Sentirsi bene è questione di chimica. 3: efficacia, benefici e limiti degli antiossidanti

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Rinaldo Cervellati

In questa terza parte ( i precedenti post sono pubblicati qui e qui) parleremo di come si valuta l’efficacia degli antiossidanti e discuteremo alcuni luoghi comuni su questi prodotti che sono ormai diventati di dominio pubblico.

Anzitutto vediamo con quali metodi si misura la capacità di sottrarre radicali liberi di un antiossidante. Va premesso che nessun metodo chimico in vitro (in provetta o su linee cellulari) può simulare ciò che accade nell’organismo umano o animale e che tutti i test proposti forniscono misure relative a uno standard, cioè a una sostanza riconosciuta come antiossidante e quindi presa come riferimento[1]. Tuttavia queste misure forniscono utili indicazioni sul possibile impiego della sostanza in esame che comunque dovrà essere testata in vivo. Premesso ciò, esistono numerosi metodi per valutare la capacità antiossidante chimica di composti puri o in matrice. I vari metodi differiscono per i tipi di reazione utilizzati e per i loro meccanismi, per le sostanze usate come standard, ecc.; tutti poi presentano qualche svantaggio, ad esempio il radicale che viene usato non è fra quelli presenti nell’organismo, il pH di lavoro è diverso da quello dei fluidi corporei. Inoltre, nell’ambito di ciascun metodo, diversi autori usano standard diversi. Nonostante i vari congressi che si sono svolti allo scopo di identificare uno o due saggi da proporre come metodi standardizzati, non è finora stato raggiunto un accordo univoco fra i vari ricercatori. Per questi motivi viene consigliato di utilizzare almeno tre metodi per la valutazione dell’attività antiossidante, in modo da avere indicazioni più realistiche su tale proprietà [1].

Si possono suddividere i test in due grandi categorie, a seconda del meccanismo con cui lavorano:

  1. a) per trasferimento di un atomo di idrogeno (HAT) dall’antiossidante al radicale, ad esempio:

Ar(OH)n + R−H → Ar(OH)n-1O + R−H2

dove con Ar(OH)n si è indicato un generico antiossidante polifenolico di cui si vuole misurare l’attività e R−H• è il radicale usato nel saggio;

  1. b) per trasferimento elettronico (ET), basato sulla misura della capacità di un antiossidante di ridurre la forma ossidata del reagente del saggio, ad esempio:

R(n+) + Ar(OH)n → R(n+) + Ar(OH)n-1O+ H+

dove lo ione reagente R(n+) trasferisce un elettrone all’antiossidante riducendosi a R(n-1)+.

Alcuni tra i vari saggi comunemente impiegati sono:

– TEAC (Trolox Equivalent Antioxidant Capacity), metodo ET+HAT, radicale: ABTS●+ preformato per reazione fra ABTS (2,2′-azinobis-(3-ethylbenzothiazoline-6-sulfonic acid) diammonium salt) e K2S2O8, pH = 7.4 analogo a quello del sangue;

– DPPH , metodo HAT, radicale 2,2-difenil-1-picrilidrazil (uno dei pochi radicali stabili in forma solida), soluzione metanolica;

– FRAP (Ferric Reducing Antioxidant Power), metodo ET, ossidante tripiridil-s-triazina-Fe3+, in tampone acetato, pH = 3,6;

– BR (reazione oscillante di Briggs-Rauscher), metodo HAT, radicale HOO intermedio della reazione, pH ≈ 2,2 (analogo a quello dei succhi gastrici).[2] Per i primi due metodi viene usato come standard il Trolox ((R)-(+)-6-hydroxy-2,5,7,8 tetramethylchroman-2-carboxylic acid), un analogo della vitamina E solubile in soluzioni neutre o moderatamente acide, per il terzo il solfato ferroso (FeSO4) e per il quarto il resorcinolo (1,3-diidrossi benzene).

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http://www.mdpi.com/1420-3049/21/2/208/htm Molecules 2016, 21(2), 208; doi:10.3390/molecules21020208

L’impiego di linee cellulari, generalmente da organi animali, prevede che a un campione di cellule venga indotto lo stress ossidativo (ad esempio trattandole con H2O2), poi una metà viene trattata (o pretrattata) con l’antiossidante e l’altra con una semplice soluzione tampone. A intervalli di tempo si prelevano aliquote delle due frazioni e si sottopongono a test antiossidanti. Dal confronto si ha una misura dell’efficacia dell’antiossidante[3]. Nell’articolo citato in nota, la capacità di due catechine estratte dalla pianta del tè di ridurre la produzione di ROS e la frammentazione del DNA su linee cellulari di rene di maiale infettate da micotossine, ha mostrato che l’epicatechingallato (ECG) e l’epigallocatechin gallato (EGCG) sono effettivamente efficaci su queste cellule[4]. Tuttavia le altre catechine contenute nel tè (catechina, epicatechina, catechingallato) che pure mostrano una elevata capacità sottrattrice di radicali in provetta risultano inefficaci sulle suddette linee cellulari. Probabilmente l’efficacia di ECG e di EGCG è dovuta al loro carattere parzialmente lipofilo che permette di penetrare all’interno delle membrane cellulari dove viene intrappolato il pericoloso radicale ossidrile.

Si deduce quindi che le prove in vitro su linee cellulari sono una fase importante nella valutazione complessiva degli antiossidanti.

Vengono anche usate linee cellulari prelevate da tessuti umani di persone affette da gravi patologie (tumori, fibrosi cistica,ecc.) di cui lo stress ossidativo è considerato concausa[2].

La valutazione dell’efficacia degli antiossidanti viene effettuata anche in vivo, ad esempio su topi e ratti. Anche in questo caso gli animali vengono divisi in due gruppi, il gruppo controllo e quello a cui viene artificialmente indotto lo stress ossidativo. Al primo gruppo viene somministrato un placebo, il secondo viene trattato con il potenziale antiossidante. Gli effetti vengono confrontati sugli organi interessati anche attraverso opportuni esami istologici[5]. Esempi sono riportati in [3], da questi lavori è stato possibile verificare che estratti da piante contenenti un elevato contenuto di polifenoli, nei casi citati le specie Cynara scolymus, Verbena officinalis e Rosa Canina rispettivamente, presentano proprietà epatoprotettive, gastroprotettive e anti-infiammatorie nei ratti.

Accanto alla capacità di penetrazione nelle membrane cellulari, un altro importante fattore per verificare l’efficacia degli antiossidanti è la biodisponibilità. In senso stretto la biodisponibilità è data dalla frazione di un farmaco che raggiunge la circolazione sistemica senza subire alcuna modificazione chimica rispetto al totale somministrato ed è legata alla velocità con cui il farmaco è reso disponibile nella circolazione sistemica. In senso lato il termine viene applicato anche alle sostanze assimilate con gli alimenti e quindi anche agli antiossidanti polifenolici sia liberi (integratori) sia in matrice (estratti o infusi di piante e vegetali, bevande, ecc.).

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La determinazione dell’effettiva biodisponibilità di un antiossidante o di un insieme di antiossidanti assunti per os, richiede esperimenti e calcoli farmacocinetici molto complicati perché essa dipende da numerosi fattori difficilmente isolabili, come ad es. il rilascio dell’antiossidante dalla matrice, l’azione degli enzimi nello stomaco e nell’intestino e gli effetti dei relativi metaboliti, l’assorbimento da parte della mucosa intestinale, il trasferimento attraverso la parete intestinale (inter- e/o intra-cellulare), il raggiungimento nella circolazione sanguigna o nel sistema linfatico, l’escrezione (attraverso le urine o le feci)[6]. Anche fattori quali l’assunzione a stomaco pieno o vuoto, il genere, l’età, la concomitanza di stati patologici influenzano la biodisponibilità.

Sugli antiossidanti sono state e sono tuttora pubblicate un fiume di ricerche e continuano a interessare case produttrici di nutraceutici, cosmetici, fitoterapici ecc. Inevitabilmente tutto ciò ha dato luogo a diverse critiche, polemiche e anche a equivoci. Una critica molto frequente riguarda le quantità di antiossidanti usate negli studi in vitro e in vivo sulla loro efficacia, che sono notevolmente superiori a quelle assunte normalmente con gli alimenti (frutta e verdura). In realtà per alcuni antiossidanti polifenolici sono stati osservati effetti opposti (benefici o tossici) a differenti livelli di esposizione, con variabilità a seconda del polifenolo considerato.

È noto che a dosi elevate la vitamina C invece di agire come antiossidante diventa un pro-ossidante, infatti può ridurre gli ioni ferrici a ferrosi innescando così la reazione di Fenton con formazione di radicali ossidrili[7]. È stato dimostrato che la supplementazione con 20 mg/die di β-carotene (precursore della vitamina A) a un gruppo di fumatori aumenta l’incidenza di tumore al polmone del 18%, successivamente la dose giornaliera raccomandata è stata stabilita a 2-7 mg/die. È dunque necessario acquisire conoscenze adeguate sulla biotrasformazione degli antiossidanti per identificare le dosi ottimali con un alto rapporto beneficio/rischio.

Per tenere conto di tutto ciò i ricercatori consigliano di non superare di tre volte la quantità massima usata per lo standard (Trolox) nei test in vitro sull’attività degli antiossidanti in quanto concentrazioni superiori non sarebbero potenzialmente applicative.

Spesso si ritiene che una sostanza che si è mostrata molto attiva nei saggi in vitro lo sia automaticamente anche in vivo. Come si è visto con le catechine le cose non stanno così: ogni antiossidante ha un suo profilo biochimico, che si riflette nei diversi siti d’azione e nella diversa attività biologica. Difficilmente oggi le riviste specializzate accettano ricerche prive di almeno qualche test su specifiche linee cellulari, alcune poi richiedono anche una verifica in vivo.

Qualcuno ritiene che per svolgere l’azione di sottrazione dei radicali liberi gli antiossidanti debbano reagire più rapidamente con i radicali rispetto a quanto questi ultimi reagiscano con le molecole biologiche, cosa che si sostiene sia impossibile con i radicali estremamente reattivi come l’ossidrile (HO). Tuttavia, i radicali lipidici perossilici nelle membrane (prodotti dagli HO), che hanno un’emivita molto più lunga dei radicali idrossilici, possono essere neutralizzati dalla vitamina E. Inoltre, anche per i radicali HOun antiossidante sito-specifico può fornire una protezione legando il ferro, impedendo così la reazione di Fenton. In altre parole è possibile la protezione primaria, che consiste nel prevenire la formazione dei radicali. Oltre alla sottrazione diretta, gli antiossidanti possono poi anche agire indirettamente tramite attività anti-infiammatoria o induzione di fattori protettivi antiossidanti.

Ecco l’equivoco più comune applicato dal pubblico agli antiossidanti: gli antiossidanti naturali sono migliori di quelli sintetici cioè “chimici”. È purtroppo favorito anche dai media (stampa, TV, internet, social ecc.). Ora, è vero ad es. che l’R,R,R-α-tocoferolo, la forma naturale dell’α-tocoferolo è più efficiente contro la perossidazione lipidica delle membrane rispetto ad altri enantiomeri sintetici derivati dell’α-tocoferolo. Tuttavia, l’R,R,R-α-tocoferolo sintetico è identico alla forma naturale, semplicemente perché si tratta della stessa molecola. Questo ragionamento è identico anche per la vitamina C naturale (estratta dagli agrumi) e l’acido L-ascorbico di sintesi a parità di purezza, come non mi stanco mai di dire a amici e conoscenti.

Infine un equivoco comune a molti addetti ai lavori è quello per cui gli antiossidanti non sono farmaci. Effettivamente in senso stretto i farmaci agiscono su un target specifico come un enzima, un recettore o un trasportatore. La specificità di un farmaco è l’azione con cui esso agisce su un unico target inducendo un forte effetto[8]. L’efficacia clinica di un farmaco è pertanto relativamente facile da misurare. Per contro, gli antiossidanti hanno una moltitudine di effetti (regolano il metabolismo, ne incrementano la flessibilità, migliorano l’omeostasi, favoriscono l’eterostasi, ecc.). La loro azione è certamente non specifica, pertanto i loro effetti sulla salute umana sono più difficili da verificare. Tuttavia, poiché lo stress ossidativo cellulare è comunque uno stato alterato dell’organismo che è probabilmente concausa e certamente è conseguenza di gravi patologie cardiovascolari, polmonari e tumorali, è possibile supporre che l’uso di integratori a base di antiossidanti possa ridurre o alleviare i disturbi collaterali in pazienti affetti da queste patologie. Uno studio molto interessante si è occupato di valutare l’impatto della supplementazione con antiossidanti in chemioterapia [4]. In particolare sono stati osservati gli effetti dell’integrazione con vitamine, glutatione, melatonina, acido ellagico e miscele di antiossidanti, con agenti chemioterapici (podofillina, cisplatino, antracicline) che agiscono producendo ROS diretti alle cellule tumorali. I risultati hanno mostrato che l’integrazione di antiossidanti in chemioterapia non solo non compromette l’efficacia del trattamento antineoplastico, ma è in grado di ridurre nella maggior parte dei casi i gravi effetti tossici a livello nervoso, renale, uditivo ed ematico associati all’azione dei chemioterapici, permettendo ai pazienti di tollerare cicli completi di chemioterapia, migliorandone di conseguenza la qualità di vita durante il trattamento.

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Liberiamo allora il campo da uno dei principali equivoci che la pubblicità induce nei consumatori per cui gli antiossidanti curerebbero tutti i mali, essi non sono una cura ma certamente contrastano gli eventi infiammatori causati dallo stress ossidativo cellulare e possono ridurre gli effetti tossici dei farmaci.

Bibliografia

[1] Schlesier K. et al., Assessment of Antioxidant Activity by Using Different In Vitro Methods, Free Radical Research, 2002, 36, 177-187.

[2] Andreani, A. et al., Chemopreventive and antioxidant activity of 6-substituted imidazo[2,1-b]thiazoles, Eur. J. Med. Chem., 2013, 68, 412-421.

[3] Speroni E. et al, Efficacy of different Cynara scolymus preparations on liver complaints, J. Ethnopharm, 2003, 86, 203-211; Speroni, E. et al., Effects of differential extraction of Verbena officinalis on rat models of inflammation, cicatrisation and gastric damage, Planta Medica, 2007, 73, 227-235; Lattanzio, F. et al., In vivo anti-inflammatory effect of Rosa canina L. extract, J. Ethnopharm, 2011, 137, 880-885

[4] Block, K.I. et al., Impact of antioxidant supplementation on chemotherapeutic efficacy: A systematic review of the evidence from randomized controlled trials, Cancer Treatment Reviews, 2007, 33, 407-418

NdB: un recente lavoro che chiarisce parecchi punti controversi è il seguente:

Ten misconceptions about antioxidants Aalt Bast and Guido R.M.M. Haenen in

Trends in Pharmacological Sciences August 2013, Vol. 34, No. 8

[1]Una misura non relativa della capacità sottrattrice di radicali si potrebbe ottenere ad esempio dalla determinazione sperimentale della velocità della reazione diretta fra l’antiossidante e il radicale ossidrile (cit. [1] dei precedenti post).

[2]Questi metodi, oltre a un quinto, il DMPD, sono stati utilizzati nell’articolo citato nella nota 1 del precedente post dove è presentata anche una matrice di correlazione fra i risultati ottenuti con i diversi metodi.

[3]v. ad es.: Costa, S. et al., Catechins: natural free-radical scavengers against ochratoxinA-induced cell damage in a pig kidney cell line (LLC-PK1), Food and Chemical Toxicology, 2007, 45 1910–1917 e anche nota 3 del post precedente.

[4]Le micotossine sono prodotte da funghi delle specie Aspergillus e Penicillum e possono infettare i cereali usati come mangimi per animali, soprattutto maiali. Dall’animale le tossine passano ai prodotti freschi o insaccati con conseguenti gravi pericoli per la salute dei consumatori.

[5]Molta attenzione viene fatta per evitare inutili sofferenze agli animali, tutte le procedure vengono controllate dal Servizio Veterinario Universitario e dal Comitato Etico, in accordo con l’ European Communities Council Directive. Gli animalisti se ne facciano una ragione, nessun modello computerizzato può attualmente sostituire la sperimentazione in vivo. Questi animali nascono, sono allevati e nutriti in cattività, fuori non saprebbero cavarsela, sarebbero preda di cani, gatti e quant’altro, un destino molto molto crudele.

[6]La determinazione della biodisponibilità di un farmaco somministrato per via endovenosa è relativamente più semplice. http://www.msd-italia.it/altre/manuale/sez22/2982738.html

[7]A tale proposito vale la pena notare la lunga polemica (non ancora del tutto esaurita) che ha coinvolto Linus Pauling (Premio Nobel per la Chimica 1954, per la Pace 1962), fondatore della medicina ortomolecolare che sosteneva la supplementazione di dosi giornaliere massicce di vitamina C per prevenire/curare malattie dal raffreddore al cancro.

[8]Vi sono tuttavia farmaci multitasking, ne è un esempio l’acido acetilsalicilico (aspirina) di cui si è parlato in un recente post.

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E’ APERTA LA RACCOLTA DI FIRME PER LA PETIZIONE ALLA IUPAC per dare il nome Levio ad uno dei 4 nuovi elementi:FIRMATE!

https://www.change.org/p/international-union-of-pure-and-applied-chemistry-giving-name-levium-to-one-of-the-4-new-chemical-elements

Chimica tra padre e figlia…

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Mauro Icardi

Scrivere di chimica, appassionarsi alla materia, approfondirla sono tutte cose che continuo a fare da molti anni. Ho avuto la possibilità fino ad ora di lavorare in laboratorio continuando a sentire quella specie di fascino inspiegabile che tutto questo continua ad esercitare su di me. Seguendo negli anni l’evoluzione di questa scienza, ed applicandola nel contesto di un lavoro particolare quale è quello del tecnico che si occupa di depurazione delle acque reflue, campo nel quale le nozioni di chimica si accompagnano e si intersecano con molte altre quali l’ingegneria ambientale e la biologia tra tante.

pdrefiglia1In tutti questi anni ho aiutato molti studenti del corso di Ingegneria della sicurezza e dell’ambiente dell’Università di Varese a svolgere il loro lavoro di tesi presso l’impianto di depurazione dove lavoro. Con quasi tutti loro è rimasto un legame di amicizia e il ricordo di una bella collaborazione che è stata un arricchimento per entrambi. Ovvio che ad alcuni di essi io abbia dovuto insegnare anche a muoversi in laboratorio e ad utilizzare la strumentazione, aiutandoli anche ad avere quel minimo di manualità richiesta, anche se oggi le cose sono certamente più semplici di quelle di un tempo, visto il diffuso utilizzo di attrezzature quali kit analitici e pipette automatiche.

Ma il momento in cui uno si sente decisamente più emozionato è quando l’aiuto ti viene chiesto da tua figlia, studentessa al terzo anno di liceo scientifico alle prese con la nomenclatura dei composti inorganici.

Mi sono sentito ovviamente emozionato, ma ho anche pensato, chissà se non rischio di fare una brutta figura…

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Perché lei parte subito in quarta e mi parla di acido astatidrico! A quel punto uno ha l’impressione di stare parlando con un alieno, o meglio mi sento come un nativo americano che per la prima volta incontra Cristoforo Colombo. Passato il primo momento di sgomento la faccenda si chiarisce. I neuroni e la memoria del papà (e lo ammetto anche con l’ausilio dei mai venduti libri di testo e del web) si rimettono in moto. acidoastatidrico

Si parla di idracidi. E quindi diventa divertente e si stabilisce anche una bella complicità nel ricordare le regole di nomenclatura e aiutarla a risolvere gli esercizi che le sono stati assegnati. Alessia è brava, ha imparato in fretta le regole di nomenclatura e si destreggia bene con la sua tavola periodica in mano. Così per alcune sere questa complicità continua. E tra le desinenze oso ed ico i ricordi mi riportano ai miei anni di studio cercando di paragonarli ai suoi, a cosa è cambiato, a quali concetti siano stati abbandonati e a quale potranno essere le strade che la chimica percorrerà. Ma soprattutto una cosa mi fa davvero sorridere e mi da una strana sensazione di tenerezza. Gli esercizi che deve risolvere prevedono di dare il nome IUPAC ed il nome usuale a molecole semplici. Stiamo per terminare una serie di esercizi. Quindi le dico “Adesso fallo per la molecola NH3”.

Lei si mette immediatamente all’opera, commenta tra se e se, e con molta sicurezza mi dice quasi immediatamente il nome IUPAC :“Triidruro di azoto”. Bene. Ma quando arriva il momento di dire il nome comune ecco che il papà si prende una piccola rivincita. Ed ecco che il normalissimo ammoniaca lo suggerisco io con un sorriso, mentre lei si batte una mano sulla fronte come nell’ormai dimenticata pubblicità di un noto aperitivo. Queste piccole dimenticanze capitano.

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In altre serate quando lei non sarà alle prese con le tante cose che sta facendo, parleremo ancora di Chimica. Anzi leggeremo insieme le pagine di Primo Levi ne “L’altrui mestiere” ed in particolare i due bellissimi capitoli “La lingua dei chimici 1 e 2”. Sarà una bella cosa da fare insieme. Perché sono contento di come lei si stia approcciando allo studio della chimica, ma in fin dei conti dire acido cloridrico conserva un maggior fascino rispetto a cloruro di idrogeno.

Senza che la IUPAC se ne abbia a male.

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E’ APERTA LA RACCOLTA DI FIRME PER LA PETIZIONE ALLA IUPAC per dare il nome Levio ad uno dei 4 nuovi elementi:FIRMATE!

https://www.change.org/p/international-union-of-pure-and-applied-chemistry-giving-name-levium-to-one-of-the-4-new-chemical-elements

 

Il 25 aprile e la chimica.

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Claudio Della Volpe

E un richiamo gli folgorò la testa: Johnny qual è l’aoristo di lambano?”

da Il partigiano Johnny di Beppe Fenoglio

Oggi è 25 aprile, l’anniversario della liberazione dal nazifascismo, una delle date fondanti della Repubblica Italiana.

Il 25 aprile 1945 finiva il potere fascista in Italia, finiva la guerra e cominciava l’avventura della ricostruzione postbellica, nella quale la chimica avrebbe giocato un ruolo enorme, nel bene e nel male.

Seguire la storia della Chimica italiana prima, durante e dopo il fascismo non è facile; un bell’articolo lo trovate gratis in rete sulla Treccani online, non proprio aria fritta, scritto da Luigi Cerruti  ( Chimica e società: la mediazione politica

Il Contributo italiano alla storia del Pensiero – Tecnica (2013))

:

http://www.treccani.it/enciclopedia/chimica-e-societa-la-mediazione-politica_%28Il_Contributo_italiano_alla_storia_del_Pensiero:_Tecnica%29/

Il racconto ve lo consiglio è affascinante e deprimente insieme, segno dei tempi di allora, ma non solo, segno della debolezza di quegli uomini di scienza “che si fidano di compiacere il potere”, una cosa che tempo fa scrisse Giorgio Nebbia su questo blog.

Cosa fosse diventata la Chimica specie universitaria, durante il fascismo ce lo racconta sempre Cerruti:

Nel corso degli anni, l’atteggiamento discriminatorio ‘spontaneo’ dei cattedratici di chimica si organizzò sempre meglio. Durante l’istruttoria per la nomina delle commissioni concorsuali, il ministero dell’Educazione nazionale riceveva un foglio con l’elenco degli ordinari ‘papabili’, in cui, accanto a ogni nome, con il settore disciplinare di riferimento era indicata la data di iscrizione al Partito nazionale fascista (PNF). Un simile ‘suggerimento’ non aveva bisogno di commenti particolari, e fa comprendere come si siano potute realizzare carriere come quelle di Felice De Carli (1901-1965), allievo del già citato potente professor Nicola Parravano (1883-1938) e iscritto fin dal 1921 all’Associazione nazionalista italiana (ANI) di Enrico Corradini e Luigi Federzoni; come il suo maestro, De Carli passò nel 1923 al PNF, in occasione della fusione tra le due organizzazioni promossa da Federzoni.

Scrive in un appunto di lavoro (che mi ha gentilmente inviato ieri) e che poi divenne il bel libro sul PCB a Brescia Marino Ruzzenenti:ruzzenenti

“La chimica e l’industria” del marzo-aprile 1945 usciva priva dell’elenco completo del Comitato direttivo, come avveniva di consueto, nonchè dello stesso Presidente, Giovanni Morselli (Già il numero di gennaio-febbraio non prevedeva più la presidenza ma citava una <giunta del Comitato direttivo, formata dal solito Morselli, Livio Cambi e Gaspare De Ponti). Rimaneva nell’ultima pagina la firma del solo Direttore responsabile, Angelo Coppadoro.

Ma il cambiamento veniva rimarcato anche dall’articolo di fondo di prima pagina di Michele Giua, “ritornato a libera vita tra i colleghi chimici dopo oltre otto anni di carcere inflittogli dal fascismo”, articolo che interveniva su un tema davvero cruciale, cioè sul rapporto tra scienza, tecnica e politica.

Il professor Ruzzenenti, che ringrazio per la sua disponibilità, si riferisce nel suo appunto all’articolo di Michele Giua Scienza, tecnica e politica, in ”La chimica e l’industria”, Milano, marzo-aprile 1945, anno XXVII, nn. 3-4, pp.35-36.

Avrei voluto ripubblicarlo integralmente sul blog, ma non ho fatto in tempo; l’idea mi è venuta troppo tardi; cercherò di aggiungerlo nei prossimi giorni.

25aprile2Chi era il Michele Giua cui fu affidato il compito di scrivere di Chimica appena dopo la Liberazione? Dice Luigi Cerruti:

Nel 1922 egli disponeva di carte accademiche eccellenti, in quanto era un allievo della scuola di Paternò e un buon chimico organico; inoltre era stato il primo in Italia a introdurre nella chimica organica le teorie elettroniche elaborate oltreoceano. In quell’anno risultò secondo nella terna dei vincitori del concorso per la cattedra di chimica generale dell’Università di Perugia; ma era un attivo militante socialista, e non venne mai chiamato da nessun consiglio di facoltà, fino a che, nel 1935, non venne arrestato durante la retata torinese contro il movimento antifascista Giustizia e Libertà.

Giua che poi riuscì ad ottenere una cattedra solo nel 1949, è stato consultore nazionale (1945-46), deputato alla Costituente (1946-48) e senatore (1948-58) per il PSI; ma vediamo cosa dice nel suo articolo, seguendo il testo di Ruzzenenti:

Egli confutava che la scienza fosse soltanto “attivirà teoretica”, condividendo con Poincarè e Mach l’affermazione sul carattere nettamente <economico> della costruzione scientifica. “Essa rientra nell’attività pratica e come tale è sempre subordinata alla politica, intendendo con questo termine tutto l’insieme della vita sociale. … la potenza della scienza, intesa nel senso baconiano, non consiste in altro che nella sua utilità”. Ed in questo senso non vi sarebbe differenza sostanziale tra scienza e tecnica.

Quindi veniva analizzata criticamente come nel campo della chimica nell’ultimo ventenio la ricerca scientifica avesse “brillato per mancanza di originalità”: “…le soluzioni date ai diversi problemi riferentisi all’industria dell’azoto, dell’alluminio, dello zinco, dei combustibili, della cellulosaeec. sono tutte elaborazioni di processi già noti, salvo qualche particolare adattamento alla natura delle materie prime nazionali”.

“La causa prima di questa degenerazione … è stata l’asservimento alle necessità dello Stato totalitario”…

“Ne sono esempi evidenti l’autarchia industriale e le applicazioni di guerra”

   Esaminando poi i diversi casi di autarchia -Italia, Germania, Giappone e U. R. S. S. -, rilevava come quella messa in atto dal Fascismo fosse “antieconomica, cioè costruita in base a processi più costosi di quelli che lo scambio internazionale mette a disposizione dei popoli civili, … un non senso e i popoli che vi si adattano sono condotti inevitabilmente al disastro.” . Diverso sarebbe stato invece il caso dell’U. R. S. S. “perchè l’Unione sovietica offre un esempio particolare di autarchia imposta e dalla necessità di difesa del regime socialistico che costituisce l’ingresso nella storia di una massa enorme di popolo mantenuto per secoli in uno stato di schiavitù, e da quella di sfruttare economicamente tutte le risorse nazionali, particolarmente del sottosuolo.”

Il Giua andava quindi alla conclusione: “… quindi si può senz’altro affermare che la scienza e la tecnica per il loro carattere utilitario saranno sempre legate alla politica degli Stati. Perchè questo legame non sia dannoso all’umanità, nè crei disastri simili a quelli che si sono verificati in meno di un triennio, è necessario non già che la scienza e la tecnica modifichino la loro natura, ma che gli Stati indirizzino e l’una e l’altra verso finalità socialmente utili. Per raggiungere un tale risultato occorre però che la <politica> si umanizzi, che gli Stati cioè pongano al bando la guerra come mezzo per la soluzione dei conflitti internazionali.” Ma poichè “uno dei prencipi del marxismo pone la guerra tra le condizioni di vita degli Stati capitalistici” … “non resta altra soluzione che un cambiamento sostanziale che elimini le antinomie sociali insite nell’attuale regime capitalistico e instauri un sistema di vita civile fondato sulla democrazia del lavoro”.

Personalmente pur condividendo alcune delle conclusioni di Giua ritengo che le cose siano perfino più forti e radicali: perchè anche il contenuto teorico della scienza secondo me risente della struttura sociale; scienza e società interagiscono fortemente dentro e fuori la testa degli uomini; senza una società libera la scienza non può veramente svilupparsi.

Brecht ne “la Vita di Galileo” fa dire a Galileo:

Che scopo si prefigge il vostro lavoro? Io credo che la scienza possa proporsi altro scopo che quello di alleviare la fatica dell’esistenza umana. Se gli uomini di scienza non reagiscono all’intimidazione dei potenti egoisti e si limitano ad accumulare sapere per sapere, la scienza può rimanere fiaccata per sempre, ed ogni nuova macchina non sarà fonte che di nuovi triboli per l’uomo. E quando, coll’andar del tempo, avrete scoperto tutto lo scopribile, il vostro progresso non sarà che un progressivo allontanamento dall’umanità. Tra voi e l’umanità può scavarsi un abisso così grande, che ad ogni vostro eureka rischierebbe di rispondere un grido di dolore universale…

Alla fine di quell’anno 1945, comunque le cose erano già velocemente cambiate; e sulle medesime pagine de La chimica e l’Industria arrivò una risposta alle posizioni di Giua.

MarioGiacomo Levi, già titolare della cattedra di chimica industriale al Politecnico di Milano fino al 1938, quando venne allontanato perchè ebreo, costretto nel 1943 a rifugiarsi in esilio in Svizzera e che nel dopoguerra sarebbe diventato Presidente della Società Chimica Italiana.

25aprile3(MARIO GIACOMO LEVI, L’industria chimica italiana e le possibilità del suo avvenire, in ”La chimica e l’industria”, Milano, novembre-dicembre 1945, anno XXVII, nn. 11-12, pp. 189-195)

Dice Ruzzenenti: Il Levi tracciava un ampio e dettagliato panorama, comparto per comparto, dello stato della grande industria chimica in Italia, delle sue potenzialità di ripresa e delle possibili prospettive.

Ne emergeva un quadro realistico, con evidenti arretratezze determinate dall’oggettiva mancanza di materie prime, aggravata dall’ossessione autarchica dell’ultimo decennio del fascismo.

Infatti, proprio sul problema delle materie prime si soffermava per ribaltare del tutto l’impostazione del passato regime. Affermava infatti, citando Einaudi, che “il problema delle materie prime non esiste: le materie prime sono nella terra dove la natura le ha poste in quantità ingenti e largamente sufficienti ai bisogni umani; non esistono quindi, e se esistono sono solubili, problemi naturali di materie prime.”

… “Non è il possesso naturale delle materie prime che basta a dare la ricchezza, come non è il difetto delle stesse materie che produce la povertà: le uniche vere fonti capaci di dare ricchezze durature e di distribuirle nel mondo, annullandone le povertà, sono i commerci e gli scambi onesti di materie prime e di prodotti finiti, le industrie che consumano e che trasformano, i cervelli e le braccia che operano, gli uomini che fraternizzano e che collaborano”. Veniva qui delineata la nuova prospettiva neoliberale in cui si intendeva, da parte delle classi dominanti, ricostruire in Occidente l’economia e la società.

Una prospettiva che, in onore del clima del tempo, teneva conto delle domande nuove di democrazia che la lotta di Liberazione aveva espresso.

In questo contesto Levi poneva il problema dei grandi oligopoli chimici che, come l’italiana Montecatini, “presentano inconvenienti e pericoli” per cui “ad essi gli orientamenti politici dell’Europa di domani saranno per lo meno in parte contrari”.

Dopo averne elencati i cinque principali vantaggi ne riconosceva anche gli inconvenienti:

“1. i grandi raggruppamenti industriali sono potenze nello stato: essi possono in certi momenti orientarne la politica fino al punto di consigliargli imprese politicamente rischiose o di farlo precipitare in una guerra;

  1. essi tendono a costituire per determinati prodotti un regime di monopolio eliminando la possibilità di libere concorrenze;
  2. essi possono utilizzare la propria forza per costrigere tecnici, impiegati ed operai ad accettare condizioni di lavoro favorevoli all’impresa, ma inadeguate alla vita, comprimendo il mercato del lavoro.”

Rispetto a questo problema Levi prendeva in considerazione le possibili soluzioni prospettate da chi caldeggiava o la nazionalizzazione o la socializzazione delle grandi imprese. Ma, ritenendole ambedue irrealistiche o impraticabili, concludeva che “la soluzione intermedia sia possibile e la migliore: quella di lasciar vita ai grandi organismi realizzandone tutti i vantaggi, ma esercitando su di essi la sua vigilanza lo Stato.”

Era la risposta alle posizioni di Giua sulla base della divisione del mondo che si andava delineando e nella quale l’Italia faceva parte del settore allora legato al “libero mercato”.

Mi fermo qua; nei primi 6 mesi dopo la guerra si era già delineato nell’ambito chimico il quadro futuro, anche se a grandissime linee, un conflitto fra una crescita che appariva  inarrestabile  e infinita forse perfino a tutti e un warning, tutto sommato debole sulll’uso privatistico delle risorse medesime; credo che oggi certe tendenze si siano chiarite e le cose siano in un certo senso al di quà e al di là di questa discussione; oggi è in questione non solo la privatezza dei fini, che si è manifestata ripetute volte nella distruzione o nel danno dei beni comuni ma anche l’infinità delle risorse: il pianeta non è infinito e la crescita materiale nemmeno.

Ma vi giustifico la citazione iniziale di Fenoglio.

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Beppe Fenoglio, scrittore e partigiano, non è scrittore facile e non è autore molto conosciuto; ma si da il caso che io abbia in questo momento uno studente di dottorato un pò particolare, Luciano Celi che su Fenoglio ci ha scritto un libro.

Il Partigiano Johnny è un libro di Fenoglio, pubblicato postumo nel 1968 e che non ha una fine ben precisa, ha avuto almeno due stesure e sulla fine del romanzo ci sono opinioni discordanti;  ma quel che ho capito io è che il libro di Fenoglio non ha una fine per l’ottimo motivo che la Resistenza, intesa come la lotta per liberarsi dall’oppressione e dallo sfruttamento, per Fenoglio non ha mai fine; non so, nessuno sa, se Johnny muoia o no, ma so che il 25 aprile 1945 è un giorno simbolico, un giorno che non finisce mai, per cui mai sapremo se Johnny muoia o no; Johnny, che è un pò la parafrasi di Fenoglio è con noi se lottiamo come lui ha lottato; se no è morto.

Il 25 aprile è un giorno simbolico. Ma ogni altro giorno è buono per lottare; la chimica è una scienza ed una tecnologia umana potentissima, e proprio per questo ha necessità di essere conosciuta e bene e difesa e liberata per diventare forza di liberazione a sua volta; l’alternativa fra liberare la scienza e non liberarla è tutto sommato semplice e ce la raccontano Vincenzo Balzani e Nicola Armaroli :

(Energy for a sustanaible world Wiley 2011):

“Per vivere nel terzo millenio abbiamo bisogno di paradigmi sociali ed economici innovativi e di nuovi modi di guardare ai problemi del mondo. Scienza, ma anche coscienza, responsabilità, compassione ed attenzione, devono essere alla base di una nuova società basata sulla conoscenza, la cui energia sia basata sulle energie rinnovabili, e che siamo chiamati a costruire nei prossimi trent’anni. L’alternativa, forse è solo la barbarie.”

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E’ APERTA LA RACCOLTA DI FIRME PER LA PETIZIONE ALLA IUPAC per dare il nome Levio ad uno dei 4 nuovi elementi:FIRMATE!

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Noterelle di economia circolare. 4: Il recupero dello zucchero dal melasso

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Giorgio Nebbia

Pochi prodotti chimici industriali, fabbricati su così larga scala (175 milioni di tonnellate all’anno, nel 2015, per un valore di poco più di un euro al kg), si trovano in commercio con un così elevato grado di purezza, superiore al 99,9 % e con una così elevata omogeneità e, lasciatemi dire, con cristalli così belli, come lo zucchero. E ciò partendo da materie prime, dei sughi estratti da piante, nei quali lo zucchero è accompagnato da così numerose sostanze estranee.

La storia dello zucchero è ben nota e trattata a varie riprese in questo blog: https://ilblogdellasci.wordpress.com/2014/12/17/zucchero-amaro-e-anche-salato/;

la tecnologia di estrazione dello zucchero dalla canna, pianta coltivata nei climi tropicali, è cominciata in India, è stata esportata attraverso l’Asia fino al bacino del Mediterraneo, da una parte e in Cina dall’altra. Nel bacino del Mediterraneo tale tecnologia è stata ulteriormente perfezionata da chimici arabi e diffusa in Spagna e in Sicilia. Dal Nord Africa la coltivazione della canna e la relativa tecnica di estrazione sono state esportate nelle colonie americane da portoghesi, spagnoli e francesi. Nelle colonie la tecnologia di estrazione era ancora abbastanza rudimentale e forniva uno zucchero di colore bruno, a causa delle impurità che si formavano per reazione di Maillard durante l’evaporazione e la concentrazione; per molto tempo lo zucchero coloniale veniva esportato in Europa per essere raffinato.

La scoperta dello zucchero nelle barbabietole, piante coltivabili in climi temperati, risale alla fine del Settecento e l’estrazione industriale fu messa a punto nei primi anni dell’Ottocento nell’Europa continentale come risposta autarchica alla mancanza di zucchero americano, dopo che Napoleone decise di impedire lo sbarco delle merci dalle navi inglesi che lo trasportavano. La produzione di zucchero da barbabietole è poi sopravvissuta con alterne vicende fino a raggiungere un massimo nei primi anni del Novecento in vari paesi europei e nel Nord America per poi a declinare nella seconda metà nel Novecento, fino a rappresentare nel 2015 soltanto circa il 15 % della produzione mondiale di zucchero.

Nell’età dell’oro dell’industria saccarifera l’Italia ebbe una posizione rilevante, con oltre vento zuccherifici in funzione e con una produzione di zucchero, tutto di barbabietola, che raggiunse un milione e mezzo di t/anno (oggi quasi del tutto scomparsa); in molte zone d’Italia d’estate l’aria delle campagne era impregnata del “profumo” acre delle barbabietole e dei melasso, le strade erano affollate di operai e contadini; quando ero giovane gli studenti e gli insegnanti in vacanza aspiravano a “fare la campagna” (saccarifera), un lavoro che consentiva di guadagnare qualche soldo e durava una quarantina di giorni d’agosto e consisteva nell’analisi per via polarimetrica del contenuto zuccherino delle singole partite di barbabietole che entravano nello zuccherificio e che erano pagate “a titolo”, cioè sulla base, appunto, del contenuto zuccherino.

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Le barbabietole erano poi sottoposte ad un ciclo produttivo che consisteva, schematicamente, nell’estrazione dello zucchero con acqua calda, nel trattamento (defecazione) del sugo leggero, la soluzione zuccherina diluita, con calce per far precipitare una parte delle impurità, nella concentrazione del sugo zuccherino per distillazione sotto vuoto dell’acqua, fino ad ottenere una soluzione zuccherina concentrata calda soprassatura nella quale, per raffreddamento, si formavano i primi cristalli la cui forma avrebbe governato la forma di tutti cristalli di saccarosio che si sarebbero formati nella massa cotta.

Questa delicata operazione di formazione dei primi cristalli era effettuata da operai specializzati, nei primi tempi, nell’Ottocento, fatti venire dalla Boemia. I cristalli di zucchero greggio si separano per centrifugazione, poi vengono lavati con acqua che viene rimessa in ciclo e alla fine sono essiccati. La massa zuccherina da cui non si separano più i cristalli, il melasso, è una soluzione di colore scuro, dall’odore pungente, che contiene ancora circa il 50 % di zucchero

Da 100 kg i barbabietole, contenenti circa il 18 % di saccarosio, si recuperano circa 15 kg di zucchero cristallino e circa 5 kg di melasso contenente circa 2,5 kg di zucchero.

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Per anni il melasso in parte è stato addizionato ai mangimi, in parte era usato per la produzione di alcol etilico, in parte era buttato via ed era una fonte di inquinamento. Nella seconda metà dell’Ottocento si è però cercato di recuperare lo zucchero dal melasso, chiudendo così il ciclo del processo.

Il primo contributo a questa operazione di economia circolare è stato dato dai chimici francesi Hippolyte Leplay (1813-1889) e Augustin-Pierre Dubrunfaut (1797-1861) che hanno scoperto (un loro brevetto è del 1849) che il saccarosio, molto solubile in acqua, formava dei “sali” poco solubili con i metalli alcalino terrosi. Addizionando quindi al melasso diluito degli ossidi o idrati di bario, di stronzio, o di calcio, era possibile recuperare gran parte dello zucchero del melasso. La chimica dei processi era abbastanza complicata perché la precipitazione dei “saccarati” (come erano chiamati questi prodotti di addizione) dipendeva fortemente dalla temperatura ed aveva qualcosa di magico ed empirico anche perché non esistevano due melassi uguali.

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Augustin-Pierre Dubrunfaut—An early sugar chemist Hewitt G. Fletcher J. Chem. Educ., 1940, 17 (4), p 153 DOI: 10.1021/ed017p153

Nei decenni successivi Carl Scheibler (1827-1899) mise a punto un processo di recupero dello zucchero per addizione al melasso diluito di ossido di stronzio; il recupero del saccarosio dal suo “sale” di stronzio del saccarosio avveniva in due fasi, una metà alla temperatura di ebollizione e l’altra, dopo filtrazione del sugo zuccherino e raffreddamento, al momento della scomposizione del “sale” con anidride carbonica che faceva precipitare lo stronzio come carbonato. Il processo Scheibler fu applicato nella raffineria di Dessau ad opera di Emil Fleischer (1843-1928); si ebbe come conseguenza un aumento della richiesta di stronzianite estratta nella regione del Műnsterland. Una delle principali miniere, a Drensteinfurt, fu intitolata a al Dr. Reichardt, il direttore dello zuccherificio di Dessau. Il processo all’ossido di stronzio fu applicato anche nella zuccherificio di Rositz. A partire dal 1883 però la richiesta di stronzianite cominciò a declinare sia perché l’ossido era ottenuto da un altro minerale, la celestina, importato in Germania dall’Inghilterra, sia perché il prezzo dello zucchero era diminuito, negli anni Ottanta dell’Ottocento, anche in seguito alla liberazione degli schiavi nei Caraibi, al punto da non rendere più conveniente il suo recupero dal melasso.

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Carl Scheibler (1827-1899)

 

 

 

Il passo successivo sarebbe stato rappresentato dal processo inventato nel 1883 dal chimico boemo Carl Steffen (1851-1927) consistente nel trattamento della soluzione diluita di melasso con ossido di calcio finissimo. Si formava un prodotto chiamato “saccarato di calcio” che veniva separato dal liquido scuro circostante, raffreddato a circa 15°C, lavato e poi sospeso in acqua e trattato con anidride carbonica recuperata dai forni in cui il calcare era trasformato in calce viva. La soluzione zuccherina diluita purificata veniva rimessa in ciclo insieme al sugo leggero; il carbonato di calcio precipitato veniva poi anche lui trattato in forno per ottenere nuova calce e anidride carbonica.

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Il liquido restante dopo la filtrazione del saccarato di calcio era chiamato “filtrato Steffen” ed è stato utilizzato anche per recuperare betaina e glutammina, quest’ultima suscettibile di trasformazione in acido glutammico e glutammato monosodico. Il processo, adottato soprattutto negli Stati Uniti, in California a partire dal 1888, ha subito vari perfezionamento ma ha continuato a essere chiamato “Steffen” ed è stato oggetto di brevetti di Steffen e del figlio Carl junior, fino al 1924.

In Italia il recupero di zucchero dal melasso è stato praticato col processo di baritazione messo a punto dal chimico Rodolfo Battistoni (1871-1940), la cui biografia è contenuto nella preziosa raccolta di storie di chimici italiani curata dal professor Scorrano (http://www.chimica.unipd.it/gianfranco.scorrano/pubblica/la_chimica_italiana.pdf

p.228). Battistoni fu assunto giovanissimo nella raffineria di zucchero, allora esercitata nel porto di Ancona dalla Società francese dei Fratelli Lebaudy. Cominciò a sperimentare il processo di dezuccherazione con il melasso di zucchero di canna di importazione. Il melasso diluito veniva addizionato con idrossido di bario in polvere finissima; per raffreddamento della soluzione si separa il saccarato di bario, e il processo continua come già descritto, con scomposizione del saccarato di bario per trattamento con anidride carbonica; la soluzione di zucchero dopo filtrazione veniva rimessa in ciclo. Restava il problema del recupero del bario, a cui Battistoni dedicò molte ricerche; il prof. Felice Garelli (1869-1936) aveva proposto di trasformare il carbonato di bario in carburo di bario; altri avevano tentato la scomposizione termica del carbonato di bario. Battistoni propose, brevettò e applicò, nel 1906-1907, negli zuccherifici di Ancona e Rieti un processo di trasformazione del carbonato in ossido di bario col forno elettrico. La “rigenerazione” della barite veniva associata alla preparazione al forno elettrico dell’ossisolfuro di bario, miscela di ossido e solfuro ottenuta dallo spato pesante, che, dopo idratazione, Battistoni faceva entrare nel ciclo del trattamento dei melassi a supplire le perdite di barite.

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Zuccherificio di Legnago

Il processo di dezuccherazione per baritazione, applicato negli stabilimenti di Cavarzere e Legnago del gruppo Montesi, consentiva di produrre zucchero a prezzo così basso che i concorrenti ottennero che sullo zucchero da melasso venisse applicata una imposta. Questa imposta, che stroncava la concorrenza, fu oggetto, negli anni settanta del secolo scorso anche a livello parlamentare di vivaci polemiche nelle quali intervenne, contro i monopoli, anche Ernesto Rossi. Lo zuccherificio di Legnago fu chiuso nel 1977 e questo mandò definitivamente in disuso la baritazione e questa pagina di economia circolare.

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I musei scolastici come struttura culturale decentrata

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Luigi Campanella, ex Presidente SCI

Da presidente della Società Chimica Italiana ( ho terminato il mio mandato al 31 dicembre 2010) avevo lanciato la creazione di una catena di Musei di Chimica capace di allargare il patrimonio culturale chimico dei cittadini e di offrirsi come opportunità anche turistica al territorio ed ai visitatori. Il mio progetto era (ed è) di collegare a questa istituenda rete un’altra che si basi sulle strutture scolastiche alla quale lavoro invece da molto tempo.

museiscolasticiViviamo un momento particolare della vita scientifica e culturale: da un lato i problemi economici mondiali richiedono un sempre maggiore impegno della ricerca in favore di problemi e tematiche di acquisito ritorno economico, dall’altro il gusto dei valori storici e delle tradizioni culturali è in grande rilancio come componente essenziale della formazione dei singoli e dello sviluppo della società intesa come depositaria di valori irrinunciabili e di stimoli insostituibili alla crescita intellettuale. Così mentre si rivendicano maggiori impegni finanziari per la ricerca applicata intesi come investimenti in favore delle future generazioni, contemporaneamente si fanno più pressanti le richieste in favore di risorse da elargire verso programmi ed iniziative che per la loro stessa natura possono considerarsi all’opposto rispetto ai valori quantificabili in termini di entrate ed uscite e di bilanci finanziari.

A causa delle difficoltà economiche in cui ci dibattiamo e delle esiguità dei finanziamenti si moltiplicano le imprese, i programmi finalizzati a valorizzare l’esistente, quindi a prescindere da grossi investimenti di tipo strutturale. In questo senso sono state recuperate numerose iniziative, di carattere museale sparse sul territorio, correlandole tra loro e rendendole fruibili dai cittadini: con l’attivazione degli “itinerari”, sorta di viaggio tra la scienza, finalizzata all’esplicazione di singole termiche, il Museo multipolare ha di fatto preso il posto dell’unipolare. Sono anche state predisposte iniziative nuove: mostre, esposizioni mai presentate, raccolte di materiali, documentazione, strumentazione riassestati, ed illustrati, cicli di conferenze, molte delle quali in rapporto con la scuola.museoscolastico

D’altra parte a questo recupero ha anche contribuito l’aspirazione a valori storici della cultura, un processo, questo, ormai in atto nel nostro Paese, come in molte altre società industriali, che ha conseguito un progressivo riequilibrio del bilancio della ricerca scientifica e tecnologica per lunghi anni in precedenza, troppo spostato sul fronte produttivistico a danno di quelli culturale e sociale. Tale recupero ha prodotto nel campo delle scienze strumentali un progressivo riavvicinamento ed un crescente interesse per la strumentazione e per le raccolte e gli archivi, intesi non più come semplice documentazione. ma come componenti essenziali di una disciplina, sulla base di una stretta correlazione fra teoria e sperimentazione, fra idee e fatti.

Un punto importante riguarda il rapporto con la scuola: da questo punto di vista il ruolo formativo ed informativo del Museo nel quale gli aspetti storici risultano prevalenti è stato mitigato, contemperato, direi riequilibrato, da una visione più sociale e più didattica, mettendo a disposizione della scuola, attraverso il materiale raccolto e illustrato, strumenti nuovi e non altrimenti disponibili.

I giovani hanno più volte mostrato un interesse crescente e una grande disponibilità verso le tematiche dei musei, la loro storia, gestione e sviluppo. Non bisogna deludere i loro entusiasmi; bisogna così accoppiare al lavoro organizzativo e strettamente propositivo, una attività di formazione e divulgazione nella quale il ruolo delle Università è evidentemente prioritario. Con la convinzione che i due aspetti non possano e non debbano procedere separatamente, quantunque, in alcuni casi, con delle realizzazioni parziali, ma che sottolineano tuttavia il debutto di un piano d’azione unitario, si deve pensare alla Istituzione dei Dottorati per Tecnici di gestione dei Musei che possono rappresentare nuovi sbocchi scolastici e occupazionali per i diplomati della scuola secondaria.museo3

Vanno proposti programmi sui temi della Divulgazione Scientifica, della Sperimentazione didattica, della Storia e della Filosofia delle Scienze, dell’Archeologia Industriale e sulla trasformazione dell’esistente attraverso l’Arte e la Scienza. Bisogna non farsi attrarre dalla logica dei sipari e delle wunderkammer, alla ricerca ingannevole e pericolosa di un’epifania della scienza, ma mantenere stretti contatti con la realtà per avvicinarsi ai giovani.

E’ molto significativo che questa interazione sia stata già attivata per mezzo di iniziative che partivano proprio dalla scuola secondaria. Si è giunti in tal modo a due importanti risultati:

  • la scuola secondaria superiore si è aperta verso l’esterno, realizzando con tecnologie avanzate dimostrazioni di laboratorio, visite guidate, conferenze, mostre e incontri con la cittadinanza
  • si è realizzata la saldatura fra la scuola secondaria e la scuola primaria mediante la partecipazione congiunta ad itinerari scientifici e l’elaborazione autonoma degli itinerari futuri.

C’è poi un aspetto di produttività culturale; persino ai costi di una mostra, al tempo per il quale resta in visione in un Museo, al numero dei visitatori; perché non pensare ad un itinerario scolastico delle mostre dimesse?

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Potrebbe essere una nuova interessante forma di collaborazione fra sistema scolastico e sistema museale mettendo a disposizione di quello i prodotti di questo e consentendo di utilizzare a fini didattici strumenti talvolta di eccitazione validità ed inusitato impiego quali per l’appunto le mostre. Un’ulteriore importantissima funzione del rapporto scuola Università mediato dalla struttura museale può essere quello della ricomposizione culturale e della riunificazione delle conoscenze.

La tradizionale articolazione della cultura in umanistica e scientifica è una articolazione che per molti motivi non la ragione di essere e che soltanto in tempi recenti si sta cercando di superare, anche se ci sono ancora forze contrarie, che ritengono certi temi di propria esclusiva pertinenza. Purtroppo è una posizione che deriva da una visione sbagliata. ma soprattutto da una politica di potere delle scuole e della scienza. Segnali di un cambio verso l’unilateralità della cultura ce ne sono; fra questi la visione e concezione di bene culturale: prima era sostanzialmente il reperto umanistico; oggi anche lo strumento scientifico; e la bellezza estetica degli strumenti ne valorizza la ricollocazione all’interno di un ambiente; di un atmosfera similmente a quanto avviene per le opere d’arte. Un’altra ricomposizione culturale, con la rivalutazione della storia della scienza e degli archivi storici, riguarda il rapporto fra teoria ed esperienza: anche a questo la valorizzazione della strumentazione e della sua storia ha dato un notevole contributo.

L’approfondimento delle relazioni fra teoria e ricerca sperimentale e del contributo della sperimentazione alla definizione delle teorie ha segnato questi momenti come integrati fra loro e con la cultura in generale.

La storia della strumentazione con le sue linee evolutive, a parte dall’introduzione degli strumenti classici, fa capire in che direzione ci si muove.

Come l’artista si esprime attraverso una sua creazione, così lo scienziato attraverso l’ideazione di uno strumento idoneo a verificare una propria ipotesi traccia in esso le linee del proprio pensiero e le confronta con gli altri. Questo confronto, che storicamente era ritenuto proprio delle scuole artistiche, ora comincia ad essere considerato con sempre maggiore attenzione anche a livello delle scuole scientifiche, capaci di esprimersi non soltanto attraverso le teorie e le ricerche di oggi, ma attraverso le esperienze e prove sperimentali di ieri. Il ruolo dei musei laboratorio è così evidentemente correlato con una rivisitazione del modello del museo scientifico.

All’interno di un quadro così articolato, per certi aspetti innovativo, sono nati Musei scolastici, rappresentazione concreta del rapporto fra scuola e cultura e di quello fra scuola e territorio. Moltissime scuole partendo dalle proprie tradizioni e dai propri parametri hanno realizzato musei non nel senso più obsoleto della parola, ma in quello di veri e propri centri culturali aperti sulla ed alla realtà territoriale circostante. Ciò ha consentito di realizzare una rete dapprima sul territorio capace nei suoi poli di portare l’interesse per la cultura e l’occasione per viverla un po’ dappertutto nella città, specialmente nelle periferie più lontane e abbondanti.

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Dopo il referendum, 22 aprile la ratifica di Parigi, COP21.

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

 a cura di Claudio Della Volpe

Dato l’impegno profuso dallo scrivente in tema di referendum attraverso le pagine di questo blog appare doveroso riconoscere e commentare la sconfitta.

Chi vuole dare un occhio più da vicino ai risultati può trovarli qui oppure in forma sintetica qui.

Il referendum abrogativo del 17 aprile termina con un 32.15% di votanti che hanno votato Si all’85.85%. Le regioni più soggette a servitù legate alle estrazioni fossili come Basilicata, Puglia, Sicilia, Abruzzo hanno visto percentuali più elevate e/o risultati del Si più alti. La Basilicata è stata la regione in cui il referendum è “passato” con il 50.16% dei votanti e il 94.6 di Si. In genere il Sud ha superato il 90% di Si e la Puglia è la regione più grande in cui la partecipazione è stata al 41.6 e i Si al 95.6.

Qualcuno potrebbe dire che il referendum è stato inutile e che abbiamo buttato 350 milioni; ma, a parte che questa scelta non è dipesa da chi ha chiesto di votare, essa è comunque un momento importante di presa di coscienza per milioni di persone; non tutti hanno votato per motivi “politici”; lo prova la distribuzione del voto che vede in testa le regioni più soggette a problemi pratici legati alle estrazioni di combustibile. E tutto nonostante i ripetuti inviti ad astenersi da parte di membri delle istituzioni, che è un reato bello e buono.

Personalmente ritengo sia stato un momento di un processo più ampio e lungo di presa di coscienza che occorre cambiare metodo di conversione dell’energia primaria: dai fossili alle rinnovabili, pena un futuro climatico tragico.

In questi giorni la Norvegia è stata portata ad esempio di felice paese che con i fossili si sta preparando un futuro di rinnovabili e perchè non possiamo fare così anche noi? Ebbene anche in Norvegia si preparano giorni duri perchè da una parte il basso prezzo del petrolio sta mettendo in crisi il Fondo Sovrano basato sui proventi dell’estrazione e che ha assicurato al paese una comoda stampella economica, ma soprattutto la riduzione delle estrazioni dai giacimenti già sfruttati che hanno superato il picco da un bel pò, sta aprendo il problema di andare ad estrarre nel cuore delle riserve naturali costituite dalle Isole Lofoten e Vesteralen; c’è scontro e non è tutto oro quel che luce.

La realtà è che questa transizione non è banale per nessuno e non può essere lasciata alle “mani invisibili del mercato”, ma deve essere guidata e accelerata quanto possibile.

Ho vissuto il referendum del 17 aprile in questo senso, come un momento di presa di coscienza da parte di tante persone dei problemi climatici ed energetici, una cosa che va al di là del mero risultato numerico. Se pensiamo che siamo il paese in cui la recente trasmissione di Luca Mercalli , Scala Mercalli, era seguita da poco più di un milione di persone e che il Si è stato scelto da oltre 12 milioni questa è comunque una notizia di cambiamento.

Un modo giusto per continuare questo processo di presa di coscienza e di effettivo cambiamento dei comportamenti energetici è certo quello di continuare a stare attenti alle scadenze chiave che sono immediate, dietro l’angolo.

Venerdì prossimo 22 aprile inizia il processo di ratifica dell’accordo di Parigi; c’è un sito tenuto dal collega Valentino Piana che tiene memoria del processo e al quale potete guardare per maggiori informazioni.

L’Italia dovrebbe firmare già il 22 in occasione della Giornata della Terra, in una cerimonia che si tiene a New York, presso le Nazioni Unite, depositarie ufficiali dell’Accordo di Parigi e l’accordo sarà aperto alla firma presso le Nazioni Unite a New York dal 22 Aprile 2016 al 21 Aprile 2017.

Di fatto inizierà a funzionare quando almeno il 55% dei paesi l’avrà ratificato; Usa e Cina hanno dichiarato che firmeranno subito e Obama che depositerà lo strumento di ratifica in contemporanea;

The United States and China will sign the Paris Agreement on April 22nd and take their respective domestic steps in order to join the Agreement as early as possible this year” – cioè firma nel World Earth Day e ratificazione quanto prima.

Il primo paese in assoluto che ha già ratificato – con atto parlamentare approvato all’unanimità da governo e opposizione – sono state le isole Fiji nel Pacifico, seguite da Palau , Isole Marshall e Maldive.

”La Giornata mondiale della Terra assume un significato ancor più importante dopo lo storico accordo raggiunto alla Cop 21 di Parigi, che proprio in quei giorni firmeremo a New York”.

Così, in una nota dell’ufficio stampa dell’Earth Day 2016 (la Giornata Mondiale della Terra che si celebra il 22 aprile) si fa presente che nel corso dell’edizione di quest’anno si ratificherà quanto deciso alla Cop 21.

In effetti il ministro dell’Ambiente Galletti sarà al Palazzo di Vetro di New York per rappresentare il nostro paese alla firma dell’accordo.

La questione effettiva della ratifica dell’accordo implica una decisione legislativa vera e propria discussa e votata dal Parlamento. Non sappiamo come procederà l’Italia a riguardo non avendo un serio programma energetico nazionale. Staremo a vedere.

Nel frattempo dati molto preliminari e non ufficiali per marzo 2016* ci dicono che per il sesto mese consecutivo l’anomalia termica terra+oceano è rimasta sopra un grado, 1.28°C per la precisione con una piccola riduzione dal record di febbraio, 1.35 (il limite COP21 è fissato a 1.5°C annuo, gli ultimi 6 mesi sono stati: 1.06, 1.03, 1.10, 1.14, 1.35, 1.28, e gli ultimi 12 mesi hanno una media RMS esattamente di 1°C di anomalia a 2/3 di percorso dal limite stabilito)

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La Natura è purtroppo matrigna, come recitava tale Leopardi ne “La ginestra” , e quindi il clima non aspetta; chissà, forse qualche ragione ce l’avrà anche lui.

Spero che Renzi e Galletti l’abbiano studiato a scuola; e meglio dell’inglese.

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Sentirsi bene è questione di chimica. 2° Parte: gli antiossidanti.

 Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Rinaldo Cervellati.

Nella prima parte di questo post è stato ricordato che fino dal 1995Gli antiossidanti sono percepiti [dal grande pubblico] come entità benefiche, prodotti quasi miracolosi che evitano i danni prodotti dai radicali [liberi]” [1]. Gli antiossidanti sono un business sempre in crescita per le ditte produttrici di integratori alimentari, cosmetici, prodotti erboristici, ecc. che hanno visto aumentare notevolmente i loro fatturati proprio a partire dai primi anni ’90 del secolo scorso. Prima però di parlare di antiossidanti desidero premettere che in base alla reattività (e quindi alla pericolosità per l’organismo), i radicali liberi possono essere suddivisi in:

– radicali molto reattivi, come l’ossidrile HO e gli alcossili RO, che possono attaccare tutte le molecole biologiche;

– radicali moderatamente reattivi, quali l’anione superossido O2, l’idroperossile HOO e i perossili ROO che, invece, possono reagire solo con poche molecole biologiche (lipidi polinsaturi), ma capaci di originare perossidi e idroperossidi che sono i precursori sia dell’ossidrile, sia degli alcossili estremamente reattivi [1].

Cosa significa “antiossidante”? Come dice la parola, gli antiossidanti sono sostanze capaci di prevenire l’ossidazione, cioè le reazioni provocate dall’ossigeno (e dai ROS). Antiossidante è quindi un termine molto generale, che non riguarda solo la prevenzione dall’eccesso di radicali liberi. Un esempio a tutti noto è la vernice rossa che viene usata sui cancelli di ferro per evitare che si arrugginiscano. La ruggine è infatti il prodotto dell’ossidazione del ferro da parte dell’ossigeno atmosferico in presenza di umidità. La vernice rossa, a base di minio (un composto del piombo), evita la corrosione del ferro perché reagisce con l’ossigeno più facilmente di lui. Un altro esempio molto noto è la zincatura delle grondaie o simili. In questo caso è lo zinco che protegge il ferro dall’ossidazione. Vernice rossa e zinco sono quindi antiossidanti.

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Qui ci interessano quegli antiossidanti in grado di controllare la produzione di radicali liberi.

Ovviamente, in condizioni normali il nostro organismo ha sviluppato dei meccanismi di difesa contro l’eccesso di radicali liberi, soprattutto sottoforma di enzimi, come la superossido dismutasi, la catalasi e la glutatione perossidasi. Questi antiossidanti sono detti endogeni, poiché prodotti dall’organismo stesso.

Quando però l’organismo è sotto stress ossidativo (sbilanciamento fra radicali e antiossidanti endogeni) occorre assumere una quantità maggiore di antiossidanti attraverso la dieta. Questi antiossidanti sono detti esogeni. Esempi noti a tutti di antiossidanti esogeni sono le vitamine, in particolare le vitamine C ed E.

Una categoria molto importante di antiossidanti esogeni è costituita dai polifenoli, detti anche “biofenoli” poiché contenuti in frutta, verdura e più in generale in tutte le piante. Da tempo è noto che queste sostanze hanno la proprietà di sottrarre radicali liberi e quindi hanno l’effetto di mantenere o ripristinare l’equilibrio redox nell’organismo umano.

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I composti polifenolici sono una delle principali classi di metaboliti secondari delle piante. Hanno strutture chimiche più o meno complesse, caratterizzate dalla presenza di un anello aromatico con uno o più sostituenti ossidrilici. I polifenoli possono rivestire diversi ruoli in natura. Alcuni hanno funzione di difesa da erbivori e patogeni, altri fungono da fonte di attrazione nei confronti di impollinatori, altri ancora possono inibire la crescita di piante che vivono nelle vicinanze e avere la funzione di sostegno meccanico per la pianta.

I polifenoli possono essere suddivisi in due grandi classi: flavonoidi e acidi fenolici. A loro volta i flavonoidi comprendono diverse sottoclassi (flavanoni, antocianine, flavonoli, flavanoli, flavoni e isoflavoni).

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un flavonoide, l’apigenina

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un acido fenolico, idrossinamico, l’acido caffeico

I flavonoidi, sia in forma libera (agliconi) sia legati con zuccheri (glicosidi), sono il gruppo di fenoli di origine naturale maggiormente diffusi. Quasi tutti solubili in acqua, sono responsabili del colore dei fiori, frutti e talvolta foglie e quando non sono visibili direttamente contribuiscono alla colorazione agendo da copigmenti. Tutti i flavonoidi hanno una comune origine biosintetica e presentano lo stesso nucleo strutturale di base, in particolare lo scheletro del 2-fenilcromano:

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(per gli isoflavoni il nucleo strutturale di base è il 3-fenilcromano). I flavonoidi possono essere classificati in flavoni, flavonoli, isoflavoni, ecc. dipendentemente dal grado di ossidazione dell’anello piranico.

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Rutina

Fra i flavoni è di particolare importanza la rutina (5,7,3’,4’-OH) e il suo glicoside rutina-3-rutinosio che si trova in limoni, pepe rosso, buccia dei pomodori e vino rosso.

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Quercetina

Fra i flavonoli sono di grande interesse la quercetina (3,5,7,3’,4’-OH) e i sui glicosidi, che si trovano in cipolle, lattuga, broccoli, pomodori, tè, frutti di bosco, mele e olio di oliva, e il kaempferolo (3,5,7,4’-OH) e suoi glicosidi, che si trovano in porri, broccoli, cicoria, pompelmo e tè nero, oltre che in altre piante. Fra gli isoflavoni sono importanti la genisteina (5,7,4’-OH), la daidzeina (4’,7-OH) e il glucoside daidzina (4’-OH, 7-glucosio), che si trovano in particolare nei semi di soia.

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Kaempferolo

Le antocianidine sono flavonoidi strutturalmente correlati con i flavoni, i loro glicosidi sono denominati antocianine. Le strutture delle antocianidine ritrovate in natura, presentano uno scheletro base, costituito dal catione flavilio (la struttura primaria), cui sono legati gruppi ossidrilici e metossilici:antiossi2

Attualmente sono note le strutture di circa 22 antocianidine, ma tra queste quella più frequentemente ritrovata nelle piante è la cianidina (R = OH, R’ = H), sostanza che dà il caratteristico pigmento alle arance rosse di Sicilia[1]. Si trova anche in ciliegie, lamponi e fragole. Importante è il suo glicoside (R = glucosio, R’ = piranosio).

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Cianidina

Anche gli acidi fenolici sono composti comunemente presenti nelle piante. Di particolare importanza l’acido gallico (acido 3,4,5 diidrossibenzoico), l’acido caffeico (acido 3-(3,4-diidrossifenil)prop-2E-enoico) e l’acido ferulico (acido 3-(4-idrossi-3-metossifenil)prop-2E-enoico). Il primo, oltre a trovarsi nelle foglie e nelle radici di alcune piante, si trova anche nei semi e nei frutti come le olive; si trova anche in more, lamponi, fragole e mango. Il secondo è contenuto in molti alimenti di origine vegetale, compreso ovviamente il caffè da cui deriva il nome comune[2]. Il terzo è abbondantemente presente nelle granaglie (avena, grano, riso), nei carciofi, nel caffè e in alcuni tipi di frutta.

Riguardo al meccanismo di azione degli antiossidanti polifenolici, esistono due strade per la reazione fra i radicali (ad es. l’ossidrile, HO) e l’antiossidante polifenolico, qui indicato genericamente Ar(OH)n:

  1. la prima, che avviene prevalentemente in mezzo lipofilo, consiste semplicemente nel trasferimento di un radicale H dall’antiossidante all’ossidrile (azione scavenger):

Ar(OH)n + HO –> Ar(OH)n-1O + H2O

i radicali arossili Ar(OH)n-1O che si formano sono piuttosto persistenti e il loro tempo di vita è sufficiente per catturare altri radicali HO dando derivati diamagnetici stabili.

  1. la seconda strada, che avviene prevalentemente in mezzo acquoso, consiste inizialmente in un trasferimento elettronico dall’antiossidante al radicale HO· con formazione del radicale catione dell’antiossidante e anioni HO:

Ar(OH)n + HO–> Ar(OH)n-1OH++ HO

questo radicale si scinde velocemente in radicale arossile e H+:

Ar(OH)n-1OH+ –> Ar(OH)n-1O+ H+

gli idrogenioni reagiscono poi immediatamente con gli anioni HO per dare acqua:

H+ + HO –> H2O

infine il radicale arossile Ar(OH)n-1O reagirà con l’ossigeno o con altri intermedi di reazione per dare derivati stabili e non dannosi.[1]

La reazione di sottrazione di un idrogeno di un OH fenolico da parte di un radicale piccolo (tipo ossidrile, idroperossile, alcossile, perossile) è molto veloce anche in soluzione, con costante di velocità che differisce di due o tre ordini di grandezza dal limite collisionale (assenza di energia di attivazione, k ≈ 10-9 M-1s-1). Per esempio la reazione fra l’α-tocoferolo (vitamina E, un gruppo OH fenolico) e un radicale perossile nel plasma umano ha una costante di velocità di circa 106 M-1s-1 [2].

La reattività di un gruppo fenolico in un polifenolo dipende dall’entalpia del legame OH, la quale a sua volta dipende dalla posizione relativa di tale gruppo rispetto ad altri gruppi OH fenolici e sostituenti nella molecola. Sicché il grado di capacità di sottrarre radicali liberi di un polifenolo non dipende tanto dal numero di OH fenolici in esso contenuti ma dalla posizione relativa di questi rispetto a tutti gli altri sostituenti nella molecola.

A questo proposito è stata elaborata una teoria che permette di calcolare l’entalpia di un legame OH in un polifenolo, detta teoria BDE (Bond Dissociation Enthalpy Theory). In base a questa teoria sono state proposte regole di additività che tengono conto degli effetti induttivo, coniugativo, di legami a idrogeno (inter e intra molecolari) su un certo legame OH per valutarne l’entalpia di legame[3] [3].

Sull’impiego, l’efficacia, gli usi e abusi degli antiossidanti polifenolici è in preparazione la 3a parte del post.

Riferimenti.

[1] Pedulli G.F., Gli inibitori delle reazioni radicaliche, relazione svolta al Convegno Celebrativo in onore dei Proff. Anna Maria Sechi e Carlo Alfonso Rossi dal tema “Le ricerche della Facoltà di Farmacia: il ruolo della Chimica Biologica con particolare riguardo ai meccanismi radicalici.”, Accademia delle Scienze, Università di Bologna, 14/11/1995 (non pubblicata).

[2] Burton G. W., Hughes L, Ingold K. U., “Antioxidant activity of phenols related to vitamin E. Are there chain-breaking antioxidants better than alpha-tocopherol?” J. Am. Chem. Soc., 1983, 105, 5950-5951.

[3] Wright J.S., Johnson E.R., Di Labio G.A., “ Predicting the Activity of Phenolic Antioxidants: Theoretical Method, Analysis of Substituent Effects, and Application to Major Families of Antioxidants”, J. Am. Chem. Soc., 2001,123, 1173-1183.

Note dell’autore.

[1] In commercio esistono due tipi di succo di arancia rossa di Sicilia: quelli refrigerati e quelli a lunga conservazione. Una ricerca interdisciplinare in collaborazione fra UniBO, UniCT e UniNa ha mostrato che solo i primi hanno attività antiossidante e contengono cianidina, mentre nei secondi la cianidina si è degradata nel processo di pastorizzazione e quindi sono privi di cianidina e hanno scarsa o nulla attività antiossidante [A. Fiore et al. Antioxidant activity of pasteurized and sterilized commercial red orange juices, Molecular Nutrition & Food Research, 2005, 49, 1129-1135]

[2] I nomi comuni di tutti gli antiossidanti qui menzionati derivano dal nome della pianta da cui sono stati isolati la prima volta.

[3] Nostre ricerche hanno mostrato che la ΔBDE calcolata in base alle regole di additività sono in ottimo accordo con i dati sperimentali di attività antiossidante misurata in vitro v. ad es: Cainelli G. et al. New polyphenolic beta-lactams with antioxidant activity, Chem. Biodiv., 2008, 5, 811-829; R. Cervellati et al., Monocyclic b-lactams as antibacterial agents: Facing antioxidant activity of N-methylthio-azetidinones, Eur. J. Med. Chem., 2013, 60, 340-349.

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E’ APERTA LA RACCOLTA DI FIRME PER LA PETIZIONE ALLA IUPAC per dare il nome Levio ad uno dei 4 nuovi elementi:FIRMATE!

https://www.change.org/p/international-union-of-pure-and-applied-chemistry-giving-name-levium-to-one-of-the-4-new-chemical-elements

“Sentirsi bene è questione di chimica”.1.

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Rinaldo Cervellati

Questo dice l’assistente di volo alla bambina saputella nello spot pubblicitario di una nota compagnia aerea riportato qui sotto[1].

Spot Lufthansa  da:

https://www.youtube.com/watch?v=yjtrOU5AK9s

L’affascinante attrice che impersona l’assistente di volo forse non si rende conto della grande verità contenuta in quella frase, come non se ne rendono conto coloro per cui la chimica è associata a quasi tutti i mali del mondo.

Infatti il benessere fisico e mentale (dipendente da un insieme di circostanze esterne favorevoli) provoca l’armonizzazione di complicati processi chimici dei sistemi biologici cui partecipano enzimi, ormoni, endorfine, ecc. Fra questi processi è divenuto sempre più noto il bilancio redox fra radicali liberi (che partecipano a importanti cicli fisiologici, ad es. la respirazione) e antiossidanti endogeni (superossido dismutasi, catalasi) ed esogeni (vitamine E e C) che ne regolano la quantità necessaria. Se per motivi esterni o interni la produzione di radicali liberi cresce in modo indiscriminato ha luogo lo stress ossidativo cellulare che è considerato (con)causa di diverse patologie.

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Fino dal 1995 Gianfranco Pedulli scriveva che le parole radicali liberi e antiossidanti sono conosciute dal grande pubblico attraverso i numerosi spot pubblicitari che compaiono quotidianamente sui mezzi di informazione. Anche se la maggior parte delle persone non sa cosa siano esattamente i radicali liberi, essi vengono comunque percepiti come entità infide da cui bisogna ben guardarsi perché responsabili di molti misfatti quali la comparsa di rughe e macchie sulla pelle, la caduta dei capelli, i prematuri segni di invecchiamento, etc. Gli antiossidanti sono invece percepiti come entità benefiche, prodotti quasi miracolosi che evitano i danni prodotti dai radicali [1]. Come vedremo sono altri i danni ben più pericolosi per l’organismo che vengono ascritti ai radicali liberi.

Come noto è un radicale libero qualsiasi specie chimica che possiede uno o più elettroni spaiati. I radicali liberi mostrano ovviamente una reattività molto accentuata, per riformare la coppia elettronica sottraggono un elettrone a qualsiasi molecola incontrino sul loro cammino. Accanto ai radicali liberi, anche molecole neutre, come ad esempio il perossido di idrogeno H2O2 (acqua ossigenata) sono specie molto reattive, e poiché la reattività è centrata sull’ossigeno si parla più propriamente di specie reattive all’ossigeno (ROS = reactive oxygen species). Anche l’ossigeno molecolare, nel suo stato di tripletto con due elettroni spaiati è da considerarsi un radicale. Altri radicali e molecole potenzialmente dannose per l’organismo hanno la reattività centrata sull’azoto (RNS).

Le specie reattive all’ossigeno (ROS) e all’azoto (RNS) sono normalmente prodotte in ogni cellula dell’organismo umano, come risultato della riduzione dell’ossigeno ad acqua a livello della catena respiratoria mitocondriale. I radicali liberi possono formarsi in due modi: (a) per rottura omolitica di un legame; (b) per trasferimento di un singolo elettrone da una specie a un’altra. La rottura omolitica di un legame può avvenire per effetto dell’assorbimento di energia sotto forma di una radiazione elettromagnetica o di calore. Il trasferimento monoelettronico porta alla formazione di un radicale catione e di un radicale anione, caratterizzati dall’avere, oltre che un elettrone spaiato, anche una carica elettrica.

Nei sistemi biologici i modi in cui si formano radicali liberi sono essenzialmente tre:

(a) assorbimento di radiazioni ad alta energia (come i raggi cosmici, i raggi g, X e UV);

(b) reazione di Fenton: Fe2+ + H2O2 ® Fe3++ HO + HO, (il ferro è il più importante oligominerale presente nell’organismo umano);

(c) la riduzione dell’ossigeno molecolare a radicale superossido: O2 + e → O2●−.

Fino a che lo strato di ozono ci proteggerà dai raggi UV e vivremo lontano da impianti nucleari, la reazione di Fenton resta il modo principale di formazione dei radicali nell’organismo, anche se il modo (c) può avvenire accidentalmente a livello mitocondriale per trasferimento diretto di un elettrone dai trasportatori di elettroni all’ossigeno.

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Tuttavia fattori ambientali e nutrizionali, come inquinanti atmosferici (polveri, residui di idrocarburi, N2O2, NO2, fumo di sigaretta), radiazioni (troppe lampade UV, raggi X) una dieta povera di frutta e verdura, di acidi grassi polinsaturi e vitamine antiossidanti, nonché uno stile di vita convulso o sregolato come pure un eccesso di attività fisica possono incrementare l’attività dei sistemi generanti i ROS, favorendo la produzione di un eccesso di radicali. I principali danni sulle cellule provocati da questo processo sono: attacco al DNA con alterazione delle coppie di basi, degradazione di proteine, ossidazione lipidica con rottura del doppio strato e dell’integrità cellulare, accumulo di LDL (lipoproteine a bassa densità) con formazione di “schiuma cellulare”, attivazione di enzimi indesiderati come ad es. le proteine chinasi. Si ritiene che a lungo andare gli effetti dello stress ossidativo possano essere fra le cause di malattie anche gravi come aterosclerosi, ipertensione, cardiopatie, diabete, alcune forme di tumore nonché l’insorgenza di patologie neurodegenerative quali il morbo di Parkinson e quello di Alzheimer.

Lo stress ossidativo può essere limitato attraverso l’uso ragionato di sostanze in larga misura di origine vegetale, dette genericamente antiossidanti. Ce ne occuperemo nel prossimo post.

[1] Pedulli G.F., Gli inibitori delle reazioni radicaliche, relazione svolta al Convegno Celebrativo in onore dei Proff. Anna Maria Sechi e Carlo Alfonso Rossi dal tema “Le ricerche della Facoltà di Farmacia: il ruolo della Chimica Biologica con particolare riguardo ai meccanismi radicalici.”, Accademia delle Scienze, Università di Bologna, 14/11/1995 (non pubblicata).

[1] Non si capisce perché i bambini saputelli debbano essere sempre paffuti, occhialuti, pallidi, bruttini insomma…

.continua.

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E’ APERTA LA RACCOLTA DI FIRME PER LA PETIZIONE ALLA IUPAC per dare il nome Levio ad uno dei 4 nuovi elementi:FIRMATE!

https://www.change.org/p/international-union-of-pure-and-applied-chemistry-giving-name-levium-to-one-of-the-4-new-chemical-elements

Referendum 17 aprile 2016. (4.parte):lavoro, ambiente, royalties.

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

I precedenti post di questa serie sono pubblicati qui, qui e qui.

a cura di Claudio Della Volpe

Nei precedenti post di questa serie abbiamo raccontato i dati legati al prossimo referendum del 17 aprile 2016 sulla abrogazione della durata illimitata del diritto di estrazione di fossili entro il limite delle 12 miglia dalle coste italiane. Nel far questo abbiamo di fatto dimostrato che i dati grezzi supportano fortemente il voto positivo al referendum.

Infatti l’Italia, come tutta l’UE, si è impegnata a ridurre la propria impronta fossile e per mantenere l’incremento della temperatura media globale occorre che noi come gli altri riduciamo i nostri consumi di fossile del 20% entro 10-15 anni per poi azzerarli entro il 2050, fra soli 35 anni;

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secondo le stime pubblicate di recente su Nature (NATURE, VOL 517 ( JANUARY 2015) p. 187) questo corrisponde a lasciare sotto terra una percentuale molto elevata della attuali risorse fossili (più di 4/5 delle riserve di carbone, più di metà di quelle di gas e più di un terzo di quelle petrolio); e allora la scelta del referendum ha una sua logica dato che le risorse italiane non solo sono minime, ma anche qualitativamente non eccelse (il petrolio è parecchio sporco di S e più costoso da purificare, olio leggero o ad alto API) e il gas estratto dal mare è più costoso sia energeticamente che economicamente rispetto ad altre estrazioni. La sua estrazione conviene solo a chi paga delle royalties ridicole come quelle italiane che non solo ammontano al 4-7-10% dell’estratto ma con una franchigia enorme pari ai primi 25-80 milioni di metri cubi di gas o 20-50.000 ton di petrolio ALL’ANNO:

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Ora se pensate che la ventisei concessioni (ultimi dati MISE) entro le 12 miglia soggette al referendum producono in tutto 1.2 miliardi di metri cubi di gas, come documentato nel secondo post, ossia una sessantina di milioni all’anno, in pratica sono “in media” senza royalties;

Vediamo in dettaglio cosa è successo nel 2015 dalla pagina del MISE. (http://unmig.mise.gov.it/unmig/strutturemarine/piattaforme.pdf)

Nel 2015 su 48 concessioni eroganti gas in tutto il mare italiano solo 17 hanno superato la quota di franchigia, per un totale dei ¾ della produzione. 17×80 fa 1360; su un totale di 4.5 miliardi di metri cubi 1.5 non pagano perchè sotto franchigia e 1.36 sono sotto franchigia per le 17 più grandi; totale 2.86 miliardi metri cubi su 4.52 sono sotto franchigia, il 63% e non pagano NULLA. In particolare delle 26 sotto le 12 miglia solo 5 hanno superato la franchigia; dato che 5×80 fa 400 milioni e le 5 coprono quasi il 90% della produzione (1200 milioni di mc) si ha che quasi 500 milioni di metri cubi su 1200 non pagano NULLA (oltre il 40%). Petrolio in mare: nel 2015 solo 6 concessioni hanno prodotto e tutte hanno superato la franchigia di 50mila ton; dato che il totale è stato di 750.000 ton e le franchigie totali sono 6×50.000=300.000 il 40% non ha pagato royalty.

Chiaro? Una parte importante dell’estrazione di fossili dal mare italiano non paga royalty. La situazione a terra è diversa soprattutto per il petrolio perchè c’è praticamente un solo grande giacimento che da solo fa un terzo delle estrazioni totali di tutto il fossile e quasi il 70% del petrolio, quello della Val d’Agri, esempi e ragionamenti fatti sulla Val d’Agri come fa Nomisma, e ripresi dall’ineffabile Tabarelli, non hanno senso sul resto. (Oh tenete presente che dopo l’estrazione nulla impedisce a chi estrae di vendere dove vuole; quel petrolio o gas una volta estratto non è più “nostro” come implicitamente ragionano alcuni)

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il picco del gas offshore italiano; i dati prima del 1980 sono stimati, gli altri sono del MISE, curva logistica

E se aggiungete a tutto questo che la produzione totale di fossili italiani è comunque in diminuzione netta da tempi non sospetti, ha insomma da lunga pezza superato il proprio picco di produzione, avrete abbastanza argomenti razionali per dire che estrarre i nostri fossili non vale molto la pena.

Tuttavia a questi argomenti se ne possono e devono aggiungere altri che non sono da considerare secondari e che aggiungono sale e complessità alla discussione.

Fra gli altri ne esaminerò oggi due che sono problemi ambientali e problemi di lavoro.

Il primo punto da sottolineare è che la norma che è stata inserita nella legge a dicembre scorso e che il SI al referendum potrebbe abrogare, questa insomma della prolunga all’infinito o quasi dei tempi di estrazione ha un corollario ambientale importante, se non ci sono limiti di estrazione se non a giudizio di chi estrae, succede o potrebbe succedere che le strutture di estrazione e le modifiche ambientali effettuate rimangono lì per sempre; non ci sarà mai, almeno a breve, un “ripristino” ambientale; si potrà sempre spostare più in là il tempo di fine concessione; vediamo qui che i bassi potenziali di estrazione, sono comodi e correlati alle leggi, ma solo per chi vuole fare il furbo: se estraggo poco non pago royalty di alcun genere e di più prolungo la vita utile del giacimento in modo da rimandare le spese di ripristino ambientale.

In secondo luogo quali sono i dati di inquinamento ambientale? Qui occorre sottolineare che le norme relative sono lacunose, non esistono limiti per tutti gli inquinanti e in alcuni casi occorre fare da soli ossia usare come riferimento dati di zone “pulite” usate comunemente dalla letteratura di riferimento ma non indicate nella legge.

I dati resi recentemente noti da Green Peace sono interessanti per più motivi:

Anzitutto sono dati raccolti da ISPRA che è un’istituto pubblico con ampia esperienza in proposito; questi dati non sono stati resi noti spontanemente, ma su richiesta dell’associazione ambientalista, sono relativi solo ad un sottoinsieme delle zone di estrazione, sono stati raccolti dall’ISPRA ma su commessa dell’ENI che li ha pagati. Si tenga presente che uno dei ruoli dell’ISPRA è quello di fare da controllore dell’inquinamento marino. Ma come si fa a fare da controllore e contemporaneamente a farsi pagare una commessa da chi si dovrebbe controllare? Nessuna violazione formale, ma tutte queste cose congiurano a rendere ancora più significativi i risultati trovati.

Che sono i seguenti:

si tratta di piattaforme attive in Adriatico che scaricano direttamente in mare, o iniettano/re-iniettano in profondità, le acque di produzione: 34 impianti (33 nel 2012 e 2014) che estraggono gas, tutti di proprietà di ENI. I dati si riferiscono agli anni 2012, 2013 e 2014

i monitoraggi prevedono analisi chimico-fisiche su campioni di acqua, sedimenti marini e mitili (Mytilus galloproncialis, le comuni cozze) che crescono nei pressi delle piattaforme

A seconda degli anni considerati, il 76% (2012), il 73,5% (2013) e il 79% (2014) delle piattaforme presenta sedimenti con contaminazione oltre i limiti fissati dalle norme comunitarie per almeno una sostanza pericolosa. Questi parametri sono oltre i limiti per almeno due sostanze nel 67% degli impianti nei campioni analizzati nel 2012, nel 71% nel 2013 e nel 67% nel 2014. Non sempre le piattaforme che presentano dati oltre le soglie confermano i livelli di contaminazione negli anni successivi, ma la percentuale di piattaforme con problemi di contaminazione ambientale è sempre costantemente elevata.

tra i composti che superano con maggiore frequenza i valori definiti dagli Standard di Qualità Ambientale (o SQA, definiti nel DM 56/2009 e 260/2010) fanno parte alcuni metalli pesanti, principalmente cromo, nichel, piombo (e talvolta anche mercurio, cadmio e arsenico), e alcuni idrocarburi come fluorantene, benzo[b]fluorantene, benzo[k]fluorantene, benzo[a]pirene e la somma degli idrocarburi policiclici aromatici (IPA). Alcune tra queste sostanze sono cancerogene e in grado di risalire la catena alimentare raggiungendo così l’uomo e causando seri danni al nostro organismo.

per quanto riguarda i tessuti dei mitili i risultati mostrano che circa l’86% del totale dei campioni analizzati nel corso del triennio 2012-2014 superava il limite di concentrazione di mercurio identificato dagli SQA.

Per quel che riguarda gli altri metalli misurati nei tessuti dei mitili non esistono limiti specifici di legge che consentano una valutazione immediata dei livelli di contaminazione. Per verificare il possibile impatto ambientale delle attività offshore sull’accumulo di questi inquinanti è stato perciò effettuato un confronto con dati presenti nella letteratura scientifica specializzata. In particolare, si sono confrontati i livelli di concentrazione di queste sostanze nei mitili impiegati per i monitoraggi delle piattaforme con i livelli di concentrazione rilevati in altre aree dell’Adriatico, estranee alle attività di estrazione di idrocarburi. Per avere certezza di non sovrastimare i risultati di tale raffronto, sono stati utilizzati come termine di paragone i valori medi stagionali di concentrazione più alti riportati in questi studi.

I risultati mostrano che circa l’82% dei campioni di mitili raccolti nei pressi delle piattaforme presenta valori più alti di cadmio rispetto a quelli misurati nei campioni presenti in letteratura; altrettanto accade per il selenio (77% circa) e lo zinco (63% circa). Per bario, cromo e arsenico la percentuale di campioni con valori più alti era inferiore (37%, 27% e 18% rispettivamente).

Non mi sembra ci sia molto da commentare il problema c’è.

Non è l’unico problema ambientale; si sa almeno dagli anni 50 che la estrazione di acqua e di gas aggrava la subsidenza del suolo, fenomeno particolarmente delicato in certi contesti; il caso Ravenna è emblematico; almeno una parte dell’effetto di subsidenza di Ravenna dipende dall’estrazione antropica di gas metano da terra e da mare; i dati a riguardo quantificano il fenomeno abbastanza bene e il fenomeno in questione ha un costo economico non indifferente; (http://www.legambiente-ra.it/pdf/preti_ruggeri.pdf). L’effetto di subsidenza per la parte dovuta all’estrazioe di gas è tanto maggiore quanto maggiore è la vicinanza della zona di costa al sito di estrazione. Chi lo paga?

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Questione lavoro. Si sono levate molte voci che lamentano con alte strida che il referendum può dare la botta finale al settore, facendo saltare decine di migliaia o perfino centinaia di migliaia di posti di lavoro.

Ora a parte che il ricatto lavorativo è stato sempre usato in questi casi ma non ha impedito nè chiusure nè inquinamento nè problemi, in questo caso caso si tratta di una “palla”, una bufala.

Per fare un esempio di peso, negli USA il totale della manodopera impegata nel settore Oil e gas era alla fine del 2015 di 183.000 persone (di converso quella impiegata nel settore solare era di 210.000).

https://it.wikipedia.org/wiki/Ricerca_e_produzione_di_idrocarburi_in_Italia#Royalties

In val d’Agri dove si estrae il grosso del fossile italiano (attorno a 2/3) lavorano 4500 persone (3000 circa con ENI); Assomineraria parla di 13mila occupati nel settore estrattivo in tutta Italia (tra attività a terra e a mare, dentro e fuori le dodici miglia) e 5mila posti di lavoro a rischio con il referendum. Il ministro Galletti fa riferimento alla cifra di 10mila posti di lavoro in meno e  la Filctem Cgil sostiene che i lavoratori che rimarrebbero a casa sono 10 mila solo a Ravenna e in Sicilia. Le stime ufficiali riguardanti l’intero settore di estrazione di petrolio e gas in Italia (fonte Isfol -Ente pubblico di ricerca sui temi della formazione, delle politiche sociali e del lavoro) parlano invece di 9mila impiegati in tutta Italia e di un settore già in crisi da tempo, come abbiamo documentato nei precedenti post.

Dato che stiamo parlando di un sesto delle estrazioni italiane parliamo di un sesto dei 9-10.000 lavoratori totali, ossia di una riduzione attorno a 1500-2000 posti in dieci anni (150-200 in meno all’anno).

Posti specializzati è vero ma che si potrebbero tranquillamente recuperare semplicemente sviluppando il settore energetico “alternativo”; l’Italia non ha una catena produttiva degna di questo nome nè per eolico nè per fotovoltaico. Il governo non solo non ha una piano energetico adeguato a COP21, ma non ha nemmeno un progetto per sviluppare il settore delle rinnovabili degno di questo nome, ma le capacità tecnico imprenditoriali non mancano; abbiamo un produttore internazionale di silicio per esempio per FV, MEMC di Merano, abbiamo le competenze del FV a Catania; l’ENEA ha fatto esperimenti sul FV e possiede campi FV di studio da oltre trent’anni. Abbiamo almeno un paio di gruppi di ricerca attivi nel settore dell’eolico troposferico. Perchè queste competenze non vengono spinte?

Mi piacerebbe avere risposte, diverse da quelle che fa intravedere l’affaire Tempa Rossa. Mi piacerebbe capire perchè quando il governo ha cambiato d’improvviso le regole relative all’installazione del FV e alla remunerazione dell’energia prodotta, con un danno enorme per un settore che copriva a quel momento 100.000 persone nessuno dei soloni attuali ha profferito verbo.

L’anno scorso il totale delle partite economiche (tasse + royalties) relative ai fossili italiani è stato di circa 1 miliardo (a stare a sentire gli aedi del fossile come Prodi e i suoi boys: Clò, Tabarelli, etc.) di cui 350 milioni di royalties. Un sesto di questo corrisponde a 70 milioni di royalties e a 140 scarsi di tasse che si ridurrebbero (lo ripeto) in dieci anni (7+14 milioni in meno all’anno). Di converso se si cercano di stimare le cifre a favore dei fossili si trovano cose così:

246 milioni di euro in investimenti e finanziamenti da enti pubblici (The fossil fuel bailout: G20 subsidies for oil, gas and coal exploration di ODI): si tratta di aiuti erogati sotto forma di investimenti e finanziamenti da enti pubblici come Cassa Depositi e Prestiti (CDP) e Servizi Assicurativi del Commercio Estero (SACE). L’Italia,-secondo questo documento– ha contribuito con una media di 44 milioni di euro ai progetti esplorativi di combustibile fossile fra il 2010 e il 2013 attraverso i meccanismi la Banca Mondiale. A questi aiuti indiretti vanno aggiunti quelli più diretti legati alla riduzione dell’accisa sul gas naturale impiegato negli usi di cantiere, nei motori fissi e nelle operazioni di campo per la coltivazione di idrocarburi, pari a 300 mila euro nel 2015 e previsti in egual misura fino al 2018. 

Secondo queste stime il governo contribuisce annualmente alla sola ricerca di idrocarburi sul piano complessivo con 400 milioni di euro, più di quanto riceva in termini di royalties.

La questione è certamente complessa e questa eventuale piccola vittoria, se ci sarà, non cambierà i fatti grossi:

  • I fossili coprono il grosso delle nostre esigenze energetiche
  • Dobbiamo ridurne fortemente l’uso per motivi climatici (e anche ambientali) come spiegato nei primi post di questa serie
  • Non possiamo farlo in tempi brevissimi, ma dobbiamo cominciare e avere un piano serio che non abbiamo; il referendum del 17 aprile è un avviso e potrebbe costituire un piccolo passo su questa strada; si sarebbe potuto fare di meglio, ma al momento le cose stanno così. Si tenga presente (se si guarda all’origine del referendum) che esso non viene da un piano organico ma di fatto proviene dal conflitto di attribuzioni fra Regioni e Governo centrale.
  • Non sarà facile passare ad una società basata su una diversa conversione dell’energia primaria e necessiterà non solo di grandi investimenti economici, ma probabilmente di grandi cambiamenti sociali; la crescita quantitativa non potrà più essere l’obiettivo principe e la distribuzione ineguale della ricchezza non potrà più esserne il supporto chiave.

Ha scritto di recente Vincenzo Balzani rispondendo su Scienza in rete:

Il mancato apporto, quantitativamente marginale, delle nostre riserve di combustibili fossili non dovrebbe essere compensato da un aumento delle importazioni, bensì da una riduzione dei consumi. Ad esempio, mediante una più diffusa riqualificazione energetica degli edifici, la riduzione del limite di velocità sulle autostrade, incoraggiando i cittadini ad acquistare auto che consumino e inquinino meno, incentivando l’uso delle biciclette e dei mezzi pubblici, trasferendo gradualmente parte del trasporto merci dalla strada alla rotaia o a collegamenti marittimi e, soprattutto, mettendo in atto una campagna di informazione e formazione culturale, a partire dalle scuole, per mettere in luce i vantaggi della riduzione dei consumi individuali e collettivi e dello sviluppo delle fonti rinnovabili rispetto al consumo di combustibili fossili e ad una estesa trivellazione del territorio.

Sempre Vincenzo Balzani e Nicola Armaroli concludono il loro libro (Energy for a sustanaible world Wiley 2011):

“Per vivere nel terzo millenio abbiamo bisogno di paradigmi sociali ed economici innovativi e di nuovi modi di guardare ai problemi del mondo. Scienza, ma anche coscienza, responsabilità, compassione ed attenzione, devono essere alla base di una nuova società basata sulla conoscenza, la cui energia sia basata sulle energie rinnovabili, e che siamo chiamati a costruire nei prossimi trent’anni. L’alternativa, forse è solo la barbarie.”

 Utimo minuto

Su alcuni giornali e blog si legge che se il referendum passa e vince il SI non c’è problema perchè tornerebbe in vigore l’art.9 della legge 9 gennaio 1991 n. 9; chi sostiene questa cosa non ha capito che quella legge non è mai stata abolita o in discussione; invece la presente eventuale abrogazione della frase del comma 17 art. 6 della 152/2006 è molto specifica e limitata; il resto del comma 17 art 6 NON VIENE TOCCATO dall’abrogazione e NON consente la prosecuzione dell’estrazione DOPO la scadenza della concessione; la legge 9/1991 non fa differenza fra sotto e sopra le 12 miglia, è un testo generale e non si incrocia nè si nega con l’art. 6 comma 17; mi spiace per Tabarelli; per lui come per tutti i fossilari il futuro è nero come il carbone.

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E’ APERTA LA RACCOLTA DI FIRME PER LA PETIZIONE ALLA IUPAC per dare il nome Levio ad uno dei 4 nuovi elementi:FIRMATE!

https://www.change.org/p/international-union-of-pure-and-applied-chemistry-giving-name-levium-to-one-of-the-4-new-chemical-elements

Dall’armadio alla scatola: alcune considerazioni sulla storia della strumentazione scientifica

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Luigi Campanella, ex Presidente SCI

Eccetto che per la fabbricazione delle bilance, la produzione e il commercio degli strumenti scientifici ebbero origine da un’ampia gamma di altre attività, quali l’orologeria, la tornitura, l’incisione e la fusione. Nel Rinascimento, infatti, un ristretto gruppo di coloro che esercitavano queste arti si dedicò alla fabbricazione degli strumenti, dando così origine a una manifattura specializzata. Fu questo un processo lento e l’associazione tra la fabbricazione degli strumenti e l’orologeria e, più in generale, la meccanica di precisione proseguì ben oltre il XVIII sec., poiché con esse la fabbricazione degli strumenti condivideva tecniche e conoscenze.

Alla fine del XVI sec. troviamo un numero minore di artigiani che fabbricano strumenti e che nello stesso tempo costruiscono orologi o macchine per l’edilizia di quanti ve ne siano all’inizio del secolo. Questa evoluzione è interna alla logica di un’espansione dell’attività e riflette probabilmente anche un generale ampliamento delle specializzazioni delle funzioni nella matematica applicata. Poiché un commercio fiorente richiede una domanda stabile. Durante il Rinascimento, in tutta l’Europa, uno dei maggiori successi della fabbricazione degli strumenti è proprio dovuto alla crescita della domanda con la produzione di strumenti semistandardizzati e con l’innovazione delle competenze necessarie per sviluppare strumenti particolari per ordinativi speciali.

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Sebbene ci siano pervenute alcune testimonianze sulle quantità delle partite prodotte, come, per esempio, quelle relative alla fabbrica di astrolabi di Georg Hartmann a Norimberga, è probabile che nel XVI sec., in laboratori più piccoli di quelli di Hartmann, di Christoph Schissler il Giovane o ancora di Walter Arsenius, noti produttori e studiosi di strumentazione del tempo, le scorte disponibili fossero molto inferiori, e che anche gli strumenti prodotti in serie fossero fabbricati solamente su ordinazione. Certamente ciò accadeva per gli strumenti di alta qualità sia proponenti nuove soluzioni tecniche e quindi ideati da uno studioso e costruiti con la collaborazione di un artigiano, sia ideati per essere presentati a un principe o a un personaggio autorevole e che quindi dovevano essere, oltre che tecnici, anche di valore ornamentale, simile a quello dei prodotti dell’oreficeria.

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Probabilmente Tobias Volkmer o Erasmus Habermel, che lavoravano per le corti di Brunswick e di Praga, ricevevano un maggior numero di richieste di questo secondo genere rispetto agli artigiani occupati nelle attività commerciali di tutti i giorni. Poiché tutti quelli che costruivano strumenti di alta qualità potevano entrare in rapporto con la alta società, se tale qualità era abbinata ad un valore estetico si capisce come in un primo tempo l’aspetto fisico e la dimensione di uno strumento fossero una questione di estetica o di finalità espositiva o di appealing. E’ stato solo con l’Illuminismo che la dimensione è divenuta il prodotto di un’esigenza scientifica. Lo spazio era cioè condizionato dalle componenti tecniche dello strumento. Gli “armadi” sono stati per lunghi anni il prodotto di componenti strumentali a grande occupazione di spazio. Con la rivoluzione del transistor e poi dei circuiti integrati, dei computer e dei robot le dimensioni si sono ridotte consentendo di giungere alla fase di portabilità dello strumento scientifico, tanto preziosa, in quanto con l’analisi in situ è consentito di risparmiare ed ottimizzare le risorse, evitando trasferimenti di campioni, a volte anche molto ingombranti, in più con il pericolo che durante il trasferimento il campione si alteri rendendo inutili tutte le spese sostenute nella missione di campionamento.

Alla luce di queste considerazioni generali possiamo entrare più nello specifico con riferimenti alla nostra disciplina.

Nell’analisi chimica distinguiamo una prima fase storica, rappresentata dalla Gravimetria (basata sulla misura di massa) e dalla Volumetria (basata sulla misura di volume su cui si fonda la titrimetria), ed una seconda fase storica rappresentata dall’Analisi strumentale. Alla base di questa è una relazione matematica definita fra l’intensità di un segnale e la concentrazione o quantità di una certa specie.

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Antica apparecchiatura per la produzione di azoto

I tipi di segnale utilizzati sono molti e diversi (corrente, potenziale, resistenza (conducibilità), proprietà dielettriche, assorbimento e emissione di luce, variazione di massa, ionizzazione, energia (calore) emessa o assorbita, intensità di colore, ed altri ancora).Anche nell’analisi strumentale possiamo individuare momenti significativi di innovazione rappresentati,come già si è accennato, da altrettanti scoperte: transistor, circuiti integrati, tele comando a distanza, robotizzazione.

I vantaggi derivanti dalla innovazione acquisita sono stati molteplici:

  • Disponibilità di Strumenti portatili
  • Campioni ultramicro (massa dell’ordine dei 10 -100 mg ed anche meno)
  • Non distruttività e non invasività dell’analisi

Anche la didattica è stata influenzata da questi elementi di innovazione, siamo infatti passati dalla trasparenza dell’armadio cioè dalla strumentazione modulare e disaggregata visibile ad occhio nudo in ogni sua parte alla completa oscurità delle scatole “nere” rappresentate dalla maggior parte delle odierne strumentazioni. Si è così rinunciato a vedere come funziona uno strumento nascondendone il congegno, togliendo una preziosa opportunità didattica per comprendere i principi del metodo analitico corrispondente.La trasparenza non è sempre sinonimo di semplicità: si tratta di una caratteristica costruttiva che nel tempo si è persa in una sorta di filosofia dell’imperscrutabile considerata spesso un marchio di prestigio e di fascino. Oggi le “scatole nere” sono il modello prevalente. Gli strumenti antichi, quindi preziose testimonianze ed efficaci supporti didattici, sono stati spesso sacrificati per motivi di disponibilità di spazio.Ne consegue l’importanza delle raccolte di vecchie strumentazioni e della loro catalogazione ai fini dello scambio fra istituzioni didattiche e della possibilità di reperire particolari modelli strumentali ai fini storico-disciplinari.

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CRA-RPS 1871 Roma

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UniSi

Un percorso dall’”armadio” alla “scatola nera” passa attraverso innovazioni tecniche (si pensi al passaggio dallo Spettrografo al Quantometro allo Spettrometro al Plasma; si pensi al passaggio dal Potenziostato/ Amperostato al Multistat; si pensi a misure complesse come quelle del TOC (total organic carbon) e riduzioni dimensionali medie (volumetriche e lineari) da ˃1m3 (dimensione lineare dell’ordine 1m) nel tempo si è progressivamente passati a 0,12 m3 (dimensione lineare 50 cm),

a 0,03 m3 (dimensione lineare 25 cm), a 0,001m3 (dimensione lineare 10 cm) fino agli attuali Portatili.

Non si può prima di concludere non fare un’ulteriore considerazione quasi a segnalare un’inversione di tendenza. L’aspirazione a strumenti sempre più completi e quindi anche più complessi ha innescato un processo di progressiva espansione delle dimensioni medie degli strumenti forse in attesa di un nuovo “inscatolamento”.

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E’ APERTA LA RACCOLTA DI FIRME PER LA PETIZIONE ALLA IUPAC per dare il nome Levio ad uno dei 4 nuovi elementi:FIRMATE!

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