Friedrich Wöhler e gli albori della chimica organica di sintesi

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Rinaldo Cervellati

Quando facevo il professore di chimica fisica al secondo anno per CTF all’Università di Bologna, le prime due ore del corso le dedicavo a un breve percorso storico della scienza chimica[1] da Lavoisier all’ingresso della meccanica quantistica nella chimica. Affermavo che la nascita della chimica organica come disciplina separata dalla chimica generale e inorganica si poteva far risalire al 1828 con la sintesi di Wöhler del composto organico urea a partire da due composti inorganici, anidride carbonica e ammoniaca (CO2 + 2NH3 → CO(NH2)2 + H2O).

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Wohler giovane

In realtà le cose andarono in maniera diversa, anche se la sintesi dell’urea è proprio dovuta a Wöhler, prima come sottoprodotto dell’interconversione del cianato d’ammonio per reazione fra cianogeno e ammoniaca liquida, poi per azione dell’acido cianico sull’ammoniaca e anche per reazione fra soluzioni di cianato d’argento e cloruro di ammonio o cianato di piombo e ammoniaca. Tutto ciò è descritto in dettaglio, insieme alla caratterizzazione della sostanza ottenuta nell’articolo del 1828 [1]. C’è poi chi sostiene che il primo composto organico a essere sintetizzato non fu l’urea, bensì l’acido ossalico quattro anni prima sempre da Wöhler. L’articolo del 1828 infatti inizia così:

“In una breve comunicazione precedente, pubblicata nel Volume III degli [di questi] Annalen, ho affermato che dall’azione del cianogeno sull’ammoniaca liquida, oltre a numerosi altri prodotti, si ottengono acido ossalico e una sostanza bianca cristallizzabile, che non è certamente cianato di ammonio, ma che si ottiene sempre quando si cerca di preparare il cianato di ammonio combinando acido cianico con ammoniaca…. Il fatto che… queste sostanze sembrano cambiare la loro natura, e dare origine a un corpo diverso, ha attirato di nuovo la mia attenzione su questo argomento, e la ricerca ha dato il risultato inaspettato che dalla combinazione di acido cianico con ammoniaca si forma urea… un fatto notevole in quanto fornisce un esempio di produzione artificiale di una cosiddetta sostanza animale organica, a partire da materiali inorganici.” [1].

Va ricordato che al principio degli anni ’20 del XIX secolo era ancora dominante il vitalismo, teoria secondo la quale le sostanze organiche si distinguevano da quelle inorganiche perché esse potevano formarsi solo nelle piante e negli animali, in virtù di una forza vitale (la vis vitalis) posseduta solo dai viventi. Sicché il numero di composti organici noto all’epoca era limitato, perlopiù ricavati da prodotti vegetali. A J.J. Berzelius[2] si deve la denominazione “chimica organica” al posto di “chimica dei corpi organizzati”, ancora in uso nel primo decennio dell’800, nonostante ciò Berzelius fu fautore e sostenitore dell’ipotesi vitalista.

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J.J. Berzelius (1779-1848)

Il mito da sfatare è però quello per cui la chimica organica iniziò a svilupparsi (abbandonando il vitalismo) subito dopo il lavoro di Wöhler. Anzitutto, nonostante le evidenze riportate da Wölher, il fatto che il cianato d’ammonio abbia la stessa composizione percentuale elementare dell’urea lasciava adito a dubbi come pure l’origine totalmente inorganica delle sostanze reagenti. Riportiamo al proposito una brevissima biografia di Wölher.

Friedrich Wöhler (1800-1882) si appassionò alla chimica quando era ancora studente di medicina, in un laboratorio improvvisato e senza una guida intraprese una sperimentazione sui derivati del cianogeno, riuscendo a ottenere, indipendentemente da Davy, lo ioduro di cianogeno e il solfocianato di mercurio. Nel 1823 terminò con successo gli studi di medicina all’Università di Heidelberg. Qui, per il suo interesse alla chimica, fu notato da L. Gmelin[3] che lo raccomandò a Berzelius. Wölher si recò quindi da Berzelius a Stoccolma e lavorò per un anno sotto la guida del Maestro di cui subì il fascino. Tornato in Germania, lavorò per molti anni a Berlino poi a Kassel infine, nel 1836, fu chiamato alla Cattedra di Chimica dell’Università di Göttingen, dove restò fino alla morte. Tuttavia le ricerche di Wölher furono orientate più che alla chimica organica a quella inorganica, ottenne l’alluminio, il boro e il silicio grafitoide. [2, p. 176]

Se la seguente frase attribuita a Wöhler e diretta a Berzelius:

“Non posso, per così dire, tenere acqua in bocca e devo dirvi che posso ottenere urea senza bisogno di reni, o comunque, di qualsiasi altra parte animale, sia essa umana o di cane” https://en.wikipedia.org/wiki/W%C3%B6hler_synthesis

trovasse un riscontro bibliografico certo, dovremmo dire che Wöhler era ben consapevole dell’importanza della sua scoperta, ritenuta da molti “accidentale”[4].

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Anche il suo contemporaneo, Justus Liebig[5] non abbandonò subito il vitalismo, la cui decaduta iniziò solo fra il 1843 e il 1845 con i lavori di Hermann Kolbe[6] sulla reazione fra solfuro di carbonio e cloro. In diverse tappe, da questi reagenti Kolbe ottenne acido acetico. In effetti la reazione di Kolbe è il primo esempio di sintesi totale di un composto organico.

Kolbe

A.W.H. Kolbe (1818-1884)

La fase finale della reazione è:

Cl2C=CCl2 + 2H2O + Cl2 → 3HCl + Cl3C-COOH → CH3COOH

Ma il tetracloroetilene si ottiene dal tetracloruro di carbonio, il quale a sua volta si forma per alogenazione del solfuro di carbonio e quest’ultimo si può preparare per combinazione diretta degli elementi [2, p.178]. Questa è una dimostrazione inequivocabile che un composto organico può essere ottenuto dai suoi elementi costitutivi senza l’intermediazione di un organismo vivente. Gli anni successivi al 1845 videro il crollo definitivo del vitalismo e, come tutti sanno, furono sintetizzate moltissime sostanze organiche anche non contenute nei viventi. Nel 1859 A.F. Kekulé[7] poté affermare: “Noi definiamo chimica organica la chimica dei composti del Carbonio” [3].

A tutt’oggi i composti organici noti sono più di 10 milioni e il loro numero continua ad aumentare grazie al lavoro dei chimici organici sintetisti che, lasciatemelo dire, sono rimasti veri chimici, lavorano in laboratorio usando le mani e la vetreria oltre che la testa.

Riferimenti

[1] F. Wöhler, “Ueber künstliche Bildung des Harnstoffs”, Annalen der Physik und Chemie, 8, 253–256, (1828); Engl. Trad: On the Artificial Production of Urea, http://www.chemteam.info/Chem-History/Wohler-article.html

[2] M. Giua, Storia della Chimica. Dall’alchimia alle dottrine moderne, Chiantore, Torino, 1946.

[3] citazione da: J.I. Solov’ev, L’Evoluzione del Pensiero Chimico. Dal ‘600 ai giorni nostri. EST, Edizioni Scientifiche e Tecniche Mondadori, Milano, 1976, p.191.

[1] Il grande filosofo Immanuel Kant (1724-1804) riferendosi alla scienza come descrizione della realtà “così come la vedono tutti gli esseri umani”, non inserisce la chimica fra le Scienze della Natura nella prima edizione (1781) di “Critica della Ragion Pura” (per Kant la matematica è la base di tutte le scienze). La inserisce però nella seconda edizione (1787) specificando tuttavia “la chimica di Lavoisier”.

[2] Jöns Jacob Berzelius (1779 – 1848), chimico svedese, considerato uno dei fondatori della chimica moderna, fu autorità pressoché indiscussa in chimica per quasi tutto il XIX secolo.

[3] Leopold Gmelin (1788-1853), professore di chimica e medicina all’Università di Heidelberg, scoprì il ferrocianuro di potassio, introdusse il saggio per la bile nelle urine (test di Gmelin), autore del ponderoso trattato Handbuch der Chemie.

[4] Non sono uno storico ma mi sento di dissentire da questa interpretazione dell’accidentalità. Un’attenta lettura del lavoro di Wöhler mostra che egli stava attentamente studiando fin dal 1814 questa strana sostanza cristallina che si formava in tante reazioni con composti contenenti il gruppo CN.

[5] Justus Freiherr von Liebig (1803–1873), chimico tedesco, il cui nome è conosciuto dal grande pubblico per i “dadi da brodo”, è considerato fra i fondatori della chimica organica. Contribuì allo sviluppo della chimica agraria e biologica. Fu amico di Wölher, insieme a Poggendorf scrissero l’Handwörterbuch der reiner und angewandten chemie.Annalen

Nel 1838 affermarono: “La produzione di tutte le sostanze organiche non appartiene solo agli organismi viventi. Deve essere visto come non solo probabile, ma certo, che saremo in grado di produrle nei nostri laboratori… Naturalmente, non si sa ancora come farlo, perché non conosciamo ancora i precursori da cui nascono queste sostanze. Ma sta a noi scoprirlo.”

[6] Adolph Wilhelm Hermann Kolbe (1818 – 1884), chimico tedesco ha dato contributi fondamentali alla nascita della chimica organica moderna. Abile sperimentatore e grande teorico, coniò il termine “sintesi”, molte sintesi portano ancora il suo nome.

[7] Friedrich August Kekulé (Friedrich August Kekule von Stradonitz, 1829-1896), tedesco, è stato uno dei più importanti chimici organici del XIX secolo, noto soprattutto per i contributi teorici, in particolare la struttura esagonale del benzene e derivati.

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E’ APERTA LA RACCOLTA DI FIRME PER LA PETIZIONE ALLA IUPAC per dare il nome Levio ad uno dei 4 nuovi elementi:FIRMATE!

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La chimica ha un lato oscuro?

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Luciano Celi*

s200_luciano.celiCi si chiede talvolta il motivo per cui certe discipline scientifiche abbiano un’immagine pubblica così negativa. Se si pensa alla Chimica, e soprattutto al suo utilizzo come aggettivo (“questo è chimico”), lo si trova in netto contrasto con ciò che è naturale e “biologico”, quando si parla di cibo e magari di conservanti. Oppure, per trasposizione – sempre in un confronto tra naturale e artificiale – negli oggetti, per indicare un oggetto di scarso valore si dice “è di plastica” (talvolta usando il dispregiativo “plasticaccia”), un materiale meno nobile di quanto lo siano altri (legno, alluminio), ma, lo sappiamo, insostituibile e praticissimo, senza la quale probabilmente l’80-90% degli oggetti che abbiamo intorno a noi semplicemente non esisterebbero.

Eppure la Chimica ci racconta meglio di tante altre discipline com’è fatto il mondo in cui viviamo e quindi è forse utile una distinzione, pur banale, tra la teoria e la pratica, per indicare cos’è che contribuisce così pesantemente alla sua immagine negativa.

Nel nostro Paese senz’altro non è difficile pensare a quel che in molte parti della penisola è accaduto, complice una scarsa – quando non nulla – legislazione a tutela delle persone e dell’ambiente, almeno fino agli anni ’70 del secolo scorso. I nomi sono noti a tutti, ma vale la pena ripercorrere una di queste storie. Storie la cui importanza è stata tale che adesso hanno, in certi fortunati casi, un riverbero culturale, a partire da quel fortunato filone teatrale inaugurato da Marco Paolini con le sue “orazioni civili” (ricordate la storia del Vajont?).

Il caso più eclatante è forse quello dell’Acna di Cengio, con una storia centennale, messa in scena con l’orazione civile curata da Alessandro Hellmann e Andrea Pierdicca (Il fiume rubato, a questo indirizzo il promo: https://www.youtube.com/watch?v=aIUuL4DSs4s), tratto da libro scritto dallo stesso Hellmann (Cent’anni di veleno, http://www.stampalternativa.it/libri/88-7226-894-x/alessandro-hellmann/cent-anni-di-veleno.html). L’inquinamento, connesso al fiume Bormida, fu di tale entità e portata che non sfuggì, seppure en passant, alla penna attenta di Beppe Fenoglio, scrittore resistenziale, ma non solo, che proprio in un bel raccoBeppe_Fenoglio_croppednto non resistenziale, ambientato sull’Alta Langa, Un giorno di fuoco, fa dire al suo protagonista in una battuta: «Hai mai visto il Bormida? Ha l’acqua color sangue raggrumato perché porta via i rifiuti delle fabbriche di Cengio e sulle sue rive non cresce più un filo d’erba. Un’acqua più porca e avvelenata che ti mette freddo». Acqua come sangue raggrumato che è metafora potente di quel sangue, purtroppo reale, che è uscito per anni assieme alle urine degli operai della fabbrica, primo segnale di una morte imminente e ineluttabile.

La presa di coscienza della popolazione, proprio a partire da quella che dentro le fabbriche chimiche ha lavorato in quegli anni, fu forte. Leggi e regolamentazioni sono venute dopo; una vera “consapevolezza del rischio” è arrivata dal basso, con la decimazione di molte sono morte di cancro, o del “male cattivo”, come si diceva una volta.

Così «a partire dal 1968, con le lotte operaie, cominciò anche a crescere […] una contestazione ecologica operaia attraverso lotte in fabbrica per il miglioramento delle condizioni di lavoro […]. Si trattava di battersi contro le nocività dell’ambiente “all’interno” delle fabbriche […]. Varie attività produttive avevano avuto – in qualche caso per decenni – effetti gravi sulla salute dei lavoratori. Si possono citare gli esempi dell’avvelenamento dei lavoratori dell’amianto della miniera di Balangero in Piemonte, o delle operaie dello stabilimento (entrato in funzione nel 1857) di filature e tessitura dell’amianto di Grugliasco, vicino a Torino; dell’intossicazione e degli incidenti alla fabbrica di piombo tetraetile SLOI di Trento, alle fabbriche di coloranti, i danni ai lavoratori del petrolchimico di Marghera e alle fabbriche di cloruro di vinile»[1].

L’elenco, come detto, potrebbe essere lungo, come lunghe spesso sono queste situazioni al limite della follia (si pensi alla sentenza sulla fabbrica di amianto a Casale Monferrato), centrate invariabilmente sul ricatto occupazionale e su lotte che in certi casi, come quello Massa-Carrara in occasione dell’ennesimo (e definitivo – nel senso che decretò la chiusura della fabbrica) scoppio della Farmoplant, sono sfociati in una specie di rivolta popolare, garantendo alla zona apuo-versiliese il più alto tasso di tumori al seno femminili della penisola e una serie di disfunzioni croniche alla tiroide, sempre nelle donne.

Una grande lacuna legislativa fino ad anni relativamente recenti e il profitto a ogni costo, soprattutto sociale, sono di fatto le cause che hanno fatto del nostro paese un luogo deputato ai disastri ambientali, come racconta, almeno in parte, l’agile libro della ricercatrice del Cnr Gabriella Corona, Breve storia dell’ambiente in Italia, appena uscita per i tipi de “Il Mulino”.

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«All’inizio del ‘900 il 20% delle industrie italiane era considerato insalubre e la percezione è sicuramente sottostimata. Lo smaltimento di fumi e fluidi tossici avveniva confidando nell’auto-depurazione dell’aria o nella diluizione dell’acqua, inoltre si riteneva che una barriera fisica come un muro, una ciminiera o un pozzo bastasse per mettere in sicurezza scarti nocivi e tossici», dice la ricercatrice del Cnr, e aggiunge: «La sottovalutazione proseguì al punto che nel 1999 si individuarono 57 siti inquinati di interesse nazionale, soprattutto ex aree industriali come Porto Marghera, Gela, Taranto o Orbetello».

Tutto questo ha contribuito senz’altro alla cattiva immagine della Chimica. Che in realtà è il lato oscuro degli uomini che l’hanno gestita a livello di produzione industriale.

Riferimenti.

[1] Giorgio Nebbia, La contestazione ecologica. Storia, cronache e narrazioni, La scuola di Pitagora editrice, pp. 95-96.

*Luciano Celi (1970) dopo la laurea in Filosofia della Scienza all’Università di Pisa, ha conseguito un primo master in Comunicazione della Scienza alla Sissa di Trieste (a.a. 2002-2004) e un secondo master in Tecnologie Internet al Dipartimento di Ingegneria Informatica all’Università di Pisa (a.a. 2012). Attualmente è in congedo dal CNR, dove lavora nell’ambito della divulgazione scientifica, per il dottorato che sta svolgendo presso il Dicam (Dipartimento di Ingegneria Civile, Ambientale e Meccanica) dell’Università di Trento, con un progetto sull’Energetica. Ha fondato la casa editrice Lu::Ce.

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E’ APERTA LA RACCOLTA DI FIRME PER LA PETIZIONE ALLA IUPAC per dare il nome Levio ad uno dei 4 nuovi elementi:FIRMATE!

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Dai quadrati magici alla topologia molecolare. Parte 2. Cayley e Sylvester.

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Claudio della Volpe

Nella prima parte di questo post abbiamo introdotto i quadrati magici, entità a metà strada fra matematica e magia e antesignani di oggetti matematici molto complessi come le matrici e ancor più di altri oggetti apparentemente distanti come i grafi.

Nella storia della scienza è relativamente comune trovare dei concetti che si fanno strada con enorme lentezza, che per secoli giacciono in quello che potremmo definire l’inconscio conoscitivo umano e che poi di botto, in pochi decenni, acquistano un ruolo …..determinante; e mai aggettivo fu più adeguato trattandosi di matrici (e grafi).

Di più il punto di vista che definirei eurocentrico vede l’origine della cultura nel mondo e nelle tradizioni europee e quindi Grecia e mondo mediterraneo; ma la Terra, per quanto minuscola nell’Universo, è sufficientemente grande da aver ospitato altre culture e altri punti di vista; Cina e India in particolare, vantano una tradizione culturale che non ha nulla da invidiare alla “nostra”, a sua volta, non dimentichiamolo mai, specie oggi, in presenza di tensioni antiarabe notevoli, intesa come summa di quella mediterranea e medio-orientale e solo nei secoli recenti nordeuropea.

(E’ strano come mentre la percentuale dell’umanità “nordica”, anglosassone, tedesca, slava, o perfino padana vada riducendosi a meno di un quarto, la sua boria culturale e politica cresca in modo inversamente proporzionale.)

quad215Se riguardate il quadrato Lo-Shu, troverete proprio questa coesistenza apparentemente incomprensibile, ma in effetti come vedremo pregna di significati fra matrici e grafi.

C’è un altro testo cinese che probabilmente è l’antesignano delle matrici, lo Jiuzhang suanshu o 九章算术 Nove capitoli dell’arte matematica (SHEN Kangshen “The Nine Chapters on the Mathematical Art” Oxford 1999. ISBN 0-19-853936-3).

Si tratta di un testo composto nell’intervallo dal X al II secolo aC da molti diversi studiosi e basato sull’enunciazione e soluzione commentata di problemi specifici.

“Ci sono tre tipi di cereali, tre contenitori del primo, 2 del secondo e uno del terzo corrispondono a 39 misure. 2 del primo, 3 del secondo e uno del terzo ne fanno 34. E uno del primo, 2 del secondo e tre del terzo ne fanno 26. Quante misure di cereale sono contenute in ciascun contenitore di ciascun tipo.

Qui l’autore fa qualcosa di molto interessante. Egli scrive i coefficienti di un sistema di tre equazioni lineari in tre incognite sotto forma di una tavola su una lavagnetta per fare i conti.

1   2   3
2   3   2
3   1   1
26 34 39

Noi faremmo una cosa identica ma useremmo le righe invece delle colonne, ma di fatto non c’è differenza.

quad23

Una pagina di “Nove capitoli dell’arte matematica”

L’autore che, non dimentichiamolo, scrive almeno nel 200aC istruisce il lettore sulla procedura: moltiplicare la colonna di mezzo per 3 e sottrarre quella di destra quante volte è possibile; in secondo luogo sottrarre la colonna di destra quante volte si può dalla prima. Il risultato parziale è

0   0   3
4   5   2
8   1   1
39 24 39

Successivamente la colonna di sinistra è moltiplicata per 5 sottraendovi quella di centro quante volte è possibile. Risultato finale:

0   0   3
0   5   2
36   1   1
99 24 39

che corrisponde alla soluzione per il terzo tipo di cereale, noi diremmo z=99/36 o 33/12. Per retrosostituzione si possono ottenere gli altri due valori: il primo, x, è 111/12 e il secondo , y= 51/12. Questo metodo riscoperto da Gauss molti secoli dopo si chiama oggi metodo di eliminazione di Gauss, ma forse sarebbe meglio chiamarlo “cinese” o di Jiuzhang suanshu e consiste nel rendere nulli tutti gli elementi della matrice sotto (scrivendo alla cinese sopra) la diagonale principale o metodo di triangolazione

Si tratta di una delle prime applicazioni conosciute di queste tabelle di numeri che oggi chiamiamo matrici e a cui affidiamo una quantità inverosimile di applicazioni. La chimica non è stata fra le prime a trarne giovamento, ma la storia che vi racconto oggi vi farà vedere come di fatto chi ha studiato questi argomenti ha visto nella chimica una possibile applicazione e lo ha fatto intuitivamente, certo non perchè conosceva la Meccanica Quantistica.

Per noi è oggi normale usare le formule chimiche sotto forma di grafo, ossia di un insieme di linee e punti connessi; ad ogni punto diamo un nome che è l’elemento corrispondente, ma questo tipo di rappresentazione non si è sviluppata subito e non si è sviluppata in modo lineare; nel suo sviluppo hanno avuto un notevole ruolo i matematici che si occupavano di geometria ed algebra e molti, moltissimi chimici e matematici attualmente dimenticati dalla storia della chimica.

quad24

Grafo (non orientato) con 6 nodi e 5 archi

Il concetto di grafo era stato (re)-inventato da Eulero per affrontare il problema dei ponti di Königsberg; era possibile attraversare con un unico cammino i sette ponti senza tornare sui proprii passi? La risposta è no.

quad25Da quando nel 1786 Kant scrisse ne “I principi metafisici della scienza della natura” che “ogni branca delle scienze naturali contiene solo tanta scienza reale quanto il suo contenuto matematico” arrivando quindi alla inevitabile conclusione che “la chimica deve definitivamente rimanere esclusa dalle discipline conosciute come scienze naturali è passata molta acqua sotto i ponti. Ma come la chimica e la matematica hanno fatto pace? Anzi come la matematica è diventata dominante? Beh vedremo che la scelta di usare i grafi come simbolo chimico ha avuto una parte …..determinante.

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Figure da Journal of Molecular Structure (Z’heochem), 185 (1989) 1-14.

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quad28

una pagina del lavoro di Crum Brown 1861 (ma pubblicato solo nel 1879 a causa delle “adverse opinions”) e che propose l’uso delle moderne formule chimiche, i grafi chimici, senza però sospettarne le proprietà matematiche.

Crum Brown 1861

Il secondo lavoro che cito oggi è parte delle opere complete di J.J. Silvester (The collected mathematical papers of J.J. Sylvester F.R.S., D.C.L., LL.D., Sc.D., Honorary Fellow of St John’s College, Cambridge; Sometime Professor at University College, London; at the University of Virginia; at the Royal Military Academy, Woolwich; at the Johns Hopkins University, Baltimore and Savilian Professor in the University of Oxford); il lavoro è comparso su Am. J. of Mathematics nel 1878 e ha titolo:

“On the application of the new atomic theory to the graphical representation of the invariants and covariants of binary quantics”.

L’autore dichiara subito: “Per nuova teoria atomica, intendo l’invezione sublime di Kekulè che sta al vecchio (corsivo dell’autore) nella medesima relazione dell’astronomia di Keplero con quella di Tolomeo o come il Sistema della Natura di Darwin sta a quello di Linneo”

La posizione di Kekulè (il quale era molto interessato all’architettura, almeno inizialmente) era stata espressa nel 1858, quasi 20 anni prima; qui occorrerebbe fare un distinguo su altri scienziati che hanno svolto un ruolo importante ma che sono stati sostanzialmente trascurati dalla storia della chimica; per esempio Butlerov;quad29 sul ruolo concettuale svolto da Butlerov, uno scienziato che era anche un marxista militante, c’è un interessante articolo su JCE del 1971 che varrebbe la pena di riconsiderare (D.F. Larder e F.F. Kluge Alexander Mikhailovich Butlerov’s Theory of Chemical Structure Volume 48, Number 5, May 1971 / 287). La sua presentazione ‘‘Einiges über die chemische Structur der Körper’’ fu pubblicata da Butlerov in Zeitschrift für Chemie und Pharmacie 4,549(1861). In questo articolo Butlerov introdusse per la prima volta il termine ‘‘struttura chimica,’’ sottolineando il punto che ciascun composto ha una ed una sola struttura.

Ma i due matematici di cui vorrei parlarvi oggi sono appunto Cayley e Sylvester, entrambi inglesi entrambi appassionati di chimica, entrambi obbligati dai casi della vita a non occuparsi professionalmente di matematica per molti anni;

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Arthur Cayley,1821-1895 matematico e avvocato per 14 anni, che però pubblicò quasi 1000 articoli di matematica.

Cayley perchè la sua famiglia voleva assolutamente che facesse l’avvocato, cosa che egli fece per molti anni scrivendo nel contempo oltre trecento lavori di matematica e Sylvester perchè essendo ebreo gli fu di fatto impedito (avrebbe dovuto giurare il falso, perchè i laureati di Cambridge dovevano accettare i 39 articoli della Chiesa d’Inghilterra) di completare gli studi a Cambridge; fu comunque chiamato ad insegnare matematica in una università americana, ma dopo poco tempo ritornò in Europa poichè era contrario allo schiavismo; fece il contabile per molti anni e solo a 61 anni riuscì finalmente a diventare professore di matematica all’Università del Maryland, la John Hopkins.

quad211

J.J. Sylvester, 1814-1897 matematico, antischiavista

Cosa hanno fatto Cayley e Sylvester? In generale i loro contributi tecnici all’algebra hanno permesso il successivo sviluppo dell’algebra delle matrici su cui è fondata la chimica moderna; ma essi hanno fatto molto di più.

Come racconta Rouvray nel suo articolo, Cayley fu il primo ad impiegare funzioni matematiche generatrici per la generazione della struttura di isomeri. In un lavoro del 1857 Cayley sviluppa delle funzioni per enumerare i grafi ad albero con una radice, ossia grafi non ciclici in cui uno degli elementi sia indicato in modo specifico: questa è una descrizione perfetta in termini algebrici di un comune radicale alchilico non ciclico di qualunque lunghezza.

quad212

Figura da Journal of Molecular Structure (Z’heochem), 185 (1989) 1-14.

Usando questa medesima funzione egli riuscì nel 1874 ad enumerare i grafi ad albero che corrispondono alle molecole di alcano, riuscendo a prevedere quanti isomeri si possono ottenere di un alcano fino a 13 atomi di carbonio; in effetti sbagliò di qualche unità. Nel 1875 pubblicò un altro lavoro nel quale ripeteva l’analisi per atomi con massima valenza 4, 3 e 2 (gli “alberi del boro” e dell’”ossigeno”).

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Tabella da Journal of Molecular Structure (Z’heochem), 185 (1989) 1-14. fra parentesi quadra il numero corretto.

I kenogrammi come li chiamava Cayley furono gli antesignani delle moderne rappresentazioni delle molecole di idrocarburi complessi.

J.J. Sylvester e Cayley furono amici e certamente si scambiarono opinioni sul problema del rapporto fra chimica e matematica.

Nei due lavori dedicati alla chimica fra i quasi 350 che Sylvester scrisse si evince quali siano le opinioni di Sylvester.

Nel breve articolo del 1878 “Chemistry and algebra”, su Nature, giornale che non aveva allora il ruolo che ha adesso, Sylvester informa i lettori di varie cose interessanti; richiama la teoria di Kekulè, che però è puramente chimica e non ha legami con la matematica, informa del primo numero di un nuovo giornale di matematica, segno del crescente ed esplosivo interesse nello sviluppo di giornali scientifici, di cui Sylvester stesso fu un importante sostenitore ed editore (in particolare American Journal of Pure and Applied Mathematics) ed infine del suo lavoro sul tema, una cui illustrazione vedete qui sotto.

Sylvester sottolinea ripetutamente i molti paralleli e contatti fra chimica e algebra e che questi contatti possano essere cercati e trovati sviluppando un opportuno formalismo matematico.

Egli fa uso per la prima volta del termine grafo chimico (chemicograph) e del termine grafo, cercando di presentare una comune notazione grafica basata sul suo lavoro sulla teoria degli invarianti. La parola grafo nel suo significato moderno, dice Rouvray, è quindi figlia esplicita del tentativo di saldare chimica ed algebra, ma credo che nessun matematico e nessun chimico lo sospetti.

Sylvester basa i suoi ragionamenti sul principio elementare della sostituzione atomica che stabilisce che in ciascuna molecola m atomi n-valenti possono essere sostituiti n atomi m-valenti. Questa idea semplice e non certo esattissima, ma comunque valida sia pure in modo approssimato e in certi ambiti lo portò a considerare che tutte le formule di struttura potessero essere rappresentate in termini di invarianti matematici di binari quantici.

Un quantico binario è una espressione polinomiale algebraica in due variabili, che è omogenea se la somma degli esponenti delle variabili è costante per tutti i termini dell’espressione

Tipicamente un polinomio del tipo:quad216mentre una invariante di tale espressione sarebbe una funzione dei coefficienti da k1 a kq che rimane costante per alcune trasformazioni delle variabili. Le trasformazioni immaginate da Sylvester erano tali che le invarianti rimanessero costanti per le sostituzioni del tipo considerato nel principio elementare prima enunciato; esempi delle trasformazioni sono mostrati nella figura seguente, tratta dal lavoro originale.

quad214E’ ora chiaro che nonostante alcune superficiali rassomiglianze fra le invarianti di Sylvester e i grafi chimici che esse caratterizzano e nonostante la nozione di corrispondenza o perfino di isomorfismo fra i grafi chimici e le invarianti sia esatta non ci sono conseguenze immediatamente utili. Tuttavia tale concetto è stato usato in letteratura recente (si veda D.H. Rouvray, J. Comput. Chem., 8 (1987) 470)

Ma quello che rimane utile delle idee di Sylvester è più importante di questo limite; Sylvester scrive [ J.J. Sylvester, Am. J. Math., 1 (1878) 64]: “Chemical graphs for the present are to be regarded as mere translations into geometrical forms of trains of priorities and sequences having their proper habitat in the sphere of order and existing quite outside the world of space”. E più avanti “c’è un tesoro inespresso di potenziale ricchezza algebrica accumulato nei risultati ottenuti dal lungo e paziente lavoro dei nostri colleghi chimici

E questo è certamente vero; occorreva solo trovare la giusta corrispondenza.

Questi sono stati i pionieri dell’esplorazione del chemical space (da noi discusso di recente), coloro che traverso le infinità della matematica ne hanno intravisto i lontanissimi contorni.

Nel prossimo post analizzeremo i passi che hanno preceduto la moderna mathematical chemistry e il tipo di corrispondenza finalmente trovata da un altro pioniere, Harry Wiener.

Referenze.

Dedicato alla vita di Harry Wiener. Topology in Chemistry:Discrete Mathematics of Molecule, H. Rouvray and R. B. King, Editors Horwood PublishingLimited 2003

https://ia902205.us.archive.org/7/items/lecturenotesfor08frangoog/lecturenotesfor08frangoog.pdf

Journal of Molecular Structure (Z’heochem), 185 (1989) 1-14 D.H. ROUVRAY The pioneering  contribution of Cayley and Sylvester to the mathematical description of chemical structure

J.J. Sylvester Nature, 1878 p284 Chemistry and algebra (scaricato da Sci-Hub usando il doi; è una vergogna che dopo 138 anni questo lavoro sia ancora proprietà di qualcuno!!come si giustifica Nature?)

Cayley Phil. Mag. 13(1857), 172

Cayley Phil. Mag. 47(1874), 444

Cayley, Rept. Brit. Assoc. Adv. Sci. 257 (1875)

Dennis Rouvray’s “The Origins of Chemical Graph Theory” ( Mathematical Chemistry 1(1991), 1-39).

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E’ APERTA LA RACCOLTA DI FIRME PER LA PETIZIONE ALLA IUPAC per dare il nome Levio ad uno dei 4 nuovi elementi:FIRMATE!

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Primo Levi: “Io che vi parlo”. Recensione.

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Mauro Icardi

“Primo Levi io che vi parlo. Conversazione con Giovanni Tesio” è un libro recentemente uscito per la casa editrice Einaudi nella collana super ET. Il libro riporta le conversazioni che Giovanni Tesio registrò nella casa di Corso Re Umberto 75 a Torino, dove il chimico-scrittore trascorse praticamente tutta la sua vita dopo il rientro dalla deportazione.

Si tratta di due conversazioni registrate il 17 e 26 Gennaio e una il successivo 8 Febbraio del 1987. Sarebbero dovute servire per la scrittura di una biografia autorizzata. Che non si realizzò a causa della morte dello scrittore nell’Aprile dello stesso anno.

La lettura è certamente consigliata. Mostra aspetti dello scrittore torinese che non erano ancora completamente conosciuti o svelati. Allo stesso tempo conferma l’immagine che nei suoi libri  Levi ha dato di sé. Soprattutto degli anni della giovinezza e dell’adolescenza, anni nei quali la timidezza lo rende estremamente  impacciato soprattutto nelle relazioni con le ragazze sue coetanee, compagne di ginnasio o dell’università.

io che vi parlo

Levi parla di questo, svela anche le difficoltà nei rapporti con il padre, di carattere decisamente opposto, un bon vivant come lui stesso lo definisce e lo ricorda.

Racconta di essere sempre stato un’instancabile curioso, curioso di tutto, e di come questa curiosità lo porterà a studiare chimica che gli sembra essere la chiave migliore per le risposte che cerca. La inizia a studiare grazie ai libri che il padre, accanito lettore come lui, gli procura. Conduce esperimenti elementari con i materiali che trova in casa, per esempio la cristallizzazione di sali. Pone domande maliziose alla sua insegnante di scienze al ginnasio, per coglierla in fallo perché conosce già la chimica meglio di lei.

Nel libro si approfondiscono alcuni aspetti di  temi che troviamo in altri suoi libri, in particolare ne “Il sistema periodico” e altri episodi totalmente nuovi.

Primo_Levi

La realizzazione della a sua tesi di laurea con le difficoltà dovute alla sua condizione di ebreo, in un Italia dove erano state promulgate le leggi razziali.  Il tentativo di iniziare l’attività di produzione di soluzioni titolate insieme all’amico Alberto Salmoni  subito dopo aver conseguito la laurea, utilizzando un locale del vecchio mattatoio di Torino messo a disposizione dal padre di Alberto, che nel “Sistema periodico” non viene narrata.

Alberto Salmoni è il personaggio che nel  racconto “Stagno” viene chiamato Emilio, con cui Levi tenterà per poco tempo la strada della libera professione di chimico, prima di venire assunto nella fabbrica di smalti per fili elettrici in cui lavorerà fino al pensionamento.

Nel libro ci sono molte altre cose che Levi racconta, anche relative al suo ruolo di direttore tecnico alla Siva. Ne esce un ritratto completo con aspetti nuovi e poco conosciuti.  Si comprendono meglio anche cose molto intime che Levi fatica a elaborare a più di quarant’anni di distanza, come per esempio la scomparsa di Vanda Maestro, la donna con cui venne catturato durante la breve e sfortunata esperienza di partigiano, e che da Auschwitz non ritornò. E il particolare legame che aveva con lei.

Da notare anche la particolare  attenzione con cui Giovanni Tesio pone le domande, facendo attenzione e non risultando mai troppo invadente, cosa che permette a Levi di parlare con naturalezza.

Il libro si legge quasi d’un fiato. Una lettura a cui non si può rinunciare se si  apprezza  questo scrittore che si definiva un centauro per via della sua dualità. Un chimico ed uno scrittore.

Anzi un chimico-scrittore dove il trattino che separa i due sostantivi ci ricorda i legami tra gli atomi in una molecola nelle rappresentazioni che ci sono note.

Chiudo con una mia piccola opinione molto personale. Forse il più grande scrittore del novecento.

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Gilbert Newton Lewis (1875-1946), un premio Nobel mancato? Parte 2*

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

(la prima parte di questo post è pubblicata qui)

a cura di Rinaldo Cervellati*.

in occasione del Centenario dell’articolo “The Atom and the Molecule

Uno dei successi più duraturi di Gilbert N. Lewis, oltre ai concetti di attività e fugacità, è stato quello del legame chimico come condivisione di una coppia di elettroni fra due atomi. Le strutture a punti (“strutture di Lewis”) sono ancora descritte in tutti testi elementari di chimica e le conseguenze del concetto di condivisione sono state di fondamentale importanza nello sviluppo della teoria del legame chimico. Ma andiamo con ordine.

Lewis iniziò a interessarsi di struttura atomica fin dal 1902, come si desume dai suoi appunti di lezione dove usava una rappresentazione “cubica” degli atomi (Fig. 1.)LewisNotes1902

Figura 1

Nel 1916 pubblicò sul Journal of the American Chemical Society il lungo articolo “The atom and the molecule” [1], destinato a diventare una pietra miliare nella storia della teoria del legame.

Lewis propone una rivisitazione della sua teoria dell’atomo cubico che tiene conto della “regola di Abegg” secondo la quale la somma della valenza massima negativa e quella massima positiva è frequentemente otto e comunque mai più di otto[1]. Ai vertici dei cubi non vi sono più semplici cerchietti (come nei disegni del 1902), bensì elettroni. Di particolare interesse sono i primi tre postulati che Lewis pone alla base della sua teoria:

1) In ogni atomo vi è un nocciolo interno (kernel) essenziale che rimane inalterato in tutte le usuali reazioni chimiche e possiede un eccesso di cariche positive in numero corrispondente al numero ordinale del gruppo al quale appartiene nella tavola periodica degli elementi.

2) L’atomo è costituito dal nocciolo e da un guscio (shell) [external atom] contenente elettroni negativi che, nel caso di atomo neutro, sono in numero uguale a bilanciare l’eccesso di cariche positive del nocciolo, ma il numero di elettroni nel guscio può variare fra 0 e 8 durante una trasformazione chimica.

3) L’atomo ha la tendenza a possedere nel guscio un numero pari di elettroni e specialmente a raggiungere otto elettroni normalmente sistemati ai vertici di un quadrato.” ([1], p. 768.)

Nella Fig. 2 sono mostrate le sistemazioni cubiche degli elettroni per i sette elementi del primo periodo della tavola periodica.

lewis22

Figura 2

Scrive Lewis: “Ci dobbiamo aspettare che il successivo elemento nella serie, il neon, abbia un nocciolo (kernel) con otto cariche positive e un guscio (shell) esterno costituito da otto elettroni. In un certo senso, ciò è indubbio. Infatti… un gruppo di otto elettroni nello strato esterno è estremamente stabile” ([1], p. 768).

Riguardo alle varie teorie sulla struttura atomica Lewis sostiene:

“La più interessante e suggestiva è quella proposta da Bohr e basata sulla teoria quantistica di Planck. Plank nel suo oscillatore elementare…e Bohr con il suo elettrone in movimento in un’orbita fissa[2] hanno inventato sistemi…il cui moto non produce effetti sulla carica esterna. Questo…è inconsistente con le attuali leggi dell’elettromagnetismo” ([1], p. 775).

Lewis rifiuta l’ipotesi quantistica in base alla consolidata fisica classica., .

L’articolo di Lewis entra ora nel merito delle strutture molecolari. Dopo aver brevemente trattato i composti quasi esclusivamente ionici, in cui gli ioni positivi possono essere rappresentati da un kernel senza elettroni (es. Na+ e Ca++) e gli ioni negativi da un kernel con otto elettroni (Cl, O) e trattenuti dall’attrazione elettrostatica, tratta gli alogeni presentando le possibili strutture della molecola di iodio in base alla rappresentazione cubica (Fig. 3)lewis23

Figura 3

La struttura A starebbe a rappresentare un composto ionico, la struttura B implica che un elettrone del primo atomo vada a occupare il vertice libero del secondo, ma allo stesso tempo un elettrone del secondo atomo può occupare il vertice libero del primo realizzando così la struttura simmetrica C. Lewis ragiona poi sulla polarità infatti lo iodio liquido ha carattere lievemente polare. Si può dedurre allora che fra la struttura C, perfettamente simmetrica e non polare e la struttura ionica descritta in A vi saranno infinite posizioni che rappresentano vari gradi di polarità. “In una sostanza come lo iodio liquido, non bisogna assumere che tutte le molecole siano nello stesso stato ma piuttosto che alcune siano altamente polari, alcune quasi non polari e le altre rappresentino tutte le gradazioni fra i due stati. Cloro e fluoro sono i meno polari e possono essere considerati quasi esclusivamente formati da [strutture] C.” ([1], p. 776).

Arriviamo ora al punto di maggior interesse. Scrive Lewis:

Al fine di esprimere in simboli il legame chimico suggerirei l’uso di due punti per rappresentare due elettroni che agiscono come legame di connessione fra due atomi. Quindi si può scrivere Cl2 come Cl:Cl. …Differenti spazi possono rappresentare diversi gradi di polarità…[ad es.] con i due punti vicino all’elemento più elettronegativo…H2 è meno polare perfino di Cl2. I tre principali tipi di composti dell’idrogeno possono essere quindi rappresentati da H:H, H:Cl e Na :H. …si può aggiungere a ogni simbolo un numero di punti corrispondenti al numero di elettroni nel guscio più esterno. Così possiamo scrivere:

lewis24([1], p. 777).

Lewis discute poi le strutture a punti per la formazione dello ione ammonio e dei possibili ossidi XO4 con X = Cl e S. Passa poi a considerare il doppio legame prendendo come esempio l’ossigeno e, ricordando che una caratteristica tipica del doppio legame è la sua tendenza a “rompersi”, presenta le seguenti strutture cubiche (Fig. 4):lewis25

Figura 4

che nelle strutture a punti diventano:lewis26

Ciò mostra che l’ossigeno deve esistere in modo apprezzabile nella struttura B nella quale esso può addizionarsi direttamente a altri atomi, esattamente come fa l’etilene nei composti di addizione.” ([1], p. 779).

Per quanto riguarda il triplo legame, Lewis scrive:

Prima di affrontare il triplo legame, per cui la struttura cubica non offre una semplice interpretazione desidero discutere alcune idee… Si è visto che in elementi con peso atomico inferiore al litio la coppia di elettroni forma un gruppo stabile e ci si può chiedere se in generale non si debba considerare come unità fondamentale la coppia piuttosto che il gruppo di otto. Forse la ragione principale nella scelta della struttura cubica è che questa rappresenta la disposizione con la massima simmetria cioè quella in cui gli elettroni sono alla massima distanza in modo da diminuire la repulsione colombiana” ([1], p. 779). E prosegue:

…tuttavia questo è precisamente il tipo di ragionamento a priori che si è deciso di non usare in questo lavoro, quindi quando si considerano fatti chimici noti e la loro miglior interpretazione in termini di struttura atomica, si deve essere preparati a una qualche disposizione diversa del gruppo di otto atomi. La natura di una tale disposizione è mostrata in figura 5.lewis27

Figura 5

Il cubo rappresentante l’atomo di carbonio è unito a quattro altri atomi non disegnati nella figura, legati all’atomo di carbonio ciascuno da una coppia di elettroni. Queste coppie sono rappresentate da cerchietti a tratto pieno. Assumendo ora che ciascuna coppia di elettroni abbia tendenza ad avvicinarsi… fino a occupare le posizioni indicate dai cerchietti tratteggiati, avremo un modello che è mirabilmente adatto a ritrarre tutte le caratteristiche dell’atomo di carbonio. Con la struttura cubica resta impossibile infatti rappresentare non solo il triplo legame ma anche il fenomeno del libero movimento attorno a un legame singolo, che è sempre assunto in stereochimica. D’altro canto, con gli otto elettroni disposti a coppie simmetriche rispetto al nocciolo, fornisce esattamente la rappresentazione tetraedrica che si è mostrata di grande utilità in tutta la chimica organica.

Infatti, due tetraedri, uniti da uno, due o tre vertici di ciascuna rappresentano rispettivamente il singolo, il doppio e il triplo legame. Nel primo caso una coppia di elettroni è in comune con i due atomi, nel secondo caso sono in comune due coppie, nel terzo caso tre coppie” ([1]. p. 779-780.)

A questo proposito il chimico fisico e storico della chimica, Luigi Cerruti, afferma che “…l’accoppiamento degli elettroni giustifica la configurazione tetraedrica…con un elegante passaggio dagli otto elettroni sui vertici di un cubo a quattro coppie di elettroni sugli spigoli. Con questa sola mossa…Lewis recupera l’intera tradizione strutturalistica e stereochimica della chimica organica. È questo il vero pezzo di bravura di tutta l’esposizione cui l’autore è obbligato quando affronta il triplo legame… La consapevolezza epistemologica di Lewis è evidente dal lessico usato “interpretazione”, “modello”, “ritrarre”; egualmente risalta il suo raccordo con la tradizione di pensiero dei chimici.” ([3], pp. 82-83).

Con le strutture a punti è comunque possibile rappresentare anche molecole contenenti tripli legami, Lewis riporta le possibili forme tautomere dell’acetilene, la più comune è H:C:::C:H.

L’articolo di Lewis termina con una parte in cui l’autore cerca di interpretare i colori delle sostanze in base alla struttura elettronica delle loro molecole.

I primi anni ’20 videro una rapida adozione del modello di legame chimico come condivisione di una coppia di elettroni e delle strutture di Lewis in tutti i campi della chimica. In particolare il chimico americano Irving Langmuir, tra il 1919 e il 1921, diffuse ed elaborò il modello; molti usuali termini relativi al legame chimico, come “covalente”, “guscio di valenza” e “ottetto elettronico” sono stati effettivamente introdotti da Langmuir piuttosto che da Lewis[3]. In chimica organica questa diffusione si deve principalmente agli sforzi dei chimici britannici R. Robinson, T. M. Lowry, e C.K. Ingold[4]; mentre in chimica di coordinazione, il modello di legame di Lewis è stato promosso in particolare da M.L. Huggins e da N.V. Sidgwick[5].

Lewis riprese il tema del legame nel 1923 quando ampliò e descrisse in dettaglio il suo modello in una monografia intitolata “Valence and the structure of atoms and molecules” [3]. Indubbiamente questa monografia fu scritta anche per l’irritazione di Lewis nei confronti di Langmuir che era diventato più popolare di lui nella comunità chimica.

Lewis smise di occuparsi di struttura atomica e legame chimico nel 1926, dopo i suoi vani tentativi di conciliare il suo modello con i più recenti sviluppi della meccanica quantistica. Nel 1927 infatti Walter Heitler[6] e Fritz London[7] pubblicarono il loro famoso lavoro sul legame covalente nella molecola di idrogeno come combinazioni lineari di funzioni d’onda orbitaliche monoelettroniche [4], segnando l’ingresso della meccanica quantistica in chimica. Dopo Heitler e London l’interpretazione quantistica del legame chimico e della struttura molecolare fu ripresa da Linus Pauling[8] che la ampliò e perfezionò in molti lavori e ne fece oggetto di due volumi classici: “Introduction to Quantum Chemistry” (1935, insieme a E. Bright Wilson) [5] e “The nature of chemical bond” (1939) [6].

Indubbiamente il concetto di coppia elettronica condivisa di Lewis ha influenzato le prime ricerche di Pauling visto che una copia autografata dell’articolo si trova nella collezione di documenti e scritti lasciati dallo scienziato. http://scarc.library.oregonstate.edu/coll/pauling/bond/index.html

Per tutto quanto sopra, non è dunque peregrina l’idea di Jensen secondo cui se Lewis fosse vissuto più a lungo avrebbe ottenuto il Nobel per la Chimica insieme a Linus Pauling.

corr216.3-lewispub-19160400-01-900w*Le parti tradotte (fra virgolette) sono opera e responsabilità dell’autore.

Bibliografia

[1] G.N. Lewis, The atom and the molecule, J. Am Chem. Soc., 38, 762-785 (1913)

[2] L. Cerruti, Bella e Potente. La chimica del Novecento fra scienza e società, Editori Riuniti, Torino, 2003.

[3] G.N. Lewis, Valence and The Structure of Atoms and Molecules, American Chemical Society, Book Department, The Chemical Catalog Company, Inc., New York, 1923 pp.173 pdf scaricabile: http://krishikosh.egranth.ac.in/bitstream/1/2047747/1/1322.pdf

[4] W. Heitler, F. London; Wechselwirkung neutraler Atome und homöopolare Bindung nach der Quantenmechanik, Zeitschrift für Physik, 44, 455-472 (1927). Engl. transl: Interaction between Neutral Atoms and Homopolar Binging according to Quantum Mechanics, in: H. Nettema, Quantum Chemistry. Classic Scientific Papers, World Scientific Publishing Co., 2000, pp 140-155.

[5] L. Pauling, E.B. Wilson; Introduction to Quantum Chemistry with Applications to Chemistry, McGraw-Hill, New York, 1935. Trad. ital.: Introduzione alla Meccanica Quantistica, Piccin, Padova, 1968.

[6] L. Pauling, The Nature of the Chemical Bond and the Structure of Molecules and Crystals: An Introduction to Modern Structural Chemistry, Oxford University Press, London, 1939. Trad ital.: La natura del legame chimico, Franco Angeli, Milano, 2011 (ripubblicato, tradotto in italiano la prima volta dopo la Liberazione).

 

Note.

[1] Richard Wilhelm Heinrich Abegg (1869-1910), chimico tedesco noto per la sua regola della valenza e contro valenza (oggi le chiameremmo numeri di ossidazione massimo e minimo), scoprì una delle proprietà colligative, l’abbassamento del punto di congelamento.

[2] La trilogia del lavoro di Bohr apparve su Philosophical magazine nel 1913. Nel primo articolo viene introdotta la quantizzazione del momento angolare dell’elettrone rotante attorno al nucleo, viene interpretato lo spettro dell’idrogeno e calcolato il raggio della prima orbita. Il secondo articolo riguarda gli atomi polielettronici, dove le configurazioni elettroniche vengono “aggiustate” in base alle proprietà chimiche degli elementi (N.J. Bjerrum riporta che da studente Bohr era appassionato di chimica). Nel terzo articolo il legame chimico è descritto come dovuto solo agli elettroni esterni che ruoterebbero attorno alla congiungente i due nuclei atomici.

[3] Irving Langmuir (1881-1957) chimico americano, Premio Nobel per la chimica 1932 “per i suoi lavori in chimica delle superfici”, pubblicò nel 1919 l’articolo: “The Arrangement of Electrons in Atoms and Molecules”, J. Am. Chem. Soc., 1919, 41, 868–934 in cui rielaborò, ampliò e applicò il modello e le strutture di Lewis.

[4] Robert Robinson (1886-1975), Premio Nobel 1947 “per le sue indagini sui prodotti vegetali di importanza biologica, particolarmente alcaloidi”; Thomas Martin Lowry (1874-1936), noto per la definizione di acidi e basi detta di Broensted-Lowry; Cristopher Kelk Ingold (1893-1970), pioniere della chimica fisica organica, sue le definizioni di nucleofilo ed elettrofilo e i meccanismi SN1, SN2, E1 ed E2.

[5] Maurice Loyal Huggins (1897-1981) chimico americano, fu il primo a proporre il legame a idrogeno; Nevil Vincent Sidgwick (1873-1952) chimico teorico britannico diede contributi importanti alla teoria della valenza e del legame chimico.

[6] Walter Heinrich Heitler (1904-1981), fisico tedesco, studiò fisica teorica sotto la guida di Sommerfeld e Herzfeld, quest’ultimo fu il supervisore della sua tesi di dottorato nel 1926. Herzfeld teneva anche un insegnamento di chimica fisica, la tesi di dottorato di Heitler fu di carattere chimico avendo come oggetto la teoria delle soluzioni concentrate.

[7] Fritz London (1900-1954), fisico tedesco di origine ebraica, oltre alla teoria del legame ha dato contributi fondamentali allo studio delle forze intermolecolari.

[8] Linus Carl Pauling (1901-1994) americano, chimico, biochimico, educatore, attivista per la pace, Premio Nobel per la chimica 1954 “per le sue ricerche sulla natura del legame chimico e la sua applicazione all’elucidazione della struttura di sostanze complesse”. Oltre che della chimica quantistica è considerato anche fondatore della biologia molecolare. Nel 1962 ottenne anche il Premio Nobel per la pace “per la sua campagna contro i test nucleari”.

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La Comunicazione tra batteri. 1 parte.

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a cura di Annarosa Luzzatto

Non si può certo dire che i microbi abbiano mai goduto di buona fama: sin dalla loro scoperta, i batteri si sono dimostrati responsabili di gravi patologie e di epidemie catastrofiche, quindi l’umanità si è subito posto come obiettivo primario la loro eliminazione. Su questa strada, un grande successo è stato ottenuto con la scoperta degli antibiotici, ma il loro trionfo è stato di breve durata: il primo ceppo di Staphylococcus penicillino-resistente comparve già nel 1940 (1), seguito presto da molti altri, ed ora l’antibiotico-resistenza è diventato un problema globale.

Nel frattempo si è scoperto che, accanto a pericolosi germi patogeni, esistono anche batteri non patogeni che convivono pacificamente su di noi e dentro di noi, ed in alcuni casi svolgono anche funzioni essenziali al nostro benessere (2). Così, su iniziativa dei Nationa Institutes of Health (NHI) USA, nel 2007 è stato avviato il primo Human Microbiome Project (HMP)  che, in analogia con il Progetto Genoma Umano (Uman Genome Project, UGP), si è proposto di caratterizzare i microrganismi che convivono su di noi ed all’interno del nostro corpo (3). Il primo risultato, eclatante ed abbastanza inaspettato, è stata la scoperta che dentro e sopra di noi convivono più di cento milioni di cellule batteriche, dieci volte più numerose delle cellule che costituiscono il nostro stesso organismo.

A questo punto non era più possibile considerare tutti i batteri indistintamente come nemici, ma c’era bisogno di uno studio più attento, per così dire “personalizzato”, che distinguesse tra i diversi batteri e soprattutto che portasse alla comprensione di quali fattori fossero in grado di trasformare un determinato ceppo batterico, che magari aveva a lungo vissuto all’interno del corpo umano senza dare problemi, in un patogeno virulento e letale.

Già nella seconda metà degli anni ’60 era stato osservato che un il batterio luminescente Vibrio fischeri emetteva luce in vitro solo quando la sua concentrazione superava una certa soglia (4), ma all’epoca la biologia non aveva ancora gli strumenti per comprendere come i singoli batteri potessero comunicarsi a vicenda il grado di affollamento.

Quelli erano però anni rivoluzionari per la biologia, si cominciava a comprendere il meccanismo col quale il codice genetico inscritto nel DNA veniva trasferito nel citoplasma e tradotto in proteine, scoperta per la quale Jacob, Lwoff e Monod ricevettero il Nobel nel 1965 (5).

Così, una volta scoperto il Lac-Operon, è stato possibile ipotizzare un meccanismo analogo per l’attivazione del gene della Luciferasi nel batterio luminescente Vibrio fischeri: la capacità di percepire il grado di affollamento della popolazione batterica venne definito “Quorum Sensing” (QS) (6) ed il mediatore extracellulare individuato (AHL) venne denominato autoinduttore (AI). In seguito si scoprì che il Quorum sensing era presente praticamente in tutti i batteri ed anche in alcuni miceti, e ne venne descritto il meccanismo di azione nei batteri Gram-negativi e gram-positivi (7) schematicamente riportato nel riquadro.

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RIQUADRO: cosa è il Quorum sensing (QS)?

Il Quorum sensing (QS) è la specifica sensibilità dei batteri alla loro densità di popolazione. Questa sensibilità si realizza mediante la secrezione da parte dei batteri di piccole molecole che si diffondono nell’ambiente dette Autoinduttori (AI); queste molecole vengono captate da specifici ligandi presenti nel citoplasma oppure sulla membrana dei batteri stessi e, se presenti in quantità pari o superiore ad un determinato valore soglia, fungono da attivatori e regolatori della trascrizione di geni specifici.

qs2

Fig. 1 (da https://sites.tufts.edu/quorumsensing/quorumsensing101/). Schema del meccanismo del Quorum sensing: i batteri sintetizzano l’autoinduttore che vien riconosciuto ed induce la sintesi di fattori che intervengono in diversi processi, quali la virulenza, la formazione di biofilm, la sporulazione ecc.

qs3

Fig. 2 (da: https://en.wikipedia.org/wiki/Quorum_sensing). Schema di funzionamento del QS nel batterio bioluminescente Aliivibrio fischeri: quando il batterio vive libero nel placton l’autinduttore (AHL, in rosso) è a bassa concentrazione e non induce la bioluminescenza; quando invece il batterio si trova nell’organo luminoso del clamaro gigante la sua concentrazione è elevata, quindi l’autoinduttore AHL raggiunge il DNA, si lega alla sequenza di riconoscimento (LuxBox), attiva la trascrizione dei geni per la luciferasi che produce la bioluminescenza.

qs4

Fig. 3 (da: http://www.advancedhealing.com/tag/quorum-sensing/   Stress, Biofilm and a Predisposition for GI Infections in Type O Blood Individuals, by Marcus Ettinger, May 19, 2010). Analogamente a quanto descritto per la bioluminescenza, il QS può scatenare la virulenza batterica.

qs6

Fig. 4 (Da: Bonnie L. Bassier, “Small Talk: Cell-to-Cell Communication in Bacteria”, Cell, Vol. 109, 421–424, May 17, 2002, Copyright 2002 by Cell Press).

  1. Nei batteri Gram negativi l’autoinduttore-sintetasi (LuxI) induce un AI in genere rappresentato da derivati di omoserina lattone acetilato (AHL). L’AI si lega ad un attivatore (LuxR), ed insieme attivano le sequenze geniche target.
  2. Nei batteri Gram positivi invece l’AI è in genere costituito da un oligopeptide che viene poi riconosciuto da un recettore di membrana che tramite una chinasi (H) attiva una proteina regolatrice (D) che infine attiva le sequenze geniche target.

qs7Fig. 5 (da: http://www.advancedhealing.com/tag/quorum-sensing/ Dr. Ettinger’s Biofilm Protocol for Lyme and Gut Pathogens, by Marcus Ettinger, Sep 25, 2009). Quando I batteri riescono ad aderire ad un substrato, la loro concentrazione aumenta e si attiva la produzione di un biofilm. Nel biofilm la concentrazione batterica aumenta ulteriormente, ciò favorisce la virulenza e rende il gruppo più resistente anche agli antibiotici. Infine alcuni batteri si liberano nell’ambiente circostante e producono nuove colonie batteriche aggressive.

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A questo punto l’interesse verso il Quorum sensing cominciò ad acquistare un interesse pratico: il QS è implicato nei fenomeni di virulenza batterica? E in tal caso, in che modo agisce, ed in che modo è eventualmente possibile inibirne l’effetto?

Si è scoperto che il QS influenza numerose fasi della vita dei batteri, ed in particolare la formazione del biofilm e la virulenza (2); la ricerca di molecole che possano svolgere un ruolo di antagonista agli Autinduttori del QS è apparso quindi come una nuova interessante forma di lotta contro le malattie di origine batterica, sia nell’uomo che negli animali di allevamento, come esemplificato da Defoirdt (8). Questa nuova strategia consentirebbe di affiancare agli antibiotici uno strumento di lotta più selettivo, che potrebbe limitare la virulenza dei patogeni senza interferire coi batteri simbionti. Si avrebbe inoltre una più limitata resistenza alle cure rispetto a quella che si sviluppa contro gli antibiotici, ed anche l’antibiotico-resistenza potrebbe venir limitata.

Inibire il QS potrebbe inoltre inibire o quantomeno limitare la formazione dei biofilm, la struttura che più contribuisce alla moltiplicazione batterica. Nei biofilm i batteri si comportano quasi come organismi pluricellulari, interagendo più efficacemente tra loro, proteggendosi dagli agenti esterni e facilitando la formazione dell’antibiotico-resistenza. I biofilm poi facilitano e stabilizzano l’adesione dei batteri alle superfici, rappresentando un grosso pericolo quando si formano sulla superficie di apparati medicali da inserire nel corpo umano, come indicato in Tab.1 (10).

Tab.1. Biofilm in apparati biomedicali

qs1Dufuour, D, Vincent Leung and Céline M. Lévesque. “Bacterial biofilm: structure, function, and antimicrobial resistance Endodontic Topics, Volume 22, Issue 1, pages 2–16, first published online: 25 SEP 2012. DOI: 10.1111/j.1601-1546.2012.00277x

 

 Possiamo quindi concludere che il rapido progresso delle scienze biologiche negli ultimi decenni ha mutato radicalmente la nostra visione sui viventi in generale e sui rapporti tra noi e tutti gli altri esseri. In particolare per quel che riguarda i microorganismi, ora non li vediamo più come un insieme indistinto di esseri pericolosi da distruggere, ma cominciamo a distinguere le relazioni che i diversi microrganismi instaurano con noi, riconoscendo i potenziali pericolosi patogeni, dai simbionti innocui e da quelli utili.

Non possiamo quindi continuare a ritenere positivo combattere i batteri patogeni con armi di distruzione di massa quali gli antibiotici – dai quali del resto i batteri stessi sanno imparare a difendersi – ma dobbiamo elaborare strategie mirate contro i singoli patogeni, strategie che non danneggino troppo i simbionti.

La strada sarà ovviamente ancora lunga, ma fanno ben sperare per il futuro i rapidissimi progressi compiuti negli ultimi decenni in tutti gli ambiti delle scienze.

Bibliografia

  1. M. Demerec. Production of Staphylococcus Strains Resistant to Various Concentrations of Penicillin. Proc Natl Acad Sci U S A, v.31(1); 1945 Jan
  1. Quorum Sensing vs Quenching: a Battle with No End in Sight. Vipin Chandra Kalia Editor, Springer India 2015.
  1. http://commonfund.nih.gov/hmp/overview . Human Microbiome Project.
  1. https://www.nottingham.ac.uk/quorum/history.htm
  2. The Nobel Prize in Physiology or Medicine 1965. François Jacob, André Lwoff, Jacques Monod http://www.nobelprize.org/nobel_prizes/medicine/laureates/1965/
  3. Eberhard,et al., Structural identification of autoinducer of Photobacterium fischeri luciferase. Biochemistry, 198120 (9), pp 2444–2449
  4. Bonnie L. Bassier, “Small Talk: Cell-to-Cell Communication in Bacteria”, Cell, Vol. 109, 421–424, May 17, 2002, Copyright 2002 by Cell Press
  5. Defoirdt T (2013) Antivirulence therapy for animal production: filling an arsenal with novel weapons for sustainable disease control. PLoS Pathog 9(10):e1003603. doi:1371/journal.ppat.1003603
  6. Yung-Hua Li and Xiaolin Tian. “Quorum Sensing and Bacterial Social Interactions in Biofilms”. Sensors201212(3), 2519-2538; doi:3390/s120302519
  7. Dufuour, D, Vincent Leung and Céline M. Lévesque. “Bacterial biofilm: structure, function, and antimicrobial resistance Endodontic Topics, Volume 22,Issue 1, pages 2–16, first published online: 25 SEP 2012. DOI: 10.1111/j.1601-1546.2012.00277x

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Ritorno alla titolazione

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Mauro Icardi

L’esperienza di ritornare a usare gli strumenti e le nozioni dell’analisi chimica di un tempo è un’esperienza recentissima. Dovuta alle indicazioni ricevute da una funzionaria dell’Arpa durante una visita per il rinnovo dell’autorizzazione allo scarico dell’impianto di depurazione dove lavoro.

Bisogna fare una piccola premessa indispensabile. Negli anni il mio lavoro in Laboratorio si è modificato. Oltre alla gestione del processo di depurazione e alle analisi chimiche necessarie per controllarlo e intervenire sulle regolazioni necessarie, si sono aggiunte attività di carattere completamente diverso. In particolare la gestione e l’archiviazione storica dei referti analitici, il rispetto di normative specifiche, la corretta gestione dei rifiuti provenienti dall’attività del laboratorio stesso. Oltre ad altre attività che spesso vengono effettuate direttamente sul campo, quali verifiche e prelievi, oppure il controllo dei parametri di gestione delle apparecchiature per il trattamento dei fanghi residui.

Per poter gestire al meglio queste attività negli anni alcune analisi di ruotine che venivano effettuate con strumenti tradizionali sono state sostituite con l’introduzione dei kit analitici.

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Questo ha permesso di poter dedicare più tempo ad altre attività vista la versatilità e la riduzione dei tempi di analisi e di quantità di campione da utilizzare.

Ma l’abitudine ad utilizzare test in cuvetta  e con reagenti dosati oltre ad un maggior costo che può venire ammortizzato se il numero di campioni è significativo, e il risparmio di tempo per eseguire l’analisi, può però provocare una sorta di oblio.

I kit analitici sono ormai diffusissimi. Ma in realtà se osserviamo le metodiche analitiche ufficiali non sono citati.

L’analisi della richiesta chimica di ossigeno, il conosciutissimo COD prevede l’uso delle tecniche secolari, e l’esecuzione di una ossidazione delle sostanze organiche e inorganiche con una soluzione di dicromato di potassio acida per aggiunta di acido solforico e catalizzata da solfato d’argento.

Il ritorno a questa metodica analitica ci è stato suggerito dalla funzionaria Arpa come condizione non restrittiva ma derivante da possibili modifiche delle normative regionali in materia, che nel futuro potrebbero prevedere anche per i controlli routinari l’utilizzo delle sole metodiche ufficiali.

Ci siamo quindi messi al lavoro e per una volta non ho dovuto rimpiangere l’età che avanza. Perché tra tutti i colleghi, essendo uno dei più anziani sia per età anagrafica che per anzianità di servizio,  sono anche uno dei pochi che ha eseguito questa analisi utilizzando le tecniche tradizionali.

Quindi preparando le soluzioni, pesando i sali per preparare i reattivi, verificando il titolo delle soluzioni preparate, e infine tornando all’utilizzo delle pipette per volumetria.

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Rispolverando le vecchie apparecchiature per l’ebollizione a ricadere, e titolando con le burette.

All’inizio devo confessare che la cosa mi è sembrata strana. Ma poi mi ci sono ritrovato in pieno. Perché le cose imparate molti anni fa sono tornate (forse un poco più faticosamente di una volta) alla memoria. E mi hanno sempre di più convinto che non ci si debba affidare solamente all’elettronica che pure ci ha dato una grande aiuto, o alla sola chimica analitica strumentale. Ma che occorra conservare come un retaggio da non dimenticare le tecniche che arrivano dagli albori del lavoro in laboratorio. E che prevedono tempi meno frenetici e soprattutto che non riducono il lavoro ad una serie di gesti automatici. Ma che danno il tempo di riflettere, di aguzzare la vista, di ritrovare la dote della manualità che tanto abbiamo forse qualche volta faticato a padroneggiare. Ma che una volta che hai acquisito non dimentichi più.

Mi ha anche dato una strana sensazione che non riesco a definire dover fare la chioccia a colleghi più giovani ai quali ho dovuto mostrare come si esegue l’analisi, perché non avevano avuto modo di farla se non poche volte nel loro percorso scolastico.

La riflessione finale è quella che anche nell’insegnamento, come nelle attività di lavoro non è mai troppo prudente dare per finite o obsolete le antiche tecniche di lavoro dei chimici nostri antenati. Perché quello che abbiamo per le nuove necessità cacciato dalla porta, può sempre rientrare dalla finestra. Un’altra piccola soddisfazione per un chimico dai capelli che cominciano ad ingrigire.

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Noterelle di economia circolare. 5. L’olio dalle sanse

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Giorgio Nebbia

L’olio di oliva è uno dei pochi grassi ricavati da frutti; gli altri sono derivati da semi o da parti di animali. Le olive sono i frutti di piante coltivate nei paesi del Mediterraneo da almeno tremila anni; per ottenere l’olio, le olive sono macinate in modo da ottenere una pasta omogenea che viene poi pressata facendone colare una miscela di olio e acqua contenente circa 15-20 kg di olio per ogni 100 kg di olive: dalla spremitura restano circa 40-50 kg di un pannello umido, la sansa, contenente ancora circa 2-3 chili di olio
Il processo continua con la separazione dell’olio di pressione dall’acqua detta ”di vegetazione”, con cui è miscelato. La sansa in genere veniva buttata via, bruciata o dispersa nel terreno, anche con qualche beneficio perché contiene piccole quantità di sali potassici e l’olio che essa conteneva andata quindi perduto.
L’imprenditore pugliese Vito Cesare Boccardi (1835-1878), durante un viaggio in Germania, nel 1865, venne a conoscenza che alcune fabbriche estraevano il grasso dalle ossa mediante solfuro di carbonio.

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Il solfuro di carbonio è un liquido volatile, con odore sgradevole, infiammabile e tossico da respirare, che era stato ottenuto nel 1796 dal chimico tedesco Lampadius scaldando insieme pirite di ferro e carbone; si libera così un vapore facilmente condensabile di solfuro di carbonio che si rivelò subito un buon solvente dei grassi.

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I primi brevetti per l’estrazione del grasso dalle ossa sono stati assegnati al chimico francese Edouard Deiss già nel 1855. Poco dopo la ditta tedesca C.O.Heyl di Moabit, alla periferia di Berlino, estraeva con solfuro di carbonio olio dai pannelli di vari semi oleosi. Boccardi pensò di applicare il processo alle sanse di oliva per recuperare l’olio che esse contenevano, da trasformare in sapone, in un suo sansificio a Molfetta. Sorsero in breve tempo vari stabilimenti che operavano con ciclo integrale: estraevano olio dalle olive, poi recuperavano dalle sanse l’olio residuo usando come solvente il solfuro di carbonio che esse stesse producevano.
Nel 1869 con capitali francesi fu creata a Bari la “Società delle olierie (sic) e saponerie meridionali”, diretta dai signori Marius Gazagne e Sarlin; lo stabilimento, sito nella zona dell’attuale Fiera del Levante (per chi di voi è pratico di Bari), produceva solfuro di carbonio e olio di sansa. Un articolo del 1883 afferma (http://fc1.to.cnr.it/fedora/get/openbess:TO023-00478-0011/islandora:viewerSdef/getViewer) che la fabbrica produceva ogni giorno 1200 kg di solfuro di carbonio e 7000 kg di olio di sansa. Va detto che la Puglia della seconda metà dell’Ottocento stava vivendo una stagione di vivace industrializzazione e modernizzazione che attraeva capitali e dirigenti stranieri. Nel 1886 fu creata la prima Scuola Superiore universitaria di Commercio (poi Facoltà di Economia e Commercio) nella quale si svolgeva un corso triennale di chimica con laboratorio e di Merceologia.
La produzione di olio al solfuro intanto si era diffusa rapidamente; a Milazzo nel 1873 con la ditta Zirilli, in Toscana e altrove.
Si ha notizia che imprenditori pugliesi presentarono, nelle prime esposizioni merceologiche, degli apprezzati campioni di olio di sansa al solfuro da loro prodotto. Dapprima l’olio di sansa, di colore verde intenso per la clorofilla che veniva estratta insieme all’olio, era considerato non adatto ad uso alimentare e veniva impiegato per la fabbricazione del sapone, apprezzato perché, per il suo elevato contenuto di acido oleico, permetteva di ottenere dei saponi meno duri di quelli ottenuto con grassi ricchi degli acidi palmitico e stearico. L’”olio al solfuro” era oggetto di esportazione, specialmente negli Stati Uniti; un saponificio di Milwaukee, fondato nel 1864 da un tale Caleb Johnson, nel 1898 diede il nome “palmolive” al sapone, dal caratteristico colore verde, fatto con gli acidi grassi dell’olio di sansa di oliva italiano. La fabbrica fu poi assorbita dal saponificio Colgate e il nome “Palmolive” è ora marchio di fabbrica di questa multinazionale dei detergenti.

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Questa attività di antica economia circolare non era priva di inconvenienti: I sansifici che producevano olio al solfuro erano soggetti a esplosioni e incendi, ed erano inclusi fra le industrie a rischio di incidenti rilevanti, da localizzare fuori dalle città. Per questo motivo già agli inizi del Novecento il solfuro di carbonio fu sostituito con benzina o altri idrocarburi meno pericolosi.
Con vari perfezionamenti è stato poi possibile eliminare colore e sapori sgradevoli dall’olio di sansa e farne un olio adatto ad usi alimentari. Con successo perché già nella normativa del commercio dell’olio di oliva negli anni trenta del Novecento era prevista la vendita di olio alimentare di sansa, meno pregiato di quello di pressione e di un prezzo inferiore; l’olio di sansa poteva anche essere miscelato con l’olio di pressione nel qual caso era denominato “Olio di sansa e di oliva”. Il favore ricevuto dall’olio di sansa presso i consumatori meno abbienti spinse gli industriali dell’olio di oliva a chiedere ai vari governi di applicare all’olio di sansa una imposta di fabbricazione che ne facesse avvicinare il prezzo a quello degli oli di pressione, naturalmente con le proteste dei proprietari dei sansifici che erano in genere piccoli stabilimenti diffusi nelle zone di produzione delle olive. Un esempio dei numerosi scontri che, nella storia italiana, hanno visto contrapposti gli interessi degli industriali a quelli degli operatori nel campo dell’agricoltura.
L’olio di sansa è ancora prodotto e commerciato; le sanse esauste, dopo l’estrazione dell’olio trovano impiego come miglioratori del terreno o come, pur controvesi, combustibili, altra prova che l’economia può operare a cicli sempre più chiusi.

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Test di tossicità con Daphnia Magna.

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo 

a cura di Mauro Icardi e Valentina Furlan*

Per diverso tempo, cioè fino a circa la metà degli anni 80 il controllo dei reflui depurati e restituiti ai corpi idrici si è basato essenzialmente su verifiche di concentrazioni di parametri chimici, fisici e microbiologici e sul rispetto dei limiti tabellari definiti da normative specifiche. Questi controlli tradizionali continuano ovviamente ancora oggi, ed in alcuni casi i parametri limite sono stati rivisti diminuendo anche di molto il valore di concentrazione rispetto alle prime normative emanate, che in Italia si riferiscono alla legge 319/76 (Legge Merli). Legge che ancora oggi nonostante non sia più vigente è ancora ricordata e citata. La prima normativa che ha introdotto obbligatoriamente il test di tossicità acuta utilizzando il crostaceo Daphnia Magna è stata il Decreto legislativo 152/99 (testo unico sulle acque), decreto che ha preceduto l’attuale 152/2006 che è conosciuto come codice ambientale.

dafnia1La filosofia del controllo ambientale si è spostata dalla sola valutazione del rispetto di un valore di parametro fino al valutare lo stato complessivo di un corpo idrico in relazione alle attività umane che su esso impattano e quantificare gli eventuali danni che la stessa attività può provocare.

Per questa ragione si sono dovuti approntare strumenti adeguati che consistono in test eco tossicologici.

Il crostaceo Daphnia fa parte di quegli organismi definiti “indicatori”,cioè la cui risposta all’azione degli inquinanti ha un’elevata significatività.

dafnia2L’evoluzione di questo tipo di test si sta spostando anche verso l’esecuzione di test non solo di tossicità acuta ma anche cronica ovvero eseguiti per un tempo prolungato. Altra evoluzione è quella che tende a valutare la tossicità con saggi multi specie che possono essere condotti con diversi organismi (batteri,alghe,crostacei e pesci).

Dal punto di vista normativo per il controllo degli scarichi l’esecuzione del saggio di tossicità è obbligatoria anche se il risultato positivo della prova non determina l’erogazione di sanzioni ma l’obbligo di approfondimenti delle indagini analitiche.

La Daphnia magna è un piccolo crostaceo cladocero originario del Nord America ampiamente utilizzato nei laboratori per questo tipo di test fin dal 1934 quando venne usato da Einar Naumann professore svedese di botanica e limnologia.

Il saggio con Daphnia risulta essere molto sensibile soprattutto all’inquinamento da metalli pesanti (piombo, cadmio, zinco, rame ecc.). I neonati di meno di 24h vengono immessi nel campione da analizzare e dopo un periodo di tempo prestabilito (24h) si osserva la percentuale di individui sopravvissuti. I risultati possono essere espressi o come percentuale di individui morti/immobilizzati o come valore di EC50 cioè come concentrazione della sostanza tossica che determina la morte/immobilizzazione del 50% degli individui impiegati nel test.

Per quanto riguarda alcune ricadute pratiche di questo test per prima cosa si può fare riferimento alla disinfezione finale delle acque depurate. La sensibilità della Daphnia si manifesta anche nei confronti dell’ipoclorito di sodio , che è l’agente disinfettante normalmente utilizzato per abbattere la carica batterica residua nelle acque che devono essere restituite ai corpi idrici dopo il trattamento completo di depurazione. Il crostaceo è ovviamente anche sensibile alla presenza di sedimenti trascinati o fango che possa sfuggire dai sedimentatori finali . Questi materiali ne provocano l’intasamento dell’apparato bronchiale.

dafnia3In genere la parte maggiore di inquinanti che si concentrano si riscontra nei sedimenti nel caso di inquinamento di corpi fluviali, mentre nei fanghi residui vengono concentrati gli inquinanti rimossi dal trattamento depurativo. Se nell’effettuazione di un test con Daphnia si filtra o centrifuga il campione la tossicità riscontrata diminuisce sensibilmente .

Per questa ragione gli interventi di ristrutturazione e miglioramento funzionale per impianti ormai obsoleti di solito consistono in adeguamenti della sezione di trattamento terziario o in qualche caso nella costruzione ex novo di un sistema di filtrazione finale. Per quanto invece riguarda il trattamento di disinfezione può essere sufficiente sostituire l’ipoclorito di sodio con acido per acetico che mostra meno tossicità al test, oppure se esiste una sezione di filtrazione efficiente optare per la disinfezione con raggi uv.

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E ormai evidente come il trattamento delle acque, ma più in generale la tutela ambientale abbiano bisogno del contributo di tecnici di provenienza diversa. Questo articolo è stato pensato e scritto da un chimico ed una biologa, che però si trovano giornalmente ad affrontare problemi pratici le cui soluzioni sono state studiate e risolte dall’Ingegneria Ambientale e dalla sua evoluzione.

*Valentina Furlan è una biologa che lavora nella medesima azienda di depurazione di Mauro.

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L’acqua è un bene vitale e prezioso. Per noi e per il piccolo crostaceo che ci aiuta valutare quanto stiamo facendo e quanto dovremo continuare a fare per preservarla. Piccolo crostaceo come il gambero di fiume, da sempre associato alla purezza dell’acqua nei fiumi e che era ancora presente in quelli meno inquinati fino all’inizio dello scorso secolo. Un test di tossicità non è solo un’analisi di routine. Può rappresentare un modo per aumentare la consapevolezza e l’attenzione su un tema importante come la biodiversità e la necessità della sua protezione.

http://www.irsa.cnr.it/ShPage.php?lang=it&pag=metod

ISPRA ex APAT, IRSA-CNR (2003), Sezione 8000 –

Metodi Ecotossicologici. Manuali e Linee

Guida29/2003

In Particolare:

Metodo di valutazione della tossicità acuta con Daphnia magna (Met.

Daphnia magna ( Met. 8020, pag 993 – 1002);

 

Gilbert Newton Lewis (1875-1946), un premio Nobel mancato? Parte 1

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Rinaldo Cervellati

LewisPortrait

G.N. Lewis (1900 ca)

Gilbert N. Lewis (Weymouth, MA 1875 – Berkeley, CA 1946) è noto a tutti quelli che hanno studiato chimica sopratutto per il concetto di acidi e basi come accettori e donatori di una coppia elettronica rispettivamente. Molto conosciuto anche per le sue rappresentazioni molecolari dette “strutture a punti e linee”. Meno noto è invece il notevole contributo dato alla termodinamica, si devono infatti a lui l’introduzione e lo sviluppo dei concetti di fugacità e attività per adattare le funzioni termodinamiche al caso dei gas e delle soluzioni “reali”. In questo post ci occuperemo in dettaglio dei suoi studi di termodinamica applicata alla chimica, campo di studi che costituì il suo primo interesse di ricerca.

Ma cominciamo dall’inizio. Lewis fu un bambino intellettivamente molto precoce, leggeva correntemente fin dall’età di tre anni; ricevette l’istruzione primaria dai suoi genitori e parenti. Ottenne il B. Sc. (Bachelor of Sciences) all’università di Harvard nel 1893. Dopo un anno di insegnamento alla Phillips Academy di Andover (MA), ritornò a Harvard, dove conseguì il dottorato nel 1899 discutendo una tesi sui potenziali elettrochimici di amalgami di zinco e cadmio[1]. Dopo un anno di insegnamento, per perfezionare gli studi di termodinamica si recò, con una borsa di studio, in Germania, dapprima a Göttingen da Walther Nernst[2] e poi a Lipsia da Wilhelm Ostwald[3]. Va subito detto che il suo rapporto con Nernst fu pessimo, si dice che fra i due nacque “un’inimicizia che durò tutta la vita” e che, come vedremo, determinò probabilmente la mancata assegnazione del Nobel.gil_lewis1910 Tornato a Harvard, fu esercitatore di laboratorio di termodinamica ed elettrochimica per tre anni. Dopo una parentesi come supervisore all’Ufficio Pesi e Misure di Manila, nel 1905 entrò a far parte dello staff del Massachusetts Institute of Technology, dove divenne assistente nel 1907, poi professore associato (1908) e infine full professor nel 1911. Nel 1912 divenne Professore di Chimica Fisica e direttore del College of Chemistry a Berkeley (University of California) dove rimase fino alla sua scomparsa. Il suo interesse per la termodinamica iniziò negli anni di Harvard e i suoi primi lavori del 1900-1901 dimostrano un’inusuale (per quei tempi) conoscenza dei lavori di J. W. Gibbs[4] e di P. Duhem[5]. Le idee di questi due scienziati sui concetti di energia libera e potenziale termodinamico erano espresse con un formalismo matematico certamente noto ai fisici, meno noto e comunque non molto utile per i chimici e per le applicazioni pratiche. In aggiunta, la formulazione della termodinamica era rigorosamente valida per sistemi ideali, privi cioè di interazioni reciproche (gas perfetto) o con interazioni supposte identiche e uniformi (soluzione ideale). Lewis si impegnò nella ricerca di “correzioni” per le deviazioni dal comportamento ideale nei sistemi lontani dall’idealità, introducendo i concetti di “attività” e “fugacità”. Tentò, senza successo, di ottenere un’espressione esatta della funzione entropia che nel 1901 non era ancora ben definita alle basse temperature. Nel periodo di Harvard Lewis scrisse anche un lavoro sulla termodinamica della radiazione di corpo nero, postulando che la luce esercitasse una pressione. Fu però scoraggiato a perseguire questa idea dai suoi colleghi più anziani e più conservatori. Nessuno si accorse che in particolare W. Wien aveva avuto successo sviluppando la stessa idea. Nel suo tentativo di trovare un’espressione generale dell’entropia, misurò i valori di entalpia e di energia libera per parecchie reazioni chimiche sia inorganiche sia organiche. Lewis fu un eccellente didatta, come professore introdusse per primo la termodinamica nei corsi di chimica al College of Chemistry di Berkeley, imitato poi in tutte le università. Si propose di presentare la termodinamica in una forma matematica accessibile ai chimici[6] e immediatamente utilizzabile nella pratica. Questo progetto si concretizzò nel 1923 con la pubblicazione, insieme a Merle Randall, del testo Thermodynamics and the Free Energy of Chemical Substances (McGraw Hill)[7], probabilmente il primo testo in cui la termodinamica chimica (classica) è formalizzata in modo rigoroso ma (relativamente) semplice.GW618H435

Nel 1907 Walther Nernst espose il suo teorema noto anche come terzo principio della termodinamica. Esso afferma che:

“La variazione di entropia che accompagna una trasformazione fisica o chimica di un sistema tende a zero quando la temperatura assoluta tende a zero”.

In forma matematica:

lim (T→0) ΔStrasf = 0

dove ΔStrasf è la variazione di entropia della trasformazione. Osservazioni sperimentali avevano infatti mostrato che la variazione di entalpia ΔH e di energia libera ΔG di una trasformazione diminuivano monotonicamente al diminuire della temperatura, quindi, poiché ΔH = ΔG + T(∂ΔG/∂T)P, al tendere di T a 0 si avrà ΔH = ΔG → 0, ma (∂ΔG/∂T)P = −ΔS, da cui per T→0, anche ΔS →0.

Lewis criticò il teorema di Nernst con toni molto aspri, molte fonti sono concordi nel riportare il seguente commento: “a regrettable episode in the history of chemistry” (un episodio deplorevole nella storia della chimica). Il commento è probabilmente estrapolato da un contesto più ampio, in base al suo teorema infatti, Nernst stimò i valori delle funzioni termodinamiche di molte sostanze a varie temperature e se ne servì per calcolare le costanti di equilibrio di molte reazioni chimiche ma queste stime si accordavano con i dati sperimentali entro un ampio margine di errore. Ad esempio per la reazione di decomposizione dell’acqua a 800 °C il valore calcolato da Nernst fu Keq = 1.32 contro il dato sperimentale di 0.93. Questo accordo fu giudicato scadente da molti, fra cui ovviamente Lewis che, a parere dello storico W.H. Copper, diede comunque credito a Nernst per il teorema deplorando però aspramente l’uso di funzioni termodinamiche stimate con esso [1].

Stime affidabili si ottennero con l’estensione di Planck al teorema di Nernst e la definizione meccanico statistica di cristallo perfetto.

Nel testo di Lewis e Randall del 1923 (nota 7) i due autori scrivono:

Se l’entropia di ogni elemento in qualche stato (perfetto) cristallino viene presa come zero allo zero assoluto della temperatura, ogni sostanza ha una entropia positiva finita; ma allo zero assoluto della temperatura l’entropia può diventare zero e lo diventa nel caso di sostanze cristalline perfette.

Lewis tuttavia in precedenza non aveva perso occasione per evidenziare pubblicamente errori di Nernst.

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Lewis ricevette la prima candidatura al Premio Nobel nel 1922, faceva però parte del Comitato Wilhelm Palmær, amico di Nernst, che a quanto pare fece di tutto per evitare che il premio gli fosse assegnato. Fu ancora candidato per i suoi contributi alla termodinamica e alla teoria del legame chimico nel 1924 e nel 1925 senza risultato positivo (a quanto risulta nel 1925 Arrhenius diede parere negativo). Nel 1926 fu ancora candidato e ottenne un parere favorevole da un altro chimico svedese, Theodore Svedberg, che suggerì tuttavia che a Lewis fosse attribuito il premio in un prossimo futuro, in attesa di nuovi contributi su termodinamica e legame. Ma nel 1926 Lewis aveva già abbandonato le ricerche in termodinamica e teoria del legame, così il Nobel per la Chimica 1926 fu assegnato proprio a Svedberg “per i suoi lavori sui sistemi dispersi”. Negli anni successivi le candidature di Lewis aumentarono, solo nel 1929 ne ottenne sei, quattro nel 1932. L’ultima la ricevette nel 1940. In totale ottenne 35 candidature. Secondo N. Gussmann è stato proprio il lungo rancore verso Nernst che precluse per sempre il Nobel a Lewis [2].

Oltre alla termodinamica e al legame, Gilbert N. Lewis ha dato contributi importanti in teoria della relatività (si è sempre considerato sia un chimico sia un fisico), ha isolato e caratterizzato per primo l’acqua pesante[8], insieme al suo ultimo allievo, Michael Kasha, stabilì che la fosforescenza di alcuni composti organici è dovuta all’emissione di luce da parte di un elettrone nello stato di tripletto.

Gilbert Newton Lewis è morto nel 1946 in circostanze quantomeno poco chiare [3]. Secondo W. B. Jensen se fosse vissuto più a lungo avrebbe ottenuto il Nobel per la Chimica insieme a Linus Pauling nel 1954 per il suo contributo alla teoria del legame chimico [4]. Jensen non è il solo a fare questa ipotesi, vedremo perché in un prossimo post.

Riferimenti.

[1] W.H. Copper, Great Physicists. The life and times from Galileo to Hawking, Oxford University Press, Oxford, 2001, p. 131

[2] N. Gussmann, How Not to Win the Nobel Prize, www.chemheritage.org/discover/media/periodic-tabloid/archive/2011-10-19-how-not-to-win-the-nobel-prize.aspx

[3]http://www.che.ncku.edu.tw/FacultyWeb/ChenBH/E340100%20Thermodynamics/Supplementary/Gilbert_Lewis%20Nov.%202%202011.pdf

[4] W.B. Jensen, http://www.britannica.com/biography/Gilbert-N-Lewis

Note.

[1] Il supervisore della tesi fu Theodore W. Richards, primo americano a vincere il Nobel per la Chimica nel 1914 in riconoscimento “della sua accurata determinazione del peso atomico di un gran numero di elementi chimici”.

[2] Walther Nernst, fisico tedesco (1864-1941), personaggio importantissimo per la chimica fisica (termodinamica, elettrochimica, fisica dello stato solido), Premio Nobel per la Chimica 1920 in riconoscimento “dei suoi lavori in termochimica”. Curioso il fatto che Nernst ricevette il premio 1920 nel 1921 perché il Comitato del 1920 ritenne che nessuno dei nominati avesse i requisiti in quell’anno (http://www.nobelprize.org/nobel_prizes/chemistry/laureates/1920/index.html.)

[3] Wilhelm Ostwald, chimico russo-tedesco (1853-1931), straordinario personaggio della chimica fisica, Premio Nobel per la Chimica 1909 “per i suoi lavori sulla catalisi e per le sue ricerche sui principi fondamentali che governano gli equilibri chimici e le velocità di reazione”.

[4] Josiah Willard Gibbs, scienziato americano (1839-1903) ha dato contributi fondamentali in matematica, fisica e chimica, fondatore, insieme a Maxwell e Boltzmann, della meccanica statistica. Persona riservata e schiva pubblicò i suoi importanti lavori nelle Transactions of the Connecticut Academy, una rivista minore, fortunatamente letti da Maxwell, Helmholtz e qualche altro fra cui Einstein. Gibbs è noto agli studenti di chimica per la funzione energia libera G, o meglio ΔG, così chiamata in suo onore.

[5] Pierre Duhem, scienziato francese (1861-1916), fisico e filosofo, è noto ai chimici per l’equazione di Gibbs-Duhem, che interpreta le variazioni del potenziale chimico dei componenti in un sistema termodinamico.

[6] Ovviamente i chimici teorici contemporanei sono in grado di apprezzare la formulazione matematica più raffinata, tuttavia gran parte di essi ritiene che la termodinamica classica non riservi più sorprese e sono del parere che andrebbe ridimensionata nei corsi di chimica fisica a vantaggio di argomenti moderni. Ricordo però che il Prof. Paolo Mirone (1926-2012), noto spettroscopista ed eccellente didatta mi disse che anche dopo più di trent’anni di insegnamento della termodinamica, alcuni punti della trattazione gli ponevano interrogativi…

[7] Il testo è stato ripubblicato, revisionato da K.S. Pitzer e L. Brewer, nel 1961 sempre da McGraw Hill Book Co., New York. L’edizione italiana: Termodinamica – con prefazione di A.M. Liguori, Leonardo Edizioni Scientifiche, è del 1970. Gli attuali testi universitari di Chimica Fisica presentano la termodinamica (classica) sostanzialmente nello stesso modo del libro di Lewis & Randall.

[8] La scoperta del deuterio si deve a Harold Urey, allievo di Lewis, Premio Nobel per la Chimica 1934 proprio per quella scoperta. Molti sostengono che avrebbero dovuto assegnare il premio a entrambi, ma ancora una volta non è stato così.

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E’ APERTA LA RACCOLTA DI FIRME PER LA PETIZIONE ALLA IUPAC per dare il nome Levio ad uno dei 4 nuovi elementi:FIRMATE!

https://www.change.org/p/international-union-of-pure-and-applied-chemistry-giving-name-levium-to-one-of-the-4-new-chemical-elements