Corruzione e fuga.

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Claudio Della Volpe

 Giorni fa mi chiedevo su queste pagine quando la SCI dovrebbe prendere una posizione pubblica e mi pare che adesso ce ne sia l’occasione; di che si tratta? Ve lo spiego brevemente.

Pochi giorni fa su tutti i giornali sono comparse delle dichiarazioni del dott. Cantone, magistrato, Presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione nel corso della tavola rotonda sul tema “I modelli organizzativi anticorruttivi tra pubblico e privato” tenutasi a Firenze. cantoneSiamo subissati di segnalazioni su questioni universitarie, soprattutto segnalazioni sui concorsi“.

E ancora

C’è un grande collegamento, enorme, tra fuga di cervelli e corruzione“.

Sull’università “proveremo a fare linee guida ad hoc, che non vogliono burocratizzare ma provare a consentire l’esercizio della discrezionalità in una logica in cui la discrezionalità però non diventi arbitrio, in cui discrezionalità significhi dare conto ai cittadini, non solo gli studenti ma tutti i cittadini perché l’università è il nostro futuro“.

L’università dovrebbe essere l’esempio, per rilanciare il nostro Paese. Le classifiche internazionali, purtroppo, in questo senso, e se non ci premiano una delle cause sta anche in una serie di vischiosità del sistema universitario. Non concordo che le università italiane sono baracconi burocratici; ma all’estero tutti credono che lo siano, e sappiamo bene quanto conti non solo il fatto di essere ma anche di apparire. E questo apparire costituisce un danno enorme per il nostro Paese“.

Ha detto anche altre cose su un caso specifico di corruttela e criticato la legge Gelmini, ma stiamo alle prime tre.

Le sue dichiarazioni hanno suscitato discussione e polemiche. In particolare Ciro Ciliberto, presidente della UMI, l’Unione Matematica Italiana, una associazione del tipo della SCI, ha scritto una lettera aperta in cui critica fortemente queste dichiarazioni e invita Cantone a correggerle o a precisarle.

ciro-cilibertoNella stessa lettera Ciliberto dice:

chiunque può segnalare quel che vuole e ”segnalare” non vuol dire un bel nulla, forse ”denunciare” vorrebbe dire qualcosa in più. Il grave è che le viene attribuita la deduzione che, da queste non meglio precisate ”segnalazioni”,  ne derivi che la corruzione dilaghi nelle università del nostro paese, al punto che, secondo lei, ci sarebbe ”un grande collegamento, enorme, tra fuga di cervelli e corruzione”. Dunque, la fuga dei cervelli sarebbe in gran parte motivata non dalla drammatica e ampiamente documentata carenza di fondi e investimenti per la ricerca che determina un enorme calo di competitività e attrattività del nostro sistema universitario, con conseguente mancanza di opportunità di lavoro decoroso per i nostri giovani più brillanti, ma semplicemente dalla casta baronale corrotta e inefficiente.

E inoltre:

il nostro ”corrotto” sistema universitario, questi giovani brillanti li produce, e sono bravi e tanto competitivi da trovare posto nelle migliori istituzioni di ricerca straniere. Questo vuol dire che, nonostante il vero e proprio accanimento dei vari governi che si sono succeduti negli ultimi circa dieci anni, nel tagliare fondi alla ricerca, il sistema incredibilmente funziona ancora, evidentemente grazie alla competenza e qualità dei docenti. I bravi ricercatori nascono sotto i cavoli, qualcuno deve aver loro insegnato qualcosa! O no?

E ancora: Quel che risulta a me, e che ormai è chiaro ai colleghi stranieri più attenti alle nostre cose, è che la situazione della ricerca in Italia è al limite della sostenibilità per le difficoltà economiche cui ho fatto cenno ed anche per le normative che alcuni politici hanno voluto appiopparci, che anche le dichiarazioni a lei attribuite sembrano giudicare viscose, paralizzanti e talvolta umilianti. Leggo infine che lei avrebbe annunciato per l’Università ”linee guida ad hoc, che non vogliono burocratizzare, ma provare a consentire l’esercizio della discrezionalità in una logica in cui la discrezionalità però non diventi arbitrio”, regole che servano a dar conto ”a tutti i cittadini, perché l’università è il nostro futuro”. Che l’università, la scuola, la cultura, siano il nostro futuro sono in molti ad affermarlo. Peccato che nessuno ne tragga l’unica conclusione sensata, e cioè che occorre investire meglio, e soprattutto molto di più di quanto non si faccia ora, investire quanto investono i paesi con cui vogliamo confrontarci e relazionarci.

Devo dire che condivido quasi completamente la valutazione di Ciliberto; è pur vero che il nostro paese è “ben piazzato” (cioè in fondo) nelle classifiche internazionali della corruzione e perfino della libertà di stampa, ma direi che il fatto che è ultimo in Europa per investimenti nella ricerca, nella didattica e nel numero di laureati siano una base materiale almeno altrettanto potente.

Luciano di Samosata (Contro un bibliomane ignorante) diceva: Una cosa terribile è l’ignoranza, fonte senza fine dei mali umani, diffonde una nebbia sui fatti, oscura la verità, e lancia un buio sulla vita individuale. Siamo tutti pedoni nelle tenebre

e noi ripetiamo in uno dei banner del blog:” Se pensi che l’istruzione sia costosa, prova con l’ignoranza” (Derek Bok -25° presidente dell’Università di Harvard).

Il nostro paese ha preso sul serio la sfida retorica di Bok e al contrario di TUTTI gli altri paesi europei ha ridotto di miliardi il già basso investimento in istruzione e ricerca, ha ridotto in 10 anni del 20% il numero di docenti universitari, ha bloccato il ricambio generazionale di fatto almeno dal tempo di Tremonti e della legge Gelmini; vi ricordate? Il primo miliardo lo abbiamo perso con loro, i ministri del tunnel dei neutrini!

Una delle scuse di questa strategia è stata la parentopoli, dimostrata dalle omonimie e denunciata in un famoso articolo da Stefano Allesina; peccato che l’articolo sia sbagliato. I casi di potenziale parentopoli denunciabili sulla base delle omonimie non superano l’1.36% del totale dei docenti.

Ma cosa è successo dopo? Nulla di diverso purtroppo.

Faccio due esempi recenti di come la riduzione di spesa e le regole burocratiche folli ci opprimono letteralmente e questo occorre dirlo ai giovani e a tutti. E su questo per fortuna Cantone la legge Gelmini la critica, in questo direi che si poteva cogliere l’unica sollecitazione giusta della sua perorazione (a parte ovviamente la PUNIZIONE a SEGUITO di DENUNCIA non di segnalazione dei casi di corruttela).

Il primo esempio è il PRIN; PRIN significa Progetti di ricerca di interesse nazionale e i fondi non venivano erogati da ben 4 anni, dal 2012; per qualche dato più ampio potete vedere qui. Ma la cosa che mi interessa far notare è che stiamo parlando di richieste per oltre 2 miliardi di euro e fondi per soli 91 milioni di euro; 4000 progetti di cui solo 300 sono stati finanziati, il 7.5% e con importi pari al 4% del totale richiesto, in definitiva ai progetti vincenti hanno dato comunque metà in media di quanto richiesto.

La corruzione cosa c’entra con questo?

Il secondo esempio sono le regole folli; la legge dice che il dottorato non può durare meno di tre anni; da questo si dedurrebbe che il percorso di dottorato che in tutti i paesi o quasi del mondo è superiore ai tre anni possa se le esigenze di formazione o di ricerca lo impongono essere in qualche modo supportato per OLTRE tre anni; ma invece l’ultimo ritrovato della burocrazia ministeriale è che l’interpretazione autentica è che la durata sia al MASSIMO tre anni; si veda qui in particolare art.8 comma 6.

Se ne deduce che se non finisce in tre anni giusti lo studente è fregato e i soldi spesi già sono persi. Nessuno sta chiedendo allo stato di metterci i soldi ma almeno di lasciarli usare quando ci sono.

Ovviamente si possono trovare trucchi perfettamente legali, l’Italia è “la patria del diritto” ma anche dei legulei e dei trucchetti, ma non credo che Cantone dicesse questo.

O forse no, dopo tutto anche Cantone si occupa di diritto.

Voi che ne dite?

Chimicappello.

a cura della Redazione del Blog

Cari colleghi,
da qualche giorno questo blog ha superato il traguardo dei 500.000 contatti da quando esiste (circa 4 anni); non è un numero enorme, ma da comunque il senso dell’impegno di chi ci ha lavorato e della presenza realizzata fra il pubblico; corrisponde a meno di 1000 contatti per ciascuno in media dei post pubblicati; tuttavia dobbiamo dire che siamo solo parzialmente soddisfatti perché soprattutto la partecipazione all’attività editoriale dei soci SCI e degli iscritti agli ordini, sebbene presenti è di gran lunga inferiore alle esigenze e anche alle aspettative. Come sapete si tratta di un blog non  speculativo, ma problematico e promozionale di forme di confronto e di partecipazione, di stimolo per i più giovani.
Se considerate che fra SCI ed Ordini abbiamo circa 13.000 persone raggiungibili vi fate subito un quadro della situazione; certamente il blog può cambiare e migliorare, ma d’altra parte c’è una situazione di base che diremmo manifesta. Ed è la solo parziale disponibilità dei chimici a partecipare alla divulgazione e al dibattito sui temi di chimica e società. Abbiamo altre volte indicato in circa 100.000 il numero di laureati della nostra disciplina in Italia, di questi una piccola parte, attorno al 10% sono organizzati in associazioni di qualche tipo e di questo 10% ancora il 10% partecipa in qualche modo alla vita culturale della chimica; sono numeri che si possono ottenere dal traffico nostro ma anche dai risultati di altri blog e siti; questa rozzissima regola del 10% mostra la difficoltà ad attrarre il grande pubblico, ma prima di tutto a coinvolgere perfino noi stessi. Dove sono i chimici che lavorano nell’industria, nelle dogane, nelle struttura sanitarie pubbliche e in tutte le altre istituzioni del paese? Si facessero vivi!

Facciamo allora un appello a voi tutti ad una maggiore partecipazione in termini di contributi scritti e in termini di discussione e diffusione; l’importanza della nostra disciplina dal punto di vista applicativo e sociale non è affatto diminuita, anzi: eppure questo non sembra stimolare la discussione; in parte si tratta di una tendenza presente nella nostra vita sociale, chiudersi nel proprio guscio, in parte di una tendenza specifica che l’ambiente dei chimici italiani vive da alcuni decenni. Più collaborazione si riesce ad ottenere, più il dibattito diventa uno strumento di approfondimento e confronto. Necessario anche per contrastare alcuni vecchi difetti italiani: preoccupante tendenza all’analfabetismo di ritorno, pigrizia nella lettura e di conseguenza un proliferare di leggende e inesattezze anche su temi di interesse generale.
Cerchiamo di uscirne; i problemi delle risorse e dell’energia chiedono una maggiore applicazione di una scienza e di una chimica volte al bene comune e non all’interesse economico di pochi; senza la partecipazione democratica e massiva alle discussioni e alle decisioni in corso non è detto che le cose migliorino.
Scienza e democrazia sono legate; scienza vuol dire conoscenza e conoscenza vuol dire partecipazione, un aspetto irrinunciabile della democrazia; se la democrazia al momento è la peggior forma di governo (eccettuate tutte le altre), la scienza è oggi, più che il mero tempo di lavoro, la principale forza produttiva; al di fuori della scienza spettacolo e di una scuola pubblica solo parzialmente efficace, le due cose si legano con difficoltà, eppure una scienza senza democrazia è un mero strumento di dominio sociale e una democrazia senza scienza è tecnicamente insostenibile in un mondo di quasi 8 miliardi di persone.
Siamo chiamati a contribuire a costruire un mondo basato su produzione circolare, energie rinnovabili, equità sociale, cultura critica diffusa; la chimica ha un ruolo enorme in tutto ciò; senza di essa, senza la scienza più in generale  e senza la cosciente partecipazione di chi la applica l’obiettivo è irrealizzabile; di più l’umanità va incontro a problemi crescenti.
Il blog è solo una goccia nel mare, ma almeno a questo la redazione sa di poter contribuire e vi esorta a fare altrettanto.

Tungsteno o Wolframio: due nomi per lo stesso elemento

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Rinaldo Cervellati

(Per questo post ho ampiamente attinto alla rubrica del Journal of Chemical Education: “Ask the Historian”: W.B. Jensen, Why Tungsten Instead of Wolfram?, J. Chem. Educ., 2008, 85, 488-489.)

Il Tungsteno, simbolo W (da wolframio, appunto) è l’elemento 74 della Tavola Periodica. E’ un metallo di transizione e, per sue proprietà metalliche (alto punto di fusione 3422°C, conducibilità elettrica 1,89 × 107 S/m, durezza 7,5) ha trovato e trova molteplici applicazioni, dagli acciai rapidi alla pesca sportiva, dalla radiologia alle pale per turbine. Ma il suo uso più conosciuto è nei filamenti per le (ormai vecchie) lampadine a incandescenza. Abbastanza noto è il libro del medico scrittore Oliver Sachs, “Zio Tungsteno” (Adelphi, 2006), con i ricordi del giovane Sachs che nell’infanzia e adolescenza si interessò moltissimo alla chimica.

zio-tungstenoVediamo una breve storia del tungsteno (wolframio) per capire l’origine dei due nomi dati a questo elemento.

Nel 1747 il chimico e mineralogista (nonché farmacista e medico) svedese Johan Gottschalk Wallerius (1709 – 1785) descrisse un nuovo minerale presente in Svezia che, a causa della sua pesantezza, chiamò tung sten, che in svedese significa “pietra pesante” (oggi: wolframite[1]).

wolframite

wolframite

tunsteno-metallo

tungsteno-metallo

Nel 1781 il chimico Carl Wilhelm Scheele[2], anch’egli svedese, riportò la scoperta di un nuovo “ossido acido” in questo minerale che, a causa di ciò, chiamò ossido tungstico acido. Due anni più tardi, i fratelli Elhuyar (Fausto e Juan José, chimici spagnoli) isolarono lo stesso ossido dalla wolframite e si accorsero subito che si trattava dello stesso composto scoperto da Scheele il quale, in conformità alla nomenclatura francese in uso all’epoca, chiamò nel 1784 il metallo contenuto nell’ossido tungsten regulus.

Tuttavia, nella successiva riforma della nomenclatura chimica del 1787, Lavoisier e collaboratori rifiutarono l’uso del termine “regulus” per nominare i nuovi metalli poichè esso non si accordava con la proposta di nomenclatura per i composti binari[3]. Di conseguenza la parola regulus fu eliminata (allo stesso modo per molibdeno e manganese) e il termine accorciato in tungstène, rendendo così il nome del metallo identico al corrispondente nome comune (tung sten) del minerale da cui sarebbe stato estratto. Robert Kerr, traduttore e divulgatore della riforma lavoisierana in Gran Bretagna, tradusse in tungsten il termine tungstène.

Sebbene anche i chimici tedeschi adottarono infine la nomenclatura riformata di Lavoisier e colleghi, preferivano spesso usare vocaboli derivati dal greco antico, ad esempio Sauerstoff invece di ossigeno, Wasserstoff invece di idrogeno[4]. La letteratura chimica tedesca e scandinava di questo periodo fu anche più strettamente affine alla letteratura mineralogica rispetto a quella inglese e francese, ciò che provocò ulteriori problemi rispetto al termine tungsteno, perchè i mineralogisti cominciarono a favorire l’alternativa wolframio per il nuovo metallo in onore del suo isolamento dal minerale wolframite. La confusione aumentò con la proposta di chiamare scheelium il metallo, in onore del suo scopritore, Scheele.

carl-wilhelm-scheeleCosì nel 1791 la versione tedesca del famoso dizionario della chimica di Macquer elencò il metallo solo alla voce “Wolfram”, mentre il dizionario tedesco Remler del 1793 riportò wolfram, tungsten e scheelium come sinonimi. In netto contrasto, dizionari chimici inglesi e francesi di questo periodo non fanno menzione di queste alternative e utilizzano solo il nome adottato da Lavoisier e dai suoi collaboratori o il suo equivalente inglese.

Entrambi i nomi tungsteno e scheelium riflettono il fatto che l’elemento in questione è stato scoperto da uno svedese e quindi vi è una certa ironia apprendendo che il grande chimico svedese Jöns Jacob Berzelius raccomandò che, almeno nella letteratura chimica nord-europea, l’elemento dovesse essere indicato con il nome wolfram. Ciò anche a causa dell’introduzione di Berzelius del nostro attuale simbolismo chimico (intorno all’anno 1814), in cui ogni elemento è rappresentato da una o due lettere del suo nome latino o latinizzato (v. link in nota 3). Al fine di distribuire più equamente i simboli su tutto l’alfabeto, Berzelius insistitè su alcune scelte “inusuali”, molte delle quali suggerite dalla sua conoscenza dettagliata della letteratura mineralogica e la sua preferenza per il latino, come natrium invece di sodio, kalium invece di potassio, tantalio invece di niobio, e naturalmente, wolframium o wolfram invece di tungsteno.

Commentando quest’ultima scelta nel suo famoso libro di testo, Berzelius sostenne:

scheelite

scheelite

Anche se alcuni chimici hanno suggerito che dovrebbe essere chiamato scheelium in onore di Scheele, non solo questo nome non si adatta bene alla lingua svedese, ma l’immortalità del nostro connazionale non richiede un tale sostegno supplementare; così la mia preferenza è andata al nome wolfram[5].

Il simbolismo di Berzelius fu rapidamente adottato dalle comunità dei chimici tedeschi e scandinavi, ma l’impatto sugli inglesi e sui francesi è stato molto più lento. In effetti, i simboli di Berzelius erano rari nei libri di testo inglesi e americani precedenti il 1840, dopodichè la discrepanza tra il nome tungsten e il simbolo W è stata considerata solo un altro caso di un nome accoppiato con un simbolo sulla base di un latino alternativo (wolframium), non diversamente dal caso del sodio, Na per natrium. I chimici francesi, forse per spirito di rivalsa su quello che i tedeschi avevano fatto in precedenza con alcuni dei nomi proposti da Lavoisier, alterando alcuni dei suoi simboli, continuarono per un certo tempo a utilizzare Az per l’azoto e ovviamente Tu per tungsteno. Tuttavia, nell’interesse dell’universalità, prevalse il simbolo W per il tungsteno, anche se francesi e inglesi conservano ancora la scelta del nome originale di Lavoisier per questo elemento.

Infine, nel 1961 la IUPAC dichiarò ammissibili entrambi i nomi.

 

[1] In realtà la wolframite non è un vero e proprio minerale ma una miscela dei minerali ferberite e hubnerite, entrambi tungstati di ferro e manganese, il primo più ricco in ferro, il secondo in manganese. La wolframite ha una composizione variabile secondo la zona di provenienza. La wolframite, insieme alla scheelite (tungstato di calcio, CaWO4), rappresentano le principali riserve di tungsteno. La wolframite deve il suo nome al mineralogista irlandese Peter Woulfe (1727-1803) che nel 1779 dedusse che il minerale doveva contenere un nuovo elemento.

[2] Carl Wilhelm Scheele (1742-1786), chimico svedese, scoprì per primo l’ossigeno (ma la scoperta è accreditata a Joseph Priestley), il molibdeno, il tungsteno, il bario e il cloro (queste scoperte furono poi attribuite ad altri, fra i quali Humphrey Davy). Scoprì gli acidi organici tartarico, ossalico, urico, lattico e citrico, come pure gli acidi fluoridrico, cianidrico e arsenico. Parlava essenzialmente in tedesco, lingua utilizzata all’epoca dai chimici e farmacisti svedesi.

[3] Sulla riforma della nomenclatura di De Morveau, Lavoisier, Bertholet e De Furcroy abbiamo parlato in un precedente post: https://ilblogdellasci.wordpress.com/2016/07/20/lorigine-della-nomenclatura-e-della-simbologia-chimica-moderna/

[4] Non mi meraviglio perché fino a quando sono stato studente, negli anni ’70, nelle etichette delle bottiglie Merck per l’acido cloridrico e l’acido nitrico c’era scritto Salzsaure e Salzspetersaure rispettivamente. Provate a vedere cosa vi suggerisce anche oggi il traduttore google a questo proposito…

[5] Il contributo di Scheele fu poi ulteriormente riconosciuto col nome scheelite dato all’altro importante minerale del tungsteno (v. nota 1).

Automazione, microfluidica e analisi chimica.

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Luigi Campanella, già Presidente SCI

L’automazione rappresenta oggi nel laboratorio una via per migliorare produttività e qualità.

I chips microfluidici stanno divenendo il nuovo paradigma per l’analisi chimica in laboratorio. Nanocapillari costruiti in substrati planari usando la tecnologia del silicio si avviano a sostituire beakers e tubature per il trasporto e la manipolazione dei liquidi a livello dei sub microlitri. Diametri ridotti significano anche ridotto uso di agenti e di reagenti, migliorata qualità analitica, tempi più brevi di analisi ed accresciuto campo applicativo.

Un altro sviluppo di questi anni riguarda l’uso di microstrutture quali i micro-reattori per la sintesi chimica per applicazioni varie, dalla chimica combinatoria alla produzione industriale su vasta scala. Nanoreattori a livello del singolo enzima ( volumi inferiori agli attolitri) consentono di realizzare reazioni enzimatiche con una sola molecola di enzima nel volume di misura. La nanofluidica è perciò una tecnologia potenzialmente in grado di cambiare in modo fondamentale la nostra percezione delle scienze chimiche e della vita.

nano1Un microdispensatore è fabbricato in silicio con un trasduttore piezo elettrico. Una piccola goccia del volume di 50 picolitri è capace, attraverso operazioni multiple, di provocare un arricchimento al quale corrisponde un segnale che può essere mediato attraverso l’uso di un cromatografo liquido annesso al dispensatore. Per muovere piccole quantità di liquido dai contenitori di conservazione al reattore si può applicare il principio della goccia acustica. Una grande varietà di solventi, DNA, proteine, cellule in un volume dell’ordine dei microlitri possono essere così trasportate senza apprezzabile perdita di attività o di vitalità. Un trasduttore è accoppiato al fondo di microcapsule per produrre ultrasuoni capaci senza contatto di provocare la formazione di una goccia di soluzione o, analogamente, di volumi maggiori per lavaggi, mescolamenti, aggiunta di reattivi, risparmiando anche sui volumi da smaltire.

Il LabCD è una piattaforma microfluidica centrifuga che usa la forza centrifuga su un disco rotante per pompare o somministrare liquidi.

nano3

JN Kuo Biomed Microdevices. 2014 Aug;16(4):549-58.

Uno dei grandi vantaggi di un test deve essere quello della velocità della risposta, soprattutto in medicina. Ciò spesso provoca un contrasto fra qualità e rapidità rinunciando alla prima per la per la seconda. Ci si chiede cosa sia meglio per il paziente. In effetti molto spesso la ridotta qualità analitica non deriva dalle caratteristiche del test ma dagli operatori non usi a tecnologie tanto innovative. Il dilemma suddetto pertanto merita come prima importante risposta quella di una più attenta formazione del personale addetto e descrizione molto più accurata e dettagliata dei relativi protocolli. Ci sono peraltro approcci per ridurre gli errori: un sistema qualità appropriato per le infrastrutture, metodi di controllo del sistema accurati, implementazione delle misure, computerizzazione dei dati; finora non molto si fa in questa direzione.

Lo scattering della luce di risonanza da parte di particelle è stato applicato a molti biotest. Queste particelle colloidali, per lo più metalliche, di nano-dimensioni irradiano energia come luce dispersa a seguito di illuminazione con luce bianca. Lo scattering della luce ha proprietà che sono controllate dalla dimensione delle particelle nonché dalla loro forma e composizione e sono prevedibili secondo appropriati algoritmi. Il segnale di luce prodotto da una singola particella è da 104 a 106 volte maggiore del segnale ottenuto attraverso i comuni fluorofori, con in più il vantaggio di non decadere né essere estinti. La superficie delle particelle può essere derivatizzata con differenti biomolecole che possono poi, legandosi con molecole bersaglio, produrre effetti specifici. Gli oggetti biologici vengono intrappolati mediante un metodo elettroforetico usando costrizioni geometriche fatte di materiali fabbricati mediante processi litografici. La costrizione è necessaria per costringere il campo elettrico in una soluzione conduttrice, come tamponi di forza ionica, cosi’ creando un gradiente di alto campo con un massimo locale. Cellule di batterio possono essere intrappolate e separate in flusso da cellule di sangue.

Il nanospray ( lo spray caratterizzato cioè da flussi molto bassi rispetto ai valori convenzionali) è tecnica poco robusta e poco riproducibile. Molto di questo comportamento risulta come una conseguenza dell’elevato numero di “spray modes” possibili a basse velocità. Quando queste tecnica è accoppiata alla cromatografia a gradiente la stabilità risulta in ogni caso complicata dalla variazione della tensione superficiale, della viscosità e della conducibilità della fase mobile. Piuttosto che usare la corrente ionica come monitor delle prestazioni dello spray vengono monitorate la geometria del cono, il getto e la coda ortogonalmente allo spettrometro di massa.nano2

Quelli descritti sono alcuni dei moderni sviluppi dell’analisi automatica dei quali quella finalizzata al controllo ambientale comincia a raccogliere i frutti in termini di prestazioni e di sofisticazioni strumentali.

Riferimenti:

K. Mawatari et al.   Anal. Chem. 2014, 86, 4068−4077

D.G. Haywood  Anal. Chem. 2015, 87, 172−187  (si può scaricare liberamente)

JN Kuo Biomed Microdevices. 2014 Aug;16(4):549-58.

Farmaceutica, nutraceutica, elettroceutica.

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Claudio Della Volpe.

La parola farmaceutica viene dal greco, probabilmente ha radici egiziane; è la scienza dell’uso del farmaco, parola di analoga origine che significa sia medicina che veleno, a conferma del fatto che il vecchio adagio del grande ParacelsoE’ la dose che fa il veleno” ha una tradizione millenaria; una nozione dialettica direi, nel senso hegeliano del termine, qualcosa che cambiando di quantità si trasforma nel suo opposto. Sembra un gioco di parole, ma in effetti è un risultato basilare della chimica applicata alla cura del corpo umano.

La farmaceutica tradizionale è stata uno dei maggiori successi della chimica, la pallottola magica che risolve i problemi medici, esemplificata dall’azione degli antibiotici nel risolvere la questione millenaria delle infezioni batteriche che mietevano milioni di vittime. Ma come l’uso sconsiderato degli antibiotici, sia nell’uomo che negli animali ci ha condotto ad una situazione estremamente rischiosa, per la quale oggi esistono batteri capaci di resistere a tutti i tipi di antibiotici conosciuti, così un po’ tutta l’impostazione tradizionale della pallottola magica segna il passo, perde splendore. Come abbiamo raccontato oggi si cerca di intervenire diversamente, destabilizzando la rete di contatti (Quorum Sensing )che i batteri se nocivi ed invasori stabiliscono all’interno dell’organismo umano attraverso il cosiddetto Quorum Quenching (https://ilblogdellasci.wordpress.com/2016/05/18/la-comunicazione-tra-batteri-1-parte/).

Le malattie croniche sembrano in molti casi difficilmente aggredibili in modo banale, con singoli farmaci, e contemporaneamente si è compreso il ruolo almeno in parte sia della genetica che dell’ambiente nella determinazione della malattia; il ruolo dell’inquinamento ambientale e della alimentazione nel favorire lo sviluppo dei tumori per esempio ha condotto all’idea che si può fare prevenzione o che si può perfino guarire da certi tipi di disturbi attraverso una alimentazione opportuna che elimini alcune componenti oppure che gestisca con equilibrio i diversi cibi o ancora come ci ha raccontato un recente post che introduca degli “integratori”, delle molecole che l’organismo possa sfruttare per combattere da solo gli effetti dell’invecchiamento o della degenerazione dei tessuti o dell’inquinamento. E’ il campo della nutraceutica.

Ma questa parola è a malapena entrata nel nostro vocabolario che un’altra “ceutica” fa il suo ingresso nel medesimo vocabolario, nel mercato e nella pratica clinica: la elettroceutica.

elettroceutica1Di cosa si tratta? Ne troviamo notizia nelle grandi riviste scientifiche ed una giustificazione nell’interesse che un colosso dell’industria farmaceutica GSK (che aveva fino a poco tempo fa un grande centro di ricerca in Italia, a Verona, dedicato allo sviluppo di farmaci per le terapie delle malattie nervose e mentali, poi chiuso), Google e grandi università statunitensi (come il MIT) e tedesche dimostrano sul tema, investendo massicciamente in questo nuovo settore con la convizione che entro pochi anni la medicina ne sarà rivoluzionata. Di che si tratta? Cosa è la elettroceutica?

L’idea base è relativamente antica; l’uso della corrente elettrica per guarire o uccidere ha una storia tutto sommato lunga e molte storie si potrebbero raccontare a partire dall’uso della “terapia anticonvulsivante”, volgarmente elettroshock. Nel 1870 il ricco Cornelius Vanderbilt cercava “dottori elettrici” per guarire e nelle prigioni americane la scarica elettrica è usata per i prigionieri condannati a morte (ancora una volta l’idea di Paracelso, è la dose che fa il veleno); d’altronde oggi è comune l’uso di apparecchi come il pacemaker cardiaco o il defibrillatore che usano potenziali elettrici per salvare la vita delle persone. Ma non solo: impianti neurali clinici come gli impianti cocleari per ripristinare l’udito, impianti retinici per ripristinare la vista, stimolatori del midollo spinale per alleviare il dolore o pacemaker cardiaci e defibrillatori impiantabili, non esterni, sono esempi di possibili applicazioni

Ma qui parliamo di qualcosa di ancora più sofisticato; il cervello controlla gli organi e ne riceve informazioni, c’è una rete di collegamenti sulla quale si può intervenire per ricavare informazioni, risolvere i problemi di funzionamento, in alternativa o in parallelo con l’uso di farmaci e si possono oggi individuare perfino gruppi o singole cellule ed agire in modo molto fine su di esse. Per fare questo, una volta conosciuto ed analizzato il sistema organico occorrono dispositivi impiantabili di dimensioni minime, dotati di elettrodi inerti, fissarli in loco e fornire loro energia o tramite sorgenti interne oppure tramite energia radiante inviata dall’esterno in forma elettromagnetica o acustica, compiti per cui la chimica dei materiali è una necessità.

  elettroceutica2La descrizione di questo nuovo possibile modo di aggredire i malfunzionamenti cellulari è diventata la nuova frontiera della pubblicità delle grandi case come GSK che si sono avviate su questa strada: oltre la farmaceutica.

Vi segnalo due articoli che potete approfondire, uno dell’MIT su Nature (Nature. 2013 April 11; 496(7444): 159–161) ed uno su Angewandte Chemie intitolato indovinate un pò: la Chimica dei cyborg (Angew. Chem. Int. Ed. 2013, 52, 13942 – 13957)!

 elettroceutica3Quest’ultima immagine è perfino inquietante, potrebbe prefigurare aspetti di controllo elettronico addirittura e il fatto che la DARPA, l’agenzia USA di ricerca delle forze armate, ci investa con lo scopo dichiarato di controllare la salute dei soldati sul campo non è tranquillizante; ma d’altronde la scienza ha sempre questo aspetto duplice, potere di vita E di morte (come ne “Il 27° giorno” Urania 154 di J. Mantley) in cui gli alieni invasori propongono una versione supertecnologica della pillola magica che ha letteralmente potere di vita E di morte, è sia bomba che soluzione universale dei mali, contemporaneamente.

elettroceutica4

L’elettroceutica è la nuova frontiera della medicina oppure dobbiamo averne timore?

Sta a noi controllare il tutto e questo si fa entrando in campo, facendo divulgazione, abbandonando la torre d’avorio cari colleghi chimici, dibattendo insieme sul ruolo della scienza nella società contemporanea: la scienza e la tecnologia applicate in modo socialmente coordinato sono la forza produttiva principale, il semplice tempo di lavoro o il numero di lavoratori diventano sempre meno importanti. E’ per questo che discutere e divulgare gli sviluppi scientifici e le loro implicazioni sociali è un compito ineludibile, a cui come chimici e come cittadini non possiamo sottrarci. Voi che ne dite?

 

La sostenibilità ambientale del cuoio

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Biagio Naviglio**

(l’autore è ricercatore presso la Stazione Sperimentale per l’Industria delle Pelli e delle Materie Concianti Srl – Via Poggioreale 39 – Napoli e Presidente dell’ordine dei Chimici della Campania)

cuoio1Introduzione

Le componenti fondamentali della sostenibilità devono essere intese come :

– la capacità di generare reddito e lavoro per il sostentamento della popolazione (sostenibilità economica);

– la capacità di generare condizioni di benessere umano, inteso come sicurezza sul territorio,salute e diritti civili equamente distribuiti (sostenibilità sociale) ;

– la capacità di mantenere lo stesso livello di qualità e riproducibilità delle risorse naturali (sostenibilità ambientale).

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Le tre componenti della sostenibilità secondo una delle definizioni più comunemente accettate

Anche nel settore conciario la questione della sostenibilità ha guadagnato , negli ultimi tempi, una notevole attenzione tra i clienti del settore, i consumatori e la comunità in generale. Ciò anche perché ricerche di mercato hanno evidenziato che la maggior parte dei consumatori sostiene di essere orientata , a pari prezzo, all’acquisto di prodotti con migliori performance in termini di sostenibilità e di essere disposti a spendere di più , qualora le informazioni a riguardo siano attendibili e verificabili. Conseguentemente l’industria conciaria sta mettendo in atto tutte le strategie in grado di garantire il pieno rispetto delle diverse componenti della sostenibilità come ad esempio :

– la conformità alla normativa ambientale (scarichi idrici , rifiuti solidi , emissioni in atmosfera,ecc.);

– la valutazione del Carbon Footprint in accordo alla metodologia LCA (Life Cycle Assessment);

– l’uso delle migliori tecnologie disponibili (BAT- Best Available Technology)) per la riduzione dell’impatto ambientale;

– la conformità alla legislazione che regola la salute e sicurezza sul lavoro; il rispetto dei diritti dei lavoratori e nessun tipo di lavoro minorile;

– l’impegno nel garantire il benessere degli animali e la tracciabilità delle pelli grezze;

– la trasparenza e il “Made in” con l’impegno di comunicare l’origine della produzione del cuoio;

– la sicurezza degli articoli in cuoio e la tutela del consumatore con l’impegno del pieno rispetto della legislazione concernente le sostanze chimiche soggette a restrizioni in ambito REACH.

Struttura dell’industria conciaria italiana

L’industria conciaria italiana è tradizionalmente ed indiscutibilmente considerata leader sia a livello europeo (66% della quota sulla produzione europea) che mondiale (17 % della quota sulla produzione mondiale) ; le concerie italiane si trovano in una posizione di assoluta avanguardia anche per quanto riguarda la ricerca , le tecnologie e le strategie di mercato .

Il settore conciario italiano è tradizionalmente organizzato in quattro distretti industriali, ognuno con la propria specializzazione produttiva : Arzignano, Zermeghedo e Montebello in Veneto; S. Croce sull’Arno e Ponte a Egola in Toscana , Solofra in Campania e Turbigo e Castano Primo in Lombardia.

La principale specializzazione produttiva del polo conciario veneto riguarda la lavorazione delle pelli bovine grandi che vengono destinate ai clienti dell’imbottito (arredamento ed interni auto) , alla calzatura ed alla pelletteria.

Il distretto toscano si caratterizza per l’elevato grado di artigianalità e flessibilità delle produzioni, primariamente destinate all’alta moda; le lavorazioni riguardano soprattutto le pelli di vitello e le bovine medio-grandi, alcune delle quali utilizzate per la produzione di cuoio da suola.

In Campania , invece, esiste un polo conciario specializzato nella concia di pelli ovine e caprine per abbigliamento, calzatura e pelletteria.

Infine una significativa presenza conciaria permane in Lombardia , nell’area magentina, la cui specializzazione industriale riguarda la produzione di pelli ovicaprine destinate per l’alta moda.

Il processo produttivo conciario

Il lavoro di trasformazione delle pelli grezze in cuoio finito vanta tradizioni millenarie. La pelle è infatti da sempre uno dei materiali più diffusamente utilizzati dall’uomo per la fabbricazione di calzature, capi di abbigliamento e oggetti d’uso quotidiano di vario genere; nessun altro materiale è comparabile al cuoio per un così ampio range di applicazioni. Le inimitabili proprietà fondamentali del cuoio derivano dal fatto che esso è un biomateriale microporoso ed igroscopico con una elevata superficie interna della fibra collagenica. Queste caratteristiche permettono un adeguato controllo del flusso di calore, di umidità e di aria attraverso il cuoio e ne determinano le sue proprietà di comfort.

Il processo produttivo conciario è costituito da una serie di trattamenti chimici e meccanici che consentono la trasformazione della pelle grezza in cuoio finito; tali operazioni chimiche e meccaniche sono atte ad eliminare l’epidermide ed il tessuto sottocutaneo dal restante derma che viene convertito in cuoio. Quando la pelle è trasformata in cuoio, la sua struttura naturale è conservata ; tale struttura consiste in fasci di fibre di proteine, le proteine del collagene, che si intrecciano tra loro in maniera naturalmente tridimensionale in tutto lo spessore della pelle (figura 1)

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Figura 1: Struttura fibrosa della pelle

Il processo produttivo a ciclo completo prevede delle fasi ad umido e delle fasi a secco. Le fasi ad umido comprendono i cosiddetti lavori di riviera (rinverdimento, calcinaio, decalcinazione-macerazione), quelli di concia propriamente detti e le operazioni di riconcia, tintura e ingrasso. Le fasi a secco riguardano alcune operazioni meccaniche e il processo di rifinizione.

In figura 2 si riporta il diagramma a blocchi di un processo produttivo conciario a ciclo completo; a partire dalla fase di ricevimento della pelle grezza in conceria fino al cuoio finito. Nel diagramma si riportano non solo le fasi relative alla concia al cromo ma anche quella previste per la produzione del cuoio suola.

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Figura 2 : Schema del processo conciario

I problemi ambientali dell’industria conciaria derivano dal fatto che

  1. a) nel processo produttivo la maggior parte dei prodotti chimici utilizzati resta nei reflui allo stato originario o trasformati in derivati in quanto le quantità fissate sono quasi sempre inferiori a quelle fornite. Nel caso ad esempio della concia al cromo convenzionale, il rendimento di fissazione non supera quasi mai il 60/%. Ciò comporta da un lato elevati consumi e sprechi delle materie prime, dall’altro la presenza di elevate quantità di prodotti chimici negli scarichi con conseguente necessità di trattamenti depurativi.

Le acque reflue di concerie sono quindi caratterizzate oltre che dalla presenza del cromo trivalente , nel caso della concia con solfato basico di cromo, da elevate concentrazioni di sostanze organiche (COD – Chemical Oxigen Demand), di composti azotati , di sali (in particolare cloruri e solfati) , di solfuri , di tensioattivi e così via.

b)La trasformazione della pelle grezza in cuoio dà luogo ad una produzione di rifiuto pari ad oltre il 50% in peso della materia prima lavorata , oltre ai fanghi derivanti dalla depurazione degli scarichi idrici.

Per questi motivi l’industria conciaria è spesso considerata una attività altamente inquinante e pertanto nell’immaginario collettivo richiama cattivi odori , acque inquinate e un suolo contaminato

Come spesso avviene, quando si tratta di problemi ambientali, esiste un divario tra la percezione e la realtà del rischio.

La sostenibilità della materia prima (pelli grezze) e della sua trasformazione

L’industria conciaria si occupa sostanzialmente della trasformazione di un rifiuto dell’industria della carne e/o del latte in un prodotto industriale adatto ad essere valorizzato nella produzione di articoli in pelle e/o cuoio. Pertanto il cuoio può essere considerato come una soluzione ambientalmente sostenibile ad un reale problema di smaltimento di elevate quantità di spoglie animali che si originano dall’industria della carne.

Infatti la disponibilità di pelli grezze sul mercato dipende dalla quantità di macellazioni a scopo alimentare e non è in alcun modo influenzata dal fabbisogno dell’industria manifatturiera della pelle ; in sostanza il numero di animali allevati e macellati a fine vita è funzionale ai fabbisogni di altre industrie (carne , latte, lana, ecc.).

Per quanto concerne l’impatto ambientale (effluenti e rifiuti) del processo produttivo conciario è da tener presente che

Come accennato precedentemente l’industria conciaria italiana è prevalentemente strutturata in poli conciari; questo tipo di accentramento permette di affrontare in maniera razionale e mirata alcune delle problematiche ambientali legate alla lavorazione della pelle.

Ad esempio per far fronte alla domanda di disinquinamento delle acque è stata favorita, a partire dagli anni ’70, la costruzione di impianti di depurazione centralizzati di tipo consortile specializzati nel trattamento di acque a prevalente origine conciaria (questi impianti trattano, in genere, anche percentuali minori di effluenti urbani).

In quegli anni, mentre la politica ambientale tendeva ad esasperare i trattamenti depurativi a piè di fabbrica, la realizzazione di strutture centralizzate di depurazione, quali impianti di servizio di aree industriali per scarichi di difficile trattabilità, era stata fortemente voluta , sin dall’inizio, dagli operatori del settore per i molti vantaggi che tale soluzione comportava:

  • maggiore continuità ed affidabilità di esercizio ;
  • possibilità di impiegare tecnologie di tipo avanzato, insostenibili in proprio dai singoli insediamenti;
  • sensibile riduzione dei costi unitari di trattamento;
  • migliore trattabilità dello scarico complessivo ;
  • maggiori garanzie di controllo e minore impatto ambientale globale.

In sostanza, per il settore conciario, è stato anticipato il modello depurativo indicato successivamente nella normativa europea.

Attualmente in Italia gli impianti consortili trattano circa l’85% delle acque reflue conciarie mentre il restante viene trattato in impianti di singole concerie.

Se il trattamento depurativo è effettuato correttamente e l’impianto consortile è adeguatamente condotto, tutti i parametri delle acque (Cromo , COD , ecc.) in uscita rispettano i valori limiti previsti dalla legislazione vigente, con l’eccezione talvolta dei parametri cloruri e solfati. In genere, tuttavia, i valori di questi parametri non sono tali da produrre danni ai corpi idrici recettori e lo sversamento delle acque depurate è consentito da apposite autorizzazioni e/o deroghe regionali.

Per quanto concerne i rifiuti come ad esempio il carniccio , la rasatura e i ritagli di pelle (residui solidi specifici della lavorazione conciaria) essi vengono adeguatamente gestiti e valorizzati per la produzione di fertilizzanti , ammendanti , ecc., in particolare nei distretti industriali della Toscana e del Veneto.

Inoltre nel distretto conciario toscano viene effettuato , mediante un impianto centralizzato, il recupero del cromo trivalente; infatti opportuni trattamenti dei liquidi di concia al cromo esausti consentono il riciclo di tale conciante nel processo produttivo.

La problematica ambientale della concia al cromo

La ragione principale per la crescita della richiesta di conce alternative è la scarsa immagine del cromo e conseguentemente delle pelli conciate con tale metallo. Secondo quanto frequentemente contestato, una delle maggiori cause dell’inquinamento conciario è l’impiego per la concia di prodotti a base di cromo. In pratica la presenza di cromo nelle acque reflue e quindi nei fanghi di depurazione oltre che in alcuni residui solidi è uno dei punti più frequentemente citati da chi addita l’industria conciaria quale fonte di grave inquinamento. Ciò è dovuto anche al fatto che, talvolta, quando si dice che l’industria conciaria usa il cromo si tende a pensare che si tratti di cromo esavalente, che è notoriamente tossico e cancerogeno.

Tuttavia anche il cromo trivalente,utilizzato nel processo conciario sottoforma di solfato basico di cromo, è un metallo pesante e come tale soggetto a limitazioni nelle acque reflue e nei residui, anche se, per quanto è noto, non presenta particolari problemi né sul piano sanitario né su quello ambientale (è facilmente abbattibile come idrossido già a pH 4,5 circa e l’idrossido è quasi inerte in condizioni normali).

Ad ogni modo nonostante ciò è evidente che il termine “chrome free” implica necessariamente che vi è un problema che sta alla base circa l’impiego del cromo trivalente nella produzione del cuoio. Questo concetto ha la sua origine nell’asserito impatto ambientale del cromo(III) nelle “emissioni conciarie” (scarichi idrici, residui solidi, ecc.) e nella sua potenziale mobilità e trasformazione nei residui solidi conciati e nei fanghi. Anche la potenziale ossidazione nelle pelli finite del cromo trivalente a cromo esavalente sta negli ultimi tempi generando delle preoccupazioni nei riguardi del cuoio al cromo. Inoltre un altro inconveniente che deriva dalla concia al cromo è rappresentato dallo smaltimento degli scarti di lavorazione, quali la rasatura, la smerigliatura e la rifilatura. Infatti il loro eventuale incenerimento può provocare l’ossidazione del cromo III a cromo VI mentre lo smaltimento di tali residui in discarica oppure il loro riutilizzo è legato anche al concetto di riciclabilità e biodegradabilità. Al riguardo è noto che nel sentimento comune un cuoio con concia organica ed esente da metalli pesanti è più facilmente degradabile rispetto a quello contenente cromo ed anche più anallergico. Questa ultima caratteristica rende l’uso di tale tipo di cuoio più favorevole nei confronti dei soggetti predisposti alle allergie e alle irritazioni cutanee.

Valutazione del ciclo di vita

Una valutazione oggettiva dei vantaggi produttivi ed ambientali derivanti dall’impiego di conce alternative a quella al cromo, non è facile né semplice. Sul piano produttivo si potrebbe dire che gli svantaggi sono superiori ai vantaggi. Le limitazioni nella destinazione di questi cuoi rispetto a quelli al cromo, i processi produttivi relativamente più complessi e lunghi, la necessità di impiegare un maggior numero di prodotti chimici per compensare alcuni inconvenienti, rendono complessivamente questi sistemi meno flessibili e più costosi.

Sul piano ambientale, la quantità globale dell’inquinamento prodotto con questi sistemi di concia chrome-free e/o metal-free è probabilmente maggiore per la necessità di utilizzare prodotti più difficilmente eliminabili dalle acque. Al riguardo, alcuni anni fa, uno studio di autori tedeschi (B. Trommer, H.J. Kellert, Comparison of tanning methods from an ecological viewpoint – Leather, dic. 1999 parte I e gen. 2000 parte II), in cui vengono raffrontati quattro tipi di concia (concia convenzionale al cromo, concia wet-white con glutaraldeide e tannini sintetici, concia combinata glutaraldeide e cromo e concia vegetale con mimosa) mediante applicazione della metodologia LCA (Life Cycle Assesment) al solo processo conciario, mette in evidenza che la concia al cromo è da preferire sotto tutti gli apetti considerati.

Infatti lo studio mostra che le fasi che maggiormente contribuiscono all’inquinamento/tossicità delle acque sono quelle successive alla concia (riconcia, ingrasso, tintura, ecc.) ed è risultato notevolmente maggiore per le conce alternative esaminate. In pratica, il solo svantaggio rilevato per la concia convenzionale al cromo è stato, come era ovvio, la presenza di cromo nei fanghi di depurazione con le conseguenti difficoltà per lo smaltimento.

La concia peggiore, da questa valutazione generale, è risultata la concia con tannino vegetale (mimosa) che ha il solo vantaggio dell’assenza di metalli concianti e/o pesanti nel prodotto e nei fanghi. Ad ogni modo i risultati di questo studio sono comunque parziali in quanto non sono stati presi in considerazione gli altri criteri ambientali previsti dalla metodologia LCA. Infatti questo metodo si basa su un approccio sistematico definito “from cradle to grave”, cioè “dalla culla alla tomba”: il prodotto, processo o servizio, è analizzato in ogni fase della sua vita, dall’estrazione e trasformazione delle materie prime, attraverso la produzione, il trasporto e l’utilizzo, fino al riciclo o allo smaltimento. Attraverso uno studio LCA è quindi possibile individuare le fasi in cui si concentrano maggiormente le criticità ambientali e le informazioni necessarie per realizzare gli interventi di miglioramento.

Al riguardo una recente ricerca riguardante la valutazione del Carbon Footprint (CF) di pelli ovine per abbigliamento ha evidenziato che la maggior parte dell’impatto climatico (Carbon Footprint) deriva dalla fase di agricoltura-allevamento, e cioè a monte del processo di lavorazione conciario.

Per quanto concerne , invece, la fase “core” cioè il cuore del processo di lavorazione effettuato in azienda i dati riscontrati mostrano che il contributo maggiore dell’impatto ambientale , in termini di CF, è dovuto ai prodotti chimici impiegati nelle diverse fasi di lavorazione.

Conclusioni

La sostenibilità del cuoio , in particolar modo quello derivante dalla produzione italiana, è sostanzialmente basata su processi produttivi che risultano essere conformi alle norme ambientali di riferimento; la conceria italiana , la cui produzione si concentra , per la quasi totalità, all’interno di poli industriali territoriali da molti anni considera la tutela dell’ambiente come parte integrante della propria crescita produttiva. L’adozione di tecnologie pulite , il maggior uso di prodotti chimici più ecocompatibili, l’impiego di macchinari con un più elevato rendimento energetico , hanno consentito di raggiungere adeguati livelli di efficienza ambientale dei cicli produttivi.

Per quanto concerne la sicurezza del prodotto , in termini di presenza di sostanze particolarmente pericolose- SVHC , la pelle finita (cuoio) italiana è generalmente conforme ai requisiti previsti dalle normative internazionali ed in particolare a quelli regolamentati dal REACH.

Bibliografia

  1. Unione Nazionale Industria Conciaria : Rapporto di Sostenibilità 2014
  2. Naviglio G., La Gestione Ambientale nell’Industria Conciaria, Tesi di laurea – Ingegneria Gestionale 2003-2004
  3. Naviglio B. , Calvanese G. , Aveta R. , Caracciolo D., Girardi V. , Scotti M. , Tortora G., Romagnuolo M. , I sistemi di concia alternativi al cromo : dal chrome-free al metal-free , CPMC ,86, 5, 275-289 , 2010
  4. Wolf G., Meier S., Lin A., Leather and Sustainibility : from contradiction to value creation, World Leather, 14-16, December 2013/January 2014
  5. Germann H.P., Sustainible leather manufacture – Realistic objective or wishful thinking ? , Leather , 28-30, April 2010
  6. Naviglio B., Fabbricino M., Cozzolino A. , La valutazione del Carbon Footprint del cuoio : il caso della lavorazione delle pelli ovine nel Distretto di Solofra , CPMC , 90,6,245-261, 2014

**Biagio Naviglio è laureato in Chimica Industriale, Ricercatore Senior della Stazione Sperimentale Pelli dal 1981 con attività nella chimica e tecnologia della concia per la riduzione dell’impatto ambientale. Socio della SCI divisione di Chimica Industriale
Presidente dell’ordine dei chimici della Campania da febbraio 2016 ad oggi

 

Violare un tabù.

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Rinaldo Cervellati.

Come noto, quando un pezzetto di metallo alcalino viene messo in acqua si ha una violenta reazione con sviluppo di idrogeno che può portare a una piccola esplosione (l’esplosione si verifica sempre col potassio). La più recente newsletter di C&EN riporta l’articolo di un gruppo di ricercatori secondo cui una goccia di una lega sodio-potassio (liquida a temperatura ambiente) posta su una superficie d’acqua dà luogo a un processo diverso ma ugualmente spettacolare.

tabu1P.E. Mason, P. Jungwirth, T. Buttersack, S. Bauerecker, A Non-Exploding Alkali Metal Drop on Water: From Blue Solvated Electrons to Bursting Molten Hydroxide, Angew. Chem. Int. Ed. Engl,  2016, August 4, DOI: 10.1002/anie.201605986

All’inizio, la lega reagisce con l’acqua formando gli idrossidi dei metalli alcalini, idrogeno e sviluppando calore. La spinta idrostatica della lega e il gas che si produce limitano il contatto fra il metallo e l’acqua in modo che la reazione procede in modo non esplosivo. Un’atmosfera inerte, (generata da un flusso continuo di argon) impedisce l’accensione dell’idrogeno.

A circa 0,3 secondi dall’inizio della reazione, le superfici interagenti diventano blu a causa degli elettroni solvatati, questo fenomeno è visibile ad occhio nudo nonostante che la durata degli elettroni in acqua sia di sottomillisecondi.

tabu2La goccia continua a sviluppare calore per circa due secondi, allorchè i metalli alcalini iniziano a evaporare e la goccia diventa rossa. A circa tre secondi, il vapore metallico schiarisce e la temperatura della lega si abbassa man mano che essa si trasforma in una massa di idrossidi fusi dei metalli alcalini. Supportata da uno strato di vapore, la goccia galleggiante resiste per un secondo prima di cadere in acqua formando una soluzione acquosa degli idrossidi.

Gli autori documentano tutto ciò nel seguente video:

http://cen.acs.org/articles/94/i35/Liquid-alkali-metal-alloy-floats.html?utm_source=NonMember&utm_medium=Newsletter&utm_campaign=CEN

Commenti saranno particolarmente graditi, sul sito di Angewandte ce ne sono già un certo numero.

 

 

La Storia della Chimica tra i banchi di una Fiera Antiquaria

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Roberto Poeti

 

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La fiera antiquaria di Arezzo si svolge la prima domenica di ogni mese . Molte stradine e piazze della città vecchia si riempiono di bancarelle che espongono merce di ogni genere : oggetti e strumenti dei mestieri passati , suppellettili , mobili , quadri , vecchi gioielli ecc.. . Può capitare che di tanto in tanto siano esposte intere collezioni di vetreria per laboratorio chimico e farmaceutico . Ma ci sono anche bancarelle che offrono vecchie edizioni di libri , fotografie d’epoca , stampe antiche . In queste ultime bancarelle possono capitare per noi chimici delle vere e proprie perle . Si tratta di manuali di chimica che possono risalire fino al settecento . Qualche volta i loro prezzi sono ragionevoli . L’ultima volta che ho visitato la fiera , scorrendo i titoli di vecchi libri allineati in un tavolo , ho avuto uno scatto di meraviglia quando ho letto sul frontespizio di un piccolo testo “ Raffaele Piria “ e il titolo “Trattato Elementare di Chimica Inorganica “ Pisa 1845 .

Il prezzo era francamente modesto e così l’ho acquisito alla mia collezione.

Raffaele Piria (Scilla, 20 agosto 1814 – Torino, 18 luglio 1865) è stato un grande chimico italiano , dette vita presso l’Università di Pisa , dove fu chiamato nel 1842 ad occupare la cattedra di chimica, ad una prestigiosa scuola di chimica.

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Raffaele Piria

A Pisa ebbe come allievi Stanislao Cannizzaro e Cesare Bertagnini . Altri suoi allievi furono Orazio Silvestri e Paolo Tassinari. Vista la grande fama e importanza che caratterizza gli allievi del Piria , la scuola pisana è considerata quella che, in Italia, ha fondato la Chimica moderna . E’ stato un patriota durante il Risorgimento e poi un importante uomo politico dopo l’Unità d’Italia. Tra il 1840 ed il ’41 pubblicò il Trattato elementare di Chimica Inorganica , che si rivelò subito di grande importanza per rigore scientifico e chiarezza dell’espressione ; lo dedicò al suo illustre maestro , il grande chimico Jean Baptiste Dumas , presso il cui laboratorio aveva compiuto importanti ricerche, ricordiamo quelle sulla salicina , e a partire da questi studi si aprì la strada alla realizzazione della famosa aspirina poi prodotta dalla società tedesca Bayer . Così presenta il Trattato di Piria Gaetano Giucci nel “ Degli Scienziati Italiani formanti parte del VII congresso di Napoli nell’autunno del 1845 , Notizie Bibliografiche raccolte da Gaetano Gucci , Napoli 1845 “ :

Fu tale l’accoglienza fatta dal pubblico a questo lavoro di Piria che in breve tempo se n’esaurirono tre edizioni “ .

In realtà le edizioni furono cinque , l’ultima venne da lui curata dopo il 1860 poco prima della sua morte . Cannizzaro così descrive il lavoro del suo Maestro:

Il Piria fra gli smalti ed i cammei della sua non mai abbastanza lodata e citata monografia, fu una delle maggiori glorie scientifiche italiane tanto per l’importante parte con cui contribuì al progresso della chimica, quanto per la durevole influenza che egli esercitò sull’insegnamento scientifico della penisola”.

Ma le sorprese più grandi che riserva la Fiera sono là dove meno te l’aspetti. Così è accaduto tempo fa quando in mezzo a vecchi quadri, vasi di porcellana incrinati e sbreccolati e poltrone sdrucite, seminascosti, quasi a vergognarsi di tale compagnia, erano allineati sei volumi rilegati in pelle marrone chiara, con titoli e fregi dorati ai dorsi, che riportavano “ TADDEI CHIMICA GENERALE“. I volumi sono ben conservati e le pagine del testo di carta bianca, di ottima qualità, sono arricchite di fini incisioni xilografiche. Nel frontespizio si legge che i sei volumi sono stati pubblicati tra il 1850 e il 1855. Contengono, riportate fedelmente , ” Le lezioni orali di un corso privato “ tenute dal Professore Cav . Gioacchino Taddei a cavallo tra il 1849-1850.

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I sei volumi di “ Chimica generale “ di Taddei

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Gioacchino Taddei (San Miniato, 1792 – Firenze, 1960) appartiene alla generazione precedente a quella di Piria , e ancora molto giovane , nel 1819 , ottiene la cattedra di Chimica Farmacologica nell’Arcispedale di Firenze . Come farà Piria dopo di lui , nel 1821 , due anni dopo l’incarico all’Arcispedale , Taddei inizierà una lunga peregrinazione in Europa dove incontrerà i protagonisti della nuova Chimica .

  Imperò nell’agosto del 1821 egli si dirigeva per l’Italia superiore alla volta di Parigi, ove erano in fama ed onoranza i nomi di Vauquelin, di Gay-Lussac, di Thenard e di Chevreul, dai quali ebbe cortese e familiare accoglienza ed ogni facilitazione di apprendere quanto più si poteva dalla loro voce e dai loro lavori, e di far loro ad un tempo comunicazione dei proprj; tanto che nell’anno appresso si vide publicata in francese la traduzione della sua Memoria intorno ad un nuovo antidoto del sublimato corrosivo. Da Parigi il Taddei non fece ritomo in patria senza prima visitar Londra, che vantava allora di possedere un Davy, un Vollaston, un Dalton, già saliti in molta rinomanza e gli ultimi in ispecie per la nuova dottrina delle

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Giovacchino Taddei

proporzioni determinate; la quale fece si bella impressione nell’animo del nostro viaggiatore che reduce appena in Firenze la volle far conoscere a’suoi, illustrandola in quella sua publicazione col titolo «Sistema di Stechiometria chimica».”

Così scriveva il prof. Serafino Capezzuoli nel volume IX de «Il Politecnico», del settembre 1860. La citazione è tratta di una sintetica biografia del Taddei scritta a pochi mesi dalla sua morte.

E’ sorprendente come molti giovani chimici, con pochi mezzi a disposizione, provenienti da molti paesi, inclusi gli Stati Uniti, intraprendessero   un lungo viaggio, per quei tempi, alla volta della Germania, Francia e Inghilterra , considerate i luoghi della Nuova Chimica. Non era la fuga dei cervelli come oggi la conosciamo, i nostri viaggiatori facevano ritorno nei loro paesi per diffondevi le conoscenze apprese. Paesi nei quali, in qualche modo, riuscivano a trovare un ambiente disposto ad accoglieva queste novità.

Ma torniamo al nostro Taddei .

Perché si parla nel frontespizio di “Lezioni orali di un corso privato “? Non aveva la cattedra di Chimica al Reale Arcispedale fiorentino ? Negli anni 1848-49 Taddei partecipa in modo attivo alle vicende politiche che scuotono il Granducato di Toscana . E’ tra i principali protagonisti dell’Assemblea Costituente Toscana durante la vacanza del Granduca , ricoprendo la carica di presidente . Al ritorno di quest’ultimo al potere seguì l’allontanamemto del Taddei dai suoi incarichi pubblici e gli fu interdetto l’insegnamento anche nelle scuole private . Così il Taddei nella propria abitazione terrà per due anni un corso di chimica che comprenderà la chimica inorganica e organica articolato in ben 187 lezioni per la prima e 99 per la seconda . Sempre il Capezzuoli nella biografia del Taddei

Perduta la sua carissima catedra in un coi diletti discepoli, cercò pure nella scienza un conforto e ve l’ebbe onorevole ed efficace. Vedetelo infatti nella sua propria abitazione attorniato da un eletto stuolo di cittadini volonterosi d’intendere e d’ammirare i vantaggi e le bellezze della Chimica, vedetelo, io diceva, dettare un corso di lezioni private intorno a questa scienza ampiamente svolta da lui in ogni sua parte, e comporre così e divulgare per le stampe un libro di Chimica generale che più degli altri onora grandemente il Taddei. E divero il suo natural genio intollerante di qualunque pastoja e vago di spaziare in ogni regione della Chimica, potè spiccare liberissimo il volo, quando non astretto da veruno speciale e determinato modo d’insegnamento fu padrone di scegliere il campo più confacente alle sue vaste aspirazioni. Il perchè non fu né poteva essere il Taddei, a parlar propriamente, uno specialista, ma poteva essere e fu un Chimico inteso a seguire la scienza ed abbracciarla quanto essa è grande nelle sue molteplici diramazioni e nelle sue svariatissime applicazioni. Aprite quel libro delle Lezioni orali di chimica generale, disteso e spartito in sei grossi volumi, e sempre maggiore ne ritrarrete la convinzione di quanto è stato dello fin qui “.

Per meglio comprendere il clima in cui si tennero le lezioni riporto, sempre da un’altra biografia scritta da Tertulliano Taddei e pubblicata nel 1860 , l’introduzione alla Edizione delle Lezioni scritta dagli stessi compilatori :

Allorquando ci proponemmo di raccogliere diligentemente e quindi pubblicare le Lezioni Orali del Professore Gioacchino Taddei, fummo guidati a interpretare questo lavoro non tanto dal vedere che numerosi ed eletti accorrevano d’ogni ceto gli uditori , quanto dal modo col quale l’illustre chimico fiorentino intendeva a rendere la sua scienza uno studio e dilettevole a un tempo ; uno studio che per la sua aridità fu fin qui da molti creduto la parte più ardua del tirocinio farmaceutico e delle mediche discipline , e solo ai cultori da queste devoluto “.

E ancora

“Reputeremo bastantemente ricompensate le nostre fatiche , se anche per esse potrà realizzarsi il voto espresso dal nostro illustre maestro , il quale all’occasione di comunicarci il piano che si proponeva di tenere nel corso di queste Lezioni , si esprimeva così «Io mi chiamerei fortunato qualora riuscendo ad insinuare il gusto per le chimiche discipline in ogni ceto di persone , potessi far si che venisse molto più estesamente coltivato e diffuso questo ramo di filosofici studj , senza il quale reputo non possa darsi vera e completa scientifica educazione ».

Vorrei concludere con la “scoperta più voluminosa “ fatta poco tempo fa . Ammonticchiati alla rinfusa in un grande tavolo , assieme ad oggetti tra i più disparati , giacevano , senza nessun riguardo, molti volumi appartenenti ad una stessa collezione , e mi sarebbero passati inosservati se non avessi intravisto, passando vicino , la scritta sul dorso di uno dei volumi la parola Chimica . Si trattava dell’Enciclopedia di Chimica di Francesco Selmi (Vignola (MO) 1817 – 1881). L’opera consiste di undici grossi volumi , due di supplemento stampati in corso d’opera e , dopo la morte del Selmi  , di altri cinque di supplemento, a cura quest’ ultimi di   Icilio Guareschi . Il primo volume esce nel 1868 e l’ultimo, l’undicesimo , nel 1878 . L’ultimo volume contiene un ampio e interessante “ compendio storico “ che parte dalla civiltà egizia e termina con la chimica  dei primi dell’ottocento. I cinque supplementi del Guareschi ( dovrebbero essere sette ) sono prodotti nel decennio 80-90 ( Per inciso in genere sono riportate in letteratura un numero di supplementi inferiore a quelli da me trovati ). L’opera è veramente monumentale , e racchiude le conoscenze scientifiche nel campo della chimica e della tecnologia chimico – industriale dell’epoca. La stampa è ottima , molto ricca di incisioni xilografie , lo stato di conservazione buono . E il prezzo ? Non osavo chiederlo . Me la sono aggiudicata , dopo una contrattazione serrata , ad un prezzo ragionevole. L’opera del Selmi è il primo esempio di enciclopedia di chimica stampata in Italia e in Europa. La cosa che è per molti aspetti sorprendente è la grande tiratura che ebbe l’opera . Vennero stampate ben settemila copie! Se pensiamo in quel periodo al basso grado di scolarizzazione in generale e in particolare la scarsa diffusione della cultura scientifica , soprattutto quella chimica ci si chiede chi ebbe tanta fiducia in questa impresa editoriale .

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Ma per comprendere la sua mole l’ho confrontata con l’Enciclopedia della Chimica della casa editrice USES che apparve negli anni 1970 . Nello scaffale superiore è l’opera moderna , mentre nello scaffale inferiore è l’opera del Selmi ( mancano due volumi che ho prestato ) . Una nota curiosa : la casa editrice che ha stampato le due opere a distanza di cento anni è la stessa!

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Francesco Selmi ((Vignola (MO) 1817 – 1881)

Francesco Selmi ((Vignola (MO) 1817 – 1881) ha molto in comune con gli altri due chimici Piria e Taddei . Sono stati scienziati e uomini politici protagonisti del risorgimento e del nuovo stato unitario. Come scienziato Selmi diffuse in Italia le teorie di Liebig soprattutto la chimica applicata all’agricoltura e collaborò con Cavour sia dal punto di vista scientifico che istituzionale. La vicinanza con Cavour favorì la sua integrazione nell’ambiente scientifico torinese . In quel periodo Selmi strinse anche rapporti di amicizia con Ascanio Sobrero (1812-1888), destinato a diventare famoso in tutto il mondo per la scoperta della nitroglicerina . Sarebbe stato proprio Selmi a comunicare la scoperta nel corso della Riunione degli Scienziati italiani di Venezia nel 1847. La sua frequentazione con i protagonisti della chimica italiana ebbe altre testimonianze :   dopo i moti del 1848 un altro grande della chimica di quel tempo , Cannizzaro , fu costretto a rifugiarsi a Parigi. Nel 1851 lo scienziato siciliano riuscì finalmente a rientrare in Italia , trovando sistemazione presso il Collegio nazionale di Alessandria come professore di chimica e fisica, grazie all’aiuto di Francesco Selmi . La figura ricca e complessa del nostro scienziato è dimostrata dalla sua profonda cultura che spazia dal campo scientifico a quello umanistico . Compirà infatti approfonditi studi danteschi , condotti con estremo rigore filologico, che portano Selmi a raccogliere nelle biblioteche d’Italia una mole enorme di informazioni sui codici della Divina Commedia e su altre opere del poeta fiorentino. E l’ Enciclopedia di Chimica Scientifica e Industriale rappresenta l’emblema dell’altra faccia della medaglia . La divulgazione di una cultura scientifica diffusa e aggiornata per l’affermazione di una classe borghese moderna e illuminata è lo scopo principale di questa opera . Ogni argomento è assegnato ad un esperto della materia e lo stesso Selmi partecipa alla stesura di molte ‘voci’ ; tra i chimici importanti che vi collaborano troviamo tra i più assidui Ugo Schiff (Francoforte sul Meno, 26 aprile 1834 – Firenze, 8 settembre 1915) .

Ora è tempo di preparare un’altra spedizione esplorativa tra i banchi delle Fiera dell’Antiquariato di Arezzo .

Silicio, siliconi e dintorni.

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Rinaldo Cervellati

Questi due nomi hanno generato (e continuano a farlo) una grande confusione, specialmente fra i traduttori di articoli giornalistici e romanzi, suscitando facili ironie da parte degli addetti ai lavori. Ricordo ad esempio il titolo di un articolo comparso nel quotidiano di Bologna: “In arrivo l’automobile al silicone!” per intendere l’auto munita di componenti elettronici. Oppure la “Silicon Valley”, tradotta come “Valle del Silicone”.

silicio

Silicio, elemento Z=14

Si potrebbero riportare decine di queste “perle”. Il fatto è che la traduzione corretta del vocabolo inglese Silicon è Silicio, nome dato all’elemento 14 della Tavola Periodica, mentre il vocabolo inglese per “silicone” (un importante materiale contenente silicio ma con proprietà completamente diverse) è proprio “silicone”. Vi è davvero assonanza, ma i traduttori quando hanno a che fare con termini scientifici potrebbero consultare un dizionario o, più semplicemente, andare su Google…[1].

siliconi

Prodotti comuni contenenti siliconi

Vediamo di cosa si tratta in qualche dettaglio.

Il silicio, simbolo Si, è il secondo elemento per abbondanza (27.7%), dopo l’ossigeno, nella crosta terrestre sottoforma di minerali (quarzo, feldspati, silicati, alluminosilicati) costituenti le rocce (graniti, argille). Il primo a isolare il silicio elementare a un certo grado di purezza fu il grande chimico J.J. Berzelius (1779-1848) nel 1823. Egli pensò che questo elemento assomigliava molto al boro perché entrambi gli elementi formavano ossidi non volatili che producevano facilmente materiali vetrosi e si potevano ottenere isolati solo come polveri amorfe. Ciò lo portò a assegnare la formula SiO3 all’ossido di silicio in analogia con quello del boro (BO3)[2]. Successivamente fu poi stabilito il giusto peso atomico al silicio e la sua posizione nella Tavola Periodica, sotto al Carbonio, sicchè all’ossido di silicio venne assegnata la formula corretta, SiO2 [1].

wohler

Friedrich Wöhler

Nel 1857, il chimico Friedrich Wöhler[3], che fu allievo di Berzelius, sintetizzò il tetraidruro di silicio (SiH4), stechiometricamente e strutturalmente analogo al metano (CH4) [2]. Successivamente, ottenne, per idrolisi del silicato di magnesio, una serie di composti contenenti silicio, idrogeno e ossigeno, trovando comunque molto difficile assegnare a questi formule precise. In base a dati analitici assegnò a uno di questi composti le possibili formule Si8H4O6, Si6H3O4, Si12H6O8 e altre simili. Poiché gli unici altri composti con questa stechiometria complessa che Wöhler conosceva erano i composti organici del carbonio, nel 1836 scrisse:

… Un risultato di grande interesse in quanto può essere visto come un composto costruito alla maniera di una sostanza organica in cui il silicio svolge il ruolo del carbonio nel materiale organico. Forse può servire come base per tutta una serie di corpi simili, e potrebbe quindi esistere la prospettiva di una chimica speciale del silicio, simile a quella che esiste nel caso del carbonio.[3]

Questa frase, tradotta dall’originale tedesco [3] in inglese da W. Jensen [1]*, ha probabilmente influenzato i giornalisti “scientifici” e gli scrittori di fantascienza che hanno immaginato pianeti basati sul silicio al posto del carbonio, e esseri extraterrestri con organismi al silicio. Queste fantasie sono chiamate da Jensen “strong analogies” fra la chimica del carbonio e quella del silicio. Ma, dice Jensen, sono esistite e esistono anche “weak analogies” che hanno portato proprio alla scoperta dei siliconi. Queste “analogie deboli” consistono nella considerazione che sarebbe stato possibile modificare o perturbare usuali composti organici sostituendo atomi isolati di carbonio con atomi di silicio. In particolare, l’attenzione fu inizialmente posta sulla sostituzione di atomi di carbonio corrispondenti a centri otticamente attivi, a gruppi funzionali, ecc.

friedel

C. Friedel

crafts

J. M. Crafts

Nel 1844, il chimico francese, Jacques-Joseph Ebelmen[4], aveva preparato con successo una serie di alcossido derivati di silicio di formula generale Si(OR)4, e nel 1863 C. Friedel e J. M. Crafts[5] sintetizzarono il primo alchil derivato del silicio, il tetraetilsilano, Si(C2H5)4 [1]. La ricerca fu proseguita da Friedel, e in particolare dal chimico tedesco Albert Ladenburg[6] per tutto l’ultimo quarto del 19° secolo, quindi, nel 1916, il chimico svedese Artur Bygden potè elencare diverse centinaia di composti organometallici del silicio in una sua monografia.

Lo storico americano Jensen afferma che la maggior parte dei composti elencati da Bygden erano semplici prodotti di sostituzione dei tetralchilmonosilani, e in quasi tutti i casi le strutture loro assegnate furono basate esclusivamente sul presupposto che una stechiometria analoga a quella di un composto corrispondente del carbonio implicava automaticamente una analoga struttura. Questo da un lato ci dice che i chimici lavoravano in base alla “analogia debole”, ma dall’altro che nei giornalisti e romanzieri si rafforzava invece l’idea della “analogia forte”.

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Frederick Stanley Kipping

Nel 1899 il chimico organico inglese Frederick Stanley Kipping[7], iniziò uno studio intensivo sui composti organosilanici (in base alla analogia debole) che proseguì per quasi quattro decenni. Forse il risultato più importante di Kipping è stata la sintesi di una nuova classe di derivati organosilanici contenenti ossigeno, i siliconi. Anche Kipping, nei suoi primi lavori, dava per scontato che stechiometria analoga implicava automaticamente struttura analoga. Di conseguenza, quando ottenne una classe di composti di formula generale R2SiO, pensò di aver scoperto gli analoghi alchilsilanici dei chetoni R2CO, da qui il nome “siliconi” che Kipping diede a questi composti. Si deve concordare con Jensen che questo termine ha eguagliato nella nomenclatura chimica, per le sue implicazioni fuorvianti, solo l’ipotesi di Lavoisier che la composizione di zuccheri e amidi implicava che essi fossero letteralmente idrati di carbonio.[1]

Tuttavia, nel 1936, nella sua Bakerian Conference su “I derivati organici del silicio”, in cui riassunse la sua vita professionale, il suo lavoro e l’esperienza maturata, egli si mostra molto dubbioso sulla possibilità di una chimica organica basata sul silicio, infatti dice:

Anche dopo poche esperienze, era evidente che derivati corrispondenti dei due elementi in questione mostravano differenze molto notevoli nelle loro proprietà chimiche; ora si può dire che il caso principale, se non l’unico, in cui essi presentano una somiglianza molto stretta è quello delle paraffine e dei silicoidrocarburi contenenti un atomo di silicio direttamente unito a quattro radicali alchilici. Ma in qualsiasi confronto fra i composti del carbonio e i derivati organici del silicio è molto più importante il fatto che molte, se non la maggior parte, delle principali classi dei primi non sono rappresentate tra questi ultimi. Apparentemente ciò non è semplicemente una conseguenza di una insufficiente indagine sperimentale sui derivati di silicio, ma è dovuto alle differenze fondamentali nelle proprietà degli atomi di silicio e carbonio …[4]

In altre parole, dopo 40 anni di ricerca, Kipping era giunto alla conclusione che anche la “analogia debole” aveva difetti, e il successivo lavoro avrebbe presto mostrato che il suo pessimismo era pienamente giustificato.

rochow

E.G. Rochow

In effetti fu presto dimostrato, in particolare dal chimico americano E.G. Rochow[8], che le strutture e la chimica dei siliconi e di altri alchilsilani contenenti ossigeno sono meglio descritte dal punto di vista della chimica inorganica come derivati progressivamente depolimerizzati in cui uno o più “ponti” Si−O−Si vengono sostituiti da radicali R− o da gruppi RO−:

2(R−) + (= Si−O−Si =) → 2 (= Si−R) + (−O−)

piuttosto che dal punto di vista della chimica organica come semplici analoghi silicio-sostituiti dei chetoni, alcoli, ecc. Infatti, un processo parallelo si osserva nel campo strettamente inorganico quando si depolimerizzano i silicati per reazione con ossidi metallici, un processo che porta alla formazione di strati, catene, anelli e anioni silicato, nonché vetri silicati di viscosità variabile [5]. Va notato che i Bragg avevano dimostrato, tramite la cristallografia a raggi X, la totale assenza di qualsiasi somiglianza tra le strutture di anidride carbonica e carbonati, da un lato, e le strutture di biossido di silicio e silicati, dall’altro, e che Alfred Stock[9], lavorando sui silani nel periodo 1916-1923 aveva mostrato che gli idruri di silicio erano altamente sensibili all’aria e all’umidità contrariamente agli alcani.siliconi-2

Tutto questo per ribadire la pratica impossibilità di realizzare una chimica del silicio analoga alla chimica del carbonio o chimica organica.

Ovviamente ciò nulla toglie all’importanza che i siliconi rivestono oggi nei campi più disparati, dai lubrificanti alla medicina, dall’elettronica all’edilizia, ecc.

cyclomethicone

una bellla molecola di silicone: il ciclometicone o decametilciclopentasilossano un “silicone” ciclico usato nell’industria cosmetica e nel lavaggio dei tessuti

Notate che i siliconi vengono anche definiti silossani o meglio polisilossani, un termine che eliminerebbe l’ambiguità del più comune termine silicone.

[1] W.B. Jensen, The Chemistry of Bug-Eyed Silicon Monsters, An invited lecture given at the 203rd National ACS Meeting, San Francisco, CA, on 05-10 April 1992.

[2] F. Wöhler, H. Buff, Ueber eine Verbindung von Silicium mit Wasserstoff, Ann. Chem., 1857, 103, 218-229, cit. in [1]

[3] F. Wöhler, Ueber Verbindungen des Silicium mit Sauerstoff und Wasserstoff, Ann. Chem., 1863, 127, 257-274, p. 268, cit in [1]

[4] F. S. Kipping, Organic Derivatives of Silicon, Proc. Roy. Soc., 1937, 159A, 139-148.

[5] E. G. Rochow, An Introduction to the Chemistry of the Silicones. Wiley: New York. NY. 1946, cit. in [1]

Noterella semiseria dell’autore: L’universo fisico è illimitato, teniamo quindi sempre in mente l’aforisma di Shakespeare: “Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne possa immaginare la tua filosofia”

*e dall’inglese in italiano dal sottoscritto

[1]Secondo wikipedia, la confusione non riguarda solamente l’inglese/italiano, ma anche altre lingue ad es. spagnolo/inglese: Silicio(Silicon)/Silicona(Silicone); tedesco/inglese: Silizium(Silicon)/Silikon(Silicone).

[2] Ciò anche a causa degli errori nel calcolo dei pesi atomici. Come abbiamo ricordato più volte occorrerà aspettare la “rivoluzione” di Cannizzaro per la determinazione esatta dei pesi atomici (1858/1860).

[3] Di Wöhler abbiamo diffusamente parlato in un precedente post https://ilblogdellasci.wordpress.com/2016/05/30/friedrich-wolher-e-gli-albori-della-chimica-organica-di-sintesi/

[4] Jaques-Joseph Edelmen (1814-1852) chimico e mineralogista francese fece importanti ricerche su diversi minerali e studiò e migliorò un metodo di fabbricazione di ceramiche e porcellane.

[5] Charles Friedel (1832-1899) chimico e mineralogista francese, James Mason Crafts (1839-1917) chimico americano spese la sua carriera fra Francia e Stati Uniti. Fra i due chimici vi fu una stretta collaborazione culminata nella nota reazione di Friedel e Crafts che consiste nell’alchilazione o acilazione di composti aromatici catalizzata da acidi di Lewis.

[6] Albert Ladenburg (1842-1911) chimico organico tedesco isolò per primo la scopolamina e si interessò particolarmente di alcaloidi. Medaglia Davy 1905.

[7] Frederick Stanley Kipping (1863-1949) chimico inglese, pioniere nella chimica dei composti organosilanici ebbe un certo ruolo nelllo sviluppo della gomma sintetica e dei lubrificanti siliconici. Medaglia Davy 1918.

[8] Eugene George Rochow (1909 – 2002) chimico inorganico americano è noto sopratutto per le sue ricerche sugli organosilanici. Descrisse il processo diretto, noto come processo di Rochow o di Muller-Rochow per preparare siliconi su scala industriale.

[9] Alfred Stock (1876-1946), chimico inorganico tedesco, è stato pioniere nelle ricerche sugli idruri del boro e del silicio, sul mercurio e la sua velenosità e in chimica di coordinazione.

Come la pensa un chimico. 2 Parte.

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Giorgio Nebbia

la prima parte di questo post è qui.

Nelle settimane di agosto ho ripensato a lungo come rispondere all’invito di Claudio (Lettera del 20/08/2016 12:42) ossia di suggerire quali possono essere gli “habits”, come dice il nostro collega matematico (https://medium.com/@jeremyjkun/habits-of-highly-mathematical-people-b719df12d15e#.n1peqypz6), del chimico. Finalmente mi è venuta in mente la ricetta che un vecchio (ma allora non avrà avuto più di 50 anni) bidello (così si chiamavano quegli straordinari servitori dello stato che pulivano i laboratori e le aule di lezione, mettevano in ordine la vetreria, che peraltro ogni studente o assistente o professore doveva lavarsi da solo, consigliavano e facevano coraggio agli studenti) mi diede quando misi per la prima volta, avevo venti anni, piede in un laboratorio.

Per fare il chimico occorrevano varie cose che lui elencava in un ritornello in bolognese, intercalato da pittoresche espressioni che non posso ripetere: attenzione, scienza, pazienza, fortuna e memoria; lui aggiungeva anche che bisognava aver passione per le ragazze. E Gaetano Benazzi, voglio ricordare il suo nome e sono forse l’ultimo sopravvissuto fra quelli che l’hanno conosciuto, di pazienza ne doveva avere tanta per gli affettuosi scherzi che noi ragazzotti gli facevamo.

Attenzione

Il successo di una analisi o di una sintesi dipende dall’attenzione a quello che si sta facendo; una distrazione può anche costare la vita: prendere una boccetta per un’altra, miscelare sostanze che danno luogo a sostanze esplosive, portare vicino ad una fiamma solventi infiammabili, eccetera.

Stare attenti ai dettagli; anche un precipitato apparentemente insignificante può nascondere una sostanza nuova che meritava di essere studiata; l’andamento anomalo di una analisi può indicare la presenza di un’altra sostanza.

Scienza

La conoscenza è indispensabile. Affrontare qualsiasi lavoro di laboratorio cercando di sapere tutto quanto è possibile su quello che hanno fatto i nostri predecessori, quelli che hanno scritto un secolo fa o in una sconosciuta rivista russa o finlandese.

A questo proposito la prima cosa da fere è “la bibliografia”, quella che poi sarebbe in parte confluita nella pubblicazione, a riprova che l’autore ha fatto fare un passo avanti alle conoscenze precedenti.

Si tratta di una vera e propria indagine storica che ai miei tempi si faceva attraverso quelle straordinarie collezioni dei Chemical Abstracts e dei Chemisches Zentralblatt (se ne è parlato in un blog di qualche tempo fa: https://ilblogdellasci.wordpress.com/brevissime/tassonomia-bibliografica/). Lunghe file di volumi pesanti e rilegati che contenevano dei brevi riassunti degli articoli pubblicati quasi dovunque, con straordinari indici per autore, per nome della sostanza, per brevetto.

Oggi i chimici hanno a disposizione raffinati strumenti telematici, ma in ogni caso nell’esplorazione del passato occorrono le altre doti, attenzione, pazienza, memoria.

Spesso la soluzione di un problema è sepolta in poche righe di un articolo che aveva tutt’altro titolo, o di un brevetto e non bisogna trascurare niente a costo di riempire pagine e pagine di “schede”.

Pazienza

Sono stato un modesto chimico perché sono privo di questa indispensabile attitudine; non aspettavo mai che una soluzione fosse andata a secco perfettamente, per avere più presto il risultato di una analisi ero disposto a saltare un passaggio utile o indispensabile, talvolta per non far aspettare la moglie non ripetevo l’esperimento per controllare se veniva nello stesso modo.

Se un trattato (penso a quelle favolose “bibbie” di sintesi chimiche o di analisi) dice che bisogna aspettare dieci minuti, bisogna ubbidire; fermarsi a sette minuiti può mandare a monte il lavoro di un’intera giornata.

Un esperimento va ripetuto fino a che non da sempre lo stesso risultato; la fretta può far credere di avere ottenuto un risultato che invece non c’è. Forse questa dote, non necessaria per lo storico o il filosofo, è essenziale in tutte le scienze sperimentali (oltre che utile nella vita quotidiana e familiare).

Fortuna

La chimica è una gara con la natura, una nemica bella e maligna. Si possono passare dei mesi a percorrere una strada che non porta in nessun posto o si può essere colpiti da una noticina o da un fatto apparentemente insignificante che contiene la soluzione cercata.

Si può osservare un fatto importante e poi dimenticarlo o trascurarlo. Jack Good, un matematico, scrisse un giorno che occorrerebbe conservare e rileggere i quaderni degli appunti di chi ci ha preceduto perché spesso contengono delle “half-backed ideas”, idee-mezzo-cotte-e-mezzo-crude, magari intuizioni buone, che un chimico ha avuto in un certo momento e poi non ha avuto tempo o voglia di approfondire.

Ricordando che, come ha scritto Pasteur, “il caso aiuta la mente preparata”.

Memoria

E’ una dote utile sempre, ma indispensabile per il chimico perché la bella e maligna natura con cui deve gareggiare per tutta la vita fa spesso lo scherzo di far apparire un lampo, un’osservazione, di ascoltare una lezione o di leggere un articolo che contengono una osservazione che sarebbe utile ricordare a distanza di tempo.

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“Fare” il chimico (il verbo “fare” si applica al chimico molto più che al fisico o allo storico o al letterato), è salire una scala percorsa da tanti altri, dietro di noi, ciascuno dei quali ci ha bisbigliato qualche cosa, sapendo che ci sono altri sul gradino successivo ad aspettare che noi gli si racconti quello che abbiamo visto, una scala senza fine.

Date per scontate queste attitudini, la vita del chimico è una continua sorpresa e divertimento come scrisse quel nostro collega (*): «I chimici sono uno strano genere di mortali, spinti da un impulso quasi folle a cercare il loro piacere fra fumo e vapore, caligine e fiamme, veleni e povertà: eppure fra tutte queste calamità vivo così bene che non cam­bierei la mia esistenza neanche con quella del re di Persia».

(*) Johann Joachim Becher (1635-1682), Acta laboratorii chymica monacensis: seu physica subterranea, 1669