La nitriera borbonica del Pulo di Molfetta. Una storia poco conosciuta.

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Angela Rosa Piergiovanni

piergiovanniForse non è molto noto che il fenomeno del carsismo è molto comune in Puglia. Le Grotte di Castellana, in provincia di Bari, rappresentano sicuramente il risultato più spettacolare e sono una delle maggiori attrazioni turistiche della regione. In realtà, il territorio pugliese è costellato da una varietà di strutture carsiche sia ipogee che epigee (grotte, doline o puli, gravine e lame) che, essendo decisamente meno spettacolari delle grotte di Castellana, restano ai margini degli itinerari turistici più frequentati o ne sono del tutto escluse. Il Pulo di Molfetta, in provincia di Bari, ne è un esempio eppure avrebbe molte interessanti storie da raccontare dall’insediamento neolitico ritrovato ai suoi margini, al convento cinquecentesco dei frati cappuccini ma è anche un esempio, forse unico in Italia, di archeologia industriale collegata al carsismo.

Il Pulo è una depressione di forma ovoidale, con un diametro di circa 170 metri, un perimetro di quasi 600 metri e una profondità intorno ai 35 metri. Una immagine da satellite permette di apprezzare meglio forma e dimensioni (Fig. 1).

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Fig. 1. Veduta aerea del Pulo (fonte Google Earth).

La sua origine è dovuta al crollo in tempi molto remoti della volta di ampie cavità sotterranee generate appunto dal carsismo. La conformazione del territorio antecedente al crollo è intuibile osservando le pareti verticali che sono costellate da numerose grotte poste su vari livelli, molte delle quali sono comunicanti tra loro. L’attuale aspetto, sicuramente molto diverso da quello immediatamente dopo il crollo della volta, è frutto di millenni di erosione ad opera degli agenti atmosferici. Questa erosione ha prodotto nel tempo molteplici crolli delle pareti laterali, costituite da calcari organogeni del cretaceo inferiore, ampliando progressivamente la depressione originaria. La penetrazione, e quindi l’azione corrosiva, delle acque meteoriche è infatti favorita dalla fitta stratificazione a “chiancarelle” delle rocce e da una loro notevole fratturazione in senso verticale. Peculiarità del Pulo non è la formazione nei millenni di stalattiti o stalagmiti ma dei nitrati di grotta. Si tratta di una patina biancastra di salnitro che ricopre ampie zone delle pareti e delle volte delle grotte. La formazione del salnitro è causata dalla decomposizione di materiale organico nel suolo sovrastante la dolina. Questo, disciogliendosi nell’acqua piovana, passa nella roccia sottostante ad alta porosità. Il percolato incontra lungo il cammino verso il basso, delle cavità in cui parte dell’acqua evapora producendo il suo progressivo arricchimento in composti azotati. Sulle pareti interne delle grotte, nella zona più vicina all’interfaccia roccia-aria, i composti azotati del percolato possono subire l’azione ossidante dei batteri che da luogo alla formazione di acido nitrico. L’acido così prodotto si combina con i composti basici circostanti contenenti potassio, calcio e magnesio. L’evaporazione dell’acqua residua da luogo ai nitrati che, in condizioni di saturazione, si depositano nelle fratture della roccia.

La casuale scoperta della presenza di salnitro nelle grotte del Pulo avvenne nel 1783 ad opera dell’abate Fortis, studioso padovano in visita in Puglia su invito del canonico molfettese Giuseppe M. Giovene che aveva iniziato la sistematica ricognizione scientifica del Pulo.pulo1

(Pulli 1817)

Questa la descrizione che ne fece il Pulli circa 20 anni dopo, in cui è riportato come alle grotte di maggiore rilevanza vennero dati i nomi dei regnanti del tempo. La notizia del ritrovamento non sfuggi all’attenzione delle autorità borboniche. Infatti, questa inaspettata fonte di salnitro poteva rappresentare una parziale alternativa alla dipendenza delle strutture statali da appaltatori privati che all’epoca, gestivano la produzione del salnitro a partire dallo stallatico obbligatoriamente conferito dai contadini. Alla fine del ‘700 la disponibilità di salnitro era garanzia di un adeguato armamento dell’esercito. Infatti, esso era il componente principale della polvere pirica, che si otteneva miscelando nitrato di potassio, carbone di legna e zolfo in rapporto 7:2:1, rispettivamente. Per sfruttare le potenzialità di questa nuova fonte di salnitro nel gennaio del 1784 divenne operativa all’interno del Pulo la “Reale Nitriera Borbonica”. Si trattava di una complessa struttura industriale concepita per trasformare in loco il salnitro estratto dalle grotte sfruttando la disponibilità di legna fornita dalle campagne circostanti, la falda acquifera sottostante facilmente accessibile e un sistema per la raccolta dell’acqua piovana. L’impianto era costituito da tre distinti corpi di fabbrica, in parte in muratura, destinati alle diverse fasi del lungo e laborioso ciclo produttivo. Un complesso sistema di vasche, canali e cisterne consentiva la lisciviazione delle terre nitrose estratte dalle grotte del lato nord della dolina. L’acqua madre così ottenuta ricca di nitrati subiva una fase di decantazione in una vasca interrata. Successivamente il liquido madre era trasferito nell’edificio dotato di fornaci in cui avveniva la cottura e raffinazione del salnitro grezzo. Nella prima fase di operatività della struttura (1784-1786) la cottura avveniva in 4 piccole fornaci ciascuna contenente una caldaia metallica (Fig. 2).

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Fig. 2. Fornaci per la cottura del salnitro grezzo (fonte Radina 2007).

La fase finale del processo produttivo si svolgeva nell’ultima struttura costituita da un vano in cui il salnitro era lasciato cristallizzare in appositi catini di ceramica invetriati internamente. A completamento della nitriera fu riadattato il cinquecentesco convento dei cappuccini, posto all’ingresso della dolina, che divenne sede del corpo di guardia incaricato di sorvegliare l’opificio. All’epoca esistevano diverse nitriere in “Terra di Bari”, alcune delle quali in comuni limitrofi a Molfetta pertanto, sebbene le modalità operative fossero diverse da quelle adottate nel Pulo, il raffronto in termini di produzione fu inevitabile. Dopo solo due anni dall’inizio delle attività, le denunce per la scarsa produttività portarono a miglioramenti del processo produttivo e alla sostituzione dei responsabili della nitriera. Fu abbandonato l’uso di acqua salmastra per la lisciviazione delle terre nitrose e per incrementare la produzione il sopraintendente Targioni fece costruire, tra il 1787 e 1789, una fornace a setti radiali di dimensioni decisamente maggiori rispetto alle fornaci già in uso (Fig. 3).

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Fig. 3. Grande fornace a setti radiali per la cottura del salnitro grezzo (fonte Radina 2007).

L’attenzione che la nitriera e il processo produttivo utilizzato per l’estrazione del salnitro suscitò tra gli studiosi del tempo fu notevole. Il famoso geologo francese Dieudonné Tancrède Gratet de Dolomieu accolse con meraviglia la scoperta dell’abate Fortis e molti illustri personaggi del tempo visitarono personalmente la nitriera. Tra essi vanno ricordati il naturalista G.A.W. Zimmermann, il mineralogista inglese sir John Hawkins, l’illuminista teramano Melchiorre Delfico, il conte svizzero Karl Ulysses von Salis Marschlins. A seguito della sua visita Zimmermann stilò un accurato resoconto sull’opificio nel “Viaggio alla nitriera naturale di Molfetta” che fu presentato il 27 agosto 1788 all’Académie Royale des Sciences di Parigi.

Sir J. Hawkins, nella sua visita avvenuta nel 1788, disegnò la famosa veduta del Pulo donandoci una istantanea del tempo che consente oggi di visualizzare la nitriera borbonica in attività (Fig. 4).

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Fig. 4. Veduta di J. Hawkins tratta da G. Zimmerman “Voyage à la nitrière nauturelle qui si trouve à Molfetta dans la Terre de Bari en Pouille”. (Bari Biblioteca Provinciale De Gemmis).

In primo piano sono ben visibili due costruzioni con tetto spiovente ricoperto di tegole, attribuibili ai corpi di fabbrica utilizzati per la cottura e lo stoccaggio del salnitro. Analizzando attentamente la veduta si può osservare come la vegetazione arborea circostante appaia molto ridotta, soprattutto se confrontata alla situazione attuale (Fig. 1). Presumibilmente gli alberi presenti nel Pulo furono i primi ad essere utilizzati come combustibile per le fornaci. Infine, sullo sfondo sono ben evidenti i cumuli di pietrame residui del processo estrattivo.

L’attività della nitriera ebbe però vita breve poiché la produzione nonostante gli sforzi dei gestori non raggiunse mai livelli molto elevati. Il 25 ottobre 1808 l’ispettore generale delle nitriere e polveriere del Regno di Napoli, il chimico terlizzese Pietro Pulli (1771-1841), visitò la nitriera del Pulo trasmettendo alle autorità una relazione su quanto osservato. Nel documento sono descritti in dettaglio i corpi di fabbrica utilizzati nel ciclo produttivo, le caratteristiche delle rocce ma soprattutto non sono risparmiate critiche a chi, non esperto in scienze chimiche, aveva ritenuto di individuare nel Pulo una abbondante fonte di salnitro.

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pulo3 (Pulli 1817)

Questo rapporto in cui erano ben evidenziati tutti i punti deboli del ciclo produttivo indusse le autorità a decretare la chiusura della “Reale Nitriera Borbonica”. Iniziò così il lento ed inesorabile degrado delle strutture mentre il Pulo nel suo complesso tornava ad essere utilizzato da privati per scopi esclusivamente agricoli.

Recenti campagne di scavo condotte tra il 1997 e il 2003 hanno consentito il recupero e restauro di quanto rimaneva delle strutture della nitriera borbonica (Fig. 5) consentendo anche la fruizione del sito da parte dei visitatori.

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Fig. 5. Veduta aerea dei resti murari della nitriera borbonica (fonte Google Earth).

Purtroppo anche questa nuova vita della nitriera ha avuto vita breve per vicissitudini burocratiche e l’oblio è nuovamente calato su questo esempio di archeologia industriale decisamente particolare. Oggi è possibile ripercorrere parte di questa storia, come quella più generale del Pulo, come sito di insediamenti umani in epoca neolitica, visitando il “Museo Civico Archeologico del Pulo” a Molfetta. Unica nota positiva che è possibile trovare in questa vicenda di recupero e abbandono, purtroppo non unica nel nostro paese, è rappresentata dal fatto che la mancanza di una stabile presenza antropica nella dolina garantisce la sopravvivenza di un’isola di flora mediterranea, in gran parte spontanea, ed un rifugio per l’avi-fauna ad appena un chilometro dal centro abitato. Le oltre 200 specie vegetali recentemente censite ne fanno un hot spot di biodiversità vegetale di notevole rilevanza scientifica. Tuttavia cercare di conciliare la tutela della biodiversità e la fruizione del sito e della sua storia sarebbe sicuramente un bel risultato per la collettività.

Bibliografia

Chiapperini R. 1983. Contributo botanico e bibliografico per lo studio della flora pugliese: con particolare riguardo al Pulo di Molfetta e alla provincia di Bari. Mezzina Ed., Molfetta.

De Santis M.I. 1983. Molfetta nella descrizione di viaggiatori del Settecento e le vicende della nitriera borbonica al Pulo, Mezzina Ed., Molfetta.

Flores E. 1899. Il pulo di Molfetta: stazione neolitica pugliese. Conferenza tenuta in Molfetta nella sede della societa Dante Alighieri il 19 marzo 1899. V. Vecchi Ed., Trani.

Pulli P. 1817. Statistica nitraria del regno di Napoli. Vol II, F.lli Chianese ed., Napoli, pag. 217-226.

Radina F. 2007. Natura, archeologia e storia del Pulo di Molfetta. Adda Ed., Bari.

Link utili per approfondimento

https://www.youtube.com/watch?v=Mrh7cYetE7k

http://www.pulodimolfetta.it/index.php/

L’odore del mare.

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Claudio Della Volpe

L’odore del mare.

C’è una bella canzone di Eduardo De Crescenzo che parla dell’odore del mare,

Se penso al mondo come a un’armonia

tutto è giusto sia così

se ogni strada è la strada mia

il mio posto è stare qui

L’odore del mare mi calmerà

la mia rabbia diventerà

amore amore è l’unica per me

né dare né avere la vita va da sé

né bene né male intorno a me non c’è

né luna né sole è tutto nel mio cuore

Già ma da dove viene l’odore del mare? E perchè ogni mare ha il suo, e quello di Pescara non sa come quello di Napoli? É la domanda da cento milioni che mi ha fatto il solito amico di Napoli, che mi aveva già fatta quella della pietra focaia; e perchè non pensiate che me lo sono inventato vi dico anche come si chiama: Biagio, è un chimico pure lui, ormai in pensione, ma sempre chimico e anche appassionato di cucina. Non ho intenzione di togliere la poesia a questa cosa, per carità, ma anzi forse la poesia ne esce rinforzata, non diminuita perchè dopo tutto ha colto, prima della scienza, la tipicità dell’odore del mare.

Allora supponiamo che siate in spiaggia o in una città di mare, sapete da dove viene quel particolare odore che è tipico del mare, e del vostro mare in particolare? Quando respirate a pieni polmoni l’aria salmastra minuscole gocce di acqua di mare, di aerosol marino vi entrano nei polmoni e voi state letteralmente gustando il vostro mare; e anche ad una certa distanza da esso rimangono gli odori dei principali costituenti biologici e chimici di una miscela molto complessa.

Una possibile spiegazione è dunque che l’odore del mare venga da una miscela di composti la cui precisa composizione è diversa da caso a caso.

Ci sono almeno tre diverse classi di composti che vi contribuiscono:

-il DMS, dimetilsolfuro mare1

-i dictioptereni, (di seguito dictiopterene D, C, B)

mare2 mare3  mare5

ed infine i bromofenoli mare6.

Vediamo meglio.

Il DMS è un prodotto della degradazione dei tessuti, del catabolismo delle alghe o del fitoplancton, viene dal dimetilsolfoniopropionato (DMSP), la cui formula è indicata nella figura seguente che da ragione anche dei rapporti reciproci fra le due molecole.

Nell’articolo da cui è tratta questa immagine si discutono gli enzimi che degradano il DMSP e la loro genetica; quegli enzimi si trovano in varie specie batteriche sia marine che terrestri, perfino in batteri che si trovano in sistemi produttivi semplici, come nella produzione di alcuni formaggi, che hanno di fatto l’aroma “del mare”.mare7

La cosa interessante è il compito climatico di questa molecola che gioca un ruolo nel ciclo complessivo dello zolfo; nella immagine di Science si fa riferimento al fatto che , direttamente, o indirettamente tramite i suoi prodotti di ossidazione, il DMS svolge un ruolo nella formazione di nuclei di condensa del vapore acqueo; a loro volta tali nuclei sono indispensabii nella formazione delle nuvole, perchè, come molti di voi ricorderanno, la transizione di fase vapore/liquido è sfavorita in modalità omogenea, ossia senza nuclei di condensa, a causa del cosiddetto effetto Kelvin. La tensione di vapore di un liquido o il suo potenziale chimico aumenta con la curvatura, quindi diminuisce con il raggio di curvatura; quando un vapore condensa, se non si supera un certo volume di condensato il nucleo tende a rievaporare velocemente; viceversa se c’è un nucleo di condensa il volume necessario è già fornito da questo nucleo o direttamente o come contributo di energia libera di miscelamento che riduce la spinta a rievaporare.

In sostanza senza nuclei di condensa non ci sarebbero nuvole. Il DMS gioca quindi un ruolo cruciale sulle grandi aree oceaniche; molti anni fa il chimico James Lovelock, il padre (insieme a Lynn Margulis, una biologa) della ipotesi GAIA, aveva ipotizzato questo ruolo del DMS, la cosiddetta ipotesi CLAW, illustrata nella seguente immagine (CLAW è un acronimo dalle iniziali dei proponenti).mare8

In entrambi i casi si tratta del fatto che l’aumento del catabolismo del fitoplancton interagisce in modo positivo o negativo con la formazione di nuvole e la formazione di nuvole a sua volta interagisce con la formazione del fitoplancton. Il riscaldamento dell’oceano viene diminuito dalla formazione delle nuvole stimolata dal catabolismo del fitoplancton (più caldo l’oceano, più fitoplancton, più DMS, più nuvole, meno luce, meno caldo l’oceano), ma può anche esserne aumentato (più caldo l’oceano, più stabilità convettiva, meno risalita di nutrienti, meno plancton, meno DMS, meno nuvole, più luce, più caldo l’oceano). Cogliete anche voi che le due ipotesi, entrambe ragionevoli, (ma non ancora verificate bene) funzionano in intervalli diversi di condizioni. Si tratta di meccanismi di retroazione spontanei che di fatto consentono alla biosfera di possedere modalità di equilibrio, di omeostasi, o di evoluzione che a prima vista appaiono frutto di un disegno intelligente, ma che in realtà non sono diversi dai meccanismi di retroazione negativa classici (come quello del galleggiamento di un corpo) o di retroazione positiva e quindi di allontanamento dall’equilibrio (come l’effetto Droste o l‘effetto Larsen), conosciuti per sistemi inanimati.

I dictioptereni sono invece composti volatili di origine naturale, prodotti dagli organi sessuali delle alghe brune (le cosiddette Feoficee) e giocano il ruolo di feromoni ; in qualche modo potremmo considerarli l’equivalente dei profumi delle piante terrestri, servono ad ottimizzare la riproduzione sessuata delle alghe che li producono, attirando e fissando la componente spermatica. Probabilmente il loro nome (dal greco ali a rete) viene dalla loro struttura così singolare che ricorda appunto un uccello visto di fronte, non essendoci alcun legame con gli insetti dictiopteri. (Qualcuno ne sa di più?)mare9

Macrocystis pyrifera (in inglese Giant Kelp)

Gli uccelli usano sia il DMS che i dictioptereni come segnali della presenza di specie predabili e quindi sono molto sensibili al loro odore.

Ed infine i bromofenoli.

Questi composti anch’essi di origine naturale danno l’aroma a molti cibi e prodotti marini a cui siamo abituati come granchi, gamberi; ma non sono questi animali a produrli ma piuttosto essi li assorbono dal loro medesimo cibo, ossia dai vermi marini, dalle alghe e da altri piccoli esseri che fungono da prede.

La deduzione di questo fatto viene dall’osservazione che alcune specie, come i salmoni del Pacifico che dividono la loro esistenza fra il mare e le acque dolci aumentano il proprio contenuto in bromofenoli massimamente durante la loro permanenza in mare, ma la riducono moltissimo mentre sono in acque dolci; ragionevolmente dunque essi assorbono questi composti attraverso la dieta in ambiente marino.

L’idea di riprodurre questa situazione aggiungendo direttamente i bromofenoli alla dieta di pesci cresciuti in cattività non ha funzionato granchè.

Quale ruolo svolgano per gli esseri che li producono non è ben chiaro; probabilmente servono come aggressivo chimico o per difendersi dall’attacco di altre specie, quindi come pesticidi naturali o dissuasori di attacco. Hanno mostrato attività utili in medicina e per questo motivo sono ampiamente studiati.

Noto di passaggio la confusione che regna su internet dove si richiamano questi composti sostenendo che quando sono concentrati il loro odore diventa spiacevole a causa della componente iodica(sic!?): insomma bromo o iodio?

E’ vero che c’è un ciclo dello iodio i cui attori biologici sono i medesimi di cui abbiamo parlato finora, ma bromo e iodio rimangono elementi distinti!mare10

Insomma la conclusione è che l’odore del mare, come l’odore dei prati in fiore dipende dalle creature che vi abitano, che producono molte molecole diverse, usando queste classi di sostanze o come messaggeri chimici della loro vita sessuale, o come componenti del proprio cibo o come pesticidi spontanei (ricordate per esempio le sostanze cosiddette allelopatiche prodotti da alcuni alberi?) o come cataboliti, come molecole prodotte dal loro metabolismo o perfino dalla loro morte. E’ chiaro allora che in dipendenza della abbondanza dei singoli composti che abbiamo citato, ciascun ambiente marino avrà il proprio profumo, esattamente come l’odore di un prato, o di una foresta o di una palude sono diversi fra di loro ma possono condividere certe componenti. Ovviamente queste molecole hanno un doppio ruolo perchè esse saranno presenti in acqua come soluto, ma avranno una loro tensione di vapore, specifica, in dipendenza da concentrazione e temperatura e anche questo contribuirà a formare uno specifico “odore di mare” in ogni circostanza.

Riferimenti

J.D. Todd et al. Structural and Regulatory Genes Required to Make the Gas Dimethyl Sulfide in Bacteria2 FEBRUARY 2007                  VOL 315    SCIENCE                   www.sciencemag.org

http://www.eurekalert.org/pub_releases/2007-02/uoea-cts012907.php

Popular Science http://www.popsci.com/seasmells Why Does The Sea Smell Like The Sea?

https://en.wikipedia.org/wiki/CLAW_hypothesis

Preistoria del legame a idrogeno

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Rinaldo Cervellati

Sebbene secondo Linus Pauling T.S. Moore e T.F. Winmill siano stati i primi a invocare il legame a idrogeno per spiegare la minore basicità dell’idrossido di trimetilammonio rispetto a quella dell’idrossido di tetrametilammonio nel 1912 [1], non v’è dubbio che la descrizione del legame a idrogeno nel suo ambiente più noto, l’acqua, apparve nel 1920 a opera di Wendell M. Latimer e Worth H. Rodebush [2]. Entrambi, a quel tempo, facevano parte del gruppo di giovani chimico-fisici raccoltisi attorno a Gilbert N. Lewis a Berkeley. Di Latimer abbiamo parlato diffusamente in un precedente post[1], Rodebush (1887-1959) si trasferì come professore associato all’università dell’Illinois nel 1921. Latimer, in una sua breve autobiografia, scrisse:

“In my early paper (1920) with W. H. Rodebush, I first clearly stated the principle of hydrogen bonding, which is now so generally accepted. In this paper Rodebush wrote the first half on the general concept of polarization, and I wrote the last half which dealt with the structural interpretation. We naturally had to get G. N. Lewis’ permission to publish the paper since we used his new theory of valence, and it was only with considerable argument that I was able to keep the hydrogen-bond theory in the paper.[3]

Il lavoro di Latimer e Rodebush, il primo articolo di Latimer, è suddiviso in tre parti oltre all’introduzione: Ionization of Polar Compounds, Ionization of Compounds not Higly Polar, Associated Liquids. Latimer afferma che la parte scritta da lui concerne l’interpretazione strutturale. Questa interpretazione non riguarda solo l’ipotesi del legame a idrogeno ma anche in larga misura il confronto fra l’acidità di diversi composti e la loro struttura in base alla teoria di Lewis.

Ad esempio:

La forza di un ossiacido può essere considerata in termini di forze che tendono a distorcere l’ottetto dell’ossigeno. Lewis, nel suo lavoro “The Atom and the Molecule” ha discusso l’effetto della sostituzione di un atomo di cloro nell’acido acetico. Le idee che ha espresso possono essere considerevolmente estese in connessione con gli acidi ossigenati inorganici. Così per l’acido solforico:

preistoria1

l’attrazione del kernel [nucleo] dello zolfo per gli elettroni messi in comune con l’ossigeno e la repulsione fra i kernel dello zolfo e dell’ossigeno tende a distorcere l’ottetto dell’ossigeno dalla sistemazione cubica. Ovviamente questa attrazione degli elettroni verso lo zolfo insieme alla repulsione del kernel dell’ossigeno indebolirà la forza con cui l’idrogeno trattiene una coppia di elettroni in comune con l’ossigeno. Tanto più alta è la carica positiva sul kernel centrale, tanto maggiore sarà la distorsione. Quindi, per ogni riga orizzontale del sistema periodico, gli ossiacidi di alta valenza, esempio l’acido silicico (H4SiO4), l’ortofosforico, l’acido solforico e l’acido perclorico, diventeranno più forti con l’aumentare del numero atomico. [2, p. 1427]

Notare come la “sistemazione cubica” degli elettroni attorno al kernel (nucleo) sia ancora utilizzata, tuttavia la considerazione delle forze attrattive e repulsive e la chiara definizione di elettronegatività riportata nell’introduzione [2, p. 1419], conducono a risultati corretti, in accordo con i dati sperimentali.

Ancora più interessante è l’esempio dell’acido nitrico.

La struttura dell’acido nitrico può essere una di queste due:

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Sotto la spinta di un atomo fortemente elettronegativo come l’ossigeno, l’ottetto dell’azoto può non essere stabile formando un sestetto [struttura a sinistra]. L’analisi a raggi X delle strutture del gruppo nitrato nel nitrato di sodio sembrano confermare questa ipotesi. La stessa cosa è senza dubbio vera per gli acidi borico e carbonico.

La struttura dell’acido nitroso può quindi essere scritta come:preistoria4

Qui abbiamo un altro esempio di una coppia libera di elettroni sull’atomo centrale. Ciò spiega il fatto che l’acido nitroso è più debole dell’acido nitrico. [2, p. 1429]

Tornando all’oggetto di questo post, Latimer espone la sua teoria del legame a idrogeno nell’ultima parte dell’articolo, “Associated liquids”. Dopo aver criticato l’ipotesi che l’aggregazione delle molecole nei liquidi è sostanzialmente correlata alla costante dielettrica e al potere ionizzante del liquido come solvente, scrive:

Confrontiamo ancora i composti ammoniaca, acqua e acido cloridrico. L’ammoniaca addiziona facilmente un idrogeno, ma ha scarsa tendenza a cederne uno. D’altro canto l’acido cloridrico mostra proprio la tendenza opposta. L’acqua occupa una posizione intermedia e mostra tendenze sia a cedere sia a acquistare idrogeno, che sono quasi bilanciate. Quindi, in termini della teoria di Lewis, una coppia non condivisa di elettroni su una molecola di acqua potrebbe essere in grado di esercitare una forza sufficiente da attrarre un atomo di idrogeno legato all’ossigeno di un’altra molecola d’acqua, aggregando così le due molecole. Strutturalmente si può rappresentare cosi:preistoria5

Una tale combinazione non deve necessariamente essere limitata alla formazione di molecole [aggregati] doppie o triple. Infatti il liquido può essere costituito da grandi aggregati di molecole, continuamente rompendosi e riformandosi sotto l’influenza dell’ agitazione termica.

Questa spiegazione implica che il nucleo dell’idrogeno trattenuto fra due ottetti costituisca un “legame debole”. [2, p. 1431]

A questo punto nel lavoro di Latimer e Rodebush compare la seguente nota a piede di pagina:

Mr. Huggins [studente di dottorato] di questo laboratorio in qualche lavoro non ancora pubblicato, ha usato l’idea di un nucleo di idrogeno trattenuto fra due atomi come teoria riguardante certi composti organici.

In realtà pare proprio che questa ipotesi di Mr. Huggins[2] non venga molto considerata dagli autori infatti più avanti si legge:

Non si presume che ogni associazione sia di questo tipo. Nel’acido acetico, per esempio, l’associazione avviene certamente con la formazione di polimeri costituiti di 2 molecole. Questo tipo di associazione però produce proprietà radicalmente diverse da quelle di un liquido come l’acqua.[2, p. 1431]

Tuttavia, il tentativo di interpretare la formazione dell’idrossido di ammonio attraverso un legame a idrogeno con l’ossigeno dell’ossidrile:preistoria6

implica, in termini della teoria di Lewis questo legame dovrebbe essere abbastanza forte[3].

Per quanto riguarda l’acido fluoridrico viene detto:

E’ del tutto possibile nel caso dei composti dell’idrogeno con elementi più elettronegativi, per esempio il fluoruro di idrogeno, che l’attrazione simultanea di un ottetto altamente potente di elettroni, e la repulsione del forte nucleo positivo per l’idrogeno, possa provocare un movimento elastico dell’atomo di idrogeno in singola molecola.

L’associazione delle molecole è, tuttavia, molto probabilmente il fattore che determina l’estremamente elevata costante dielettrica.[2, p. 1432].

Questa è l’interpretazione di Latimer del legame a idrogeno in base alla teoria della valenza di Lewis, la storia più recente di questo legame e la sua importanza nella Chimica della Vita dovrebbe essere nota a tutti i chimici. Ecco la definizione IUPAC:

A particular type of multicenter (three center – four electron) X–H …Y in which the central hydrogen atom covalently linked to an electronegative atom X (C, N, O, S..) forms an additional weaker bond with atom Y (N, O, S..) in the direction of its lone electron pair orbital. The energy of hydrogen bonds, which is usually in the range of 3–15 kcal/mol (12–65 kJ/mol), results from the electrostatic interaction and also from the orbital interaction of the antibonding σ*(XH)MO of the molecule acting as the hydrogen donor and the non-bonding lone electron pair MOnY of the hydrogen acceptor molecule.[4]

 

[1] T.S. Moore, T.F. Winmill, The State of Amines in Aqueous Solution, J. Chem. Soc., 1912, 101, 1635-1676.

[2] W.M. Latimer, W.H. Rodebush, Polarity and Ionization from the Standpoint of the Lewis Theory of Valence, Journal of the American Chemical Society, 1920, 42, 1419-1433.

 [3] J.H. Hildebrand, Wendell Mitchell Latimer 1893-1955. A Biographical Memory, Biographical Memoirs, National Academy of Sciences, Whashington, D.C., 1958, p. 224

[4] IUPAC, Compendium of Chemical Terminology Gold Book, Version 2.3.3, 2014.02.24, p. 697

 

[1] https://ilblogdellasci.wordpress.com/2016/08/01/stato-di-ossidazione-e-numero-di-ossidazione-sono-sinonimi/

[2] Maurice Loyal Huggins (1897-1981) introdusse l’ipotesi del legame a idrogeno nella sua tesi di dottorato (1919) applicandola al tautomerismo dell’acido acetoacetico. Sfortunatamente la tesi andò perduta. Dopo il Ph.D a Berkeley continuò a fare ricerca sul ruolo del legame a idrogeno nella stabilizzazione della struttura secondaria delle proteine. Insieme a Flory ha elaborato un’importante teoria sui polimeri. Ha lavorato all’Arcadia Institute of Research a Woodsde, CA (USA).

[3]  E’ attualmente impossibile isolare la specie NH4OH perché essa sarebbe una frazione insignificante della quantità totale di NH3 eccetto che in soluzioni estremamente diluite.

Curarsi col cibo. Cosa è la nutraceutica.

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Luigi Campanella, ex Presidente SCI

Negli anni 80 l’Unione Europea denunciò a più riprese l’abuso di farmaci da parte dei consumatori con responsabilità assegnate sia a loro stessi che ai produttori.

La denuncia nacque dalla comparsa di residui farmaceutici nelle acque di moltissimi fiumi europei. In effetti non si trattava di comparsa, ma di concentrazione crescente ad una velocità temporale che se fosse stata mantenuta avrebbe portato nel 2050 i valori di tali presenze a limiti incompatibili con la vita nei fiumi.

Da qui la raccomandazione di mettere in piedi tutte le possibili alternative a tale spropositato utilizzo di sistanze, pure preziose contro malattie e patologie varie.La nutraceutica fu subito rilanciata come uno degli strumenti: curarsi con l’alimentazione è perfetto,si disse. Il discorso non è in effetti così semplice,ma il principio certamente valido.

Il termine “Nutraceutica” nasce , per indicare la disciplina che indaga tutti i componenti o i principi attivi degli alimenti con effetti positivi per la salute, la prevenzione e il trattamento delle malattie. Invece di mangiare e curarsi, ecco come curarsi mangiando. La Nutraceutica ha un compito complesso e fondamentale: sgombrare il campo dalle approssimazioni e trattare l’argomento con la scientificità e il rigore che merita.
Ciò significa raccogliere ed esaminare i test e le indagini sperimentali che vengono condotte in tutto il mondo, individuare quali componenti presenti nei cibi siano responsabili degli effetti benefici eventualmente riscontrati, fornire aggiornamenti costanti sulle più recenti ricerche.
Il ruolo della Nutraceutica diventa quindi decisivo per chi vuole conoscere nel dettaglio cosa succede veramente quando ci alimentiamo, quali principi si attivano e con quali conseguenze reali sulla salute. Nutraceutica deve quindi voler dire riconoscere, attraverso una rinnovata relazione tra biologia, chimica ,agraria, biologia ,biotecnologie e medicina, lo stretto rapporto che esiste tra le nostre abitudini alimentari e la nostra salute.

La maggior parte dei nutraceuticii ha origine vegetale e si trova nella frutta e nella verdura, come fibre, proteine di soia, fitosteroli e polifenoli. Molti nutraceutici possono anche trovarsi in farmacia come integratori alimentari. La gamma di possibilità offerta dal consumo di nutraceutici si è allargata negli ultimi tempi in modo considerevole: mantenimento del benessere , prevenzione delle patologie cardiovascolari e degenerative, rafforzamento del sistema immunitario, regolarizzazione delle funzioni intestinali, aiuto a fini sportivi e cosmetici.
I nutraceutici sono oggi una realtà medico-scientifica in costante espansione, sia per quanto riguarda il numero e l’accuratezza degli studi scientifici che per la diffusione di prodotti specifici (si pensi che negli USA si fatturano oltre 250 miliardi di dollari).

La nutraceutica nella sua prima fase di scienza riconosciuta è stata sosatanzialmente basata sul confronto di composizione fra alcuni farmaci,abusati più che usati, ed alcuni alimenti.Oggi la nutraceutica fha approfondito il suo ruolo potenziale con un carattere funzionale, rispetto alle composizioni viste nel loro complesso e non limitatamente al singolo composto responsabile del conferimento del carattere nutraceutico

L’altro aspetto di valore aggiunto della nutraceutica deriva dagli approfondimenti scientifici che l’assimilazione farmaco/alimento ha indotto e resi possibili.

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I semi di Salvia hispanica, ricchi di omega-3

 

Le verità della comunità scientifica

 Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Alberto Bellini**

albertobelliniuniboUn comunicato stampa della Società Italiana di Igiene, sostenuto dall’Istituto Superiore di Sanità, ha riaperto la discussione sugli impianti di incenerimento rifiuti. La Società Italiana di Igiene afferma con forza sette verità scientifiche sulla gestione dei rifiuti:

  • Le discariche inquinano più degli inceneritori.
  • La gestione dei rifiuti non può prescindere da inceneritori di ultima generazione, che hanno un bilancio energetico positivo.
  • Lo studio epidemiologico Moniter evidenzia chiaramente l’assenza di rilevanti rischi sanitari acuti e cronici per chi vive in prossimità degli impianti.
  • Il trasporto dei rifiuti, lontano da dove essi vengono generati, ha costi e impatti ambientali rilevanti.
  • È fondamentale una strategia di lungo periodo, basata anche su educazione ambientale.
  • I rifiuti accumulati per strada sono un segno di degrado, ma non sono documentate emergenze sanitarie particolari nel caso della città di Roma.
  • La teoria dei rifiuti zero è illusionistica ma è un falso mito, non solo perché di fatto inattuabile ma per la dimostrazione che le raccolte differenziate oltre una certa soglia (attorno al 60%) rischiano di non essere efficaci.

moniter

L’Istituto Superiore di Sanità definisce Moniter (studio commissionato dalla Regione Emilia-Romagna per valutare gli impatti ambientali e sanitari degli inceneritori) un “lavoro scientifico che ha documentato l’assenza di rischio sanitario per i cittadini che vivono nelle zone limitrofe”. “Un dato, condiviso e convalidato anche dalla comunità internazionale, europea e extraeuropea, attraverso studi che dimostrano, inoltre, che i termovalorizzatori di nuova generazione producono emissioni la cui qualità dell’aria in uscita è sostanzialmente migliore a quella in entrata“.

Stupisce in queste affermazioni l’assenza di ogni dubbio e di riferimenti bibliografici che le sostengano. In realtà, come sostenuto dall’Associazione dei Medici per l’Ambiente[1] e da Medicina Democratica[2], lo Studio Moniter ha dimostrato con chiarezza un aumentato rischio di aborti spontanei e di nascite pre-termine nelle popolazioni esposte alle emissioni degli inceneritori, e un aumento di incidenza di linfomi Non-Hodking per l’area di Modena. Inoltre, Medicina Democratica aveva espresso riserve[3] sul metodo adottato nello Studio, dubbi e richieste alle quali il Comitato Scientifico di Moniter non ha ancora risposto[4]. Dubbi che riguardano il perimetro di indagine e l’assenza tra gli indicatori dell’esposizione di matrici animali e vegetali, indicatori più sensibili agli effetti di diossine e PCB.

Pur cercando di evitare una battaglia “ideologica” tra due fazioni “estreme”: chi considera gli inceneritori una panacea per la gestione dei rifiuti, e chi li considera fonti di inquinamenti inaccettabili in un contesto urbanizzato; il comunicato stampa di SITI e ISS appare fortemente indirizzato verso la prima fazione e contiene alcune contraddizioni.

Presentare gli inceneritori come soluzioni migliorative rispetto alle discariche, è auto-contraddittorio: gli inceneritori, infatti, richiedono discariche di servizio per trattare ceneri e scarti, pari a circa il 30% in volume dei rifiuti in ingresso. Analogamente, quando si contesta il trasporto dei rifiuti a lunghe distanze dal punto di produzione, si dimentica che le discariche di servizio per le ceneri degli inceneritori (tossiche e altamente pericolose) sono spesso a grande distanza dagli impianti stessi.

Immaginare che la raccolta differenziata dei materiali debba essere limitata al 60% significa annullare rapidamente le riserve di materie prime disponibili. Una direzione in aperto contrasto con le politiche comunitarie che puntano sull’economia circolare per superare le crescenti difficoltà di un’area territoriale senza materie prime. Secondo gli studi della Comunità Europea, un uso più efficiente delle risorse lungo l’intera catena produttiva potrebbe ridurre il fabbisogno di fattori produttivi materiali del 17%-24% entro il 2030, con risparmi per l’industria europea dell’ordine di 630 miliardi di euro l’anno[5]. Bruciare i materiali contenuti nei rifiuti significa dover estrarre nuove materie prime per produrre nuove merci (magari “usa e getta”) con un impatto ambientale che non è limitato al singolo impianto di incenerimento ma che percorre tutta la filiera produttiva, dall’estrazione, alla trasformazione, alla commercializzazione delle merci e si riattiva a ogni accensione.

Affermare che la qualità dell’aria in uscita agli inceneritori è migliore di quella in ingresso, significa attribuire ai sistemi di abbattimento fumi un merito superiore a quello di Prometeo stesso: la distruzione di materia. In realtà, quei sistemi producono scarti tossici (in aria e in acque) e la combustione produce particolato ultra fine i cui effetti sulla salute sono unanimente riconosciuti[6]. D’altra parte, se un inceneritore avesse queste straordinarie proprietà, perché non costruirne uno di fianco a ogni ospedale?

Attendiamo ora le controdeduzioni della Società Italiana di Igiene e dell’Istituto Superiore di Sanità alle analisi di ISDE e Medicina Democratica. La comunità scientifica è attesa a un ruolo attivo e indipendente. Le affermazioni assolute sono lontane dal metodo scientifico, e le opinioni di decisori politici o di esperti di altri settori dovrebbero essere ignorate. Il condizionale è d’obbligo se la comunità scientifica abdica al suo ruolo di terzietà e analisi.

A mio parere, per la gestione dei rifiuti occorre una riforma strutturale, che si può sintetizzare in quattro punti.

  • Riduzione e prevenzione dei rifiuti, promuovendo l’immissione a consumo di materiali riciclabili, attraverso incentivi economici, ad esempio, fissando un contributo ambientale, inversamente proporzionale alla riciclabilità del prodotto.
  • Tariffe proporzionali alla produzione di rifiuti non riciclabili, per declinare il principio comunitario, chi più inquina più paga.
  • Piano pluriennale per la realizzazione di impianti di selezione e recupero dei materiali secchi (carta, plastica, vetro, metalli) e per il trattamento della frazione organica.
  • Piano pluriennale per gli impianti di smaltimento.

L’obiettivo delle prime tre azioni è la riduzione il rifiuto residuo indifferenziato al di sotto della soglia di 100 kg per abitante per anno, nel medio periodo – eg 2025. In questo modo, la quota di materiale da smaltire attraverso discariche e inceneritori sarebbe pari a circa 6 milioni di tonnellate ogni anno (nel 2014 è stata pari a circa 14.5 milioni di tonnellate). Assumendo che 80% del residuo venga trattato con inceneritori, sarà necessaria una capacità complessiva inferiore a 5 milioni di tonnellate. I 42 inceneritori attualmente operativi hanno una capacità complessiva pari a circa 6 milioni di tonnellate. Quindi, il piano di cui al punto (4) dovrà prevedere una riduzione ed equa distribuzione degli impianti, attualmente concentrati in Lombardia (13), Emilia-Romagna (8), Toscana (5). Una disomogeneità destinata a produrre tensioni sociali, e a non favorire un’efficiente gestione dei rifiuti. Emblematici alcuni dati riportati dallo studio di settore sui rifiuti di Cassa Depositi e Prestiti[7]: (1) le esternalità (costi sanitari e ambientali) associate al settore rifiuti sono pari a 157 € per ogni 1.000 € di valore aggiunto generato, mentre sono in media pari a 24 € per il totale delle attività economiche; (2) la percentuale di materia smaltita in discarica è inversamente proporzionale alla quota procapite degli investimenti per impianti. Nel paese le distanze rimangono enormi, si passa, infatti, da 45 € per abitante investiti in Emilia-Romagna nel periodo 2004-2008 a meno di 5 € in Calabria; la quota di rifiuti smaltiti in discarica è pari al 6-7% in Friuli Venezia Giulia e Lombardia, e pari a oltre 80% in Sicilia e Lazio[8].

Economia-circolare

La riduzione degli inceneritori è un’operazione necessaria per promuovere il recupero di materia e l’economia circolare, poiché essi sono impianti molto rigidi che richiedono una quantità fissa di materia. Realizzare un inceneritore significa ipotecare il futuro, ovvero prevedere che per i prossimi 20-30 anni sarà disponibile un’elevata quantità di materia non riciclabile e non separata alla fonte. Un’opzione che contrasta con le dinamiche economiche e industriali che vedono un’elevata sovra capacità impiantistica (in particolare in Nord Europa) e una costante riduzione di materiale indifferenziato. Queste dinamiche dovrebbero mantenersi e anzi esaltarsi per effetto delle politiche sull’uso razionale delle risorse che prevedono il disaccoppiamento tra produzione e consumo di materie prime e per effetto delle politiche ambientali che promuovono la raccolta differenziata di qualità. Politiche che si estenderanno per ragioni economiche e ambientali, ovvero per limitare l’uso di materia prima e risorse naturali, già oggi, in molti casi, vicino ai limiti di sfruttamento. Tra il 1900 e il 2009 il consumo di materiali da costruzione, metalli e minerali, energie fossili e biomassa è passato da meno di 10 a circa 70 miliardi di tonnellate all’anno[9].

 

[1] Comunicato stampa Associazione Medici per l’Ambiente – ISDE Italia, 17 agosto 2016, “replica a comunicato della Società Italiana di Igiene su inceneritori”.

Fai clic per accedere a 2016.08.17-Replica-a-SItI-su-presunta-utilità-ed-innocuità-degli-inceneritori-di-III-generazione-Comunicato-Stampa-ISDE-Italia.pdf

[2] Medicina Democratica, “Il mito di Prometeo offusca la visione della Società Italiana di Igiene”, 17 agosto 2016

Il mito di Prometeo offusca la visione della Società Italiana di Igiene

[3] Medicina Democratica, “Osservazioni sullo studio Moniter”, a cura di Agostino Di Ciaula e Patrizia Gentilini, gennaio 2012.

Fai clic per accedere a osservazioni-Moniter-MD.pdf

[4] Progetto MonITER, “Verbale della seduta del comitato scientifico del 16 marzo 2012”

Fai clic per accedere a CS120316.pdf

[5] Commissione delle Comunità Europea, “Verso un’economia circolare: programma per un’Europa a zero rifiuti”, 2 luglio 2014, COM(2014)398.

[6] WHO Regional Office for Europe, OECD (2015). Economic cost of the health impact of air pollution in Europe: Clean air, health and wealth. Copenhagen: WHO Regional Office for Europe

[7] Cassa Depositi e Prestiti, “Studio di settore: Rifiuti”, febbraio 2014.

[8] ISPRA, “Rapporto Rifiuti Urbani”, 2015.

[9] Senato della Repubblica, Servizio Studi Dossier Europei, “Le proposte sull’economia circolare”, 19 gennaio 2016.

 

**Alberto Bellini è professore associato presso l’Università di Bologna.
I suoi principali interessi di ricerca sono nell’ambito della conversione statica di energia da fonti energetiche rinnovabili, degli azionamenti elettrici digitali e della diagnostica preventiva delle macchine elettriche.
È stato coordinatore del progetto europeo Life+ RELS sulla gestione dei rifiuti.
È autore o co-autore di oltre 100 articoli scientifici, di 3 brevetti industriali e di un testo didattico.

Fluorazione delle acque potabili. Una questione controversa.

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Mauro Icardi

Esiste per ogni persona che si occupi di chimica, un filo che ci collega a qualche elemento. Non è semplice capire perché uno invece di un altro. Le suggestioni possono essere diverse e magari derivano da ricordi di lezioni scolastiche. Io ero interessato agli alogeni ed in particolare incuriosito dal fluoro. Forse le prime curiosità nascevano dalla pubblicità. Io posso definirmi della generazione di Carosello, contenitore pubblicitario che aspettavo di vedere ansiosamente, come quasi tutti i bambini. Negli anni 70 erano innumerevoli le pubblicità che dicevano meraviglie di dentifrici con nomi che mi ricordavano gli alogeni (anche se Chlorodont probabilmente faceva riferimento alla clorofilla più che al cloro…).
Il fluoro è un elemento molto noto per la sua capacità di creare composti anche a temperatura ambiente con quasi tutte le sostanze organiche ed inorganiche vista la sua elettronegatività.
Ricordo che rimasi molto impressionato dalle proprietà dell’acido fluoridrico che, mi venne spiegato, veniva usato per incisioni da effettuarsi sul vetro, quali quelle che molti anni fa si trovavano per esempio sulle bottiglie dei reattivi o nelle porte degli uffici.

fluoro

Eppure in molti paesi di area anglosassone quali Stati Uniti, Canada, Australia e Nuova Zelanda l’acqua potabile veniva e viene sottoposta a fluorazione con l’aggiunta di composti quali sodio fluoruro (NaF) o acido fluosilicico (H2SiF6).
L’ipotesi alla base di questo provvedimento era che il fluoro avrebbe effetto di prevenzione sulla carie dentaria.
In Italia ed in buona parte dell’unione europea l’acqua potabile non viene fluorata con l’eccezione di Irlanda e Gran Bretagna. In paesi quali Germania, Belgio, Austria e Francia è di normale uso il sale fluorato.
In Italia i primi studi ed esperimenti sull’efficacia dl fluoro come mezzo profilattico risalgono ai primi anni cinquanta e furono avviati dalla Clinica Odontoiatrica dell’Università di Pavia, diretta da Silvio Palazzi, in collaborazione con Alessandro Seppilli, direttore dell’Istituto di Igiene dell’Università di Perugia; le ricerche delle due Scuole confermarono il potere batteriostatico ed antifermentativo del fluoro applicato direttamente sullo smalto, oltre che quello preventivo e profilattico dei dentifrici fluorurati.
L’Italia in ogni caso non scelse di fluorare le proprie acque potabili per diverse ragioni,la prima fra tutte il fatto che in Italia la concentrazione media di fluoruri nelle acque si stima abbia un valore di concentrazione medio di 1 mg/lt, con scostamenti in zone quali quelle dei Castelli Romani dove è sensibilmente più alta.
Per quanto riguarda la normativa Italiana il limite di concentrazione dei fluoruri nelle acqua potabili è fissato a 1,5 mg/lt dal decreto legislativo 31 del 2001 che è la normativa di riferimento per i controlli di qualità.
In Italia non esistono normative relative alla fluorazione dell’acqua.
Per quanto riguarda il rapporto rischi/benefici di una fluorazione delle acque potabili, il dibattito è tutt’ora più che mai aperto.
La fluorazione delle acque può essere un intervento di sanità pubblica molto benefico nelle zone in cui le acque potabili sono povere di fluoruri. Il beneficio non si limita alla prevenzione della carie, ma protegge anche da infezioni, perdite di denti e patologie orali particolarmente dolorose.
Sono però noti anche danni conseguenti a fluorosi sia a livello dei denti che dell’apparato scheletrico.
Quindi sembrerebbe una decisione più sensata quella di applicare composti a base di fluoro localmente con le paste dentifricie piuttosto che tramite una profilassi diffusa tramite la distribuzione di acqua degli acquedotti municipali.

acquedotto

Questo anche per una ragione pratica: non tutte le persone utilizzano acqua di rubinetto per bere, anche se in Italia negli anni il gradimento è aumentato. Il 71,8%, sceglie l’acqua del rubinetto e quasi una persona su due, dichiara di berla sempre o quasi sempre (44%).

La fluorazione di acque municipali negli Stati Uniti condusse anche a proteste popolari non appena si ebbero maggiori informazioni sulla tossicologia dei fluoruri. Queste informazioni si ricavarono da studi condotti sulle industrie che utilizzavano fluoro o suoi composti per produzioni industriali. Il fluoro nel XX secolo è stato utilizzato dall’industria per la produzione di materiale plastico (teflon), nei refrigeranti industriali come il freon (prima che ne venisse vietata la produzione), e anche nell’industria farmaceutica. Un ben conosciuto medicinale utilizzato per curare stati ansiosi e depressivi ha come principio attivo la fluoxetina.
Dove però si lavoravano minerali contenenti fluoro da utilizzare come materie prime per le successive produzioni si riscontravano tra i lavoratori una serie di malattie lavorative che andavano da disturbi gastrici,neuromuscolari, fino agli sfoghi cutanei.
Un libro fondamentale sulla tossicologia del fluoro e dei fluoruri fu scritto dal medico danese Kaj Eli Roholm e venne tradotto in inglese nel 1937 con questo titolo : Fluorine intoxication – A clinical hygiene study with a review of the literature and some experimental investigation.
Roholm concluse anche, studiando gli operai di uno stabilimento di Copenhagen che trattava la criolite proveniente dalla Groenlandia, che i denti degli operai che contenevano più fluoro erano maggiormente rovinati. Ma manifestazioni di fluorosi dentale che macchiavano con chiazze giallastre i denti, si riscontravano anche nei figli di operaie che avevano ricevuto fluoro attraverso il latte materno.

dental-fluorosis

Per questa ragione, mentre la battaglia tra i favorevoli ed i contrari alla fluorazione delle acque proseguiva, nel 1950 negli USA a Seven’s Point un paese del Wisconsin dove la fluorazione dell’acqua potabile era in corso da cinque mesi si tenne un referendum pro o contro questo trattamento.

I No vinsero per 3705 voti contro 2166.

A fine 1955 risultarono effettuati 231 referendum in tutti gli Stati Uniti con un po’ più della metà (127) contrari al trattamento di fluorazione delle acque.

Attualmente la fluorazione è un argomento ancora controverso nei paesi in cui viene praticata.
Pensare di stabilire una stima esatta del consumo giornaliero di acqua che sia applicabile a tutta una popolazione risulta essere non semplice, se si tiene conto dei differenti stili di vita, e del fatto che il consumo di acqua varia molto da individuo ad individuo.
Diversi studi clinici hanno evidenziato che l’assunzione di fluoro in maniera continuativa attraverso l’acqua potabile potrebbe aumentare il rischio di contrarre osteosarcomi.
Per concludere penso che aggiungere qualcosa nelle acque di acquedotto sia una sorta di forzatura. E tutta la vicenda della fluorazione risente degli anni  ormai lontani in cui è stata proposta ed attuata.
Per la prevenzione dei disturbi dentali è preferibile praticare una corretta igiene orale piuttosto che attuare improbabili campagne di fluorazione di massa.
Anche se il fine dovesse essere quello di fare profilassi e prevenzione per persone economicamente svantaggiate. Lo scopo di chi gestisce una rete idrica è provvedere alla fornitura di acqua sicura e controllata. Non di trasformarla in una sorta di medicinale. Questa la mia personale opinione.
Ma se fate una ricerca in rete su questo argomento troverete pagine con le opinioni più diverse. Da quelle tutto sommato possibiliste sul portale Epicentro dell’ISS, fino a trovare pagine in cui questo argomento viene trattato con uno stile del tutto simile a quello dei sostenitori delle scie chimiche (Fluorizzazione- Controllo mentale delle masse?).
Queste sono le cose che riescono tutt’ora a sorprendermi. La capacità di costruire leggende e pseudoscienza, quasi ci trovassimo di fronte ad un nuovo medioevo.
Noi come chimici  possiamo e dobbiamo continuare con un lavoro continuo paziente e capillare di informazione.
E per quanto riguarda la questione fluoro (ma vale per ogni altro aspetto legato alla chimica che spesso viene tirata in ballo a sproposito) dobbiamo informare.
Per una questione di questo tipo sarebbe importante e auspicabile un confronto anche con altre categorie (medici e biologi per esempio).
Perché la questione resta aperta e meriterebbe un approfondimento.

Chimica ……olimpica.

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Claudio Della Volpe

Quando diciamo che la Chimica è dappertutto potrebbe sembrare di esagerare, ma non è così; in questi giorni, mentre mezzo mondo guarda a Rio e alle Olimpiadi due piccoli eventi sottolineano il ruolo centrale della nostra disciplina (e devo dire della sua interazione con la biologia).

Vediamo di cosa si tratta.

Il primo fatto a cui mi riferisco è la ormai famosa piscina verde. Una delle piscine usate per gli sport acquatici è rimasta ostinatamente verde nonostante tutti i tentativi di riportarla al suo colore “naturale” azzurro chiaro.

Piscine dell’impianto Maria Lenk a Rio de Janeiro

L’altro fatto invece è la composizione delle medaglie olimpiche, che costituiscono poi l’obiettivo almeno formale di tutto l’ambaradan olimpico. Di cosa sono fatte?

olimpiadi3Una delle piscine dell’impianto Maria Lenk, come si è visto dalle immagini, è diventata verde ed è rimasta tale a dispetto di tutti i tentativi di rimediare con notevoli polemiche sia degli atleti che dei giornalisti.

Alla fine la causa “ufficiale” è stata che l’uso intensivo della piscina ha cambiato il pH dell’acqua favorendo la colorazione, addirittura si è parlato del fatto che se gli atleti sono dopati la loro pipì avrebbe avuto effetti nefasti, beh tutte favole metropolitane; molti atleti hanno invece sostenuto che i filtri non funzionavano bene denunciando anche un cattivo funzionamento dell’impianto la cui acqua rimaneva troppo fredda. Probabilmente la causa vera non la sapremo mai al 100%, ma certamente non perchè, come ha sostenuto uno degli speaker ufficiali “la chimica non è una scienza esatta”.

Per rimediare si è proceduto al cambio dell’acqua integrale della piscina che sembra aver risolto la questione.

Ora le piscine, comunemente, diventano verdi a causa di un fenomeno base: la presenza di alghe, che si sviluppano spontaneamente quando il pH e la clorazione non sono ben controllate. Le alghe sono ubiquitarie, chi lavora con i termostati o le vasche termostatiche in laboratorio lo sa benissimo. Personalmente ho avuto le mie esperienze con le alghe perchè ho lavorato ripetutamente con vasconi molto grandi fino ad 1 metro cubo ed è molto difficile evitare lo sviluppo di alghe ed una colorazione verde o peggio la crescita algale massiva a meno di non usare prodotti che uccidano le alghe o ne rallentino lo sviluppo.

Nelle grandi piscine dove la copertura e l’uso umano rendono impossibile l’uso di prodotti tossici occorre sia controllare il pH sia usare un ossidante come il cloro, sotto forma di ipoclorito per controllare alghe e batteri.

Cosa potrebbe essere successo, escludendo la rottura dei filtri e la disattenzione ai normali controlli?

Sembra in effetti che un errore procedurale possa aver causato il problema; secondo una dichiarazione ripresa da alcuni giornali stranieri c’è stata una aggiunta di quasi un ettolitro di acqua ossigenata (anche se non sappiamo a quale concentrazione); l’acqua ossigenata si usa anch’essa per controllare lo sviluppo algale, ma i chimici sanno bene che mescolare due forti ossidanti come acqua ossigenata ed ipoclorito comporta una loro reazione reciproca

NaClO + H2O2 → NaCl + H2O + O2

e questo non è un bene perchè in questo modo invece di usare il loro potere ossidante contro le alghe entrambi vengono neutralizzati.

Probabilmente, quindi, il responsabile del problema è stato l’eccesso di zelo; per evitare problemi si sono usati in modo non competente due ossidanti che si sono neutralizzati fra di loro.

L’altra questione è quella delle medaglie; la risposta la da (forse) il sito Compound Interest, uno dei più documentati di lingua inglese con la seguente tabella:

olimpiadi2Come potete osservare le medaglie d’oro non sono di oro ma di argento e nemmeno particolarmente puro e solo l’1% di oro o poco più le ricopre; le medaglie di argento sono di argento riciclato (che non è male) e infine le medaglie di bronzo sono (sarebbero secondo il sito) effettivamente di …ottone, che come sapete è una lega rame-zinco, conosciuta da parecchio tempo.

Il bronzo è una lega rame-stagno mentre l’ottone è una lega rame zinco. Il bronzo è venuto prima dell’ottone ed ha perfino caratterizzato una intera epoca storica, l’età del bronzo appunto; qualcuno potrebbe chiedersi a questo punto perchè non sia esistita una età dell’ottone; forse perchè la metallurgia del bronzo a partire dai minerali è molto più semplice di quella dell’ottone? Possiamo discuterne.

Ma c’è una incertezza. Se le medaglie sono fatte solo di rame e zinco non possono essere definite di bronzo ma appunto di ottone che è una lega fino al 40% di zinco, anzi può essere considerata una vera e propria soluzione solida di zinco in rame.

Il sito Compound Interest di cui vi ho riportato la tabella sostiene che sono di fatto di ottone, ma continua a chiamarle di bronzo ( non lo commenta nemmeno la composizione, il che mi fa pensare che possa confondere le due leghe**) mentre quest’altro sostiene che sono effettivamente di bronzo.

Secondo Wikipedia la composizione, peraltro non esplicita, contiene sia stagno che zinco, ma in proporzioni non ben definite. Anzi la composizione effettiva delle medaglie, come racconta Wikipedia, è cambiata nel tempo.

Alla fine ho trovato sulla pagina ufficiale la composizione definita così:

97% rame e 3% zinco; si tratta quindi chiaramente di una lega di ottone non di bronzo!! e per di più diversa da quella indicata da Compound Interest.

Per la differenza bronzo-ottone non c’è che il sito del mio amico prof. Diego Colombo che insegna nella mia Università. Comunque ho scritto al sito Compound e potete leggere le risposte in calce**.

Questa situazione comporta che il valore venale delle medaglie sia alquanto ridotto; le medaglie “d’oro” valgono solo 500 dollari mentre se fossero tutte d’oro varrebbero di solo contenuto aureo almeno 20.000 dollari; alla cosa rimedia “il mercato”  perchè le medaglie olimpiche hanno una fiorente compravendita di appassionati che le fa valere ben di più di questi prezzi. Quelle di argento valgono la metà, attorno ai 300 dollari e quelle di “bronzo” (e di fatto di ottone) attorno ai due dollari.

Chimica e Olimpiadi non vanno molto d’accordo perchè usando la Chimica alcuni dei rutilanti segreti delle Olimpiadi si rivelano per quello che sono: mezzucci umani per abbassare i prezzi o semplice incompetenza; e non parliamo del doping (o meglio ne riparleremo in futuro).

** ho scritto al sito e vi allego lo scambio di mails; la mia opinione è che non si siano accorti subito di cosa avevano scritto anche se sostengono di saperlo, ma allora perchè non farlo notare, trattandosi di una cosa così grossolana? bah

On 16 August 2016 at 08:49, claudio della volpe ‪<wordpress@www.compoundchem.com> wrote:

Name: claudio della volpe

 

Email: claudio.dellavolpe@unitn.it

 

Comment: Dear sirs I suppose there is some problem in the composition of Olympic Bronze medals as you defined them; the alloy of copper and zinc is commonly defined brass not bronze; this is not commented on in your recent article on olympic medals; what is the effective composition and what is the name of the alloy?

 

Time: August 16, 2016 at 7:49 am

IP Address: 188.114.103.191

Contact Form URL: http://www.compoundchem.com/about/

Sent by an unverified visitor to your site.

 

Il giorno 16 Aug 2016, alle ore 10:08, Compound Interest ha scritto:

 

Dear Claudio,

 

There is no error in the graphic – the bronze medal isn’t actually made from bronze! The compositions are according to the Brazilian Mint who made the medals, and the bronze medal is indeed made from just copper and zinc.

 

Hope that clears it up.

 

Thanks,

 

Andy

 

Compound Interest

www.compoundchem.com

 

On 16 August 2016 at 10:11, Claudio Della Volpe ‪<claudio.dellavolpe@unitn.it> wrote:

OK but this means that the Bronze medal is in fact made of brass, because bronze is an alloy of copper and tin not zinc, while brass is an alloy of copper and zinc until 40%

that is the point

 

 

Il giorno 16 Aug 2016, alle ore 10:27, Compound Interest ha scritto:

Yes, I am aware of this. However, it’s still called a bronze medal (for the sake of tradition I guess)!

 

Compound Interest

www.compoundchem.com

 

OK if you agree it would be useful for the public at large to indicate this difference in your post there is no comment on this point: the bronze medals are made of brass

a last point; looking at the officlal page:

http://www.brasil2016.gov.br/en/news/olympic-and-paralympic-medals-of-the-rio-2016-games

the exact composition is even different:

97% of copper and 3% of zinc

I suppose an update is necessary on your page

 

La risposta di IUPAC.

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Claudio Della Volpe

Cari colleghi come ricorderete abbiamo raccolto oltre 3000 firme per chiedere ad IUPAC di chiamare con un nome che facesse riferimento a Levi o comunque con un nome che sottolineasse gli aspetti generali e di pubblico interesse della Chimica uno degli ultimi 4 elementi scoperti; l’idea di usare il nome di Levi veniva da un articolo pubblicato su Nature da Philip Ball, uno degli editor di Nature.

La raccolta, in calce ad una petizione a IUPAC è andata avanti sia pur lentamente negli ultimi mesi, e, se devo dire la mia personale impressione, non è stata efficacissima; tutto sommato la sola SCI ha oltre 3000 iscritti e fra SCI e ordini dei chimici (e il CNC) si superano abbondantemente i 10.000 iscritti; altrettanti probabilmente e certamente di più non sono organizzati in alcuna associazione culturale o professionale; inoltre la raccolta era fatta su un testo in quattro lingue e si è valsa di qualche indirizzo estero suggerito da alcuni colleghi.

Si poteva fare di più; ne prendo atto e ne prendiamo atto come redazione, credo, ma non dipende solo dalla volontà, ma anche dal contesto; prova ne sia che altri tentativi, citati nel prosieguo hanno superato le 100.000 firme.

Questa è una prima conclusione; questo blog ha un ruolo, ma può fare di più e può fare di più se altri, oltre i membri della redazione attuale, vi parteciperanno CON CONVINZIONE, con la convizione che la divulgazione e la discussione APERTE, non riservate all’accademia e prive di qualunque “spocchia culturale” e di una grande apertura alle istanze sociali e culturali, sono la base di un confronto efficace fra noi e il resto della società del nostro paese, perchè chimico non sia più una parolaccia.

Ma comunque sia, una volta superato il traguardo delle tremila firme abbiamo deciso di spedire la richiesta della petizione (firmata dalla redazione del blog ed aggiunta qui in calce) a IUPAC, sia al consiglio direttivo che alla divisione di chimica inorganica che si occupa del tema degli elementi e della nomenclatura e questa che segue è la gentile e, tutto sommato, inattesa risposta del suo coordinatore e presidente, Jan Reedijk.

Come vedrete si tratta di una risposta di fatto negativa ma nel medesimo tempo possibilista e aperta a quello che è il cuore della questione: da una parte la questione dell’immagine della Chimica è nell’attenzione della IUPAC (e non poteva essere altrimenti) e insieme i metodi di assegnazione dei nomi devono essere aggiornati e anche su questo c’è convergenza.

Insomma non abbiamo vinto, ma abbiamo contribuito o stiamo contribuendo ad aprire una strada nuova; incrociamo le dita e continuiamo la nostra azione.

Si potrebbe anche mandare la petizione ai gruppi che hanno fatto le scoperte anche se l’idea di usare altri nomi è certamente stata alla loro attenzione non fosse altro che per la discussione presente nella letteratura internazionale; secondo me le questioni di cui stiamo discutendo, il ruolo della Chimica nella società, l’immagine negativa della chimica e l’idea che le scoperte sono di chi le fa e non viceversa di tutta l’umanità non sono un problema solo italiano. Parliamone.

PS. Se IUPAC ritiene di dover aggiornare le proprie regole, lo stesso forse dovrebbero fare anche la SCI (e il CNC).

A voi i commenti.

La risposta di IUPAC

 

Dear dr. Della Volpe and colleagues:

Thanks for your message and attachments, which was emailed to me and many other colleagues of the IUPAC Executive committee and Inorganic Division Committee.

The fact that you had such a long list of addressees had resulted in your message being filtered away by my spam filter. (And perhaps this happened with other recipients as well; fortunately I could fish it out. TIP: when you send a mail to more than 6 or 8 people: use bcc instead of “cc” or “to”).

 

First of all I am pleased to see that such a large group of people wants to make a plea to give a special name of a new chemical element to try to promote chemistry. Earlier this year we had another petition for a name from another group, which was even accompanied by over 150000 signatures!

We agree with you that naming of new elements is one of the rarely occurring events which we can use to generate extra attention for chemistry.

Your recent example on “chemical free” products again illustrates that chemists still have a mission; indeed in the last 4 decades “free of chemicals” has very often appeared in the press and in advertisements, and was repeatedly criticized as a misnomer. I remember from about 40 years ago a cartoon in New Scientist where a restaurant advertised soup “guaranteed without chemicals” as which was followed by many others since then.

 

Regarding your petition and proposal, I am afraid that you and your colleagues were not aware of the current (and older) rules for naming new elements, as updated most recently in the following paper:

W.H. Koppenol, J. Corish, J. Garcia-Martinez, J. Meija and J. Reedijk; How to name new chemical elements (IUPAC Recommendations 2016); Pure Appl. Chem.,  88, (2016),  401-405.

Here it is clearly written that ONLY the discoverers can propose names.

However, your petition and other comments from the community have made clear to me that perhaps in the future IUPAC might want to consider to modify the current rules and procedures for naming new elements. If that would be the case, your petition would clearly have played a role.

 

In summary: I regret we cannot honour your request given the current rules of naming, but your efforts to undertake action to make chemistry as a field more “popular” are highly appreciated.

 

Kindest regards

Jan Reedijk; President  Inorganic Chemistry Division IUPAC

 

Il testo della mail mandata ad IUPAC:

Dear Sirs,

 Please find attached a list of more than 3000 signatures collected on a dedicated web-page (https://www.change.org/p/international-union-of-pure-and-applied-chemistry-giving-name-levium-to-one-of-the-4-new-chemical-elements) asking for naming one of the recently new discovered elements as Levium (113 o 115) or Levine (117) or Levion (118). We are proposing this name following a suggestion of Philip Ball (P. Ball, Nature, 2016, 529, 129).

Chemistry is a “central science” because of its connection with all other sciences; it has been defined as “nice and powerful” and it is certainly, with its countless technologies and applications, at the base of our day life. Notwithstanding this, Chemistry is passing through an important reject crisis by the public at large. An example is the widespread use of the term “chemical free” (Nature Chemistry vol. 6 -2014 p. online). There is an increasing intolerance of the public at large toward a science and a technology that appear to violate the “natural order” of things. Probably this is only the somewhat obscure consciousness of the difficulty to push science towards socially important objectives, rather than to further increase the power of multinational companies. At the same time, we need to face new and important challenges deriving from the exaggerated impact of chemistry and other sciences on biosphere, which brought Paul Crutzen, Nobel Prize for Chemistry in 1995, to propose the term “anthropocene” for the current epoch.

Chemistry needs a symbol, a flag, a unifying myth (mythology is an allowed source of element names) to underline the idea that, if we wish to live in peace on Earth, Chemistry has to be a science for people, for all human beings.

At the end of World War II, a chemist who had the venture to live a terrible experience in a concentration camp, looked deeply at the rubble left behind by the war and at the role of some insane relationships between science, technology and the malefic power of man. His name was Primo Levi, an Italian chemist with Hebrew culture, the author of one of the most famous and widely read books in the world: “The Periodic System”, which is also used as a schoolbook in many countries. “The Periodic System” is an incredibly audacious piece of literature trying to merge the best scientific and humanistic traditions: the rejection of war, the development of science and the desire to live together in peace.

Chemistry is for all, for each child, woman or man of this planet, whatsoever his/her religion, skin colour or language, rich or poor, migrant or not. Chemistry is for all. This is the greatest myth: one humankind only. Levium, Levine or Levion, but let it be this name (or a similar one) indicating Chemistry as a common flag for humankind.

(in alphabetical order) Vincenzo Balzani, Luigi Campanella, Rinaldo Cervellati ,Claudio Della Volpe, Mauro Icardi, Annarosa Luzzatto, Giorgio Nebbia, Margherita Venturi

E.mails: vincenzo.balzani@unibo.it, luigi.campanella@uniroma1.itrinaldo.cervellati@unibo.itclaudio.dellavolpe@unitn.it,  siricaro@tiscali.it ,annarosa.luzzatto@gmail.comnebbia@quipo.it,   margherita.venturi@unibo.it

Attached text of the petition in .pdf and list of 3029 signatures in .csv

Stiamo campando a credito.

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Luigi Campanella, ex Presidente SCI

La campagna globale #pledgefortheplanet chiede a tutti noi di agire per il cambiamento climatico. Entro l’8 agosto l’umanità avrà esaurito le risorse che la natura le mette a disposizione per tutto l’anno: è quanto afferma il Global Footprint Network, GFNun’organizzazione di ricerca internazionale che sta cambiando il modo in cui il mondo gestisce le sue risorse naturali e reagisce ai cambiamenti climatici.Quanto volte abbiamo letto di un giorno dell’anno a partire dal quale guadagniamo per moi stessi,essendo quanto ottenuto prima assorbito da tasse ed imposte.Il discorso in questo caso si inverte visto dalla natura.Il giorno del sovrasfruttamento della Terra (Earth Overshoot Day) evidenzia la data in cui la domanda annuale di risorse naturali da parte dell’umanità supera le risorse che la Terra può rigenerare in un anno.

bioc1960bioc1984bioc2012Questo è possibile perché emettiamo più anidride carbonica nell’atmosfera di quanto gli oceani e le foreste siano in grado di assorbire, deprediamo le zone di pesca e le foreste più velocemente di quanto possano riprodursi e ricostituirsi,cementiamo il verde ben oltre quanto può riprendersi,immettiamo sostanze estranee a concentrazioni per le quali i processi naturali non sono in grado di rimediare.Il nostro blog vuole ricordare questa giornata nella convinzione che i cittadini,e quindi tutti noi, prendendo coscienza e conoscenza di come stanno le cose,possano contribuire a migliorarle attraverso comportamenti più responsabili ed indicazioni conseguenti al potere politico, responsabile delle scelte di politica ambientale, alimentare,energetica

numeri

Toponomastica chimica

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Claudio Della Volpe

Si fa un gran parlare di chimica e della sua importanza, ma di fatto le parole della chimica sono poi “riservate” usate poco nel linguaggio quotidiano e quando lo sono spesso il loro significato è ambiguo, diverso, debole.

Tuttavia ci sono dei “resti” della chimica nella toponomastica italiana, cioè nei nomi di paesi, città, borghi, luoghi, vie, piazze. E di questo vorrei parlarvi brevemente oggi.

Cominciamo con i nomi dei comuni italiani, che sono circa 8000 e che potete trovare facilmente in rete.

In alcuni casi troviamo esplicito riferimento a qualche elemento chimico fra i più comuni; per esempio

Calcio è un comune della provincia di Bergamo nella valle dell’Oglio, fondato in epoca romana (III sec. a.C ). Secondo wikipedia “Anche il significato etimologico del nome risalirebbe a quel periodo: calx infatti indicherebbe proprio il materiale presente in natura con il nome di calcio (i cui composti assumono il nome di calce), molto comune in quel tempo specialmente sulle rive del fiume Oglio, dove si verificarono i primi insediamenti umani stabili.” Probabilmente ci si riferisce a depositi di calcare non di calcio, ma tant’è.

calcio

Su questa stessa base possiamo associare al calcio altri nomi di comuni:

Calcinato, Calco, Calceranica al Lago, Montecchio Precalcino, Calci, Calcinaia, Calcata, Calciano.

Tuttavia solo alcuni di essi sono effettivamente associabili al calcio; il comune di Calci (vicino Pisa) per esempio si trova in territorio siliceo e quindi si stenterebbe ad attribuire al calcio come elemento il nome, ma piuttosto sembrerebbe che il locus Calcis sia la primitiva attribuzione onomastica della vallata, di etimo latino (calceum, per “piede” o “tallone” del monte). Viceversa per Calcinaia anch’essa nella medesima provincia sembra assodato che il nome venga dalla presenza almeno in epoca medioevale di forni per la produzione di calce.

Carbonia è una città modernissima in cui il legame toponomastico e rovesciato; il nome fu scelto negli anni 30 del secolo scorso dal regime fascista per un nuovo comune che ospitasse le maestranze che avrebbero lavorato nella industria estrattiva sarda del carbone.

carbonia

Aurano, Valle Aurina, Auronzo e Montauro sembrano invece avere tutti riferimento a miniere di metallo prezioso presenti nel loro territorio in epoca storica.

Così come S. Marco Argentano, Argentera, Argentario e Argenta sembrerebbero venire dalla presenza di miniere o lavorazioni di argento.

Viceversa Cupromontana e Cupro Marina non hanno a che fare col rame ma con la dea Cupra.

Col ferro potremmo andare a nozze; ma attenzione Monferrato deriva in effetti da monte del farro e quindi lo escludiamo; non chiara quella di Ferrara, che potrebbe anch’essa venire dal farro o avere altra origine.

Più accettabili sembrerebbero le varie Ferrere, Ferriere o Ferrera Erbognone o Ferrera di Varese.

Non ci rimane che rimanere sul sicuro Portoferraio, nell’isola d’Elba sembra senza dubbio connesso con la siderurgia. Viceversa Grottaferrata sembra venire dalla presenza di una grotta dotata di una grata di ferro.

Piombino inganna parecchio, in quanto sembrerebbe chiaro che abbia a che fare con l’attività siderurgica ed estrattiva, ma invece piombino deriva da altro:

https://it.wikipedia.org/wiki/Piombino

Sembra ormai accettato che il nome Piombino derivi da Populino, cioè piccola Populonia. Sembra che durante il medioevo Populonia fu spesso attaccata e depredata. L’ultimo saccheggio subito dall’abitato è registrato nell’anno 809 ad opera degli orobiti, pirati di origine slava che vivevano sui monti del Peloponneso[9]. Fu allora che i pochi abitanti fuggiaschi si spostarono presso il porto Falesia mettendo le basi a quella che sarebbe divenuta Piombino.

Delusi dai nomi dei comuni lo saremo ancor più da quelli di vie e piazze; a me risulta solo la gloriosa Piazza Azoto, di Piano d’Orta di cui abbiamo parlato in un post.

Voi ne conoscete altre? segnalatemele; altrimenti non ci sono che le vie e piazze intitolate a scienziati, chimici italiani; non sono poi molte. Certo a Milano c’è Via Giulio Natta e a Novara Largo Guido Donegani, ma Donegani è stato un imprenditore più che un chimico anche se c’è un centro di ricerca famoso a suo nome, ma anche qui non mi sovvengono nonostante qualche sforzo altri luoghi noti. No aspettate c’è corso Amedeo Avogadro di Quaregna a Vercelli e via Stanislao Cannizzaro a Roma e i nomi certo di tante scuole di ogni ordine e grado.

Chi mi aiuta a ricostruire questo quadro della toponomastica chimica, casomai segnalando nei commenti o scrivendo brevi note?

Grazie

Breve elenco di vie e piazze, con il contributo di Giorgio Nebbia; alcuni nomi sono presenti in più comuni:

nome della via o piazza, comune, provincia, CAP

Vincenzo Caglioti (1902-1998)   Soriano Calabro (VV), 89831

Stanislao Cannizzaro (1826-1910)     Catania 95123

                                                           Linguaglossa 95015

                                                              Pisa 56121

                                                                Roma 00156

Giacomo Ciamician (1857-1922)                Bologna 40127

                                                                    Roma 00156

Riccardo Ciusa (1877-1965) (professore di chimica farmaceutica,

ex-assistente di Ciamician)

                                                                   Bari 70132

Roberto Lepetit (1865-1928)                        Lainate 20020

                                                                     Milano 20124

                                                                      Roma 00156

Fra i chimici stranieri:

Justus Liebig                       Reggio Emilia 42124

Dimitri Mendeleev (solo due cittadine)          Pesche (Isernia) 86090

                                                                Savignano sul Rubicone (FC) 47039

Luigi Pasteur (più fortunato)                        Bari 70124

                                                                    Bologna 40132

                                                                     Lecce 73100

                                                                       Milano 20127

                                                                      Reggio Emilia 42122

                                                                     Roma 00144

                                                                     Verona 37135

                                                                       Trieste 34139

e ancora menozzi