Zinco e ossido di zinco: una riscoperta?

E’ APERTA LA RACCOLTA DI FIRME PER LA PETIZIONE ALLA IUPAC per dare il nome Levio ad uno dei 4 nuovi elementi:FIRMATE!

https://www.change.org/p/international-union-of-pure-and-applied-chemistry-giving-name-levium-to-one-of-the-4-new-chemical-elements

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Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di RInaldo Cervellati

Omaggio all’amico Prof. Paolo Edgardo TodescoPET

Sono un accanito cinefilo, purtroppo nei canali televisivi gratuiti i film sono interrotti da numerosi spot pubblicitari, e quando ciò avviene di solito sbuffo, impreco, guardo in qua e in là ascoltando distrattamente. Mi è comunque recentemente capitato di ascoltare spot pubblicitari di case produttrici di cosmetici, farmaci da banco contro la tosse e pomate cutanee e finanche dentifrici che magnificavano i loro prodotti per la presenza, oltre che dei soliti antiossidanti quali acido ialuronico e coenzima Q10, anche dello… Zinco.

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John Landis

Questa “riscoperta” dell’importanza e dell’uso dello zinco e del suo ossido mi ha fatto venire in mente un breve sketch del film “Ridere per ridere” diretto da John Landis, uscito nel 1977, intitolato appunto “Ossido di Zinco”. Lo propongo qui tratto da youtube:

Lo sketch, come del resto tutto il film, è una parodia impietosa dei palinsesti TV americani, intriso di umorismo sfacciato e senza riguardi. Tuttavia in “Ossido di Zinco”, al di là dell’umorismo anche un po’ macabro, c’è molto di vero. Vediamo perché.

Anzitutto lo zinco è uno della ventina di minerali presenti nell’organismo umano e, dopo il ferro, è il più abbondante fra gli oligoelementi. Una carenza di zinco può condurre a gravi disfunzioni del metabolismo, per esempio nei maschi può provocare una diminuzione degli spermatozoi nel seme. In associazione con l’enzima superossido dismutasi esercita un’azione antiossidante; in associazione con altri enzimi, come l’alcool deidrogenasi e la lattato deidrogenasi, esercita azione catalitica. È stato scoperto che lo zinco gioca anche un ruolo importante nel riconoscimento del DNA (zinc finger o dito di zinco). Per queste proprietà è presente in molti integratori alimentari (una compressa di uno fra i più noti integratori ne contiene 5 mg, la RDA (Recommended Daily Allowance, che varia con il peso esatto ovviamente) è (in media) 11 mg per l’uomo, 8 mg per la donna, che aumenta a 11-13 durante la gravidanza e l’allattamento). Lo zinco è contenuto in moltissimi alimenti animali e vegetali, ad es. il fegato di bovino ne contiene 10 mg/100 g, il cosciotto di agnello cotto 7,7 mg/100 g, i cereali per colazione 12,4 mg/100 g, i funghi secchi 7.7 mg/100 g e il cioccolato amaro fondente 9.6 mg/100 g.

Lo zinco metallico ha moltissimi impieghi industriali, dalla galvanizzazione di metalli per prevenirne l’ossidazione (ad es. le grondaie), alle zamak (leghe a base di Zinco, Alluminio, Magnesio, Antimonio e Rame) usate nella produzione di parti di autoveicoli, elettrodomestici, giocattoli, bottoni e cerniere. Cilindretti di zinco sono usati come contenitore (e polo negativo) nelle pile Leclanché (zinco-carbone). Lo zinco è anche usato in lega per la fabbricazione di oggetti di oreficeria e argenteria. I composti organometallici dello zinco sono usati nella sintesi di numerose sostanze organiche.

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Lo zinco è presente in molti alimenti; un esempio per tutti: nelle ostriche ce ne sono oltre 100mg/100g di alimento e le ostriche sono considerate un alimento che fa “bene” all’amore; ora si sa che in una sola eiaculazione si possono perdere fino a 5mg di zinco.(Nota del blogmaster)

Lo zinco ha un solo numero di ossidazione, 2+, quindi il suo ossido è ZnO. L’ossido di zinco si trova in natura nel minerale zincite (un ossido misto di zinco e manganese a composizione variabile). L’ossido di zinco si ottiene industrialmente con diversi metodi che non verranno qui descritti, allo stato di elevata purezza si presenta, a temperatura ambiente, come un solido bianco inodore, insolubile in acqua, molto solubile in acidi o basi diluiti. Riscaldato al disotto della sua temperatura di fusione (1970 °C con decomposizione) cambia colore dal bianco al giallo e ritorna bianco per raffreddamento, presenta cioè il fenomeno della termocromia. Allo stato cristallino è piezoelettrico. L’ossido di zinco è anche semiconduttore, un suo impiego molto comune è in sensori per fughe di gas e in microelettronica per costruire LED blu e transistor a film sottile trasparenti.

È utilizzato nell’industria degli elastomeri insieme all’acido stearico nella manifattura di oggetti in gomma, da solo può essere impiegato come riempitivo in molte miscele della gomma. L’ossido di zinco è largamente impiegato come pigmento nell’industria delle vernici, una sua formulazione chiamata bianco di cina è utilizzata nei colori della pittura artistica. Trova applicazioni anche nella lavorazione della carta e di alcuni tessuti.

Veniamo ora ad alcune proprietà dell’ossido di zinco che lo rendono utile in medicina e farmacologia. L’ossido di zinco ha proprietà lenitive, idratanti e rinfrescanti, inoltre non ha praticamente effetti collaterali, per cui è impiegato da moltissimo tempo in dermatologia sottoforma di creme, pomate e polveri. Le creme sono registrate come medicinali o prodotti cosmetici e usualmente contengono circa il 10% di ossido, vengono impiegate principalmente contro gli arrossamenti, le dermatiti dei neonati e la prevenzione delle ulcere da decubito. La pasta di Hoffmann è una pomata galenica al 50% circa di ossido di zinco in olio di oliva contenente talvolta vitamina E acetato e altri antiossidanti utilizzata nel trattamento delle piaghe da decubito. La benda all’ossido di zinco è costituita da una benda elastica (cotone o rayon) impregnata di pasta all’ossido di zinco. Queste bende hanno un’elevata capacità adesiva ma al tempo stesso sono facilmente rimovibili, sono indicate per il trattamento delle tromboflebiti e flebo trombosi, alcuni tipi di varici, come sostegno nelle distorsioni e lussazioni, nonché nella riabilitazione di fratture dopo la rimozione del gesso. Molti tipi di talco contengono ossido di zinco, sia come rinfrescante sia come antitraspirante e adsorbente perché reagisce con gli acidi del sudore responsabili del cattivo odore (capronico e caprilico) formando sali inodori.

Infine allo zinco e al suo ossido sono anche state attribuite proprietà antisettiche e le pastiglie contenenti gluconato di zinco vengono talvolta consigliate come rimedio contro il comune raffreddore.

Da tutto quanto detto ne deriva che lo sketch del film di Landis, pur nel suo umoristico eccesso, contiene una verità incontestabile: la chimica pervade tutto quello che ci circonda compreso il biologico, che altro non è se non bio-chimico.

Vorrei terminare con una considerazione che ho fatto in altri post: se vogliamo evitare la chemofobia o quantomeno limitarne gli effetti dovremmo modificare i programmi dei corsi di chimica di base nel biennio terminale dell’obbligo riducendo drasticamente l’aspetto dottrinale – quantitativo a favore della chimica nel quotidiano. L’ossido di zinco di John Landis docet.

https://it.wikipedia.org/wiki/Zinco

Restauro “verde”.

E’ APERTA LA RACCOLTA DI FIRME PER LA PETIZIONE ALLA IUPAC per dare il nome Levio ad uno dei 4 nuovi elementi:FIRMATE!

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Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Luigi Campanella, ex Presidente SCI

Se è vero che i settori sui quali si basa la qualità della vita sono 5 (ambiente, salute, alimenti, energia disponibile, cultura e tempo libero) si può dire che le green technologies li hanno occupati quasi tutti ed in misura sostanziale. L’unico campo ancora “quasi vergine” rispetto a tale occupazione è quello dei Beni Culturali.

Oggi anche per questo si aprono prospettive interessanti, forse di nicchia, ma certamente anche di eccellenza. Peraltro queste nuove ed innovative applicazioni aprono indirettamente anche altri spazi nel campo del monitoraggio e della protezione ambientale.

Il nostro Paese è unanimemente e internazionalmente riconosciuto come il depositario del più ricco patrimonio artistico culturale, anche in termini di numeri di siti UNESCO patrimonio dell’umanità. Questo è un onere, ma anche un onore per la conservazione, la manutenzione, il restauro eventuale di tale patrimonio. Molte di queste attività oggi vengono svolte con materiali e tecnologie che da un lato risultano rischiosi per gli operatori del restauro e dall’altro comportano danni all’ambiente per lo smaltimento dei residui di tali operazioni. Ecco perché è stato prodotto il concetto di restauro sostenibile, intendendo con ciò il carattere di sopportabilità da parte dell’ambiente e degli operatori, senza subire danni o correre rischi. Il restauro sostenibile adotta oggi materiali e metodi innovativi capaci di garantire la salute di chi li usa e di non provocare danni all’ambiente al momento del loro smaltimento o di quello dei loro sotto prodotti. Uno dei cardini su cui si basa il restauro sostenibile è di certo l’uso di prodotti naturali. Ecco quindi che le green technologies si aprono verso l’utilizzo di matrici naturali o di loro estratti ai fini del restauro.

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Il campo è oggi, essendo in fase di avvio, ancora abbastanza vergine. Forse il settore più promettente da questo punto di vista è quello del restauro dei materiali cellulosici, carta, legno, tessuti antichi.

La cellulosa composto comune a tali materiali subisce con il tempo dei danni che derivano dall’attacco chimico, da quello fotochimico correlato alla produzione di radicali attivi per azione della componente UV della radiazione solare, sulle molecole ubiquitarie di ossigeno ed acqua e da quello biologico e che si sostanziano nell’idrolisi ed ossidazione della molecola che si frammenta perdendo o riducendo le proprie caratteristiche di polimero. Il restauro consiste nel ricomporre, quasi ri-saldare, si potrebbe dire, i frammenti della molecola.

Alcuni composti naturali hanno per l’appunto la capacità di legarsi ai gruppi funzionali dei suddetti frammenti così ricomponendoli insieme in una sola molecola. Un caso particolare di questi composti naturali è costituito dai polisaccaridi: la specificità deriva dalla grande abbondanza, dalla possibilità di ottenerli da culture microalgali, dalla loro biodisponibilità, dal loro carattere verde e rinnovabile.

Una preziosa fonte di polisaccaridi ,come si accennava, è rappresentata dalle alghe. Il processo logico prevede la estrazione dei polisaccaridi dalle alghe, la loro purificazione ed infine la loro applicazione ai materiali cellulosici degradati.

Cellulosa1

L’esperienza maturata insegna che in particolare casi perfino la cultura algale senza alcuna operazione estrattiva preliminare può risultare utile ai fini del restauro. L’esperienza finora sviluppata mostra anche che la concentrazione di polisaccaridi nelle alghe può essere incrementata stressando le alghe stesse con quantità omeopatiche di metalli pesanti e scegliendo la coltura algale più adatta a tale produzione.

I risultati preliminari di queste ricerche hanno fornito esiti soddisfacenti: carta invecchiata e danneggiata artificialmente- a simulazione di manufatti cellulosici preziosi e antichi, con caratterizzazione dei danni subiti ,sottoposta a trattamenti sia con i polisaccaridi algali estratti, sia direttamente con le colture algali mostra evidenti segnali di restauro sia in termini di struttura risanata.sia di caratteristiche originali recuperate.

Indirettamente la notazione che uno stress alla struttura algale comporta una risposta in termini di produzione di composti e di conseguenza di perturbazioni funzionali, apre un’ulteriore opportunità finalizzata all’impiego delle alghe come sistemi sensori di inquinamenti ambientali e di composti tossici. Tra le funzioni 2 sono quelle più coinvolte: la respirazione e la fotosintesi, la prima con consumo ,la seconda con produzione di ossigeno. Quando entrambe vengono perturbate la normale alternanza della concentrazione dell’ossigeno fra aumenti e diminuzioni correlata ad una corrispondente alternanza di stati di buio e di luce (respirazione prevalente, fotosintesi prevalente), viene smorzata o esaltata a seconda che la perturbazione-e quindi anche la specie che l’ha provocata-sia un’inibizione o un’attivazione. Su tale modificazione si può basare un monitoraggio ambientale affidato a un biosensore algale.

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Un altro campo delle green technologies che sta trovando applicazioni ai Beni Culturali è quello dei liquidi ionici. Si tratta di composti salini liquidi a temperatura ambiente: la presenza in base liquida di soli ioni è possibile con la fusione dei sali, che però richiede alte temperature. I liquidi ionici sono caratterizzati da bassa volatilità e bassa tossicità, alcuni di essi hanno anche la proprietà di utilizzare materie prime rinnovabili per essere preparati. La loro applicazione ai Beni Culturali nasce dalle loro proprietà solventi: quando si deve restaurare un oggetto artistico la prima operazione è quasi sempre la pulitura con la quale dalla superficie da restaurare viene rimossa ogni traccia di deposito diverso dal materiale di base che è il bersaglio ultimo del restauro. Oggi per questa operazione, malgrado le raccomandazioni e le norme, spesso vengono usati solventi tossici che pongono problemi alla salute di chi li usa ed all’ambiente al momento dello smaltimento. I liquidi ionici possono rappresentare un’alternativa sostenibile e rispettosa di ambiente e salute.

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Riferimenti:

R.Caminiti,L.Campanella,S.Nunziante,S.Plattner,E.Scarpellini
INNOVATION  IN PAPER PRESERVATION:Green Chemical Treatment,in Diagnosis for the Conservation and Valorisation of Cultural Heritage,V Intern Congress,Napoli 11-12 dicembre 2014,ed. Aracne

La più bella lezione di termodinamica

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a cura di Mauro Icardi

Nel 1987 ho assistito alle celebrazioni per il centenario del ponte promiscuo, ferroviario e stradale sul Ticino, tra Galliate e Turbigo. La linea ferroviaria che utilizza il ponte è la Saronno-Novara, che in quegli anni era gestita dalle Ferrovie Nord Milano.

Per l’occasione venne organizzato un treno a vapore d’epoca che nel pomeriggio di una domenica di giugno percorreva a spola il ponte tra la stazione di Galliate, in provincia di Novara, e quella di Turbigo in provincia di Milano. In quegli anni ero molto appassionato di treni e ferrovie. E molto curioso. Così nell’attesa della partenza mi intrufolai nella cabina di guida della locomotiva.

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Trovai un gentilissimo macchinista che mi spiegò dettagliatamente il funzionamento della macchina, e con orgoglio aziendale mi spiego perché riteneva la piccola locotender 200.05 migliore delle macchine simili delle Fs. Incominciando a parlarmi con grande competenza, ma anche con semplicità di termodinamica. La termodinamica è quella branca della Fisica, o per meglio dire della Chimica Fisica che descrive le trasformazioni subite da un sistema in seguito a processi che coinvolgono la trasformazione di massa ed energia. Fu proprio lo sviluppo delle macchine a vapore a permetterne la nascita. Mi descrisse anche con grande passione e molta competenza che la caldaia a tubi di fumo della locomotiva 200.05 era in tubi di rame.

Questa piccola locomotiva funzionava come altre locomotive di quel periodo. Una caldaia, cioè un lungo cilindro colmo d’acqua e attraversato longitudinalmente dai tubi bollitori; attraverso i quali passano i fumi prodotti dalla combustione del carbone.   Carbone che brucia in un forno a ridosso della cabina di guida. Il calore riscalda l’acqua e la fa evaporare, portandola ad una certa pressione: il vapore si concentra in una apposita camera (duomo), posta nella parte superiore della caldaia, e da qui viene prelevato per essere inviato al motore. Il motore che di solito è composto da due cilindri con un meccanismo di distribuzione che invia il vapore ora in un cilindro, ora nell’altro e da questo movimento origina il familiare ciuf ciuf che ancora adesso abbiamo quasi tutti nel nostro immaginario. Sulle locomotive a vapore si potrebbero dire ancora molte cose. Su queste macchine che mantengono un intramontabile fascino si sperimentarono in Italia diverse soluzioni per migliorare rendimento termodinamico e diminuire il consumo di carbone. Dalla doppia espansione del vapore fino al recupero dell’energia ancora presente nei fumi di scarico per surriscaldare il vapore. Tutto questo che in parte già conoscevo mi venne spiegato in quella giornata. La più bella lezione di termodinamica conclusasi con un piccolo viaggio in treno a vapore tra le due sponde del Ticino.

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Molti anni dopo nel maggio del 2012 ho scoperto che la termodinamica, e l’amore per le macchine a vapore, ma in generale per il proprio lavoro è caratteristica comune dei macchinisti (credo ormai pochi) ancora abilitati alla condotta di locomotive a vapore. In questa occasione un altro macchinista che mi parlò di una altra locomotiva storica la 250 della Breda e ripetette con la stessa passione e competenza la lezione di termodinamica del 1987.

Senza chimica nel piatto?

 

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a cura di Massimo Ferrari*,  Chimico – appassionato di alimenti (buoni)

massimoferrariAttraverso il blog provo a rispondere ad alcune questioni sollevate da Claudio Della Volpe in “Troppa chemofobia nella informazione”, relative alla carenza di regole e della difficoltà di individuare gli enti e le strutture che dovrebbero garantirci la qualità dei materiali destinati al contatto con gli alimenti. Il tema dei materiali ed oggetti a contatto con gli alimenti è esteso e complesso, e in esso chimica, esigenze di mercato, e normativa si intrecciano in maniera indissolubile, per cui mi risulta difficile riassumere il tutto nell’articolo di un blog.

Fin dall’antichità l’uomo ha cercato dei mezzi per conservare il cibo. Famosissime sono le giare con una o due anse, utilizzate per produrre e conservare il vino o l’olio delle olive nella zona del mediterraneo, prodotte con la terracotta cioè “argille comuni contenenti ossidi di ferro, che nella cottura nella fornace danno al prodotto il caratteristico colore giallo-rossiccio”

(http://www.treccani.it/enciclopedia/terracotta/ )piatto1

Il “senso comune” vuole che questo materiale in quanto antico, naturale e “senza chimica”, e nel quale gli ossidi di ferro sono naturalmente contenuti e quindi “non chimici”, ed in cui pure il processo di cottura è tradizionale, abbia la caratteristica di essere assolutamente sicuro.

La riscoperta delle produzioni e dei prodotti tradizionali rivisitati attraverso la moderna scienza e tecnologia (quante volte si legge questa cosa nei siti commerciali!) hanno consentito ai produttori di moderne giare per vino, o di tegami e padelle in terracotta (la riscoperta di antiche tradizioni), di evitare la cessione di metalli pesanti (moderna scienza e tecnologia).

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Ma che ci fanno dei metalli pesanti quali piombo e cadmio o perfino il cromo, quindi elementi “chimici”, all’interno di un prodotto “naturale”?

Forse qualcuno ha capito che i pericoli possono arrivare anche da sostanze naturali e da tradizioni che si tramandano da millenni e non soltanto dalle 1500 sostanze chimiche approvate per venire a contatto con gli alimenti o dalle oltre 100.000 (?) che potrebbero migrare negli alimenti. 1

Normativa

La materia della sicurezza dei “materiali e degli oggetti destinati al contatto con gli alimenti” (MOCA) è regolamentata in Italia fin dal 1973 (Decreto Ministeriale del 21 Marzo 1973 Disciplina igienica degli imballaggi, recipienti, utensili destinati a venire in contatto con le sostanze alimentari o con sostanze d’uso personale); in essa si stabiliscono le norme per l’autorizzazione ed il controllo dell’idoneità di plastica, gomma, carta, vetro, acciaio inossidabile e lattine destinate a venire in contatto con gli alimenti; tale decreto nel tempo è stato ovviamente aggiornato ed implementato ed in parte sostituito dal Reg.(CE) 1935/2004.

Importante è il Regolamento (UE) N.10/2011 DELLA COMMISSIONE del 14 gennaio 2011, riguardante i materiali e gli oggetti di materia plastica destinati a venire a contatto con i prodotti alimentari, che, nel suo Allegato I, autorizza l’utilizzo di 885 sostanze, tra cui le non pericolose: gomma naturale, albumina e olio di soia. Accanto a queste sostanze ce ne sono ovviamente altre tra cui il cloruro di vinile e la formaldeide entrambe classificate come cancerogene (gruppo 1) dallo IARC. La legge per queste ultime due, a differenza delle prime tre, prevede dei limiti specifici di migrazione in un liquido simulante.

Così dal 1973 sono state scritte e pubblicate diverse normative, sia nazionali che europee, in cui si regolamentano anche cose di “attualità chimica” quali la commercializzazione di materiali attivi ed intelligenti2, di plastiche riciclate3, fino alle padelle rivestite in smalto porcellanato4, ottenute con tecnologia sol-gel, ma che tanto ricordano quelle della nonna.

Dichiarazioni di conformità

Secondo quanto previsto dal Reg 1935/2004 i produttori di MOCA, cioè produttori di sostanze, di semilavorati, di materiali, stampatori finali, ed importatori devono accertare la conformità dei loro prodotti al contatto alimentare e dichiararla attraverso una “Dichiarazione di Conformità” e quindi informare i loro clienti circa le condizioni di utilizzo, la presenza di sostanze dual use (sostanze che possono essere presenti nei materiali di confezionamento ed anche essere usate dall’industria alimentare), e la presenza di sostanze con restrizioni o limitazioni e ogni altra informazione utile alla filiera alimentare. Naturalmente devono essere eseguiti dei test di cessione per verificare la migrazione globale o specifica, come indicato dalle norme di settore.

Controlli

Nonostante ciò il RASFF (RAPID ALERT SYSTEM FOR FOOD AND FEED)5 riporta dal 2002 (in realtà il database è ben popolato dal 2007 in poi) ben 2429 notifiche di non conformità di materiali destinati al contatto con gli alimenti: evidentemente ci sono dei “volponi”, ma dal numero di segnalazioni è evidente che ci sono anche dei controlli.

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Gli accertamenti sulla sicurezza dei MOCA fanno parte dei controlli previsti per la tutela della pubblica salute6 e quindi parte della partita sulla sicurezza chimica degli alimenti. A livello Europeo quest’ultima materia è governata da una serie di regolamenti detti “Pacchetto igiene” di cui fa parte il Reg. 882/2004, che prevede l’obbligatorietà dell’accreditamento secondo la norma ISO/IEC 17025 per i laboratori che effettuano il controllo ufficiale per la sicurezza alimentare; tale norma prevede l’accreditamento, non soltanto del sistema di gestione, ma anche l’accreditamento dei singoli metodi di analisi7.

Un esempio di ciò sono le resine melaminiche con cui si producono stoviglie rigide (sopratutto bicchieri e piatti per i bambini) e le poliammidi (palette nere per cucina), che destando preoccupazione a causa del rilascio di formaldeide e di amine aromatiche primarie nei prodotti alimentari oltre i limiti consenti, sono oggetto di un regolamento specifico8. piatto4

La quasi totalità di questi oggetti sono importati dall’Oriente ed alla frontiera devono essere controllate le “dichiarazione di conformità” sulla totalità delle partite, ed il 10% deve essere controllato analiticamente da laboratori accreditati secondo norma la ISO/IEC 17025 ed incaricati dall’autorità competente, che in Italia è il Ministero della Salute.

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Utilizzo

La sicurezza delle stoviglie, padelle, piatti, bicchieri…. è legata in modo indissolubile all’utilizzo che ne facciamo: se riscaldo in microonde un alimento in un contenitore plastico non adatto a tale tipologia di riscaldamento si potrebbe verificare una migrazione di sostanze indesiderate dal contenitore al cibo. Lo stesso potrebbe accadere quando si conserva un alimento acido (salsa di pomodoro) in un contenitore di alluminio a temperatura ambiente: in questa situazione con il trascorrere del tempo la salsa di pomodoro potrebbe intaccare il contenitore che cederebbe quindi alluminio. Altrettanto errato, almeno in linea di principio, è il riutilizzo di contenitori per un uso diverso da quello per cui sono stati progettati (olio nelle bottiglie in plastica per l’acqua).

Da segnalare che le norme dovrebbero aiutare il consumatore: è previsto l’obbligo di indicare che il materiale è adatto al contatto alimentare (figura1) ed eventuali restrizioni d’uso9 (es: non adatto al microonde, temperatura massimo di utilizzo; per alluminio DECRETO 18 Aprile 2007, n. 76).

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Fig. 1: simboli per indicare restrizioni d’uso: (nell’ordine) adatto per alimenti, adatto al freezer, non idoneo a lavastoviglie, adatto a micro-onde.(immagini commerciali)

Vorrei puntualizzare che le cessioni di sostanze dall’imballaggio all’alimento non sono sempre negative, anzi l’affinamento di vini pregiati in botti di rovere francese (barrique), avviene grazie alla migrazione di particolari aromi e polifenoli dal legno al vino.

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Quindi da quanto esposto è evidente che il problema della sicurezza dei materiali destinati al contatto con gli alimenti non è trascurabile, ma parallelamente c’è consapevolezza di ciò ed esiste un impianto le cui intenzioni sono quelle di minimizzare il rischio legato a tale esposizione.

(Quello che manca è cultura chimica che per ironia della sorte è ben compensata da abbondante “chemofobia”.

Forse c’è ancora troppa poca chimica nel piatto.)

Riferimenti.

1Troppa chimica nel piatto”, Altroconsumo numero 300, febbraio 2016

2 Reg. (CE) No. 450/2009

3 Reg. (CE) N. 282/2008

4 Circolare Ministero Salute N. 20272 del 20/05/2014

5 Art. 50 del Regolamento (CE) n178/2002

6 art.2 Decreto del Presidente della Repubblica 26 marzo 1980, n. 327

7 art.12 Reg. 882/2004.

8Reg (CE) 284/2011

9 art.15 Reg. 1935/2004

* Massimo Ferrari è un chimico che lavora all’APPA di Trento.

Asfalto verde

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a cura di Luigi Campanella, ex Presidente SCI

Disinquinare l’ambiente dagli effetti nocivi del traffico, degli impianti di riscaldamento, dei reattori industriali sfruttando i processi di fotodegradazione catalitica innescata da opportuni additivi all’asfalto (ambiente esterno), ai muri delle nostre case (ambiente interno): questa è la notizia che attraverso articoli più o meno scientifici, più o meno divulgativi, è ripetutamente trapelata sulla stampa quotidiana e su quella specialistica. C’è da crederci?

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La base scientifica è corretta. Infatti i processi fotocatalici mediati dai semiconduttori permettono di degradare una grande varietà di molecole potenzialmente tossiche.

La meccanica quantistica descrive la struttura elettronica dei semiconduttori attraverso la teoria delle bande: le bande interessate al processo catalitico sono l’ultima occupata (o livello di Fermi) e la prima vuota (o di conduzione); in condizioni normali, gli elettroni non sono in grado di saltare dal livello di Fermi a quello di conduzione. In seguito ad un opportuno stimolo però (quale ad esempio uno stimolo luminoso) tale barriera energetica può essere superata: se un fotone di opportuna lunghezza d’onda colpisce la particella del semiconduttore, cedendo la propria energia ad un elettrone nella banda di valenza, quest’ultimo potrà saltare nella banda vuota di conduzione. Questo insieme di eventi porta alla generazione di una lacuna elettronica nel livello di Fermi che può dare inizio, di concerto con l’elettrone passato nel livello di conduzione, ai seguenti processi

  • L’elettrone può tornare nel livello di partenza dal quale è stato eccitato, cedendo all’ambiente il proprio surplus energetico sotto forma di calore.
  • L’elettrone può realizzare un processo di riduzione, venendo ceduto ad una specie riducibile presente in soluzione.
  • La lacuna elettronica può realizzare un processo ossidativo strappando un elettrone ad una specie ossidabile presente in soluzione.

Questi processi avvengono all’interfaccia liquido/semiconduttore ossia quando le coppie elettrone/lacuna positiva formatesi nell’ossido per interazione con la radiazione si sono diffuse sulla superficie del semiconduttore. Affinchè il processo catalitico sia attivo è importante che i meccanismi di cattura di elettroni e lacune positive avvengano in un intervallo di tempo minore rispetto a quello richiesto per la ricombinazione, nell’ossido semiconduttore, della coppia elettrone/lacuna positiva. Nel caso dell’ossido di titanio (in forma cristallina anatasio più attiva del rutilo e della brookite) la letteratura esistente fornisce, per il processo fotocatalitico in soluzione acquosa un possibile meccanismo di tipo radicalico:

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(da Journal of Photochemistry and Photobiology C: Photochemistry Reviews 13 (2012) 224–245 di Vincenzo Augugliaro et al)

Allora aggiungendo alla composizione dell’asfalto od a quella dell’intonaco per pareti interne una certa quantità di biossido di titanio e sfruttando la luce solare, o di lampade che la simulano, si potrebbe supporre di fotodegradare cataliticamente alcuni comuni inquinanti dispersi nell’ambiente. In effetti le cose non stanno esattamente cosi per differenti motivi.

Innanzitutto la fotodegradazione è processo diverso dalla fotomineralizzazione in quanto quest’ultima corrisponde all’ultimo stadio della prima e comporta la formazione di anidride carbonica, acqua, ossidi di zolfo e di azoto ed ioni comuni. Spesso invece le fotodegradazioni si fermano a stadi intermedi. Il secondo punto riguarda la particolare situazione dell’asfalto dove, se il biossido di titanio occupa volumi troppo interni, rischia di non ricevere la radiazione solare, mentre se è superficiale viene facilmente rimosso dalle ruote dei veicoli che vi passano sopra e dal calpestio. Infine per quanto riguarda i muri essendo interni la radiazione solare è poco attiva e la luce artificiale, in relazione all’intervallo di lunghezza d’onda che la caratterizza, non ha l’energia sufficiente a promuovere gli elettroni di valenza nella banda di conduzione del TiO2.

asfaltocatalitico

Molto più ragionevole allora rispetto alle ipotesi formulate sulla stampa, appare quella di membrane che immobilizzano TiO2 e che operando in vasche di idonee dimensioni esposte alla luce solare possono catalizzare il risanamento di effluenti industriali inquinanti.

si veda anche:

PHOTOCATALYTIC ACTIVITY OF TiO2 EMBEDDED FOR OXIDATION OF HYDROSOLUBLE APPOOLUTANTS, APPL.CAT. B. ENVIR JANUARY 2015 pg 82-89, F.Persico,M.Sansotera,C.Bianchi,C.Cavallotti,W.Navarini

Chimica e società: i fiammiferi italiani.

E’ APERTA LA RACCOLTA DI FIRME PER LA PETIZIONE ALLA IUPAC per dare il nome Levio ad uno dei 4 nuovi elementi:FIRMATE!

https://www.change.org/p/international-union-of-pure-and-applied-chemistry-giving-name-levium-to-one-of-the-4-new-chemical-elements

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Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Giorgio Nebbia

La storia dei fiammiferi è lunga e complicata, fatta di piccole e grandi invenzioni che davano vita spesso a piccole e grandi imprese industriali.

John_Walker_1781-1859

John_Walker_1781-1859

CharlesSauria

Charles Sauria

Questa storia comincia nel 1827 con l’invenzione, da parte dell’inglese John Walker (1791-1859), del fiammifero a sfregamento (un bastoncino di legno con una capoccia contenente una miscela di solfuro di antimonio e di clorato di potassio), seguita, tre anni dopo, dal perfezionamento, dovuto a Charles Sauria (1812-1895), Johann Friedrich Kammerer, e al geniale inventore ebreo di Fossano, in Piemonte, Sansone Valobra (1799-1883), consistente nella sostituzione del solfuro di antimonio con una miscela di zolfo e fosforo bianco. Valobra impiantò a Napoli la prima fabbrica di fiammiferi italiana e inventò, successivamente, anche i fiammiferi con lo stelo di cera, i “cerini”.

cyberuly@yahoo.it

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vecchi fiammiferiLa storia finisce nel 1994 con la chiusura, per riduzione del mercato, dell’ultima grande fabbrica inglese di fiammiferi, la famosa Bryant & May di Liverpool.

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Di certo l’invenzione del fiammifero ha avuto conseguenze rivoluzionarie e liberatorie: ciascun individuo poteva accendere lampade e fuochi senza dover dipendere da altri, portando con se la fiamma, come ben dice il nome italiano del prezioso bastoncino di legno. Con la produzione dei fiammiferi nacque inoltre un importante segmento del “sistema di fabbrica” ottocentesco italiano, con i relativi problemi, primo fra tutti lo sfruttamento dei lavoratori, donne, uomini e ragazzi, particolarmente grave in un’industria che trattava sostanze altamente pericolose e tossiche come il fosforo bianco e lo stesso zolfo.

Al lettore curioso raccomando la lettura del bel libro della prof. Nicoletta Nicolini, dell’Università di Roma, intitolato: “Il pane attossicato. Storia dell’industria dei fiammiferi in Italia”, pubblicato da una difficilmente accessibile “Documentazione Scientifica Editrice”, di Bologna (non c’è neanche l’indirizzo), uno degli innumerevoli libri sommersi in cui finisce tanta parte della pur preziosa ricerca anche storico-scientifica del nostro paese.

I primi fiammiferi industriali erano costituiti da bacchettine di legno morbido con una delle estremità ricoperta, come si accennava prima, di zolfo e fosforo bianco che si accendeva per sfregamento su una superficie ruvida. Il velenoso fosforo bianco veniva assorbito dagli operai, per lo più ragazze e bambini, durante la lavorazione consistente nell’immersione dei bastoncini in una miscela liquida contenente il fosforo.

Negli anni cinquanta e sessanta dell’Ottocento, quando la struttura delle manifatture di fiammiferi era arretrata e artigianale, medici generosi e attenti alla salute pubblica come Ranieri Bellini (1817-1878) avevano scritto e denunciato la pericolosità dell’uso del fosforo bianco nelle fabbriche dei fiammiferi e nei fiammiferi che arrivavano al pubblico (si veda la monografia di Alberto Baldasseroni e Franco Carnevale in: https://www.academia.edu/9392991/Labbandono_delluso_del_fosforo_bianco_nella_produzione_dei_fiammiferi_un_lungo_processo_per_la_realizzazione_di_un_precoce_esempio_di_vera_prevenzione_1830-1920_, ma potenti interessi finanziari avevano spiegato per decenni al potere politico che sarebbe stato altamente lesivo degli interessi italiani sostituire il fosforo bianco col fosforo rosso, che pure, in altri paesi, era prodotto e usato per i fiammiferi più “sicuri”. La scusa è sempre la stessa: l’impiego nel ciclo produttivo del fosforo rosso, più costoso, avrebbe danneggiato — sostenevano gli imprenditori — gli stessi operai perché sarebbero aumentati i costi di produzione e molte fabbriche sarebbero state costrette a licenziare molti dipendenti. Gli stessi interessi riuscirono ad evitare che le fabbriche di fiammiferi fossero incluse fra le industrie “insalubri”, da localizzare nelle periferie, quando nel 1887-89 fu emanata la prima legge italiana sulla tutela dell’igiene e sanità. Portavoce degli interessi economici fu, negli anni settanta e ottanta dell’Ottocento, il grande chimico Emanuele Paternò (1847-1836), cattedratico, massone, senatore, presidente dei laboratori e delle Commissioni sanitarie che decidevano o davano consigli al governo.

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Davanti all’innegabile pericolosità dei fiammiferi al fosforo bianco i paesi industriali erano arrivati, all’inizio del Novecento, ad un accordo internazionale che, difendendo la salute, ponesse, nello stesso tempo, sullo stesso piano di concorrenza, i molti produttori di fiammiferi. Alla convenzione di Berna del 1906 aderì anche l’Italia, ma l’adeguamento dell’Italia ai relativi impegni venne rimandata fino al luglio 1915; il “provvidenziale” (per gli industriali dei fiammiferi) scoppio della prima guerra mondiale indusse il governo a rimandare a tempi migliori una legge così “secondaria”, come quella da cui dipendeva la salute di migliaia di lavoratori e di milioni di compratori di fiammiferi ! E poiché c’era sempre qualcosa da fare, più importante, la legge che vietava l’uso nei fiammiferi del fosforo bianco, entrò in vigore nel 1924 (diciotto anni dopo la convenzione di Berna).

Per un intero secolo i fiammiferi sono stati prodotti in centinaia di fabbrichette, sparse nel territorio italiano, con accesso ad un limitato mercato locale, escluse dalle grandi correnti di importazione o esportazione. La storia e le statistiche delle fabbriche dei fiammiferi offre uno spaccato, piccolo, ma molto significativo, della transizione da una fase artigianale di manifatture tecnicamente e commercialmente arretrate, alla formazione di gruppi più grandi di fabbricanti di fiammiferi, quando, nella seconda metà dell’Ottocento, gli imprenditori di maggiori dimensioni ampliano i propri interessi, dalla seta, ai cotonifici, alla meccanica, all’industria chimica, alla fabbricazione dei fiammiferi, appunto, ai giornali, alle banche, e possono, con un peso adeguato, con le giuste amicizie di logge e salotti, trattare col governo per ottenere facilitazioni, dazi contro le importazioni, protezioni, favori.

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I piccoli produttori cercarono di consorziarsi contro i grandi gruppi, ottennero, in un lungo scontro negli anni 1894-1898, qualche ascolto da qualche distratto parlamentare, ma furono gradualmente esclusi dalla produzione e dal commercio dei fiammiferi. Le cose peggiorarono con l’introduzione, nel dicembre 1894, di una “tassa” sui fiammiferi, resa urgentemente necessaria per sanare il deficit del bilancio che si stava ingrandendo a causa della costosa guerra d’Africa. Contro tale tassa intervennero gli industriali che minacciarono la chiusura delle fabbriche e i lavoratori attuarono uno sciopero.

Il Parlamento non poté approvare o bocciare il decreto fiscale perché il re lo tenne chiuso nel cassetto fino alle elezioni del maggio 1895, vinte da Crispi. La prima reazione violenta alla tassa sui fiammiferi si era intanto calmata e il Parlamento discusse, nel luglio e agosto, il decreto legge fiscale; il resoconto del dibattito parlamentare — dettagliatamente analizzato nel libro della prof. Nicolini — è interessante non tanto per le sue conclusioni (la tassa sui fiammiferi c’è e resta), ma perché consente di dare uno sguardo allo scontro fra i parlamentari “rappresentanti” dei vari gruppi di pressione.

Intanto si verificano grandi eventi: in concomitanza col dibattito sulle tasse, le truppe italiane vittoriose annettono il Tigrè alla colonia Eritrea: gran rigurgito di orgoglio nazionale e nuove spese per la guerra. L’entusiasmo dura poco: il 7 dicembre 1895 c’è la sconfitta dell’Amba Alagi; il 22 gennaio 1896 viene abbandonata Macallè e il 1 marzo gli italiani sono sconfitti ad Adua: nuove spese. La sventurata guerra d’Africa si conclude alla fine del 1896 con una pace con l’Abissinia, lasciandosi alle spalle dolori, lutti, lacerazioni sociali e altre voragini nel bilancio statale.

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I piccoli artigiani produttori di fiammiferi tentano ancora di consorziarsi per chiedere al governo una diminuzione della tassa sui fiammiferi, ma il governo ha disperato bisogno di altri soldi da rastrellare con altre tasse: nel maggio 1898 reprime nel sangue, con i cannoni di Bava Beccaris, la protesta dei lavoratori di Milano contro il caro-pane; per quanto riguarda i fiammiferi non trova di meglio, nel dicembre del 1898, che aumentare ulteriormente la già contestatissima tassa.

Questa volta scatta la serrata dei produttori. La straordinaria ricostruzione del dibattito parlamentare, degli scioperi e delle serrate attraverso i verbali delle sedute, i resoconti della stampa e i rapporti di polizia, la storia dei tentativi per far nascere il “consorzio” fra piccoli produttori di fiammiferi, o il cartello dei grandi produttori uniti nella società “Fabbriche riunite”, offrono un quadro ben preciso della società italiana all’alba del ventesimo secolo, dei suoi vizi, corruzioni e stupidità. Le grandi avventure internazionali, la concorrenza e lo scontro fra giganti finanziari e industriali finiscono così per influenzare la vita e il destino di piccoli inconsapevoli fiammiferai siciliani o marchigiani o piemontesi, protagonisti della “storia minore”, ai quali la tassa sui fiammiferi fa aumentare di qualche lira i costi di produzione e fa diminuire gli utili.

La lettura del libro della prof. Nicolini offre, infine, l’occasione per riconoscere che la crisi di questa prima industrializzazione italiana, abituata ad invocare il protezionismo governativo attraverso dazi sulle importazioni e leggi compiacenti, anche se danneggiavano la salute dei cittadini, ha le sue radici nell’ignoranza, oltre che nell’avidità. L’autrice mette bene in evidenza l’arretratezza, nell’Ottocento, degli studi di chimica pura e di chimica industriale, la povertà di accademie e centri di cultura tecnico-scientifica, che già fiorivano in Francia, Inghilterra, Germania, Austria, Russia. L’avidità e l’ignoranza sono state le vere cause delle morti nelle fabbriche e dei fallimenti industriali.

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Rocca canavese: 15 marzo 1924. Si incendiò la fabbrica fiammiferi Phos e morirono 21 operai, di cui 18 ragazzine tra i 12 e i 17 anni.

Il prezzo che una società paga per questa povertà di cultura imprenditoriale e tecnica è il fallimento delle imprese. Nel caso dei fiammiferi la miopia degli imprenditori fino ai primi decenni del Novecento portò al ritardo nelle innovazioni tecniche che si stavano diffondendo nel mondo dove il fosforo rosso sostituì il fosforo bianco, i vecchi fiammiferi furono sostituiti da quelli di sicurezza, o “svedesi” nei quali la capocchia del fiammifero è (ormai si può dire, era) formata da una miscela di sostanze ossidanti, come clorato di potassio, zolfo e resina e si accendeva per sfregamento su una listarella di carta ruvida incollata alle pareti esterne delle scatole e contenente una pasta di fosforo rosso e trisolfuro di antimonio.

L’apparentemente limitata storia della produzione dei fiammiferi in Italia, fino alla prima metà del Novecento, ha così una sua morale di carattere generale e valida ancora oggi. Produrre merci è sempre stata un’operazione complicata e può essere svolta soltanto se si diffonde una cultura delle merci e dei processi produttivi. E’ la conoscenza che dissolve i fantasmi oscuri della paura: la paura delle popolazioni verso la “fabbrica” che non si sa che cosa produce, quali fumi butta nell’aria, la paura dei lavoratori che non sanno che cosa maneggiano e quali pericoli affrontano, la paura degli imprenditori verso qualsiasi richiesta di riforme e di progresso.

Se dunque gli imprenditori vogliono continuare a produrre merci — merci che occorrono, che soddisfano bisogni umani, che spesso sono liberatorie, come sono stati liberatorii i fiammiferi nel secolo e mezzo passato — devono aumentare la propria cultura e devono imparare a parlare al pubblico e ai lavoratori, non col linguaggio furbesco della pubblicità, ma con quello di una cultura industriale, capace anche di essere orgogliosa, quando occorre, della propria bravura e intraprendenza.

Questa cultura del fare, del produrre, deve entrare anche nelle aule universitarie, non per preparare fedeli e silenziosi servitori del potere finanziario, ma per diffondere capacità critica, senso del servizio alla collettività, sia nella pubblica amministrazione, sia nelle fabbriche. La stessa cultura dovrebbe spingere i legislatori ad essere meno pavidi e prudenti nello scrivere le leggi da cui dipendono la salute e la sicurezza dei cittadini e spingere i pubblici amministratori ad essere un po’ più coraggiosi nel farle rispettare.

si veda anche:

http://www.treccani.it/enciclopedia/fiammifero_%28Enciclopedia-Italiana%29/

http://www.musilbrescia.it/minisiti/la_chimica_in_italia/contenuti/racconti_di_chimica_in_Italia_e_nel_mondo/11.L-avventurosa_storia_dei_fiammiferi_Nebbia.pdf

http://www.ediorso.it/le-piccole-fiammiferaie-una-tragedia-del-lavoro-dimenticata-prefazione-di-adriana-lay.html

Rifiuti e codici

E’ APERTA LA RACCOLTA DI FIRME PER LA PETIZIONE ALLA IUPAC per dare il nome Levio ad uno dei 4 nuovi elementi:FIRMATE!

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a cura di Mauro Icardi

E’ ormai un concetto sufficientemente acquisito che l’ambiente sia ogni giorno più minacciato, e che l’attività umana stia producendo troppi rifiuti. Significativa è in questo senso la notizia che nel Pacifico sia stata identificata un’”isola” galleggiante formata da rifiuti per la maggior parte costituiti da materie plastiche.

Sono usuali le polemiche relative al modo migliore di gestirli e le battaglie combattute da comitati di cittadini contro discariche o inceneritori. Negli anni l’opinione pubblica si è sempre di più convinta della necessità di ridurre i rifiuti fino a pensare di poter arrivare a non produrne più (l’opzione rifiuti zero). Le campane per la raccolta differenziata sono ormai presenze familiari nelle nostre città.

I rifiuti, come da definizione del codice ambientale, sono beni che diventano tali appena decidiamo di sbarazzarcene, ritenendoli non più utilizzabili. Questa è la definizione ufficiale dell’art 183 D lgs 152/06: rifiuto: qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi;. Successivamente i rifiuti devono essere classificati con un codice europeo dei rifiuti (codice CER). Nel caso di materie plastiche esiste un codice 200139 si riferisce genericamente a “plastica”. Ma le prime due cifre (20) ci dicono che il rifiuto è urbano o assimilabile se proviene da siti di attività industriali o commerciali oppure dalla raccolta differenziata. Il codice 150102 si riferisce ad imballaggi in plastica anche provenienti da raccolta differenziata. Un imballaggio è diverso da un contenitore? A mio modo di vedere certamente. Ma nell’attribuire un codice ad un rifiuto, specialmente se pericoloso bisogna prestare molta attenzione. Tant’è vero che a volte si deve scomodare la giurisprudenza per chiarire questi dubbi.

http://www.corepla.it/documenti/db2983d6-64f4-4d17-814f-42b01927ec84/Nozione+di+imballaggio+-+i+chiarimenti+della+giurisprudenza.pdf

Passiamo ora ai codici di riciclaggio. Che sono altra cosa. La crisi economica in questo senso ha avuto un aspetto positivo, facendoci riscoprire la tendenza al riciclo ed al riuso di materiali che potrebbero essere ancora utilizzabili. Per effettuare però un riciclo corretto occorre differenziarli separandoli per tipologie di materiali.

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I codici di riciclaggio rispettano la direttiva europea 94/62/CE. Le direttive europee vincolano lo stato membro al raggiungimento di un risultato, ma lasciano la competenza agli organi nazionali relativamente alla forma ed ai mezzi per ottenerlo.

Osservando questo elenco possiamo ricavare alcune importanti informazioni: le materie plastiche contrassegnate con i numeri che vanno dall’uno al sei sono facilmente individuabili. Il numero sette invece identifica le altre plastiche: rientrano in questa categoria tutti gli altri polimeri, per i quali non è stato previsto un codice specifico, o le loro combinazioni (ad esempio una vaschetta costituita da uno strato esterno di PET ed uno interno di PE-LD). Esempi di polimeri utilizzati per produrre imballaggi per i quali non è stato definito un codice di riciclo specifico sono: Polimetilmetacrilato (PMMA), Policarbonato (PC), Acido polilattico (PLA).

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riciclo della carta, nastro ripiegato 3 volte ha  una sola faccia come il nastro di Moebius ma non è un nastro di Moebius classico

Questo simbolo non si riferisce genericamente al riciclaggio. In realtà queste tre frecce a nastro senza nessuna altra informazione si riferiscono alla carta riciclata.

Attenzione: si tratta di un nastro rigirato tre volte e quindi non è un nastro di Moebius classico, che è rigirato solo una volta, e che forse sarebbe stato più adatto come simbolo del riciclo della carta (ringrazio Leonardo Guidoni per la precisazione).

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nastro di Moebius, ripiegato una volta ha una sola faccia

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simbolo della riciclabilità

Diverso ancora è il simbolo del generico materiale riciclabile, più sotto (comunque ruota in senso orario).

All’interno di questo ultimo simbolo si può inserire un numero che come abbiamo visto identifica il materiale (per esempio il numero 03 per il PVC). Il numero non ci dà però informazioni relativamente a come è stato prodotto l’oggetto riciclabile,cioè se da materie prime, oppure da plastica già riciclata. Per poterlo sapere il produttore può inserire una R prima della sigla del tipo di polimero (per esempio RPET).

Per quanto riguarda la produzione di un oggetto i fabbricanti sono invitati ( e non obbligati) ad indicare sempre secondo la già vista direttiva 94/62/CE il materiale con cui è fabbricato l’oggetto.

Per esempio su un normale barattolo di polietilene che uso in laboratorio per prelevare campioni trovo sul fondo stampigliati questi simboli:

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Simbolo del materiale (polietilene) all’interno di un esagono.

Avrebbe potuto però essere anche all’interno di un cerchio.

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Poi il simbolo del codice di riciclaggio.

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C’è poi il simbolo che indica che il mio barattolo di polietilene è adatto all’uso alimentare.

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Il barattolo avrà un suo fine vita. Trovo quindi anche il simbolo dell’omino che (diligentemente) usa il cestino.

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Tutti questi simboli su un semplice barattolo da 250 ml che uso quotidianamente. Comincio a pensare che forse tutti questi simboli siano pensati per dare informazioni importanti ma che tutti insieme possano alimentare la confusione. Nello scrivere questo articolo però mi sono imbattuto navigando in rete in questo lavoro molto ben fatto del Dott. Angelucci che mi è parso come una bussola in questo mare di informazioni.

Mi sembra giusto segnalarlo .

http://www.isavemyplanet.org/capitoli/simboli%20rifiuti%20Mar11.pdf

Dalla lettura si capisce come le normative si accavallino, si intersechino e si sovrappongano. Normative,direttive,consorzi. Obbligo o volontarietà. Siamo circondati da oggetti che a volte acquistiamo in maniera quasi compulsiva. Poi ci disfiamo degli stessi ed ecco che materiali utili o potenzialmente tali spesso diventano rifiuti inutilmente. Questo comportamento va certamente scoraggiato. Nel bel libro di Vincenzo Balzani e Nicola Armaroli “Energia per l’astronave terra” si trova un brano che mi ha sempre molto colpito relativamente alla moda e al consumismo : “La moda rende socialmente inaccettabile ciò che è ancora materialmente utilizzabile”.

Incoraggiare l’uso della materia seconda, il riuso, il riciclo può o meglio potrebbe essere reso più semplice anche rendendo meno numerosi i simboli e evitando di confonderci. Semplificando norme e procedure. La mia esperienza di lavoro nel settore rifiuti è ormai piuttosto distante nel tempo. Mi ha lasciato il ricordo di un lavoro al quale mi sono appassionato, ma che mi riporta alla mente l’ossessione burocratica.

Cerco di immaginarmi quello che può pensare il cosiddetto uomo della strada. Forse questo.

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Ma ridurre riciclare e riusare è fondamentale per noi ed il nostro pianeta che trabocca di rifiuti.

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Cercando di liberarci come diceva Nicholas Georgescu Roegen dalla “sindrome circolare del rasoio elettrico”, che consiste nel radersi più in fretta per avere più tempo per lavorare ad un rasoio che permetta di radersi più rapidamente ancora, in maniera da avere ancora più tempo per progettare un rasoio ancora più veloce, e così via all’infinito. Da questo circolo vizioso si può e si deve uscire.

Troppa chemofobia nella informazione.

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a cura di Claudio Della Volpe

Come alcuni di noi sono socio e lettore di Altroconsumo da molti, molti anni (credo una ventina); so che nella direzione della rivista e dell’associazione ci sono tanti chimici (fra gli altri Marino Melissano, vicesegretario, che è un nostro collega dell’ordine dei chimici della Regione TAA-ST).

Eppure anche Altroconsumo casca nell’errore di usare il termine “chimica” in modo improprio. E’ una questione di chemofobia, che abbiamo già fatto notare per altri media (https://ilblogdellasci.wordpress.com/perle/niente-chimica-nellorto/).

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Nell’ultimo numero 300 di febbraio 2016 e nel corrispondente Test salute n.120 di febbraio 2016 che mi sono stati recapitati come abbonato n. 2143008-84 ci sono due articoli che fanno questo tipo di errore e badate non si tratta solo di un problema di titolo, ma di qualcosa di più sottile e profondo.

Gli articoli sono i seguenti:
Troppa chimica nel piatto, una intervista crediamo, ad un chimico svizzero Koni Grob dell’Autorità cantonale per la sicurezza alimentare di Zurigo (pag. 30-32 di Altroconsumo 300) e

Pollo senza chimica della redazione pag 10 di Test Salute 120.

Cosa dicono i due articoli e perchè ne parliamo qui?

In entrambi i casi la questione non sono i contenuti degli articoli, ma il modo improprio in cui le cose sono presentate ed i termini usati.

Nell’articolo “Pollo senza chimica” l’argomento è il diverso modo di affrontare le infezioni da Campilobacter jejuni nel pollo da allevamento; in Europa la cosa si affronta alla radice curando meglio il modo di allevare i polli mentre in USA è consentito risolvere il problema ex-post disinfettando le carcasse dei polli con un potente disinfettante, l’acido peracetico o perossiacetico,

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mediante la reazione

2 CH3COOOH –> 2 CH3COOH + O2

Il timore giustificato di Altroconsumo è che il TTIP (http://www.soc.chim.it/system/files/private/chimind/pdf/2015_4_64_ca.pdf) consenta la vendita in Europa di polli disinfettati che ora è proibita o addirittura la pratica della disinfezione post macello.

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Ora, mentre si può condividere la preoccupazione di Altroconsumo che il TTIP spinga verso l’uso inutile o perfino potenzialmente dannoso di un disinfettante (nonostante non ci siano problemi conosciuti per il suo uso nè effetti conosciuti a lungo termine, la letteratura (1) spinge verso un approfondimento e il principio di precauzione quindi consiglierebbe di soprassedere al momento ad un uso alimentare) direi soprattutto di evitare l’uso della disinfezione post macello, perchè è saggio e giusto mangiare meno carne e che quella che mangiamo sia prodotta in modo sostenibile, evitando rischi e sofferenze inutili agli altri esseri viventi e in ultima istanza a NOI STESSI che ce ne nutriamo (ricordate le altre malattie da pollame che ci riguardano?) .

Ma se il problema è combattere una possibile infezione, perchè il titolo non è non dico Polli senza biologia (dopo tutto i batteri li studia la biologia) ma almeno “Polli senza batteri”, oppure “Polli senza ultraprofitti o senza spocizia” o cose simili e invece il colpevole è sempre la chimica? Ossia un utile disinfettante, al momento nemmeno particolarmente pericoloso? Non capisco. Ma probabilmente in questo caso la colpa è del solito titolista facilone e chemofobo.

Analogo, ma perfino maggiore, il problema comunicativo se si esamina l’altro articolo-intervista, problema che si può chiamare semplicemente: inutile stimolo alla chemofobia.chemofobo4

Stavolta abbiamo un esperto straniero, “quindi” molto autorevole; non sappiamo se le sue risposte siano state date in italiano o in inglese o in altra lingua; sta di fatto che il titolo è “Troppa chimica nel piatto” e nel testo si parla ripetutamente di “sostanze chimiche” con tono negativo. Oh fra l’altro si tenga presente che anche gli alimenti sono “sostanze chimiche” e che con quelli possiamo certamente venire in contatto.

Ora il tema di fatto, come recita il sottotitolo, è quello dei rilasci di sostanze usate nella preparazione dei contenitori o delle pentole per conservare o cuocere gli alimenti; in alcuni casi si osservano rilasci o del materiale del contenitore o del materiale usato nella preparazione del medesimo (additivi, plasticizzanti, inchiostri); si danno alcuni utili consigli nel preferire il vetro a tutti gli altri contenitori e soprattutto si parla della carenza di regole a riguardo e di conoscenze; tutte cose sacrosante e che sottoscrivo.

Ma due note:

  • perchè il titolo è “Troppa chimica nel piatto” e non “Troppi materiali inadeguati” oppure Troppi profitti per i produttori di contenitori o pochi scrupoli per chi produce acciaio inadatto oppure ancora Troppe poche regole per i contenitori di alimenti o ancora “Troppa ignoranza sui materiali dei contenitori”; “troppe posate usa e getta” toh! NO, come al solito si scarica tutto su una chimica che è SEMPRE presente in TUTTI I MATERIALI NATURALI ED ARTIFICIALI.
  • Forse il collega ha detto “chemicals”? Ma allora la traduzione esatta sarebbe stata “prodotti chimici di sintesi”. Si potrebbe dire Troppi prodotti di sintesi, anche se forse nemmeno andrebbe sempre bene perchè i contenitori o le pentole sono sempre fatti di materiali artificiali; contenitori o pentole di materiali “naturali” e non lavorati, che spuntano sugli alberi non ne conosco (beh ci sono le noci…). Inoltre chiariamo un pò cosa sono le “sostanze chimiche”: vorrei vederli proprio piatti o pentole, “naturali” o meno, fatti di sostanze non-chimiche; e quali sono le sostanze non-chimiche? Ne abbiamo già parlato per dire che questa è una espressione sciocca e sbagliata. Al limite laddove è possibile si dica di sintesi o se no si indichino le specifiche sostanze o molecole. Forse che il vetro indicato come sostanza più adatta è un materiale naturale? O peggio è un materiale NON CHIMICO? A me non risulta! E’ il prodotto di una delle prime tecnologie della storia e frutto al momento di una tecnologia chimica molto molto sofisticata anche.

Ma come mai questo (che il vetro o l’acciaio o la plastica fatti bene sono materiali prodotti dalla chimica e non certo “naturali” ) non si dice?

Aggiungo che nell’articolo si dice anche (e giustamente, e ne riparleremo quanto prima) della difficoltà di individuare gli enti e le strutture che dovrebbero garantirci la qualità dei materiali che usiamo; in attesa che il REACH faccia i suoi effetti almeno sul territorio europeo, sarebbe il caso che si chiarissero una serie di questioni: per esempio chi e come è “certificato” nell’eseguire le analisi dei materiali per gli usi più vari, per esempio per gli alimenti? che problemi ci sono nella pur necessaria certificazione?

Non sappiamo se la scelta del titolo e del termine “sostanza chimica” sia il risultato di una traduzione letterale o di una cattiva traduzione o di un cattivo titolista; in tutti i casi pregheremmo gli amici di Altroconsumo, la direttrice Rosanna Massarenti e il vicesegretario Marino Melissano in testa, di evitare l’uso improprio del termine “chimico” SEMPRE con una accezione NEGATIVA, stimolando inutilmente la chemofobia del pubblico.

Leggere titoli e testi come quellli che abbiamo commentato è un pugno nell’occhio;

avete mai letto “Troppa biologia nei cibi malconservati”, “Troppa natura nei funghi velenosi” o “Troppa fisica negli incidenti stradali”? No. Ma certamente avete letto: altre frasi come quelle commentate qui.
Beh sono la stessa cosa.
Frasi scritte male, approcci sbagliati e controproducenti; solo che alcune non le troverete mai, ma le altre sono diventate la norma.

Nulla è “senza chimica”; “chemical free” è un concetto sbagliato e chemofobico e che fa fare brutta figura a chi lo usa anche quando dice cose giuste: al massimo fa venir da ridere, come abbiamo già raccontato: (http://wp.me/p2TDDv-188).

Riferimenti.

(1) Toxicology Letters Volume 233, Issue 1, 17 February 2015, Pages 45–57 Evaluation of the toxicity data for peracetic acid in deriving occupational exposure limits: A minireview di Nathan Pechacek et al

Primo Levi e la scuola: un’intervista ritrovata.

E’ APERTA LA RACCOLTA DI FIRME PER LA PETIZIONE ALLA IUPAC per dare il nome Levio ad uno dei 4 nuovi elementi:FIRMATE!

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a cura di Rinaldo Cervellati

Su Primo Levi scrittore sono stati scritti numerosi saggi, su Primo Levi chimico ha scritto lui stesso specialmente ne “Il sistema periodico” e “La chiave a stella”. Sappiamo dalla sua testimonianza in “Se questo è un uomo” che se riuscì a sopravvivere all’orrore di Auschwitz fu a causa di una serie di fortunate coincidenze, fra le quali la conoscenza elementare del tedesco, imparato studiando su testi in lingua originale durante gli studi per la laurea in chimica[1]. Per questi motivi fu sfruttato nella fabbrica di gomma sintetica Buna, situata all’interno del campo, dove le condizioni di vita degli internati erano un po’ meno tremende che nelle altre fabbriche.

Ritornato in Italia nell’ottobre del 1945, dopo un lungo viaggio descritto in “La tregua”, riprese il lavoro di chimico e cominciò a scrivere. Dopo il successo del primo libro, dal 1975 decise di dedicarsi completamente alla carriera di scrittore, partecipando anche a incontri e conferenze e rilasciando interviste[2].

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Fra queste interviste ho ritrovato quella rilasciata a Carmine De Luca [3] per la rivista di didattica e ricerca didattica “Riforma della Scuola” (Editori Riuniti, Roma), pubblicata nel novembre del 1986 (pag. 59, n. 11), forse l’ultima intervista rilasciata dallo scrittore-chimico prima della sua scomparsa avvenuta nell’aprile del 1987. La riportiamo integralmente.

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Nella prima domanda Levi risponde di pensare ancora, dopo dodici anni di abbandono, seppure inconsciamente, come un chimico e quindi a scrivere in modo conciso e preciso.

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La seconda domanda interessa in modo particolare la scuola. De Luca chiede se la chimica insegnata nei licei riesca a sviluppare le capacità cognitive e di analisi dei ragazzi. La risposta è articolata e a mio avviso abbastanza “diplomatica”, almeno inizialmente. Levi ricorda che praticamente tutto quello che ci circonda è chimica e che siamo chimica noi stessi, quindi non sapere nulla o quasi di chimica è un handicap perché così non si riescono a capire molti eventi strettamente legati a cause chimiche. Lamenta poi la “snobistica” ignoranza della chimica da parte di molti servizi giornalistici. La chimica però non è esente da colpe, dice Levi, e appunto a questo è dovuta la sua cattiva fama cui segue l’ignoranza e il rifiuto.

Per “pulire le mani alla chimica” Levi propone di imporre nelle facoltà un corso deontologico con esame, in modo tale da accertare che il futuro professionista si renda conto della tremenda forza che detiene nelle sue mani. Ma questo corso andrebbe esteso, secondo lo scrittore, a tutti i professionisti tecnici, medici, biologi, ingegneri.

Levi affronta poi la questione della storia della chimica, comprensibilmente a lui molto cara. Con molta umiltà devo dire che è molto cara anche a me. Non solo per mostrare la potenza dell’intuizione umana ma per fare capire che raramente l’intuizione nasce spontanea, è piuttosto il frutto di una ricerca profonda e paziente su ciò che è stato fatto, pensato e scritto prima su un dato oggetto d’indagine. A Cannizzaro, Arrhenius, Van’t Hoff e tanti altri non si è “accesa una lampadina” all’improvviso; hanno studiato, meditato e controllato quello che era stato fatto prima sui pesi atomici, sulla conducibilità, sul comportamento delle soluzioni, prima di proporre le teorie molecolari, della dissociazione elettrolitica e della pressione osmotica, rispettivamente. A quanto pare anche Newton aveva studiato e meditato i testi degli antichi matematici greci prima di arrivare alla derivata attraverso lo sviluppo del binomio con esponente n sempre più grande. Quindi la proposta di iniziare qualunque corso di chimica con un’introduzione storica mi sembra il minimo che si possa ragionevolmente richiedere. Ma occorrerebbe invece un intero insegnamento di Storia della… in qualunque corso di laurea scientifico o tecnico.

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Come giustamente ritiene Levi, la pratica di laboratorio dovrebbe essere parte integrante del processo di insegnamento/apprendimento della chimica nei licei. Sfortunatamente questo non avviene tranne che in rarissimi casi. Fra le cause, la cronica insufficienza delle strutture scolastiche, la scarsa preparazione di molti insegnanti, insieme alla pressoché nulla cultura scientifica di tutti i ministri dell’istruzione da Giovanni Gentile a oggi.

All’ultima domanda su quale sarà il futuro della chimica Levi risponde: “un futuro indefinito”. Indefinito nel senso che “si aprono sempre nuovi fronti”. Una risposta da vero scienziato.

In conclusione le affermazioni di Levi in questa intervista di circa 30 anni fa sono ancora attuali e pienamente condivisibili.

[1] Levi si iscrisse a chimica a Torino nel 1937 laureandosi con lode nel 1941. In quel periodo la chimica tedesca sia a livello accademico sia industriale era ancora la più avanzata nel mondo. Molti docenti universitari italiani consigliavano di studiare le loro discipline in testi classici in tedesco.

[2] Importante l’intervista rilasciata a Enzo Biagi l’8 giugno 1982 nel Programma “Questo Secolo” su Rai1.

[3] Carmine De Luca (1943-1997) è stato giornalista, studioso di letteratura per l’infanzia e curatore editoriale. Ebbe un ruolo di rilievo nel rilancio di Riforma della Scuola la prestigiosa rivista italiana dedicata alla scuola e ai suoi problemi, fondata da Dina Bertoni Jovine e Lucio Lombardo Radice.

Lucio_Lombardo_Radice

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Dina_Bertoni_Jovine

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Il nascromatografo esiste davvero.

E’ APERTA LA RACCOLTA DI FIRME PER LA PETIZIONE ALLA IUPAC per dare il nome Levio ad uno dei 4 nuovi elementi:FIRMATE!

https://www.change.org/p/international-union-of-pure-and-applied-chemistry-giving-name-levium-to-one-of-the-4-new-chemical-elements

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Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Alessandra Smarra*

alessandrasmarraNel corso della mia ancora breve esperienza professionale, ho avuto la fortuna di operare in due campi affascinanti: quello della chimica degli aromi e quello della chimica dei colori. Questi due àmbiti di lavoro che coinvolgono il ricercatore fisicamente, sensorialmente, sono stati particolarmente interessanti e divertenti per me, che tra le scienze ho scelto la chimica per la sua concretezza.

Benché io abbia dedicato molto meno tempo agli aromi che ai colori (due mesi contro quattro anni), sono affezionata in modo speciale al regno dell’olfatto e del gusto perché in quel terreno mossi i miei primi passi al di fuori di un laboratorio didattico, svolgendo un tirocinio in un’azienda produttrice di aromi per la preparazione della mia tesi di laurea triennale in Chimica. A causa di questo legame, ha attirato la mia attenzione un post pubblicato qui recentemente, intitolato Nascromatografo.

La parola, usata in quel contesto in modo scherzoso, mi ha ricordato che nel mondo degli aromi uno strumento che meriterebbe tale nome esiste davvero: ufficialmente si chiama gascromatografo-olfattometro (GC-O) e permette di analizzare miscele odorose utilizzando come rivelatore il naso umano. La tecnica prevede che l’eluato di una colonna gascromatografica sia suddiviso in due vie: una raggiunge un rivelatore tradizionale (FID o rivelatore a ionizzazione di fiamma, MS o spettrometro di massa), mentre l’altra si inserisce in un tubo al termine del quale si colloca un operatore, il flavorist, che cerca di identificare i composti, o almeno la loro classe di appartenenza, per mezzo del proprio olfatto.

Dal momento che la percezione degli odori da parte di un “rivelatore umano” è influenzata dalle sue condizioni psico-fisiche, per il corretto utilizzo di questa tecnica è necessaria una serie di accorgimenti che non sono richiesti da un rivelatore inanimato. Gli aspiranti flavorist subiscono una selezione piuttosto severa, che prende in considerazione non solo la sensibilità del loro olfatto e l’abilità di ricordare gli odori dei composti, ma anche la motivazione e la capacità di concentrazione. Inoltre viene chiesto loro di evitare tutto ciò che può compromettere il riconoscimento dei composti: il consumo di cibi e bevande pesantemente aromatizzati e l’utilizzo di profumi o deodoranti caratterizzati da odori forti sono proibiti. Infine, le analisi dovrebbero essere condotte in stanze riservate prive di distrazioni, in condizioni di temperatura e pressione costanti, e non dovrebbero mai durare più di 30 minuti.

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Schema di un gascromatografo-olfattometro (tratto dal riferimento [2])

Nel corso dei decenni sono state introdotte varie modifiche nei dispositivi per GC-O. Per esempio i primi modelli, comparsi negli anni Sessanta del Novecento, non consentivano di ottenere una buona riproducibilità perché il flavorist doveva inalare i vapori caldi provenienti direttamente dalla colonna, subendo così una disidratazione delle mucose nasali e una conseguente diminuzione della sensibilità agli odori; dal decennio successivo si iniziò a mescolare l’eluato con aria umidificata per evitare questo inconveniente. Più recentemente, per la minimizzazione degli errori, sono stati elaborati anche multi-GC-O, cioè modelli di strumento che consentono la rivelazione simultanea da parte di più nasi. Grazie a queste e altre evoluzioni, attualmente la GC-O può essere considerata una delle tecniche più affidabili nell’analisi di miscele odorose complesse. Infatti, nei confronti di molti composti, l’olfatto di un mammifero può vantare una sensibilità superiore di alcuni ordini di grandezza rispetto a quella di qualunque rivelatore strumentale; inoltre appare evidente che in un settore come quello degli aromi, in cui la composizione percepita di una miscela è più interessante di quella reale, il responso del naso può risultare più autorevole di quello dello spettrometro di massa.

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Flavorist in azione:

Il giorno della discussione della tesi consegnai al mio relatore la bottiglietta che conteneva il frutto finale del tirocinio nell’azienda di aromi, e gli chiesi di farla girare tra i commissari durante la mia esposizione. Era dicembre, ma mentre parlavo l’intera Aula Magna si riempì di profumo di pesche mature. Ecco cosa intendo dicendo che della chimica amo la concretezza! Se mi fossi laureata in Matematica, non avrei potuto mostrare alla commissione un vasetto di numeri complessi.

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Schema di un multi-gascromatografo-olfattometro (tratto dal riferimento [2])

Riferimenti bibliografici

  1. Biomolecular Engineering  2001,17, 121
  2. Sensors 2013 ,13, 16759

*Alessandra Smarra si è laureata in Metodologie Chimiche Avanzate presso UniTo; ha lavorato sugli aromi alimentari, su alcuni principi farmaceutici e più recentemente sulle celle fotovoltaiche sensibilizzate a colorante (DSSC).