo , “An Inquiry Concerning the Progress of the Nation, and the Probable Exhaustion of Our Coal-Mines” esprimeva la preoccupazione circa la limitatezza della risorsa carbone che era al centro dello sviluppo inglese e della sua forza politica ed economica.

“Coal in truth stands not beside but entirely above all other commodities. It is the material energy of the country — the universal aid — the factor in everything we do. With coal almost any feat is possible or easy; without it we are thrown back into the laborious poverty of early times. With such facts familiarly before us, it can be no matter of surprise that year by year we make larger draughts upon a material of such myriad qualities — of such miraculous powers.”

“…new applications of coal are of an unlimited character. In the command of force, molecular and mechanical, we have the key to all the infinite varieties of change in place or kind of which nature is capable. No chemical or mechanical operation, perhaps, is quite impossible to us, and invention consists in discovering those which are useful and commercially practicable….”

In questo medesimo testo Jevons esprime anche il cosiddetto “paradosso”, ossia che la aumentata efficienza di uso del carbone o di qualunque altro bene non corrisponde ad una diminuzione del suo uso; al contrario proprio questa economicità lo spinge verso maggiori consumi; efficienza e riduzione dei consumi non sono sinonimi a causa del meccanismo del mercato.

Ma la cosa più importante è che in questo testo Jevons, come Malthus pur cogliendo l’esistenza di limiti fisici e se è per questo anche economici all’uso di certe risorse (che è vero) non vede che esistono anche meccanismi sia di incremento della produttività che di risorse alternative e di miglioramento tecnologico che possono cambiare la questione.

Si tratta di processi altamente non lineari; se Malthus pone uno sviluppo lineare delle risorse ed uno esponenziale della popolazione trovando un ovvio limite, che però viene negato dai successivi sviluppi tecnici dell’agricoltura, Jevons pone i due sviluppi come entrambi esponenziali; ciò però non elimina il problema dei limiti delle risorse ed è un punto di vista ancora a sua volta limitato; lo sviluppo tecnologico da una parte migliora l’efficienza dell’uso del carbone, ma soprattutto introduce metodi produttivi impensabili al tempo di Jevons.

Jevons ipotizza nel suo testo una crescita esponenziale illustrata dal grafico seguente:

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Al suo picco di produzione il carbone inglese nel 1913 raggiunse un valore di 290 milioni di ton/anno, parecchio meno (circa la metà) di quanto ipotizzato da Jevons; ciò fu dovuto a due motivi importanti: l’aumento di efficienza dell’uso del carbone e dall’altra l’introduzione di nuove fonti energetiche.

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La nave da battaglia Queen Elizabeth alimentata a olio combustibile, non fu la prima in assoluto, esistendo prima di essa navi ad alimentazione mista carbone/olio (la prima fu la Rotislav della Russia zarista).

Nel 1913 era primo Lord dell’ammiragliato, ossia ministro della Marina, Churchill; al colmo del suo potere e al picco del carbone l’impero britannico, cogliendo i limiti tecnologici del carbone e il cambiamento di registro del mercato mondiale con lo sviluppo rapidissimo degli USA, tramite Churchill decise di passare al petrolio per le sue navi da guerra e con questa scelta iniziò le guerre nel mondo per la nuova risorsa energetica: il petrolio, liquido, energeticamente più denso, più facile da trasportare ed usare. La Gran Bretagna sparigliò le carte firmando la Convenzione del petrolio Anglo-Persiano, gestito dalla Anglo-Iranian Oil Company, sotto il controllo del governo. Incredibilmente al picco del carbone la Gran Bretagna passò al petrolio. E il mondo ne fu rivoluzionato. (Meditate gente, meditate!)

 (continua).

Morte e vita del carbone

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Giorgio Nebbia

La ruota smette di girare/il sole tramonta/con amarezza”.

Sono le prime righe di una poesia che lo scrittore inglese Ian Mcmillan ha scritto in occasione della chiusura, nei giorni scorsi, dell’ultima miniera sotterranea di carbone del Regno Unito, quella di Kellingley, nello Yorkshire, Inghilterra nord orientale. Finisce così un’era cominciata nel Medioevo quando si è scoperto che il carbone poteva sostituite il legname come fonte di calore, salvando così i boschi dalla distruzione. Il carbone è stato il motore della rivoluzione industriale in Inghilterra e poi in Germania, Francia e negli altri paesi europei e poi negli Stati Uniti.

In Inghilterra sono state fatte le principali scoperte che hanno spianato la strada al trionfo del carbone. Già nel Seicento si è visto che il carbone fossile, estratto dalle miniere, si prestava alla produzione di ferro e acciaio per trattamento del minerale molto meglio del carbone di legna, e nei primi anni del Settecento fu scoperto che risultati ancora migliori si potevano avere trasformando, per riscaldamento in camere di acciaio chiuse, il carbone fossile in carbone coke, più resistente alla pressione. Era così possibile costruire forni (gli altiforni) di maggiori dimensione e produrre ferro di migliore qualità e con minori costi. La chimica ha permesso poi di scoprire che i gas che si liberavano insieme al coke bruciavano con una fiamma luminosa; nei primi anni dell’Ottocento cominciava la diffusione delle lampade a gas e “la luce”, proprio quella alla cui celebrazione era stato dedicato l’anno che sta finendo, illuminava le strade, le case, le biblioteche, le fabbriche.

Miniera

Marcinelle, Le Bois du Cazier: un braccio delle miniere di carbon fossile

Una storia travagliata perché ben presto si è scoperto che la combustione del carbone era fonte di inquinamento, che l’estrazione del carbone dalle miniere sotterranee era accompagnata da crolli ed esplosioni e morti dei lavoratori, condannati ad una vita faticosa all’oscuro, in mezzo alle polveri. Le dure condizioni di lavoro e i miseri salari imposti dai primi spietati campioni del capitalismo spinsero i minatori a dar vita alle prime organizzazioni sindacali, a imparare parole come sciopero e lotte per nuovi diritti e dignità. Poche merci come il carbone hanno stimolato gli scrittori nella denuncia delle miserevoli, dolorose e pericolose condizioni di lavoro. Il libro “Il re carbone” (1917) del socialista americano Upton Sinclair (1878-1968) e i due romanzi “Le stelle stanno a guardare” (1935) e “La cittadella” (1937) del medico inglese Archibald Cronin (1896-1981) stimolarono le autorità per un maggior rigore nel controllo della sicurezza dei lavoratori delle miniere di carbone.

L’uso del carbone provocava la liberazione di polveri che si rivelarono mortali; l’esistenza degli idrocarburi aromatici policiclici cancerogeni fu scoperta cercando le cause del tumore che si manifestava negli operai delle cokerie e negli spazzacamini che venivano a contato con la fuliggine. D’altra parte il lavoro nelle miniere assicurava un salario alle famiglie più povere che lasciavano i campi alla ricerca di meno misere condizioni di vita. In questo mondo di contraddizioni il carbone continuava il suo cammino trionfale, estratto in quantità sempre maggiori al punto che l’economista inglese William Stanley Jevons (1835-1882) nel 1865 scrisse il libro “Il problema del carbone”, affermando che se fosse continuato lo sfruttamento delle miniere inglesi un giorno le riserve di carbone si sarebbero esaurite.

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Le scoperte di altri giacimenti, a profondità sempre maggiori, ha permesso all’Inghilterra di continuare a estrarre carbone fino ad un picco di produzione di 290 milioni di tonnellate all’anno nel 1913. A partire dal 1950 comincia il declino del carbone inglese ed europeo non per l’esaurimento delle riserve ma per la comparsa di un invadente e aggressivo concorrente come fonte di energia, il petrolio. Fra le cause del declino del carbone c’è anche la difficoltà di trasporto; essendo un combustibile solido il carbone deve essere caricato su navi e treni carbone in maniera scomoda e costosa, mentre il petrolio che è un liquido e, ancora di più poi, il gas naturale, appunto un gas, possono essere trasportati mediante condotte o navi in modo molto meno costoso.

Benché l’Unione Europea sia nata nel 1950 come Comunità del carbone e dell’acciaio, il carbone europeo ha subito, nella seconda metà del Novecento, un continuo declino; le ferree leggi del libero mercato hanno portato alla progressiva chiusura delle miniere sotterranee in Belgio, Francia, Germania; in Inghilterra le prime drastiche chiusure si ebbero nel 1984 con il governo conservatore e l’ultima chiusura è delle settimane scorse. Una storia piena di luci e di ombre e non fa meraviglia che gli ultimi minatori abbiano salutato con malinconia la perdita del posto di lavoro che non era solo un salario, ma anche l’orgoglio di aver fatto la storia del mondo contemporaneo.

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Il carbone comunque non è scomparso dalla scena delle fonti di energia, con i suoi otto miliardi di tonnellate estratti nel mondo, quasi la metà in Cina, seguita da Stati Uniti, India, Australia, e tanti altri paesi che sul carbone basano il loro impetuoso successo economico; la Germania estrae carbone da miniere a cielo aperto. Le riserve di carbone e lignite nel mondo ammontano a circa mille miliardi di tonnellate; dal carbone dipende ancora gran parte della produzione di acciaio, di elettricità, di prodotti chimici. Con tutti i suoi limiti per motivi ambientali, il re non è morto.

Questo articolo è comparso anche su

La Gazzetta del Mezzogiorno, martedì 22 dicembre 2015

http://www.eddyburg.it/2015/12/in-morte-della-miniera.html

Auguri “chimici”o “auguri! Chimici……”

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Mauro Icardi

Le festività sono un periodo molto particolare. Un periodo nel quale si è maggiormente portati a fare riflessioni. E la prima che mi viene in mente è allo stesso tempo semplice, ma anche molto gratificante.

Due anni fa il 6 dicembre 2013 veniva pubblicato sul blog il mio primo articolo. Sembrava impossibile riuscire a trovare ancora argomenti. Invece l’impegno continua. Con grande soddisfazione personale da allora. E il merito lo attribuisco alla chimica. Non è ne un’esagerazione, ne un tentativo di voler essere originale a tutti i costi. Se si ama la materia, se in qualche modo non ci si sente mai arrivati ma si prova sempre la passione, la chimica offre moltissimi spunti. Il chimico vede il mondo con gli strumenti del suo “mestiere” citando l’immenso Primo Levi. E allora viene voglia di parlare di cosa vuol dire esser un chimico. Di cosa si sperimenta giornalmente, cosa significa nel concreto lavorare in un laboratorio, oppure all’aperto magari campionando fanghi o rifiuti.

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Se si riescono ad interessare non solo i colleghi ma possibilmente un pubblico più vasto, magari di studenti o di amici o vicini di casa si ha la sensazione di avere raggiunto uno scopo. Quello di mostrare quello che la chimica è nella realtà. Ci sono sempre nuovi legami (termine davvero molto chimico) con gli argomenti più diversi. Chimica e bicicletta, chimica e cinema, chimica e alimentazione, chimica e letteratura. E qui già un’idea può balenare nella mente.

Negli scorsi anni sono stati pubblicati due gradevoli libri da Ennio Peres e Riccardo Bersani: “Matematica: corso di sopravvivenza” e “Fisica: corso di sopravvivenza” di Stefano Masci, Ennio Peres e Luigi Pulone. Li ho letti ed apprezzati.

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E la chimica? E’ una scienza affascinante. Non ci starebbe male un “Chimica: corso di sopravvivenza”. La chimica non è mica la cenerentola delle scienze!

Seguendo poi il filo dei pensieri abbiamo come chimici come collega nientemeno che il Santo Padre. Credo sia ormai noto a tutti che Papa Francesco è un diplomato in chimica. E leggendo la “Laudato sì” si riesce a cogliere questa formazione. Per evitare ogni equivoco vorrei chiarire che dire questa cosa non significa affatto essere offensivo o irrispettoso. Jose Maria Bergoglio ha poi seguito un suo cammino personale e spirituale, ma non credo abbia mai dimenticato questa sua esperienza. Sembra un paradosso e forse lo è. La chimica che per definizione è la scienza che studia la composizione e trasformazione della materia ha avuto tra i suoi estimatori, anzi tra chi l’ha effettivamente praticata un uomo di fede e di spiritualità.

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Mentre sto scrivendo ho vicino a me una strenna del Natale del 1998 : “Il luna park della chimica”. 123 esperimenti spettacolari legati a reazioni chimiche e a brani di letteratura. Ho già avuto modo di far vedere qualche esperimento facile facile a bambini delle elementari, uno fra tutti il cambiamento di colore di indicatori acido- base, o la decolorazione di acqua colorata su carboni attivi. Qualcuno ha già espresso l’intenzione di voler diventare un chimico.

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Ma il saluto e l’augurio finale va sicuramente a tutti i chimici. In particolare a tutti quelli della redazione del blog ,ai colleghi dei collegi e degli ordini professionali. Un augurio particolare a chi si occupa di insegnarla la chimica. A qualunque livello, dalle scuole superiori alle facoltà universitarie. Credo sia giusto incoraggiarli. Ognuno sa certamente perché. Io ho insegnato qualche volta a stagisti. So solo in maniera parziale quale sia l’impegno che è l’insegnamento. L’augurio mi sembrava quindi necessario e doveroso. L’augurio è esteso anche ai docenti che ho avuto, ai ragazzi che ho seguito, ai colleghi attuali e quelli del passato.

Adesso viene il difficile: voglio esprimere davvero un sincero ringraziamento a voi. Redattori e collaboratori del blog. Non me ne vogliate se non vi cito per nome: mi sentirei in imbarazzo se dovessi dimenticare qualcuno. Mi avete fatto sentire a mio agio, e soprattutto avete contribuito a tenere viva una passione mai sopita. Grazie per i consigli, per la crescita personale professionale e umana.

Il proposito per il nuovo anno è quello di poter continuare a dare il mio contributo. Non si smette mai di imparare.

Dimentico qualcosa? Giusto il vostro regalo di Natale:

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Dalla redazione del blog una risposta al prof. Armando Zingales.

di (in ordine alfabetico) Vincenzo Balzani, Claudio Della Volpe, Mauro Icardi, Annarosa Luzzatto, Giorgio Nebbia, Silvana Saiello, Margherita Venturi

Nell’ultimo numero delle Newsletter CNC n. 77 dell’8 dicembre il Direttore di C&I e Presidente del CNC ha criticato alcuni aspetti del blog (il testo è ripreso in calce alla presente per farlo conoscere ai lettori del blog) con il titolo “NON IN MIO NOME contro l’intolleranza nei Blog”.

Anzitutto ci duole che l’intervento sia stata spedito agli iscritti agli ordini dei Chimici tramite il loro giornale invece di essere mandato al blog stesso dove chiunque può scrivere. perché questo limita la diffusione dell’informazione che, senza l’amichevole segnalazione di alcuni, non avrebbe raggiunto gli interessati

Ne riassumiamo i punti salienti:

L’articolo sostiene che:

il moderatore del blog della Società Chimica Italiana (SCI), ed alcuni altri colleghi stanno sperimentando il gusto di sentenziare senza appello su quanto viene pubblicato su “La Chimica e l’Industria

Ci si riferisce a due articoli del blog che, seppure non esplicitamente indicati, potrebbero essere questi: 1 e 2.

Come i lettori potranno verificare si tratta di due post in uno dei nei quali si criticano alcuni articoli comparsi su C&I a firma di Salvatore Mazzullo.

I 4 articoli criticati (per un totale di 24 pagine nel solo 2015) erano dedicati allo sviluppo di un modello paleoclimatico della irradianza solare.

Nel nostro post si faceva riferimento all’analisi dettagliata condotta dal collega Reitano, fisico di UniCt in altro post. Reitano precisa che il modello di Mazzullo appare “lacunoso ” anche perchè usa dati “imprecisi” e superati (si veda qui per i valori corretti).

Nel nostro post facciamo notare che negli articoli di Mazzullo su C&I, si mettono in dubbio alcuni capisaldi della climatologia. Per esempio si parla di “controversia della CO2 a riguardo del ruolo reciproco sull’effetto serra di acqua e CO2, argomento che non è controverso in nessun libro di climatologia(Nota 1).

Solo per dovere di cronaca, non possiamo non ricordare che Salvatore Mazzullo non è un socio SCI, e non risulta da alcuna parte, se non su C&I, che sia un esperto di astronomia o paleoclimatologia.

Il secondo articolo criticava un editoriale di Ferruccio Trifirò nel quale il nostro collega sosteneva che i fertilizzanti sintetici sono un caso emblematico di Chimica sostenibile; come lo stesso Zingales riconosce non è questo il caso.

Ora non si capisce dove sia il problema; è o non è sostenibile l’uso massivo di fertilizzanti, sia pur prodotti in modo “pulito”?

Nessuno ha mai parlato nel nostro blog “ di sostenibilità bucolica solo dal punto di vista ambientale” “una posizione ascientifica e politicamente miope”.

Abbiamo parlato della necessità di sviluppare metodi efficienti di riciclo, utilizzando il caso emblematico dei concimi sintetici, facendo l’esempio di come la ricerca internazionale abbia sviluppato brevetti sul recupero della struvite dalle acque di scarico, citando anche una serie di lavori scientifici per dimostrare che le cose sono più complesse, a volte troppo complesse.

Infine ci duole, sentire che ci siamo resi responsabili di aver affermato “l’opinione “politica” che i fattori non antropici non abbiano alcuna rilevanza”, anche se non capiamo dove,

Al contrario abbiamo sempre sostenuto che le grandi forze nturali sono da approfondire e conoscere.

Su questo abbiamo pubblicato il grosso dei nostri articoli!

Piuttosto abbiamo fatto doverosamente notare più volte che l’uomo attualmente in atmosfera e nella biosfera:

  • emette di gran lunga la maggior quantità di polveri
  • immette in atmosfera fra un sesto ed un quinto della quota di carbonio rispetto a quella naturale tramite le combustioni e la deforestazione
  • contribuisce con circa la metà dell’azoto atmosferico che entra nel ciclo dell’azoto
  • immette in giro due o tre volte la quantità di fosforo dilavato dalla natura
  • usa il 10% dell’acqua superficiale delle precipitazioni e lo reimmette in gran parte inquinato

Sarebbe quindi difficile non considerarlo almeno un attore di primaria importanza.

Riteniamo sia importante presentarsi al pubblico interno ed esterno con posizioni il più possibile chiare ed unitarie ma tali posizioni devono essere oltre che chiare, anche supportate completamente dalla letteratura scientifica.

Posizioni alternative dovrebbero almeno prevedere un attento riesame di review.

Concordiamo, invece, sul fatto che chiunque possa esprimere “opinioni personali”. Le pubblicheremo sempre anche se contrastanti (come in passato lo sono state quelle del prof. Gessa, del dott. Rampichini, del dott. Sorgenti sul nostro blog, come lo sono state quelle dei prof. Carrà, Battaglia, Scafetta, Pieri su C&I).

Riteniamo altresì che in passato il mondo chimico non abbia saputo esprimere una sufficiente autonomia dal settore industriale evitando di criticarne le scelte talvolta erronee e perfino pericolose.

Non sarà soprattutto questo il motivo per cui oggi la parola “Chimica” e l’aggettivo chimico sono quasi sempre utilizzati con valenza negativa?

Ci teniamo a sottolineare che non è vero che nel blog i pareri siano espressi “senza appello”.

Sono pareri espressi da chi firma il “pezzo” e chiunque può liberamente intervenire, almeno nel dibattito, senza alcuna censura.

Sono intervenuti ripetutamente, con articoli e interventi, persone che esprimevano punti di vista opposti agli autori (si veda ad esempio, il dibattito sull’agricoltura o quello sulle api).

Dobbiamo accrescere la nostra autorevolezza dimostrando al cittadino medio, ai giovani soprattutto, capacità analitiche, e sintetiche ma soprattutto critiche sui grandi temi del nostro tempo, in particolare quelli che coinvolgono la nostra disciplina e che, in effetti, ne sono la grande maggioranza.

Posizioni discordanti (e fondate) possono essere accettate e discusse con serenità e reciproco rispetto.

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Nota 1: la CO2 è un gas non condensabile nelle condizioni in cui si trova in troposfera mentre l’acqua lo è. Questo è il motivo per cui l’acqua non è praticamente presente in stratosfera come gas serra, ma solo in troposfera. In pratica, nonostante la sua maggiore quantità rispetto alla quantità di CO2 il ruolo dell’acqua come gas serra è governato da quello della CO2 perchè sono la CO2 e il complesso dei gas serra ad essere responsabili della temperatura alla quale l’acqua “opera”. Solo se la temperatura cresce la quantità di vapor d’acqua (l’umidità) cresce e l’effetto serra da esso direttamente determinato può crescere. Controversie non ce ne sono: “water vapour is a feedback, but not a forcing” (si veda per esempio qui).

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Testo della lettera di Zingales.

NON IN MIO NOME
contro l’intolleranza nei Blog
Come alcuni di noi si saranno accorti, da qualche tempo il moderatore del blog della Società Chimica Italiana (SCI), ed alcuni altri colleghi stanno sperimentando il gusto di sentenziare senza appello su quanto viene pubblicato su “La Chimica e l’Industria”, rivista scientifica della quale la SCI è proprietaria e il Consiglio Nazionale dei Chimici (CNC) è editore.
In qualità di Direttore responsabile della rivista non posso ulteriormente astenermi – come ho fatto fin qui per amor di patria – dall’intervenire sulla sterile e continua polemica che non giova a nessuno, e tantomeno alla chimica e alla verità scientifica.
I fatti sono che su La Chimica e L’industria sono stati pubblicati degli articoli che, a detta del moderatore immoderato del suddetto Blog, sono “di stile e argomento “neghista” sul tema climatico” (e lasciamo perdere l’orrendo neologismo, ormai in voga tra gli ambientalisti.)
Ora può darsi che io firmi il “visto si stampi” di una rivista diversa da quella che il moderatore di quel blog, poi, legge, ma – certamente – accusare di “neghismo” un articolo che si è limitato a ricordare che oltre ai fattori antropici che agiscono sui cambiamenti climatici ci sono – certamente – anche fattori naturali, è veramente ridicolo, oltre che offensivo della lingua italiana.
Non esiste serio scienziato che si occupi del clima che disconosca l’esistenza di fattori non-antropici in tal materia. Affermare il contrario è antiscientifico, esattamente come è antiscientifico negare l’influenza preponderante dei fattori antropici o, in generale, selezionare accuratamente tutti e solo i dati che avvalorano la teoria che abbiamo formulato o alla quale ci siamo pedissequamente accodati.
Ma, sia chiaro – NESSUNO – ha inteso affermare su “La Chimica e l’Industria” o su “Il Chimico Italiano” che i fattori non antropici prevalgono o sono gli unici che intervengono nelle alterazioni del clima. Si è inteso soltanto dar voce – e ricordare a tutti, ma soprattutto a scienziati tanto schierati da tradire la scienza, in un senso o nell’altro – che non è mai corretto disconoscere l’esistenza di fattori “altri” o persino discordanti (e non è questo il caso) con la “nostra teoria”.
E’ vero, invece, che in una rivista scientifica la definizione di “cambiamento climatico” non può che essere quella adottata dall’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), che comprende ogni cambiamento non ordinario del clima, dovuto sia a fattori naturali che a fattori umani. Mentre la definizione “politica” adottata altrove (ad esempio all’ONU) parla di cambiamenti climatici solo in relazione ai fattori antropici: me è appunto una visione “politica” e non “scientifica”.
E’ evidente che un blogger che esprime l’opinione “politica” che i fattori non antropici non abbiano alcuna rilevanza, è padrone di farlo. Ma ha il dovere morale e scientifico di esprimere queste idee in un contesto diverso dal Blog della SCI e – comunque – senza MAI irridere chi liberamente esprime e motiva la sua opinione scientifica. La confutazione, sempre possibile nel sano confronto scientifico, non deve mai spingersi ad accusare apoditticamente chi espone concetti non coincidenti con i nostri.
Io nella mia lunga carriera di professore universitario ho visto e commiserato diverse volte le guerre per bande che si praticavano tra cosiddette “scuole” di ricerca facenti capo a questo a o a quel “maestro (o Gran Maestro). Fino al punto in cui tutti i discepoli venivano invitati fermamente a pubblicare “lavori contro” l’avversario scientifico del momento.
Orrendo uso della ricerca e della cultura scientifica.
Altri tempi, si dirà. Ma atteggiamento simile a quello perseguito con pervicacia in alcuni Post del Blog della SCI.
In un altro post, il nostro Blogger “rimane di stucco” perché in un altro interessante articolo, viene sottolineato come la produzione di fertilizzanti sia oggi molto più “verde” di un tempo.
Il motivo è che nell’articolo non è stato messo in evidenza che la produzione di fertilizzanti chimici sfrutta troppo pesantemente risorse naturali non rinnovabili.
Anche in questo caso nessuno ha affermato il contrario, ossia che non esiste un problema relativo al consumo di risorse limitate. Si è solo voluto mettere in evidenza che è possibile migliorare, qui ed ora, i cicli di produzione, senza smettere di ricercare soluzioni “altre”.
Ma una cosa deve essere detta chiaramente da chi ha a cuore la scienza (e la chimica in particolare): parlare di sostenibilità bucolica solo dal punto di vista ambientale è una posizione ascientifica e politicamente miope.
La sostenibilità o è GLOBALE (ambientale, sociale, economica, politica, igienico- sanitaria ecc.) o è solo una mistificazione.
Noi – i chimici italiani che hanno fatto di questa scienza una scelta di vita e di professione – siamo per la scienza e contro le mistificazioni.
Per questo continueremo a pubblicare, nonostante i blogger irridenti, tutti gli articoli che introducono elementi di discussione utili alla formazione di un proprio pensiero scientifico autonomo, indipendente dall’opinione dominante o – come e più opportuno dire – dal pensiero unico che si vuole imporre.
Abbiamo l’arroganza di immaginare che anche i blogger possano imparare dalla vita che se – a volte – si può dire tutto ciò che si pensa, è sempre doveroso ricordarsi rispettare gli altri, anche se li si considera “avversari”.
Ciò detto, non interverrò ulteriormente a commentare le uscite del Blog della SCI, lasciando ai lettori – che certamente ne hanno l’autonoma capacità – il piacere di maturare la propria idea informata.
Prof. Chim. Armando Zingales Direttore responsabile de “La Chimica e l’Industria e “Il Chimico Italiano” Presidente del Consiglio Nazionale dei Chimici

Luci e ombre su Parigi.

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Luigi Campanella, ex Presidente SCI

Luci e tante ombre negli accordi di Parigi sulle strategie per la protezione dell’ambiente.

L’accordo si sostanzia in quei 1,5 °C di aumento della temperatura del pianeta che non dovranno essere superati. La luce,forse l’unica, è che se non altro c’è un accordo su cosa si vuole ottenere e cosa si dovrebbe fare. Se si pensa a quanto questo fu invano cercato in precedenti incontri a partire da Kyoto 1997 il passo fatto può non essere considerato trascurabile.

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Le ombre derivano dal malcelato disappunto di alcune delle forze in campo:India e Cina si sentono tarpate le ali dello sviluppo dalle restrizioni in campo energetico, le componenti ambientaliste lamentano il ridotto impegno in termini di indici quantitativi assunti a traguardo (i 2 gradi iniziali di contenimento sono stati ridotti), gli Stati Uniti si sono abbastanza apertamente sfilati definendo per loro non vincolanti gli impegni assunti.

Andrea Baranes di ReteBanco Etica ha detto che si tratta di scegliere fra la borsa e la vita. Le implicazioni politiche sono enormi: si pensi al debito ecologico del Nord verso il Sud del mondo,di cui ha parlato anche Papa Francesco nell’Enciclica Laudato si’ .

Vi è pure il contrasto fra paesi produttori di petrolio e gli altri e quello, più subdolo, fra Paesi emergenti e Paesi ancora più poveri: questi vogliono denaro per l’adattamento, quelli anche altro,a partire dalle tecnologie.

Anche le implicazioni sociali non mancano visto che le aree più esposte sono quelle dove vive gran parte dei poveri del mondo. I primi colpiti sono contadini ed agricoltori; il conseguente aumento dei prezzi alimentari si riflette sui bisogni essenziali e vitali con ripercussioni drammatiche per i più poveri. La finanza può fare molto a patto che allunghi la prospettiva della sua visione. Il riferimento alla borsa o la vita è proprio qui: se si pensa alle ricadute in Banca nel breve periodo si finirà per commettere altri errori.

Il mondo non è esattamente diviso in due, ma elementi di differenziazione, intelligenti e modulati, sembrano necessari.

L’enigma di Munk e la conferenza di Parigi.

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Claudio Della Volpe

Una molecola di CO2 di Canberra,

s’alterava se citavi l’effetto serra:

“Ero metano in un emirato,

m’hai estrattto, poi bruciato

e dici a me che riscaldo la Terra?”

(da Giovanni Keplero aveva un gatto nero

di M.F. Barozzi ed. Scienza Express, 2011, p.31)

 

Negli scorsi giorni, durante la conferenza di Parigi tutti gli occhi erano rivolti alla COP21, la conferenza mondiale sul clima e pochi hanno notato che nei medesimi giorni è stato pubblicato un articolo di grande interesse per le tematiche climatiche dedicato al cosiddetto enigma di Munk, che è poi sostanzialmente una questione riguardante la relazione fra durata del giorno e livello del mare (Walter Munk della Scripps Institution, PNAS 2002 vol. 99 no. 10 p.6550–6555).

Nel 2002 Munk pubblicò un articolo nel quale cercava di modellare questo fenomeno: escludendo per il momento la sua interazione con la Luna che pure è molto importante, la Terra è una enorme massa rotante che per il principio della costanza del momento angolare, una delle leggi base della dinamica classica, ha una velocità di rotazione che rimane costante solo se la distribuzione della massa al suo interno rimane costante; ma di fatto tale distribuzione muta continuamente; e di conseguenza muta anche la sua velocità di rotazione.

Il sistema Terra-Luna deve rispettare il medesimo principio sia per la dissipazione mareale che a causa del fatto che la Luna si allontana lentamente ma costantemente pur rivolgendo ad essa sempre la stessa faccia, e la velocità di rotazione della Terra si riduce lentamente, inducendo un lento allungamento della durata del giorno di circa 17 milionesimi di secondo al giorno ogni anno, ossia 1.7ms/giorno per secolo; in altre parole ogni secolo che passa la durata media del giorno si riduce di 1.7 millisecondi ogni giorno per ogni secolo, circa 0.62 secondi all’anno per secolo. Negli ultimi 2700 anni questo ha corrisposto ad una riduzione della durata del giorno di circa 16 secondi, ma la somma di tutti gli aumenti ha modificato gli orari dei fenomeni celesti di parecchie ore e dato che molti di essi sono fenomeni conosciuti come le eclissi per esempio sappiamo che si è accumulato un ritardo della rotazione terrestre di oltre 4.5 ore. Come una gigantesca pattinatrice che allarghi le sue braccia il sistema Terra-Luna si allontana di 3.8cm all’anno, perde energia cinetica per effetto delle maree e in conclusione rallenta la sua maestosa rotazione. Una delle prove di questo fatto è che il numero di deposizioni giornaliere dei coralli fossili non era di 365, ma di 400: la Terra faceva qualche centinaio di miloni di anni fa molti più giri di rotazione di adesso in un anno.

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PNAS 2002 vol. 99 no. 10 p.6550–6555

Questa riduzione non è esattamente costante perchè dipende dal momento di inerzia della Terra, ossia dalla distribuzione delle sue masse interne e superficiali, come la massa dell’acqua superficiale e dei materiali magmatici interni fino al nucleo. Risente quindi della formazione delle banchise e del loro scioglimento, delle glaciazioni e delle deglaciazioni e in genere di tutti i fenomeni che spostano grandi masse di materiale, compresi El Niño, terremoti e innalzamento del livello degli oceani, un fenomeno strettamente legato al riscaldamento globale; infatti il GW ha due effetti: da una parte riduce la massa della criosfera, ossia dei ghiacciai e delle banchise incrementando quella della parte liquida dell’oceano e dei depositi liquidi di ogni tipo (delle falde sotterranee per esempio), dall’altra espande anche il volume degli oceani e quindi modifica il momento di inerzia della Terra. Questi effetti sia pur piccoli sono calcolabili e hanno conseguenze misurabili.

Però l’articolo di Munk conteneva una serie di calcoli che portavano ad una risposta incomprensibile: considerando le migliori sorgenti indipendenti di dati e i migliori modelli applicabili ai vari fenomeni si otteneva un’allungamento del giorno incompatibile con un contributo significativo del GW.

I fenomeni da considerare erano parecchi: fusione della criosfera ed espansione del volume oceanico, rebound della crosta liberata dai ghiacci, risposta elastica del mantello sottostante e stima e misure dell’innalzamento oceanico effettivo.

Munk concluse che c’era un errore significativo da qualche parte e l’enigma rimase lì fino a qualche settimana fa quando un nuovo lavoro ha fatto luce sulla situazione.

Jerry Mitrovica, di Harvard insieme ai suoi collaboratori ha concluso (Mitrovica et al. Sci. Adv. 2015;1:e1500679- 2015) che da una parte alcuni dei dati di Munk dovevano essere aggiornati ed inoltre che il modello usato per la risposta del mantello alle sollecitazioni della crosta era sbagliato ed infine ha trovato un nuovo contributo mai prima considerato: il mantello interagisce con il nucleo terrestre, come un criceto che corra in un gabbietta circolare: mentre il criceto si proietta in avanti la gabbia viene spinta indietro; così avviene dell’interazione fra il mantello, sollecitato dalla crosta, e il nucleo.

Rifacendo i conti i valori stimati, derivati dalla variazione effettiva del giorno lasciano uno spazio sufficiente ad accomodare la variazione di momento di inerzia dovuta al GW; in altre parole per comprendere e misurare gli effetti del GW sul livello dell’oceano possiamo usare le misure molto precise di tipo astronomico riguardanti la lunghezza del giorno terrestre e l’accordo, che mancava finora, mettendo in dubbio la validità delle stime di incremento del livello oceanico sono invece corrette; questo è importante anche perché la fusione dei ghiacci corrisponde ad una quantità enorme di energia che si immagazzina nel calore dell’oceano (si veda anche https://www.washingtonpost.com/news/energy-environment/wp/2015/12/11/scientists-may-have-just-solved-one-of-the-most-troubling-mysteries-about-sea-level-rise/  

oppure

http://www.lescienze.it/news/2015/12/14/news/fusione_ghiacciai_influenza_rotazione_terra-2893268/).

Molti anni fa Barry Commoner descriveva nel suo libro più famoso (B. Commoner The Closing Circle 1971) le quattro leggi dell’ecologia; erano relative alla biosfera; oggi sappiamo che vanno al di là; la prima recitava:

Everything is connected to everything else”

La nostra politica energetica influenza la velocità di rotazione della Terra e il moto del nucleo. La Terra è solo la nostra astronave, una astronave dalle dimensioni e dalle risorse enormi ma limitate, come hanno notato tempo Vincenzo Balzani, Nicola Armaroli e Margherita Venturi (Vincenzo Balzani, Margherita Venturi: Chimica! Leggere e scrivere il libro della natura, Scienza Express Edizioni, 2012

Vincenzo Balzani, Margherita Venturi: Energia, Risorse, Ambiente, Zanichelli, 2014 – Nicola Armaroli, Vincenzo Balzani Energia per l’astronave Terra Nuova edizione aggiornata e ampliata con gli scenari energetici per l’Italia di domani ottobre 2011 ).

Perchè ricordarlo? Perchè la coscienza di questo fatto, la limitatezza della Terra e degli effetti che l’umanità ha su di essa è il risultato più importante che si è avuto il 12 dicembre 2015 nella XXI sessione della Conferenza delle Parti della Convenzione sul clima, COP21 (http://unfccc.int/resource/docs/2015/cop21/eng/l09r01.pdf).

L’accordo di 4 pagine raggiunto nella capitale francese contiene alcuni punti importanti, ma il più importante è l’accordo sulle due cose chiave, che seppure non esplicitamente indicate sono implicitamente riconosciute:

  • l’azione umana è inequivocabilmente capace di modificare il clima
  • l’azione umana è la responsabile determinante (al momento) della sua modificazione

Su questa base l’accordo prevede degli impegni volontari da parte di 180 paesi (che corrispondono ad almeno il 95% delle emissioni globali nell’anno 2012) per un totale di circa 8 GtCO2 eq.all’anno nel 2020 e 11 GtCO2 eq. all’anno nel 2030. Per entrare in vigore ci sarà bisogno che almeno 55 Paesi (corripondenti al 55% del totale delle emissioni globali stimate di gas serra) consegnino all’ONU una dichiarazione ufficiale in tal senso.(http://uneplive.unep.org/media/docs/theme/13/EGR_2015_ES_English_Embargoed.pdf)

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Gli impegni presi dai vari paesi (INDC) non garantiscono di stare sotto i 2°C

Scopo della mitigazione è di “tenere l’incremento della temperatura media mondiale ben sotto i 2 gradi rispetto ai livelli pre-industriali e fare sforzi per limitare l’incremento della temperatura a 1,5 °C, riconoscendo che ciò ridurrebbe significativamente i rischi e gli impatti del cambiamento climatico”.

Sia il settore energetico che quello delle foreste vengono nominati esplicitamente negli impegni e nella piattaforma generale. Si dichiara che occorre “incrementare la capacità di adattarsi agli impatti avversi del cambiamento climatico e promuovere la resilienza climatica e lo sviluppo a basse emissioni, in una maniera che non minacci la produzione di cibo” e “rendere i flussi finanziari coerenti con un percorso di sviluppo a basse emissioni e resiliente”. Si parla di almeno 100 miliardi euro da impiegare a tale scopo per i PVS.

In particolare l’Europa si è impegnata a ridurre del 40% le emissioni al 2030 e dovrà essa individuare i modi con cui ciascuno dei suoi stati membri dovrà agire sui settori di rispettiva competenza.

Ogni paese può modificare i “Contributi promessi” (ma essi dovranno diventare più ampi) in ogni momento e comunque tutti sono chiamati a farlo ogni cinque anni, anche alla luce di una valutazione della differenza tra azioni ed obiettivi.

Tuttavia queste dichiarazioni di carattere generale non sono accompagnate da un opportuno sistema di determinazione della percentuale vincolante di riduzione delle emissioni per ogni paese e questo è un limite molto importante. Ed infine manca un accordo relativo al controllo ed alla verifica indipendenti dell’evoluzione delle decisioni prese; questo aspetto dovrà essere implementato in futuro.

In sostanza i 180 paesi hanno preso coscienza del problema ma non hanno ancora preso impegni reciproci strettamente vincolanti.

Facciamo una semplice valutazione, molto ma molto grossolana:

nel 1850 l’anomalia termica globale (rispetto alla media 1961-1990) era di

-0.376°C; nel 2014 è stata di +0.564, una differenza totale di +0.94°C contro un aumento di circa 120ppm di CO2.

In definitiva, applicando un grossolano schema lineare per arrivare a +1.5°C basta arrivare a 470 ppm; (120/0.94*1.5+280=471)

Se consideriamo che le forzanti termiche complessive nette equivalgono grosso modo alla sola CO2 come si può stimare da qua:

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da Wikipedia

e dato che al momento aumentiamo in modo netto all’incirca di 2ppm all’anno, in 35 anni, nel 2050 saremo al limite di 1.5°C e nel 2080 a 2°C

Questo se continuiamo a produrre quello che produciamo adesso.

Se aumentiamo i consumi le cose peggiorano.Ridurre i consumi assoluti finora non è mai avvenuto.

Una possibile strategia potrebbe essere di incrementare si il consumo ma solo usando il di più esclusivamente per costruire sistemi di energia alternativa dotati di accumulo; in questo modo si può sperare che se si usa diciamo un 5% all’anno ogni anno per questo solo scopo si costruirebbe in 20-30 anni una quantità di dispositivi che grossolanamente equivalgono al totale dei sistemi di conversione fossili.

Questo potrebbe lasciare intatto il problema ma aiutarci a trasferirci verso le rinnovabili; la questione è che il 5% all’anno è un mercato delle rinnovabili varie volte più grande, multiplo,  di quello attuale

Al momento, in mancanza di decisioni politiche molto drastiche, la cosa appare senza soluzione banale.

Il mondo scientifico non può che continuare a indicare la gravità della situazione, perfezionare la conoscenza del sistema climatico, e sviluppare nuovi e più efficienti metodi di conversione e di accumulo dell’energia rinnovabile e di riciclo delle risorse minerali, diffondere la coscienza del problema fra le grandi masse di persone e dei metodi per ottenere miglioramenti sulla strada intrapresa, incluso il fatto che ciò di cui abbiamo prima di tutto bisogno è un nuovo modo di produrre e riprodurre la nostra vita basato sulla coscienza dei limiti del pianeta Terra, l’unico che abbiamo a disposizione .

Filosofia chimica

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Mauro Icardi

Recensione. “Filosofia chimica” di Ermanno Bencivenga e Alessandro Giuliani, Ed. Riuniti Univ. press, 2014 pag. 138 – 12.75 euro

E’ il titolo di un interessante libro che ho trovato sugli scaffali della biblioteca di Varese. Da sempre sono ovviamente attirato ed incuriosito da ogni libro che si occupi di chimica, e negli anni sono stati diversi quelli che ho letto, a partire dal “Sistema periodico” di Primo Levi fino “Zio Tungsteno” di Oliver Sacks.

filosofiachimicaQuesto però mi ha colpito perché parla di chimica con un approccio diverso ed originale. Gli autori Ermanno Bencivenga e Alessandro Giuliani non sono chimici. Il primo è ordinario di filosofia presso l’università della California, il secondo biologo e ricercatore presso l’istituto superiore di sanità.

L’origine del libro parte da una domanda che uno dei due autori fece nel lontano 1976 ad una dottoranda in Chimica dell’università di Toronto. Cioè di cosa si occupasse la ricerca chimica. La risposta spiazzante e lapidaria fu che in sostanza ci si occupava di meccanica quantistica. La cosa certamente può sembrare strana detta da una persona che intendeva dedicare la propria vita professionale alla chimica. Quasi a significare che, dopo l’affermazione e lo sviluppo di questa teoria fisica, la chimica fosse stata come assorbita, inglobata nella fisica senza riuscire a trovare più una propria identità. A pensarci bene quando si parla del proprio lavoro molto spesso ai chimici viene affibbiata l’immagine di persone poco brillanti. L’immagine del chimico può essere associata ad attività poco nobili ed edificanti. Nell’immaginario di molte persone il chimico è visto come un rimestatore o un diffusore di veleni. Qualche volta si associa la sua professione a pratiche non molto lecite di raffinazione di sostanze stupefacenti per conto della criminalità organizzata. Per molti chimica significa esclusivamente Seveso e Bhopal.

Probabilmente la chimica porta su di se il ricordo delle proprie origini oscure,come molto ben descritto da Primo Levi nel “Sistema Periodico”.

Le origini della chimica erano ignobili, o almeno equivoche: gli antri degli alchimisti, la loro abominevole confusione di idee e di linguaggio, il loro confessato interesse all’oro, i loro imbrogli levantini da ciarlatani o da maghi; alle origini della fisica stava invece la strenua chiarezza dell’Occidente, Archimede e Euclide’.

Questo libro invece aiuta a ridare a questa scienza il giusto riconoscimento. Ricordando la storia della tavola periodica. Che si trova in tutti i laboratori di chimica nelle università e nelle scuole. Ma che è tra le acquisizioni più stupefacenti della scienza. Ricorda come Mendeleev avesse un animo profondamente musicale essendo un ottimo pianista. La tavola periodica quindi nasce ispirandosi anche alle leggi dell’armonia musicale. Gli autori ci ricordano che i grandi mutamenti della scienza del XX secolo ed in particolare la teoria della relatività di Einstein e la meccanica quantistica con i modelli atomici di Rutherford e Bohr non hanno intaccato la struttura e la validità della tavola periodica ipotizzata a metà ottocento.

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La lettura prosegue con i capitoli dedicati alle forme. Le formule di struttura come altri elementi di un alfabeto chimico che la tavola periodica già rappresenta.

La lettura prosegue con rimandi alla filosofia di Platone, Hegel e Kant e ripercorre le tappe della conoscenza chimica nel tempo. Tutto il libro di non moltissime pagine (sono 133) è una scoperta. Riporta nel lettore la voglia di scoprire la chimica se non ne ha mai avuto l’opportunità, e ridà al chimico la sensazione di ritrovare una sorta di sapore della chimica. Definisce anche la termodinamica “il più affascinante terreno di gioco comune di fisica e chimica” ricordando i contributi ad essa di un fisico come Enrico Fermi e di un chimico come Ilya Prigogine.

Alla fine della lettura il concetto che ne esce è che la chimica ha un suo personale linguaggio, una sua medietà. Una concretezza che impegna il chimico nel suo giornaliero lavoro che può essere di produzione di materie plastiche, di formulazione di nuove molecole o materiali. Aiuta a superare il paradosso che vede la chimica ed i chimici quasi destinati ad un ruolo secondario, mentre molte delle nuove frontiere di scienza e tecnologia (ambiente, nuovi materiali e farmaci) sono “cose da chimici” anche se nessuno sembra ricordarsene. Ma allo stesso tempo cerca complicità più che contrapposizioni tra le diverse discipline.

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Il libro che nasce come una critica al riduzionismo finisce per diventare un bellissimo libro divulgativo di chimica. Ne rinnova l’immagine per troppo tempo legata a stereotipi negativi.

Ed entrerà a far parte dei libri che occorre per forza avere nella libreria di casa.

Chimica e cinema

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Giorgio Nebbia

Se ammirate Julia Roberts, la brava e bella interprete di “Pretty woman”, non vi siete di certo lasciati scappare l’altra interpretazione, della stessa attrice, nel film “Erin Brockovich”, diretto nel 2000 da Steven Soderbergh, premio Oscar per la Roberts. Il film racconta la storia vera di Erin Brockovich, una impiegatuccia di un piccolo studio legale della California, che da sola condusse (e vinse) una battaglia contro la potente industria Pacific Gas & Electric, PG&E, responsabile di aver versato nel sottosuolo delle soluzioni di cromo esavalente (Cr(VI)), tossico e cancerogeno, usato come antiruggine nella centrale di compressione del gas, e di aver inquinato le falde idriche da cui traevano l’acqua potabile gli abitanti del paesino di Hinkley.

La battagliera Brockovich convinse 650 abitanti del paese a fare causa alla PG&E accusandola di aver provocato, col suo inquinamento, varie malattie che andavano dal tumore al seno al linfoma di Hodgkin ad aborti, eccetera. L’impresa chiamata in causa ha cercato dapprima di negare l’evidenza, la presenza di cromo esavalente (Cr(VI)) nelle acque del sottosuolo; poi di negare il modo in cui gli scarichi finivano giù da un pozzo. Una volta riconosciuto che il cromo era effettivamente presente nelle acque sotterranee, la PG&E sollevò tutta un’altra serie di obiezioni. Era poi vero che il cromo finiva nelle falde da cui veniva tratta l’acqua potabile ? Era poi vero che il cromo esavalente (Cr(VI)) manifesta la sua tossicità quando è assorbito con l’acqua potabile ? E quale è la concentrazione di cromo che si può considerare responsabile dei vari tumori riscontrati nella popolazione ? E se anche il cromo fosse stato assorbito con l’acqua potabile avrebbe da solo potuto causare tante differenti malattie ? E i malati di tumore fra gli abitanti di Hinkley erano davvero più numerosi di quelli medi della popolazione americana ? E i tipi di tumore osservati potevano essere davvero dovuti all’assorbimento del cromo esavalente (Cr(VI))? E i malati quale storia personale avevano avuto ? fumavano ? quanto ?

Alla fine comunque la società accettò di risarcire i ricorrenti con la forte somma di 333 milioni di dollari, la più alta finora pagata per danni provocati da un inquinamento.

La storia ha sollevato vari problemi che potranno continuare ad influenzare il futuro dell’industria chimica. Il primo riguarda i ricorsi collettivi contro i danni ambientali, un istituto che si chiama “class action”, abbastanza diffuso negli Stati Uniti e che è entrato anche nelle norme italiane, consistente nella richiesta di danni da parte non di un singola persona, ma di un gruppo di persone che si considerano danneggiate da un soggetto economico. Inoltre c’è stato grande interesse negli Stati Uniti e nel mondo sia per la storia umana personale della protagonista, sia perché è uno dei pochi casi in cui i grandi mezzi di comunicazione hanno raccontato conflitti “chimici” e industriali. Forse non tutti gli spettatori, non chimici, del film hanno capito tutto sul cromo esavalente, ma hanno almeno potuto seguire le varie fasi della controversia.Julia Roberts

Erin_Brockovich

Erin_Brockovich

Gran parte del dibattito e degli atti del processo si trovano in Internet. La Brockovich continua la battaglia contro gli inquinamenti, http://www.brockovich.com/ e alcune università americane hanno organizzato dei corsi di diritto dell’ambiente sul processo alla PG&E, mettendo a disposizione degli studenti delle raccolte di documenti (alcuni dei quali furono cancellati).

Al di là del successo della Brockovich e del film, io credo che la discussione pubblica dei problemi della produzione e dell’inquinamento riesca a far crescere nel paese la conoscenza, la cultura, di uno degli aspetti più importanti della società, la produzione, la qualità dei prodotti e dei rifiuti, il diritto ad un lavoro sicuro e il diritto dei cittadini all’informazione. E aiuti anche gli imprenditori a comportamenti più attenti nei confronti non solo dei lavoratori, ma anche delle persone che abitano fuori o intorno alle fabbriche.

La storia di Erin Brockovich non è stata l’unica trattata da film recenti. Qualcuno ricorderà forse un altro bel film, “chimico” anche quello, intitolato “A civil action” (anche in italiano), del 1998, diretto da Steven Zaillian e interpretato da John Travolta, nella parte di un avvocato — il suo vero nome è Jan Schlichtmann — difensore dei diritti di numerosi cittadini che si erano ammalati di tumori attribuiti ad un imprecisato “inquinamento” dell’acqua potabile, e da Robert Duvall, nella parte dell’avvocato degli inquinatori. Anche questo film si ispira ad una storia vera ambientata nella tormentata cittadina di Woburn nel Massachusetts, non lontana da Boston, negli Stati Uniti. Tormentata perché nella zona industriale di Woburn, nel corso dei decenni, si sono insediate fabbriche responsabili di vari inquinamenti, poi chiuse e abbandonate; una industria nucleare aveva inquinato l’ambiente con sostanze radioattive; alcune fabbriche chimiche e alimentari hanno cambiato produzione e proprietà, per cui era difficile risalire alle cause iniziali delle malattie che colpivano gli abitanti al tempo del processo.

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Jan R. Schlichtmann

Jan R. Schlichtmann

Il romanzo-inchiesta di Jonathan Harr, e il film che ne è stato tratto, raccontano la solita storia: come identificare le sostanze inquinanti, in questo caso tricloroetilene usato come sgrassante, come ricostruire chi l’ha versato nel sottosuolo (nel romanzo e nel film un ex-operaio rivela l’origine dell’inquinamento), dove è stato sversato nel sottosuolo, come ha potuto circolare nelle falde sotterranee fino ad arrivare ai pozzi. E ancora le reazioni delle industrie sotto accusa, impegnate a negare l’evidenza; il film offre molte informazioni sulla chimica e geologia del fenomeno; alla fine inquinatori e inquinati si sono accordati per una transazione che evitò altri processi. Anche in questo caso su Internet si trovano molte informazioni nel sito: http://serc.carleton.edu/introgeo/roleplaying/examples/toxictrl.html che contiene il materiale e le “dispense” distribuite agli studenti universitari che seguono uno speciale corso intitolato “Science in the courtroom”.

Quante belle tesi di laurea potrebbero fare, e quante cose potrebbero imparare, gli studenti e i dottorandi anche italiani che seguono i corsi di diritto dell’ambiente !

Altri due “casi” di contestazioni merceologiche riguardano le lotte contro le industrie del tabacco. Una storia, tratta anch’essa da un fatto vero, racconta la vita e le disavventure di un funzionario di una società che fabbrica sigarette, che si pente e dall’interno — il titolo del film è “Insider” diretto da Michael Mann, con Russel Crowe e Al Pacino (1999) — rivela i trucchi chimici (il tabacco veniva umettato con soluzioni di ammoniaca) che la società praticava per aumentare l’assuefazione alla nicotina dei fumatori. Jeffrey Wigand, www.jeffreywigand.com, il nome vero del funzionario pentito, un nostro collega chimico, ebbe innumerevoli sventure personali e di lavoro e “finì” per andare a insegnare chimica in un liceo, una “fine” ben apprezzabile anche se meno remunerativa del precedente impiego che lo rendeva complice dell’aumento dei tumori da fumo.

 insider

Una storia simile, che riguarda ancora l’industria del tabacco, è contenuta nel romanzo “La giuria” di Grisham. Ma la trasposizione cinematografica del 2003, con la regia di Gary Fieder e l’interpretazione del sempre grande Dustin Hoffman, espone la stessa trama ma per un processo non contro l’industria del tabacco, ma contro i fabbricanti di armi.

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Jeffrey Wigand

Altri disastri ambientali sono stati oggetto di film. Nell’aprile 1986 esplose uno dei reattori della centrale nucleare di Chernobyl in Ucraina, allora regione dell’Unione Sovietica; grandi quantità di elementi radioattivi si sparsero nel cielo, raggiungendo lontani paesi europei e anche l’Italia, ma soprattutto ricaddero addosso agli operatori della centrale e sugli abitanti delle città vicine. Molti coraggiosi piloti che volarono sulla centrale in fiamme per gettare cemento sul reattore in modo da fermarne il funzionamento, furono esposti pure ad alte dosi di radiazioni e manifestarono presto tumori mortali. Il film “Chernobyl” del 1991, di Anthony Page, descrive il generoso intervento del chirurgo californiano Robert Gale, interpretato dal bravo Jon Voigt, specialista mondiale di trapianti di midollo osseo, che volò in Ucraina per aiutare i colleghi russi impegnati nel salvare la vita di almeno alcuni degli esposti alle radiazioni.

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Il 24 marzo 1989 la grande petroliera Exxon Valdez ha avuto un incidente nel porto di imbarco dell’Alaska, con sversamento in mare di 400.000 tonnellate di petrolio. Il film “Catastrofe in mare”, di Paul Seed del 1992 descrive la battaglia delle autorità governative per cercare di arginare i danni ecologici e gli intralci posti dai proprietari della nave e dell’oleodotto per evitare eccessivi costi e per riattivare al più presto il flusso del petrolio, a costo di intralciare i lavori di disinquinamento.

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Vorrei raccomandare anche altri film, di fantasia questa volta, anche se non strettamente “chimici”, ma con forte motivazione etica e ecologica. “L’ultima spiaggia” di Stanley Kramer, del 1959, tratto dall’omonimo romanzo di Nevil Shute, denuncia come una guerra nucleare in una qualsiasi parte del mondo, comunque esplosa anche per errore dei generali, può spargere elementi radioattivi mortali sull’intero pianeta fino a farne estinguere la vita umana. Si era nel pieno delle esplosioni nucleari nell’atmosfera (che sarebbero parzialmente cessate soltanto nel 1962), e il film si chiude con l’avvertimento: “Fratelli potrebbe succedere”.

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Altrettanto drammatico il film “Il giorno dopo” (The day after) di Nicholas Meyer, 1983, che descrive come una famiglia americana, il padre è interpretato da Jason Robards, vive il bombardamento con bombe termonucleari della città di Kansas City, in seguito, anche qui, allo scoppio accidentale di una guerra nucleare fra Stati Uniti e Unione Sovietica. Il film apparve quando, nell’età di Reagan, era massima la tensione sullo schieramento di missili balistici intercontinentali, ICBM, nei due paesi contrapposti.

rapporto pelikanSempre nell’ambito dei film di fantasia il film “Il rapporto Pelican”, di Alan Pakula del 1993, anche questo con Julia Roberts, descrive le trame delle grandi compagnie petrolifere per uccidere i giudici americani che avrebbero potuto accogliere le raccomandazioni degli ecologisti e opporsi alle trivellazioni petrolifere in una oasi-rifugio dei pellicani. L’abilità e il coraggio della protagonista riescono a salvare l’ecosistema minacciato.

Il più recente “L’alba del giorno dopo”, di Ronald Emmerich, del 2004, drammatizza quello che potrebbe succedere se i mutamenti climatici portassero a coprire di neve e ghiaccio gli Stati Uniti; meno convincente dal punto di vista ecologico.in_nome_del_popolo_italiano

Negli anni settanta del Novecento, infine, si ebbero anche in Italia alcuni film di fantasia ispirati alla difesa dell’ambiente, alla coraggiosa azione dei “pretori d’assalto”. Mi vengono in mente il bel film di Dino Risi del 1971, “In nome del popolo italiano”, con Ugo Tognazzi, pretore coraggioso che deve fare i conti con inquinatori e speculatori edilizi. Del 1974 il film di Steno, “La poliziotta”, con la brava Mariangela Melato, giovane agente di polizia che cerca di colpire senza riguardo, e con grave disturbo dei suoi tolleranti superiori, violazioni ecologiche, frodi, corruzioni. In quegli anni settanta c’era stata una breve stagione di speranza di moralizzazione e di lotta vittoriosa contro inquinamenti, abusi, corruzione.La_poliziotta

Mi chiedo come mai in Italia, dove i produttori cinematografici sono sempre alla ricerca di nuovi soggetti, ci sia così poca attenzione ai problemi delle lotte civili per la difesa della salute e dell’ambiente: eppure di contestazioni e processi ce ne sono stati tanti — da Marghera all’amianto, a Cengio, a Manfredonia, a Gela, a Seveso, a Carrara, a Taranto, solo per fare alcuni nomi — e ogni volta le lotte popolari, e ce ne sarebbero tante da raccontare, non hanno portato risarcimenti monetari agli inquinati, ma hanno fatto crescere la cultura industriale dell’Italia.

lepre_con_la_faccia_da_bambina_lydia_alfonsi_003_jpg_ajxq leprePer quanto ne so, l’unico film del genere fu tratto da un racconto di Laura Conti su Seveso, la cittadina lombarda in cui, nel luglio 1966, ricaddero i fumi fuoriusciti dopo il grave incidente nella fabbrica chimica Icmesa di Meda. Tali fumi contenevano molti chili di diossina, nome allora sconosciuto, sostanza cancerogena, responsabile della morte di molti animali e delle pustole sulla faccia di molti bambine. Il libro era intitolato “Una lepre con la faccia da bambina”, Roma, Editori Riuniti, 1976; il film, con lo stesso nome, era diretto da Gianni Serra e interpretato da Franca Rame, Amanda Sandrelli e altri, ma è circolato pochissimo.

Grazie a chi vorrà allungare questo breve elenco di film “chimici”.

La chimica italiana ha lo stesso valore del Milan?

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Claudio Della Volpe

Durante il 2015 anche su C&I si è ripetutamente parlato di Versalis ed è giusto perchè Versalis è la maggiore azienda chimica italiana, il ramo chimico di ENI, che è a sua volta una multinazionale del petrolio e dell’energia in genere.

Versalis è una azienda chimica che nel 2014 aveva un capitale investito dell’ordine di 2.9 miliardi di euro ed un ricavo di circa 5.3 miliardi di euro (erano oltre 6.2 nel 2012) (dal bilancio 2014 approvato nell’aprile 2015, https://www.versalis.eni.com/irj/go/km/docs/versalis/Contenuti%20Versalis/IT/Documenti/Documentazione/Bilanci/Bilancio%202014.pdf).

Lo stesso bilancio ci informa che

Versalis gestisce la produzione e la commercializzazione di prodotti petrolchimici (intermedi, polietilene, stirenici ed elastomeri). Nella Business Unit Intermedi, l’obiettivo principale è quello di garantire l’adeguata disponibilità di monomeri a copertura delle necessità dei business a valle del processo: in particolare le olefine (etilene e butadiene) sono integrate con i business degli elastomeri e del polietilene, gli aromatici sono integrati con i business fenolo/derivati idrogenati e stirene.

Versalis è tra i principali produttori europei di polistiroli e di polietilene, il cui maggiore impiego è nell’ambito dell’imballaggio flessibile, e tra i leader mondiali di elastomeri, dove è presente in quasi tutti i principali settori (in particolare nell’industria automobilistica).”

Perchè parliamo di questo? Perchè a fine ottobre la stampa finanziaria era piena di commenti su una esclusiva di Bloomberg, un sito specializzato che riportava che Versalis è sul mercato e anche per una cifra ridicola, circa 1.1 miliardi di euro.

versalis22

http://www.bloomberg.com/news/articles/2015-10-20/italy-s-eni-said-to-explore-sale-of-chemical-division-versalis

La notizia era riportata con spazio e si faceva notare che dopo qualche anno in rosso la Versalis è ora in attivo.

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http://www.ragusanews.com/articolo/57909/eni-la-chimica-di-versalis-venduta-ai-privati-di-polynt

Ovviamente la notizia ha causato domande e polemiche.

Un miliardo di euro? Così poco vale la chimica di Stato per Eni? 6.000 dipendenti e 7 stabilimenti produttivi solo in Italia e joint venture in tutto il mondo? Un miliardo di euro è la stima del Milan calcio, allora è vero che è meglio fare il giocatore che studiare chimica?

Nonostante siano passati quasi due mesi nulla sembra essere stato fatto; pochi giorni fa (vedi il Sole 24 ore- venerdì 4 dicembre) il numero uno dell’ENI Claudio Descalzi in margine di un convegno di Confindustria sulle prospettive del mercato italiano del gas ad una domanda sui rumors relativi alla possibile vendita del 70% della Versalis ad un fondo Usa (Polynt) ha detto:

«non è ancora stato fatto nulla. Stiamo discutendo con vari potenziali soggetti, ma non esiste ancora un compagno di viaggio» «Dobbiamo trovare qualcuno che investa con noi. L’alternativa è che non riusciamo a mettere i soldi per questo sviluppo. Se non ci svegliamo e investiamo, la chimica andrà ad esaurimento». Se la vendita andasse a buon fine ci sarebbero delle condizioni«Seguire il nostro piano industriale per i prossimi due anni, mantenere il contesto industriale intatto per cinque anni, non toccare le persone per tre anni, mantenere la società italiana, con nome italiano». Cgil, Cisl e Uil, Susanna Camusso, Anna Maria Furlan e Carmelo Barbagallo, e i segretari generali di categoria, hanno chiesto«un incontro urgente» al Presidente Renzi.

Nessuna cifra è stata fatta nè sono state negate le indiscrezioni di ottobre.

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Ora la questione è banale:

  • ma veramente si sta pensando di vendere il 70% di un assett che vale di solo capitale investito 3 miliardi per un solo miliardo?
  • se è una questione di soldi quale modo migliore di investire da parte delle grandi banche italiane che sono sempre alla ricerca di un buon investimento? Perchè dobbiamo ricorrere a fondi di altri paesi e rinunciare alla sovranità su una azienda che ha fatto la storia recente del nostro paese?
  • Che fine faranno effettivamente gli investimenti e i posti di lavoro e le capacità e il know-how che Versalis rappresenta?

Il management di ENI sostiene che si deve concentrare sul proprio core business, il fossile, e lo fa proprio in contemporanea con la COP21 di Parigi che sta cercando un accordo per mettere un paletto ai consumi fossili e spingere verso le energie rinnovabili, un settore che non può fare a meno della chimica moderna; che strategia è concentrarsi su un core business a corto respiro quando lì fuori c’è un intero mondo nuovo da costruire, svendendo proprio lo strumento per partecipare in prima linea a questa epocale rivoluzione?

Decisamente la situazione di monopolio in cui sono cresciuti i grandi capitalisti italiani fa male e dimostra ancora una volta che i tempi sono maturi per cambiare le politiche industriali del nostro paese, mettendole sotto il controllo trasparente e democratico dei cittadini.

La (s)vendita di Versalis, azienda oggi a prevalente carattere pubblico ad un fondo estero privato per nemmeno un terzo del suo valore sarebbe la ciliegina sulla torta di una storia della grande chimica in Italia piena di geniali idee e di drammatica incapacità, di inattesi suicidi e di grandi processi quasi più in tribunale che nei reattori industriali.

Speriamo che C&I, che è stata molto presente quest’anno nel raccontare le strategie di Versalis per “salvare la chimica italiana” (nei numeri di gennaio, maggio e luglio 2015), trovi spazio e tempo per analizzare questa delicata e, a quanto pare, inattesa situazione .