Le molecole della pubblicità: dentifrici ripara-smalto

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Mauro Icardi

Tra le pubblicità che vengono trasmesse sui vari canali televisivi, quelle che riguardano i prodotti per l’igiene orale sono tra le più frequenti. Questo già dai tempi di Carosello.
Su questo blog l’argomento dentifrici è stato trattato già molto ben esposto nel post scritto da Gianfranco Scorrano:
https://ilblogdellasci.wordpress.com/2013/02/21/dentrifici/
Una pasta dentifricia può avere un gran numero di componenti. In genere più di una decina e in qualche caso anche venti.

dentifrici

La formulazione generale di un dentifricio prevede che esso debba contenere delle polveri abrasive che con una granulometria molto fine e disperse in maniera omogenea esercitino la funzione di pulizia dei denti senza produrre scalfitture o graffi. Tra queste possiamo trovare carbonati, fosfati e silicati.
Nel dentifricio si trova anche una percentuale di normalissima acqua potabile, percentuale che solitamente varia dal 30 al 45%. Si aggiungono prodotti come la glicerina o lo sciroppo di sorbitolo per evitarne l’essicamento, sostanze aromatizzanti per ridurre il sapore farinoso degli abrasivi, e agenti conservanti con funzione antibatterica (per esempio acido sorbico).

glicerina

Nelle formulazioni troviamo anche viscosizzanti come idrossietilcelluosa, e tensioattivi che generano schiuma durante lo spazzolamento (sodio lauril solfato) che viene usato anche per ridurre la placca batterica.
La pubblicità propone tipi di dentifrici che sbiancano i denti, altri efficaci contro la carie, ma ultimamente vanno per la maggiore quelli che promettono di riparare i denti, o per meglio dire lo smalto.
Lo smalto dei denti è la parte esterna visibile, al di sotto della quale si trova la dentina. Lo smalto è costituito per la maggior parte da idrossiapatite Ca5(PO4)3(OH) anche se spesso viene indicata come Ca10(PO4)6(OH)2 in quanto la cella elementare del cristallo è costituita da due molecole. Quindi un fosfato, con una piccola componente organica . Presente, legata nei cristalli, anche un po’ di acqua(1-3%). La componente minerale, ha la caratteristica di essere suscettibile agli scambi ionici, quindi si possono trovare legati, assieme o al posto del Calcio, ioni Na, Mg, K ma anche in minime quantità Mn, Fe, Ni, Co, Zn, Cu, Pb, Sr.

sezionedentale

La suscettibilità allo scambio ionico è in qualche modo il fattore che comporta l’indebolimento dello smalto in presenza di acidi (es. l’acido lattico prodotto dalla fermentazione batterica degli zuccheri ).

Ca10(PO4)6(OH)2+ 8H+ → 10Ca2+ + 6HPO42- + 2H2O

Idrossiapatite in Ambiente acido = Lenta dissoluzione dei minerali

Diversi tipi di dentifrici in commercio promettono di riempire le microfessurazioni dello smalto, che, se molto profonde, potrebbero arrivare a contatto con la dentina e provocare sensibilità dentale.
L’idrossiapatite viene utilizzata da circa vent’anni nel settore delle protesi mediche e in odontoiatria ed è quindi accertata la sua biocompatibilità. Trattandosi però di un dentifricio il primo dubbio che può porsi è come si compensino contemporaneamente l’azione di spazzolamento e di rimozione dei residui di cibo, con quella di riparazione e di riempimento delle fessurazioni del dente. L’operazione di spazzolamento dei denti non è mai molto prolungata nel tempo dura generalmente qualche minuto. In questo periodo di tempo l’idrossiapatite che viene a riempire le fessurazioni deve rimanere ed evitare che esca con il risciacquo. L’equilibrio di mineralizzazione e demineralizzazione della struttura cristallina dei denti è regolato dalla saliva. La saliva rimane nella cavità orale 24 ore, il dentifricio come detto per pochi minuti.
Curiosando sui siti di diverse case produttrici la soluzione la soluzione al problema è quella di utilizzare idrossiapatite di sintesi, variamente sostituita e di dimensioni che variano dai 20 ai 50 nm, questo per massimizzare il rapporto superficie/volume.

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Un dentifricio in commercio da circa dieci anni è pubblicizzato non solamente per queste qualità, ma anche perché l’idrossiapatite sarebbe zinco sostituita, evitando così di inserire nella formulazione prodotti a base di fluoro che potrebbero produrre fluorosi. Va precisato che esistono lavori antecedenti sulla preparazione di molecole di nano idrossiapatite come questo.

Un dentifricio è pur sempre un prodotto cosmetico anche se nella sua formulazione vi possono essere componenti che in qualche modo aiutino la prevenzione di disturbi dentali.
L’idrossiapatite usata come riempitivo per protesi ossee e in odontoiatria è messa in commercio con diversi nomi brevettati (Radiesse©, Biorepair ©).
Effettuando ricerche in rete vi si trovano svariati studi, per esempio questa è la descrizione di una sperimentazione effettuata presso l’Istituto Stomatologico Toscano (Università di Pisa). Corredata di una ricca bibliografia.
http://www.amicidibrugg.it/rivista/201204/art2.asp.
L’efficacia dei prodotti dentifrici a base di idrossiapatite nanometrica è riconosciuta nei test in vitro, come in questo lavoro pubblicato sul “Journal of dentistry”. Ma rimane la necessità che si effettuino ulteriori studi a lungo termine per avere maggior quantità di dati e per trarre conclusioni più appropriate.
http://www.jodjournal.com/article/S0300-5712(11)00083-2/abstract?cc=y=
Occorre anche sottolineare che l’istituto di autodisciplina pubblicitaria ha ritenuto di intervenire sugli spot pubblicitari del dentifricio Biorepair ritenendoli fuorvianti.
In particolare. “il Comitato ha rilevato l’improprietà dell’espressione “I tuoi denti per tutta la vita”, che lungi dal porsi come meramente iperbolica, accredita il dentifricio pubblicizzato di un’efficacia che travalica le qualità riconoscibili ad un prodotto di natura cosmetica, pur avendo questo caratteristiche sussidiarie per la prevenzione di situazioni patologiche.”
https://www.testmagazine.it/2016/02/01/biorepair-una-pubblicita-decisamente-esagerata/5593/
Sul sito “Medici Italia” un medico alla domanda di un utente sull’effettiva validità di prodotti di questo tipo ricorda che “lo smalto dei nostri denti non ha capacità riparativa in quanto non è vitale a differenza di altri tessuti è quindi importante interpretare correttamente anche i messaggi pubblicitari con questo non voglio dire assolutamente che non serve”. Quindi si tratta oltre che di avere a disposizione nuovi studi, anche di terminologia. Rimineralizzazione e diminuzione della sensibilità dentale non possono essere sinonimi di riparazione dello smalto.
A me personalmente questo richiama alla mente la vecchia pubblicità di un altro dentifricio che si poteva vedere negli anni di messa in onda di Carosello cioè negli anni 60-70, dove si diceva di non esagerare nel decantarne virtù e proprietà, ma di definirlo più semplicemente un dentifricio buono, anzi ottimo ma non miracoloso.

Primario, secondario, terziario e altro in chimica organica

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Rinaldo Cervellati

In un precedente post è stata riportata l’origine della nomenclatura orto−, meta− e para−. Qui riporteremo come hanno avuto origine i termini primario, secondario e terziario attribuiti a un atomo di carbonio legato rispettivamente a un solo altro atomo di carbonio, oppure a due o tre altri atomi di carbonio. Ricorderemo anche i prefissi iso− e neo−, ormai non più in uso.

Il primo a usare questi termini fu, nel 1856, il chimico Charles Gerhardt[1], per distinguere fra ammine risultanti dal primo, secondo e terzo stadio nella progressiva sostituzione dei tre atomi di idrogeno della molecola di ammoniaca (NH3) con diversi radicali alchilici. Scrive infatti Gerhardt:

Si potrebbero chiamare i composti dell’azoto primari, secondari o terziari in base ai tipi ottenuti per sostituzione di uno, due o tre atomi di idrogeno dell’ammoniaca.[1]

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Charles Gerhardt

fig-2-aminesQuesta terminologia fu estesa nel 1864 alla descrizione di alcoli dal chimico Aleksandr Butlerov[2], che per primo preparò quello che oggi è conosciuto come 2-metil-2-propanolo, ma che può essere considerato come “alcol trimetil metilico” o “alcol butilico terziario”. In altre parole, il 2-metil-2-propanolo corrisponde alla terza fase della progressiva sostituzione dei tre atomi di idrogeno del gruppo metilico nel metanolo (CH3OH) così come le ammine terziarie corrispondono alla sostituzione dei tre idrogeni dell’ammoniaca.

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Aleksandr Butlerov

struttura_del_2-metil-2-propanoloDa questo punto di vista, ciò che oggi è noto come 2-propanolo può essere rappresentato come la seconda fase del processo di sostituzione e quindi corrisponde a un alcool secondario, e l’etanolo derivato dalla prima fase della sostituzione corrisponde quindi un alcol primario.

Dal 1920 questa terminologia è stata trasferita dalla denominazione di specifiche classi di composti organici all’individuazione degli atomi di carbonio all’interno di una determinata catena di atomi di carbonio o di un anello, come primari (un collegamento C−C), secondari (due collegamenti C−C), terziari (tre C−C collegamenti) e, per estensione, quaternari (quattro collegamenti C−C).

fig-4c-prim-sec-terz-quatIl Dr. H.J. Wagner ha trovato un primo riferimento al carbonio quaternario in un articolo di A. von Baeyer[3] del 1866 sui prodotti di condensazione dell’acetone.

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A. von Baeyer

Scrive Baeyer:

Per quanto riguarda il legame degli atomi di carbonio tra loro, questi composti sono notevoli perché contengono un atomo di carbonio legato a quattro altri atomi di carbonio…

Il nome alcol isopropilico con cui è talvolta ancora chiamato il 2-propanolo viene attribuito dallo storico della chimica Jensen al chimico Hermann Kolbe[4] che in un lavoro sulla struttura del composto (1862) si riferì a esso come “alcol propilico isomerico” (cioè isomero dell’alcol propilico “normale”, 1-propanolo).

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Hermann Kolbe

Un altro storico, M.P. Crosland, sostiene però che il prefisso iso− per designare l’isomero di un dato composto era già usato prima che Kolbe lo applicasse agli alcoli e che ovviamente provocò ambiguità quando si scoprirono composti con più di un isomero.

Il prefisso neo−, dal greco neos, che significa “nuovo”, è stato usato in altre scienze prima che in chimica (ad esempio, neolitico, in paleontologia). Dal 1880 è diventato di uso comune in mineralogia come un modo per distinguere le (supposte) nuove varietà di minerali precedentemente noti (ad esempio, neocianite, neotestite, ecc). Sembra che sia stato applicato per la prima volta in chimica da Auer von Welsbach nel 1885, quando riuscì a separare la presunta terra rara didimio (dal greco “didimos” che significa gemello) in due nuove frazioni, una delle quali chiamò neodimio e l’altra praseodimio, nomi in seguito dati agli elementi presenti in tali frazioni.

W.B. Jensen riporta che il prefisso neo− è stato utilizzato per la prima volta in chimica organica nel 1898 dal chimico Martin Onslow Forster, che lo utilizzò per nominare i derivati di un isomero della bornilammina. Tuttavia, come con il prefisso iso-, l’uso del prefisso neo− per distinguere isomeri cadde presto in disuso quando divenne chiaro che potevano esistere più di due isomeri per lo stesso composto.

*Questo post è sostanzialmente una traduzione ragionata dalla rubrica del Journal of Chemical Education: “Ask the Historian”: W.B. Jensen, Origins of the Qualifiers Iso-, Neo-, Primary, Secondary and Tertiary, J. Chem. Educ., 2012, 83, 953-4.

[1] C. Gerhardt, Traité de chimie organique, Vol. 4, Didot Frères: Paris, 1856, p. 592.

[1] Charles Frédéric Gerardt (1816-1856) chimico francese, fu allievo e collaboratore di Justus von Liebig e di Pierre Auguste Dumas e fu tra i riformatori della nomenclatura e delle formule chimiche. Si occupò di acilazioni sintetizzando, fra l’altro, l’acido acetilsalicilico seppure in forma instabile e con impurezze. Notevole la sua opera magna: Traité de Chimie Organique, 4 vol, Paris 1853-56.

[2] Alexandr Michajlovic Butlerov (1828-1886) chimico russo realizzò numerosi nuovi metodi di sintesi organica, fra cui quella degli zuccheri a partire da formaldeide in presenza di idrossido di calcio come catalizzatore (reazione del formosio).

[3] Johann Friedrich Wilhelm Adolf von Baeyer (1835 – 1917) famosissimo chimico tedesco, autore di numerosissime sintesi fra le quali quella dell’indaco. Premio Nobel per la chimica 1905.

[4] Hermann Kolbe (1818-1884) famosissimo chimico tedesco è stato uno dei fondatori della chimica organica moderna. Autore di moltissime sintesi che ancora oggi portano il suo nome. Fu eletto membro dell’Accademia Svedese delle Scienze. Medaglia Davy della Royal Chemical Society.

Etica della Chimica

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Luigi Campanella, ex Presidente SCI

La trasformazione della società obbliga la chimica ad adeguarsi alle nuove richieste: da quelle di prima necessità a optional e specialità.

In questi adeguamenti si sono presentate alla chimica sempre nuove sfide in cui, proprio per contrastare l’impronta del peccato originale che la chimica pesante ha imposto purtroppo per lunghi decenni, il chimico ha cercato di innestare un comportamento sul quale i principi etici fossero ben presenti, e così nel tempo ha affrontato difficili situazioni che hanno richiesto l’assunzione di responsabilità, di codici di condotta, in definitiva di etica.

Ripercorrendo gli ultimi 30 anni della storia della chimica sono molte le domande che più spesso il chimico si è dovuto imporre per salvaguardare l’etica della sua professione. af59ce7f9d5b95db168372d305d69a47

Il brevetto è una forma di proprietà intellettuale, è un motore dell’economia; è giusto che lo sia anche quando conoscere il prodotto significa salvare vite innocenti?

Quando si costruisce una molecola per un fine programmato giusto fa parte dell’etica scientifica prevedere i possibili altri usi della molecola inventata?

È davvero accettabile che la sperimentazione animale sia assunta a metodo di riferimento per la valutazione di tossicità ed ecotossicità?

La battaglia contro gli OGM su una base più culturale e politica che scientifica, è accettabile dinanzi allo spettro della fame nel mondo o non è più giusto battersi per una loro presenza controllata mettendo a comune metodi di valutazione?

I risultati delle ricerche vengono sempre espresse in maniera responsabile e corretta o essi vengono influenzati dalla volontà di perseguire successi e di condizionare l’assegnazione di futuri finanziamenti?

ethicsSiamo capaci come cittadini, ricercatori, chimici di sacrificare, sia pure in parte, le nostre libertà individuali in favore degli interessi più ampi della comunità sociale?

Viviamo ormai nella “società del rischio” (un termine coniato da Ulrich Beck in un testo ormai classico con questo titolo che risale alla metà degli anni Ottanta), definita come la nuova fase della società industriale, in cui “il rapporto tra produzione di ricchezza e produzione di rischi s’inverte dando priorità alla seconda rispetto alla prima”. Secondo la formulazione che ne danno i due autori – Kourilsky e Viney – che per primi hanno affrontato la questione, “il principio di precauzione implica l’adozione di un insieme di regole finalizzate a impedire un possibile danno futuro, prendendo in considerazione rischi tuttora non del tutto accertati”. La precauzione occupa un atteggiamento intermedio fra quello in cui si applicano le procedure della prevenzione (cioè dell’attivazione di misure volte a evitare o a limitare le conseguenze di un agente di rischio accertato) e quello delle semplici congetture (che non giustificano la sospensione di uno sviluppo tecnologico utile del quale i futuri possibili effetti avversi, in assenza di evidenze anche parziali, possano soltanto essere ipotizzati). Qual è il livello di intermedialità ottimale?

chm-414-02-poster_updatedTutte domande a cui non è facile dare risposte certe, ma noi chimici sappiamo che solo rispondendo con la nostra coscienza di lavoratori e di scienziati riusciremo a rinsaldare quel legame con la società civile dal quale dipende il nostro futuro ed il successo nel nostro impegno sociale.

ethics2L’altro aspetto fondamentale è quello dell’immagine della Chimica nella società civile. La chimica è stata ed è una delle discipline più discusse, amate, contrastate. Spesso se ne confonde l’essenza con l’uso che ne viene fatto, spesso si individua nel chimico solo qualcosa di artificiale e quindi da contrapporre al naturale, spesso si parla di rischio chimico e di inquinamento chimico, mai di vigilanza chimica e di protezione chimica che pure esistono.

La chimica è disciplina altamente creativa, induttiva nel suo approccio alla conoscenza, rispettosa del metodo sperimentale ma al tempo stesso proprio per questo capace di uscire dal suo stretto campo di azione (la modificazione molecolare) per correlarsi con le altre scienze, sperimentali e non, esatte e non tecniche, umanistiche, strettamente scientifiche.'I find it harder and harder to get any work done with all the ethicists hanging around.'

Chimica e mafia. La storia di Adolfo Parmaliana.

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Claudio Della Volpe

Ieri si è conclusa in Cassazione una storia che ci riguarda, come chimici e come cittadini; quella del collega Adolfo Parmaliana, ordinario di Chimica Industriale presso UniMe, attivo politicamente a Terme Vigliatore, morto suicida il 2 ottobre di 8 anni fa.

parmaliana1La sua storia è stata raccontata da un giornalista siciliano Alfio Caruso nel libro “Io che da morto vi parlo”.Ed. Longanesi.parmaliana2

Qui ricordo a grandi linee cosa è successo ringraziando il collega Domenico Sanfilippo di averlo posto alla mia attenzione.

Nel testo troverete qualche link utile alla lettura dei documenti originali.

Adolfo nasce a Castroreale il 12 marzo 1958; si laurea in Chimica nel 1981 con una tesi su The system Benzene – Cyclohexane as a model for the storage and transportation of energy. Use of Pt/ g-Al2O3 honeycomb catalysts e diventa professore associato nel 1998 presso l’Università di Roma La Sapienza. Insegna poi al Dipartimento di Chimica Industriale e Ingegneria dei Materiali dell’Università di Messina, come ordinario di chimica industriale, coordinando il Dottorato di Ricerca in “Tecnologie Chimiche e Processi Innovativi” e come direttore del Master di II livello in “Tecnologie Energetiche Ecocompatibili”. Adolfo Parmaliana presiedeva la Montalbano Clean Energy Scarl e coordinava il “Catalysis Group” presso lo stesso Dipartimento di Chimica Industriale di Messina; era stato consulente per l’ambiente del sindaco di Roma, Veltroni. Autore di 120 pubblicazioni, 136 comunicazioni a Congressi nazionali ed Internazionali, 5 brevetti si è occupato a lungo della catalisi delle reazioni di ossidazione degli idrocarburi e poi più recentemente di energia rinnovabile.

Fin qui il Parmaliana chimico.

adolfo_parmaliana_11Ma esisteva in parallelo un Parmaliana cittadino, politicamente impegnato; Parmaliana fu in prima linea nella lotta contro la mafia: grazie anche alle sue denunce fu sciolto il Consiglio Comunale di Terme Vigliatore per associazione mafiosa.

Iscritto giovanissimo e per decenni all’allora Pci, ha difeso le ragioni della legalità, della correttezza, del buongoverno nella sua piccola patria, Terme Vigliatore, un paesino che si trova a pochissimi chilometri da Barcellona Pozzo di Gotto, zona sotto il dominio dei grandi boss di Cosa Nostra e dove confluiscono e s’intrecciano mafia, massoneria, alta finanza, pezzi rilevanti delle Istituzioni.
Scrive Caruso: Così il piccolo professore amante dei libri, dei vestiti eleganti, della Juve e idolatrato dai suoi allievi diventa, quasi a sua insaputa, un testimone scomodo da zittire, soprattutto dopo che le sue denunce hanno portato allo scioglimento del Comune di Terme per infiltrazioni mafiose. Emarginato dal suo stesso partito, subisce la vendetta di quel Partito Unico Siciliano (PUS) che lui per anni ha indicato quale connivente con il peggio della società. Il suicidio, spiegato da una terribile lettera d’accusa alla magistratura locale, appare, allora, l’unico strumento per non darla vinta ai persecutori e riaffermare la superiorità del Bene sul Male.

Barcellona Pozzo di Gotto è stata descritta ripetutamente come la “seconda Corleone” ossia come una delle basi storiche della mafia siciliana, come il terreno della “masso-mafia” ossia di una struttura intrecciata di massoneria e mafia che ha usato la massoneria per entrare in stretto contatto con le istituzioni, e qui sta il cuore del meccanismo che ha portato al lucido suicidio di Parmaliana. Parmaliana non si è semplicemente suicidato per disperazione, ma ha usato il proprio suicidio, avvenuto non nel territorio di Barcellona P.d.G., ma in quello di Patti come un’arma vera e propria, che gli ha fatto perdere la battaglia della vita ma che gli ha consentito di vincere una guerra molto più ampia. Si è suicidato in un territorio che sapeva essere meno provato dagli effetti della masso-mafia e nel quale le indagini sarebbero state più libere; e così è stato.

Un atto eroico che merita la nostra ammirazione.

Cosa era successo?

Adolfo era segretario dei Ds ed era stato candidato a sindaco alle amministrative del 2002 a Terme Vigliatore. Ma già prima di quel periodo, sulla base della sua conoscenza del territoro e del sistema di potere masso-mafioso, Parmaliana aveva portato fin davanti al CSM l’inazione della magistratura locale e delle istituzioni e in particolare del Procuratore Cassata, ma anche del sindaco eletto Cipriano. Parmaliana aveva presentato – già nel dicembre del 2001 – una nota al Consiglio superiore della magistratura, e Cassata fu sentito – nel marzo del 2002 – dall’organo di autogoverno dei giudici nell’ambito di un procedimento per incompatibilità ambientale poi archiviato. E questo non fa onore al CSM.

Il Procuratore Antonio Franco Cassata, presidente del circolo para-massonico barcellonese “Corda Fratres” (Cuori Fratelli), frequentato da mafiosi e amici di mafiosi (come riferito in Parlamento dall’onorevole Antonio Di Pietro e dal senatore Giuseppe Lumia), appariva già allora come il coordinatore della situazione di intreccio mafia-istituzioni.

Negli anni successivi Parmaliana tentò di contrastare il Consiglio eletto che di fatto rappresentava la mafia; erano talmente forti le ingerenze mafiose che dopo 4 anni di battaglie nel 2005 il Consiglio fu effettivamente sciolto per mafia, un colpo durissimo per la criminalità organizzata. Con i suoi esposti sul Piano regolatore, sull’abusivismo edilizio, su certe transazioni fatte dai politici del suo paese, Adolfo contribuì allo scioglimento per infiltrazione mafiosa del consiglio comunale.

A questo punto la risposta non si fece attendere, sotto forma di una azione di killeraggio, di calunnia della figura e dell’opera di Parmaliana. Parmaliana venne rinviato a giudizio per diffamazione, proprio per avere denunciato il malaffare dell’amministrazione locale e ovviamente capì che dietro a questo c’era il ferreo controllo sulla magistratura esercitato attraverso la figura del Procuratore Generale di Messina, il Cassata appunto.

Quel professore che non scendeva a compromessi finì con l’essere emarginato anche all’interno della sua parte politica. Al suo fianco era rimasto solo l’amico Beppe Lumia, tra i pochi – insieme a Claudio Fava e Sonia Alfano – che ne ha difeso la memoria dopo la scomparsa.

Lucidamente Parmaliana decise di rispondere con un atto estremo, che da una parte denunciava i suoi calunniatori, ma che dalll’altro metteva in gioco forze sane della magistratura, ambienti non toccati dalla mafia. Ecco perchè decise di suicidarsi , ma lo fece a Patti non nel suo letto.

Dopo la sua morte, il cui senso appare chiaro anche grazie ad una lettera che lasciò e in cui denunciava la situazione, la lotta continuò; arrivarono durante l’anno successivo dei dossier costruiti ad hoc per inquinare la memoria di Parmaliana ed arrivarono anche a Caruso, che stava scrivendo il libro, proprio come estremo tentativo di inquinare le prove.

Nel settembre 2009, a quasi un anno dalla morte un dossier anonimo – nel classico stile dei corvi – cerca di screditare la memoria di Parmaliana, mettendo in dubbio moralità e qualità professionali del professore. Il dossier venne inviato a numerosi destinatari, tra cui lo stesso senatore Lumia e lo scrittore e giornalista Alfio Caruso, a poche settimane dall’uscita del suo libro Io che da morto vi parlo (Longanesi, novembre 2009). Come accerterà in seguito la magistratura di Reggio Calabria, una delle finalità del dossier anonimo era proprio quella di ostacolare la pubblicazione del libro di Caruso.

La famiglia Parmaliana sporge denuncia contro ignoti, evidenziando la circostanza che allo scritto anonimo era stata allegata una sentenza della Cassazione inviata da una cartoleria di Barcellona Pozzo di Gotto alla segreteria personale del procuratore generale Antonio Franco Cassata

La Procura di Reggio Calabria avviò le indagini e il 17 novembre 2010 il sostituto procuratore reggino Federico Perrone Capano accompagnato dal capitano del Ros Leandro Piccoli – si recò negli uffici della Procura generale di Messina per interrogare i cancellieri in servizio in quell’ufficio.

A questo punto però il caso interviene in modo inatteso, il caso, ma anche la convinzione di impunità di sua eccellenza Cassata.

Il Procuratore generale Cassata fu molto ospitale con il suo giovane collega e l’ufficiale dell’Arma tanto da mettere a disposizione il suo ufficio per l’audizione dei testimoni. Durante la verbalizzazione delle dichiarazioni dell’ultima teste, Angelica Rosso, il capitano Piccoli nota in una vetrinetta una carpetta con un’annotazione manoscritta: “copie esposto Parmaliana”; appena più giù, la dicitura, sempre manoscritta, “da spedire”. Perrone Capano allora telefona al suo superiore Giuseppe Pignatone per riferirgli di quanto aveva visto. Pignatone telefona a sua volta a Cassata per spiegargli la necessità di procedere al sequestro.

La carpetta conteneva quattro copie del dossier anonimo – senza il timbro dell’ufficio con il numero di protocollo – e su due di queste erano attaccati due post-it con su scritto “Procura ME” e “Procura Reggio C.”. La Procura di Reggio Calabria iscrive Cassata nel registro degli indagati e, emerse le responsabilità del procuratore generale, lo rinvia a giudizio il 3 dicembre 2011 per diffamazione pluriaggravata in concorso con l’aggravante di aver addebitato alla presunta vittima fatti determinati e di aver agito per motivi abietti di vendetta.

Dunque un errore basato sulla convinzione di essere intoccabile che costa caro al Cassata.

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sua eccellenza l’ex procuratore generale di messina

La magistratura in tutti e tre i gradi di giudizio (culminati appunto negli atti pubblicati due giorni fa, ma la cui sentenza fu emessa già nel luglio di quest’anno) individua in lui il “corvo” e dunque anche il responsabile morale del suicidio di Parmaliana; da adesso in poi sarà ovviamente materia di risarcimento civile (per il momento l’unico risarcimento è di 800 euro), ma almeno giustizia è fatta nel senso che Cassata è ormai fuori gioco, scoperto come falso accusatore e di fatto coinvolto nelle mene masso-mafiose.

E’ da dire che già dalla prima condanna di primo livello nel 2013 sua eccellenza potentissima Cassata lasciò ingloriosamente la magistratura, una fine da basso impero venne definita, dopo 48 anni di dubbio e spesso disonorevole servizio.

Ricordiamo che esistono almeno due premi inititolati a Parmaliana; uno è il Premio antimafia, assegnato quest’anno a Graziella Proto e al Capitano Mario Ciancarella e l’altro è quello bandito dal GIC, Gruppo Interdivisionale di Catalisi, alla migliore tesi di dottorato sulla tematica”Catalisi per lo sviluppo sostenibile”.

Ed è giusto che sia così; quando Adolfo si è sacrificato aveva 50 anni, una famiglia con due figli e aveva due vite , una da scienziato ed intellettuale affermato, l’altra da coraggioso uomo politico; e due premi lo ricordano; due vite sacrificate non per disperazione, ma con un atto di coraggio, direi lucidamente sacrificate quel 2 ottobre 2008 sul viadotto Messina-Palermo per vincere una battaglia che è anche la nostra.

Adolfo non ti dimenticheremo. La tua storia si è conclusa in Cassazione, ma continua nella vita di ogni giorno.

Si vedano anche.

http://vittimemafia.it/index.php?option=com_content&view=article&id=445:2-ottobre-2008-patti-me-si-suicida-adolfo-parmaliana-suicidio-per-mafia-ma-non-solo&catid=35:scheda&Itemid=67

http://www.antimafiaduemila.com/home/di-la-tua/239-parla/61838-premio-adolfo-parmaliana-a-graziella-proto-e-al-capitano-mario-ciancarella.html

Le molecole della pubblicità: l’Acchiappacolore.

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Claudio Della Volpe

Acchiappacolore o Prendycolore o termini simili (in inglese Colour catcher è un brand, un marchio) sono diventati comuni con il diffondersi della lavatrice, l’elettrodomestico forse più osannato dopo il frigorifero.

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Lavare la biancheria è certo l’attività domestica che, dopo il cucinare, ha assorbito più tempo umano nella storia; in tempi recenti l’uso della macchina lavatrice e il diffondersi dei detersivi sintetici ha cambiato completamente il panorama, contribuendo certamente non solo a migliorare il livello igienico (rendendo per esempio la stiratura inutile dal punto di vista igienico; pochi sanno che stirare, cioè sottoporre ad alta temperatura i tessuti era un modo per migliorare l’igiene e distruggere i parassiti umani o dei tessuti in mancanza di detersione effficace) ma anche alleviando il lavoro domestico ( fatto ancora oggi in gran parte dalle donne).

I vestiti sono fatti di tessuti e di pelli naturali o sintetici; entrambi tendono ad essere ampiamente colorati; tessuti colorati hanno un significato culturale ed un ruolo pratico ed economico enorme; e non devo aggiungere nulla per far comprendere la quantità di chimica che è presente in tutte queste attività: tessere e filare, colorare, lavare sono tutti processi con un elevato contenuto di processi chimico-fisici complessi e spesso non ben conosciuti.

Per comprendere come funziona l’acchiappacolore dobbiamo capire come vengono colorati i tessuti; esistono tre metodi principali di colorazione:

i coloranti (naturali o sintetici) possono essere legati/incorporati alle fibre con legami deboli o con legami covalenti a partire da una soluzione del colorante oppure meccanicamente intrappolati nelle fibre a partire da un colorante in fase solida (insolubile in acqua e più propriamente detto pigmento a questo punto) o generati da una sostanza comunque intrappolata nella fibra, per esempio rendendo insolubile un agente colorante solubile assorbito dalla fibra in soluzione (mediante l’azione di una terza molecola detta mordente).

Tutti questi diversi metodi di colorazione hanno vantaggi e svantaggi; di alcuni coloranti abbiamo accennato nei nostri post perchè i coloranti hanno fatto la storia della chimica.

In modo simile i trattamenti delle fibre naturali o la sintesi di fibre artificiali a partire dal petrolio costituiscono una parte significativa delle tecnologie chimiche moderne. L’introduzione delle fibre sintetiche ha modificato ovviamente le tecniche di colorazione a causa delle diverse proprietà chimiche dei materiali usati. La lana, che è essenzialmente una proteina, o il cotone che è essenzialmente un polisaccaride sono diversi ovviamente dalle fibre poliacriliche che sono polimeri a base di monoacrilato e dei suoi derivati modificati con altri monomeri (polimeri mod-acrilici).

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monomero di acido acrilico

Qualunque sia il metodo usato per colorare il tessuto, una parte del colore tende ad essere perso nel tempo; perfino quando si usano metodi stabili, come legami forti, covalenti o intrappolamento il processo di colorazione è solo parzialmente efficace; come risultato durante la fase di lavaggio una parte del colore tende ad essere perso nella soluzione di lavaggio. Questo fenomeno viene ad esser amplificato dall’uso di detersivi potenti o perfino di enzimi nei detersivi.

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The prevention of in-wash dye transfer Rev. Prog. Coloration vol. 30 2000 p. 63-66

Come conseguenza è normale lavare separatamente panni bianchi, panni colorati o perfino panni di diversi colori (e ovviamente fatti di tessuti diversi: lana e seta che sono proteine abbisognano di trattamenti più blandi per non essere alterate (denaturate) completamente dalle temperature o dalle sostanze detergenti usate per il cotone, il lino, che sono polisaccaridi, o le fibre sintetiche).

Mentre a livello industriale esistono vari metodi per minimizzare questo problema (sbiancamento dei capi ingrigiti, trattenere in soluzione i colori tramite polimeri disciolti in soluzione, uso di catalizzatori che li distruggano) a livello casalingo la separazione dei diversi tessuti è rimasto l’unico metodo fino all’introduzione negli anni 90 del secolo scorso dell’acchiappacolore.

L’acchiappacolore, in inglese Colour catcher, è costituito da strisce di tessuto naturale o artificiale (in questo caso si parla di tessuto-non tessuto, ossia fibre sintetiche, tipicamente fatte di polibutilentereftalato, PBT, pbt_chemica_struc-svgcalandrate a caldo, ossia pressate fra due cilindri di acciaio, una specie di carta di polimero) modificate in modo da fungere da materiale sacrificale, assorbendo il colore in soluzione e colorandosi a loro volta al posto dei tessuti in lavaggio. L’inventore fu Patrick McNamee, all’epoca alla Spotless Punch e attualmente capo del reparto sviluppo alla Henkel irlandese.

La Henkel è una grossa multinazionale con oltre 50.000 dipendenti, un fatturato di oltre 18 miliardi di euro e fondata nel 1866 (proprietaria di brand, di marchi come Dixan, Loctite, Testanera, che esemplificano i settori del suo mercato).

Esistono tuttavia parecchi brevetti, alcuni anche detenuti da una ditta italiana, la Lamberti che sono basati su supporti non sintetici, ma naturali (Lamberti è una multinazionale italiana con mezzo miliardo di fatturato, 1300 dipendenti, fondata nel 1911 ed attiva nella chimica fine).

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basic blue 9

acchiappa5 In linea generale le strisce sono fatte in modo da ospitare composti che funzionano da scavengers, cioè da catturatori, da trappole di coloranti carichi negativamente, anionici, ossia sali di coloranti “acidi”, che hanno perso il loro protone e sono quindi ioni negativi bilanciati da uno controione positivo, poniamo sodio.

I coloranti acidi sono dunque anionici, mentre gli scavengers le trappole fissate sull’acchiappacolore sono costituite da polimeri o comunque da materiali carichi positivamente e uno dei problemi pratici è di ancorare solidamente gli scavengers al supporto, perchè i polimeri cationici usati tendono ad essere a loro volta solubili in acqua. I coloranti acidi sono usati per colorare la seta, la lana e il nylon. Comunque anche i coloranti cosiddetti “diretti”, usati per la cellulosa e derivati possono essere sensibili a questo meccanismo

Queste le parole dell’inventore per spiegare il meccanismo.

The charge attracts it first and then you have a chemical reaction, so basically the dye cannot actually come off the sheet, it is stuck on to the sheet then so it can’t roam in the wash to transfer or to cross stain into your garments,” dice McNamee.

Giusto per chiarire i coloranti basici sono anch’essi sali di basi organiche ma sono chiamati anche cationici perchè la molecola base di colorante in soluzione si ionizza diventando uno ione positivo. Anche i coloranti basici sono usati per lana, seta ma anche per fibre acriliche o mod-acriliche, ossia copolimeri di acido acrilico e altri monomeri.

Il più comune gruppo anionico attaccato ai polimeri acrilici è il sulfonato

–SO3 , immediatamente seguito dal carbossilato –CO2. Essi sono introdotti o come risultato di una copolimerizzazione o come residui degli inibitori di polimerizzazione anionici (i gruppi che chiudono la catena) . E’ questa funzione anionica che rende gli acrilici adatti ad essere colorati con coloranti cationici , dal momento che così si forma una forte interazione ionica fra polimero e colorante (in effetti, questo è esattamente l’opposto della interazione colorante acido-proteina).

Quali molecole sono usate come scavengers e come sono fissate al supporto?

Rispondere alla domanda non è banale in quanto l’argomento è pochissimo analizzato nella letteratura scientifica ufficiale e occorre ricorrere alle risorse dei brevetti; sulle pagine di Google patents si trovano varie indicazioni a patto di leggere i brevetti ed analizzarli nel tempo.

Se si fa questo sforzo si vede che c’è stata una notevole evoluzione nel tempo delle tecniche chimiche e dei materiali.

Per esempio nel primo brevetto di McNamee si vede che la sostanza cationica adsorbita sul supporto è una molecola piccola, un composto di alchilammonio del tipo

acchiappa7come descritto nel testo del brevetto:

Patent number: 6117191

Abstract: A method for the production of a dye scavening substrate which comprises the steps of: (a) providing a cellulosic substrate; (b) passing the substrate through a bath containing an alkaline solution of an N-trisubstituted ammonium 2-hydroxy-3-halopropyl compound having general formula (I) or a salt of epoxy propyl ammonium having general formula (II), wherein X is a halogen radical, Y is a chloride, bromide, sulfate or sulfonate, and the R’s are methyl, ethyl, butyl or benzyl groups or an hydroxyl substituted derivative thereof; (c) subjecting the substrate to a pressure of between 0.69-1.37 MPa (100-200 psi); (d) heating the substrate to a temperature of approximately 35.degree. C.; (e) wrapping the substrate in a water impermeable material and rotating the material at a temperature of between 15.degree. C. and 100.degree. C.

Type: Grant

Filed: December 21, 1998

Date of Patent: September 12, 2000

Assignee: Little Island Patents

Inventor: Patrick McNamee

La molecola viene bloccata sul supporto grazie ad un trattamento termico.

Ma un approccio completamente diverso viene seguito nel brevetto Lamberti, molto più recente (2009).

Marco Luoni e Giuseppe LiBassi scrivono nel brevetto US2009/0137170A1 intitolato NON-WOVEN COLOUR-CATCHER FABRIC AND METHOD FOR ITS PREPARATION che “l’uso di polimeri cationici come agenti sequestranti è ben conosciuto come sono conosciuti i loro problemi”… “la solubilità in acqua”.

Siamo quindi passati nel tempo da molecole cationiche piccole adsorbite a polimeri cationici; cationicpolymers

per ovviare al problema della solubilità dei cationici si è ricorsi poi a linkare i polimeri cationici fisicamente o chimicamente (cross-linking) al supporto, ma la cosa si è manifestata molto complessa e allora i due propongono di usare un metodo ancora diverso:

It has now been found that it is possible to prepare a non-Woven colour-catcher fabric by treating a non-Woven fabric With a cationic sequestering agent, particularly a cationic polymer, and subsequently applying on its surface, by printing technique,an anionic polymeric dispersing agent.

Quindi bloccare con una pasta anionica il supporto cationico.

La Lamberti e lo stesso McNamee hanno successivamente anche introdotto il supporto “naturale” ossia non tessuti woven-nonwoven, ma fatti di fibre naturali e quindi veri e proprii woven fabrics, tessuti propriamente detti, con tutte le problematiche del cambio di supporto; attualmente questa sembra essere la nuova frontiera brevettuale, e quindi di ricerca.

La lettura dei brevetti offre uno scorcio sulla inventività industriale e anche nelle politiche di ricerca della chimica industriale che dovrebbero essere esplorate dagli storici della chimica. Fra l’altro come in tutti i campi gli italiani non sono secondi a nessuno.

In definitiva gli acchiappacolore sono un metodo furbo ed efficace per rimediare a problemi di coloranti fuggitivi anche in ambiente domestico, aiutando a ridurre la quantità di acqua necessaria e il numero di cicli e dunque il consumo energetico delle operazioni di lavaggio.

Si veda anche:

Formulation of colour-care and heavy-duty detergents: a review, Color Technol. 121 (2005) p.1-6

Read more: http://textilelearner.blogspot.com/2012/01/basic-dyes-properties-of-basic-dyes.html#ixzz4Q3tuOolu

L’immagine del chimico nei film

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Mauro Icardi

Credo sia ormai risaputo per tutti i chimici che la nostra disciplina e noi stessi ci portiamo addosso come dei fardelli diversi stereotipi. Per quanto riguarda la chimica l’associazione tra questo aggettivo ed i concetti di nocivo o sintetico. Per quanto riguarda invece il chimico si possono trovare diversi tipi di immaginario comune che si ritrovano in alcune pellicole cinematografiche (si veda anche sul medesimo argomento il post di Giorgio Nebbia).

Andiamo con ordine. Possiamo dire che nell’immaginario collettivo di moltissime persone un chimico sia perfettamente rappresentato da un’immagine come questa.

film1L’industria cinematografica ha spesso prodotto pellicole dove il protagonista è appunto un chimico, completamente assorbito nei suoi strani esperimenti e dove nelle sequenze si mostrano a profusione matracci o becher riempiti di liquidi colorati dai quali immancabilmente vediamo levarsi fumi abbastanza persistenti.

Uno tra questi film è “Un professore tra le nuvole” del 1961 cui fece seguito il remake del 1997 “Flubber un professore tra le nuvole” che ebbe come protagonista Robin Williams.

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Il protagonista principale il professor Brainard è un docente di chimica con la testa tra le nuvole appunto, talmente concentrato nel lavoro di laboratorio al punto di dimenticare svariate volte la data del proprio matrimonio e quindi non presentarsi all’altare suscitando le sacrosante ire della fidanzata.

Come risultato dei propri esperimenti Brainard riuscirà a produrre il Flubber , cioè una gomma capace di vincere la forza di gravità (la parola deriva da Flyng Rubber gomma volante). Nel remake il Flubber sarà invece un organismo vivente di color verde contenente una gran quantità di energia, praticamente indistruttibile e molto elastico.

Ovviamente come in moltissimi altri film l’esperimento chimico che darà origine al Flubber si concluderà con una comica esplosione nel laboratorio.

Il primo film del 1961 fu addirittura candidato a tre premi oscar per la miglior scenografia, fotografia ed effetti speciali.

E una foto di scena chiarisce quanto dicevo prima riguardo all’immaginario collettivo del lavoro del chimico.

Vi è ritratto Robin Williams nei panni del Professor Brainard.

film2Direi che il topos del chimico è pienamente raffigurato. I due film nel complesso sono divertenti e godibili. Ovvio non si debba cercarvi altro che del sano divertimento (che confesso di aver provato quando li ho visti) e niente di più.   Dal punto di vista prettamente chimico sono totalmente inverosimili, ma potrebbero forse risvegliare negli spettatori più giovani l’interesse per la chimica dei polimeri. E questo non è certamente un male. Una precisazione, il fantomatico Flubber servirà in entrambe le pellicole per creare automobili in grado di volare e da qui il doppio senso del “Professore tra le nuvole” , considerando anche il fatto che questo film è basato su un racconto di Samuel W. Taylor che si intitola “A situation of gravity”.

Un altro stereotipo che ho potuto notare in due film molto diversi, uno comico con Renato Pozzetto “E’ arrivato mio fratello” uscito nei cinema nel 1986, il secondo tratto dal romanzo di Beppe Fenoglio “La paga del sabato” che venne trasmesso in televisione nel 1975, riguarda il chimico al servizio della criminalità, che si occupa di valutare la purezza di dosi di sostanze stupefacenti da immettere nel mercato clandestino.

Nel primo film Pozzetto interpreta il doppio ruolo di due fratelli gemelli, uno Ovidio timido ed impacciato, ed il secondo Raffaele burlone e autore di piccole truffe. Raffaele sarà incaricato di nascondere una bustina di cocaina dal proprietario del night dove suona il pianoforte. Il locale è una copertura per traffici di droga. Per occultare la bustina di droga non troverà di meglio che nasconderla tra le bustine di eucaliptolo che Ovidio usa per le inalazioni contro il raffreddore. Ovidio farà quindi inalazioni di cocaina con esiti assolutamente esilaranti, mentre Raffaele riporterà al trafficante una bustina di Eucaliptolo. Sarà smascherato da un serissimo ed impassibile chimico che in una scena successiva vediamo prima agitare la polvere in un provetta classica (un comunissimo tubo da saggio), e poi assaggiare direttamente la polvere contenuta nella bustina portandosela alla lingua. Esprimendo poi con aria decisamente ieratica un verdetto inappellabile : “Polvere di eucaliptolo”.

film3Nel secondo film tratto dal romanzo di Fenoglio ( La paga del sabato un film di Sandro Bolchi, con Lino Capolicchio, Jenny Tamburi, Nino Pavese, 1977, )

11449_mini 3581_miniil protagonista è Ettore, ex partigiano che fatica a rientrare nella quotidianità del dopoguerra dopo avere vissuto con molta intensità le vicende della lotta partigiana. Deciso a consentire una vita economicamente dignitosa alla fidanzata Vanda ma insofferente all’idea di lavorare in fabbrica decide di collaborare con Bianco, ex partigiano anch’egli, dedito a traffici illegali, ponendogli però come condizione che le azioni che compiranno riguardino solamente coloro che dopo l’armistizio si fossero schierati con i nazifascisti. Ettore stanco della vita da malvivente abbandonerà Bianco e cercherà di riscattarsi iniziando a fare il camionista. Ma quando ormai tutto sembra rientrare nei binari della normalità, un banale incidente chiude in modo crudele, inaspettato, la vicenda. Palmo il vecchio compagno che lo ha seguito quando ha deciso di chiudere con gli affari illeciti , lo investirà accidentalmente con il suo stesso camion, guidato maldestramente. In questo sceneggiato mi ha colpito un dialogo che si svolge tra Bianco ed Ettore. Un dialogo che mette in luce lo stile narrativo di Fenoglio. Bianco ha deciso di entrare nel traffico di stupefacenti. Ma ha bisogno di qualcuno che sia in grado di capire se la cocaina che ha deciso di acquistare da trafficanti francesi sia pura e non tagliata. Ettore allora decide di contattare un chimico che conosce. Bianco ha bisogno di una persona fidata che non riveli nulla dei loro traffici. Ettore lo rassicura ricordandogli che Faraone (questo il nome di battaglia che il chimico aveva quando era partigiano) è ormai dipendente dall’alcol e quindi “starà buono e tranquillo e farà tutto quello che gli diremo noi”. Quando Bianco dice ad Ettore se non c’è nessun altro da poter coinvolgere Ettore gli risponderà: “Faraone è un alcolizzato come dici tu, ma nessuno conosce le materie come le conosce lui. Ci sono dei farmacisti già ricchi che si leccherebbero il gomito per avere la sua scienza da far fruttare

A quel punto Bianco risponde ad Ettore “Allora è quello che ci vuole per riconoscere se la cocaina che i francesi ci vogliono vendere è di prima qualità”.

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cocaina

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idrato di terpina

film4A Faraone viene promessa una ricompensa di ventimila lire e visto che l’azione si svolge nel 1946 si tratta una cifra più che rispettabile. L’incontro con i contrabbandieri francesi avviene al confine del Monginevro. Con la medesima tecnica dell’assaggio cioè di fatto con l’utilizzo dell’analisi organolettica Faraone smaschererà la truffa dei contrabbandieri francesi sentenziando “Pas cocain, non è cocaina è idrato di terpina”. La figura del chimico qui assume una veste totalmente diversa da quella dell’esempio precedente. Forte della sua conoscenza della materia e dei suoi segreti è quasi seduto su uno scranno, e poco importa che metta la sua professionalità al servizio di contrabbandieri e trafficanti.

Non emette nessun referto analitico date le circostanze, ma ugualmente viene tenuto in altissima considerazione. E non ha bisogno nemmeno di servirsi di un laboratorio. Olfatto e gusto lo supportano adeguatamente. E’ depositario di una scienza che può far fruttare.

La chimica come la matematica a molte persone tende a creare una sorta di blocco perché ritenuta difficile e noiosa. L’immagine del chimico che viene descritta in questi film è per noi che di chimica ci occupiamo forse superficiale. Ma se ci riflettiamo un attimo potremo trovare, soprattutto nel chimico descritto nel film tratto dal libro di Fenoglio riferimenti che ci portano fino al ciabattino che, nel racconto arsenico del sistema periodico rimane ammirato dal piccolo laboratorio dove ha portato dello zucchero da fare analizzare (o meglio chimicare piemontesismo ormai conosciuto). E dopo aver ritirato il referto ammirato esce dicendo . “Bel mestiere il vostro: ci va occhio e pazienza. Chi non c’è la è meglio che se ne cerchi un altro”.

Ma perché solo occhio? Sappiamo usare anche gusto e olfatto…

Le piante: un chimico “verde” al servizio dell’ambiente

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Luigi Campanella, ex presidente SCI

Lo studio dell’impatto sull’ecosistema dell’immissione di sostanze inquinanti ha incrementato l’interesse per la realizzazione di metodi analitici affidabili, sensibili, accurati, economici, possibilmente automatici e continui, utilizzabili anche per misure in situ, per la determinazione di queste sostanze. L’applicazione al campo ambientale ha determinato l’utilizzazione di bioindicatori costituiti di sistemi biologici vegetali capaci di fornire informazioni sulla concentrazione nell’ambiente di inquinanti, attraverso modificazioni di caratteristiche fisiologiche come: la velocità di crescita, la capacità respiratoria e fotosintetica, la variazione del metabolismo e dell’attività enzimatica.

Le piante offrono notevoli possibilità come bioindicatori, perché hanno notevoli scambi gassosi con l’ambiente. Inoltre, avendo una minore complessità di sistemi di difesa, presentano una sensibilità maggiore nei confronti di molte sostanze inquinanti. I bioindicatori vegetali sono sufficientemente affidabili ed economici, permettono quindi l’allestimento di reti di biomonitoraggio capillari e consentono un’adeguata mappatura del territorio relativamente alle specie chimiche tossiche, inoltre forniscono informazioni sulla biodisponibilità dell’inquinante: ad esempio l’Egeria densa propagandosi rapidamente nel territorio, si rileva particolarmente adatta a questo fine.

egeria_densa_icelandFra le classi di inquinanti più ubiquitari e concentrati di certo ci sono i metalli pesanti. Per “metalli pesanti” di intendono gli elementi di transizione caratterizzati da una densità maggiore di 7,0 g/cm3. Per quanto concerne la provenienza dei metalli pesanti essa può essere esogena, causata da attività umane, o endogena, quando i metalli sono rilasciati dal substrato pedogenetico, in quest’ultimo caso i metalli sono denominati: “inquinanti geochimici”. La contaminazione esogena è dovuta a processi industriali come la vulcanizzazione, la concia, la galvanizzazione, la fusione di metalli, i quali producono fumi e scorie contenenti Zn, Cu, Pb, Cr, Ni, Cd, Hg. I metalli si accumulano nel suolo, ad elevate concentrazioni, in pochi anni, Attività civili come: impianti di riscaldamento, inceneritori, traffico motorizzato (combustione di carburanti, consumo di lubrificanti e pneumatici), liberano nell’ambiente Pb, Cd, Zn. L’agricoltura, mediante l’uso di antiparassitari, incrementa l’inquinamento da Cu, Hg, Mn, Pb, Zn; inoltre i processi industriali per la sintesi di fertilizzanti come i perfosfati, liberano nel suolo: Cd, Co Cr, Cu, Mn, Mo, Ni, Pb, Zn. La reattività di questi metalli, il potere inquinante e la tossicità per gli organismi sono determinate dalle seguenti proprietà:

  • la possibilità di assumere diversi stati di ossidazione e di conseguenza di formare composti intermedi;
  • le proprietà catalitiche;
  • la capacità di formare complessi utilizzando gli orbitali d incompleti;
  • la tendenza a dar origine a composti non stechiometrici con i solidi ionici;
  • l’elevata affinità per il gruppo SH (reazione acido-base di Lewis).

Le costanti di instabilità dei complessi formati dal metallo sono correlate al suo grado di tossicità: i metalli che hanno una tendenza maggiore a formare complessi con molecole organiche, hanno una capacità più elevata nel danneggiare le membrane biologiche. All’interno della cellula, tali metalli, inibiscono l’attività di alcuni enzimi, legandosi ai gruppi tiolici, carbossilici e amminici degli amminoacidi; in presenza di gruppi tiolici e di ossigeno, Cu, Co, Mn, Ni, inducono la formazione di radicali liberi e di ioni superossido, che producono dannose perossidazioni. Inoltre, il DNA risulta essere un bersaglio primario per i numerosi siti di interazione che presenta: infatti sono stati riscontrati, tra gli effetti biologici indotti dai metalli, l’azione mutagena, rilevabile attraverso anomalie cromosomiche e l’attività cancerogena.

I meccanismi con cui le piante captano i metalli pesanti sono: mediante secrezione radicale dei fitosiderofori e di metalloriduttasi e mediante estrusione di protoni. Il metallo, legato a peptidi e acidi, entra nella corrente xilematica e floematica. Nel citosol i metalli, inducono sintesi di fitochelatine, di metallotineine, di proteine ad alto peso molecolare da stress del tipo delle heat shock proteins. Le simbiosi batteriche e micorriziche incrementano questi processi. Le piante metallofite si distinguono in: “indicatrici”, nel caso in cui si riscontra un’uguale concentrazione di metallo nel suolo e nella pianta; “escluditrici” quando il metallo è  più concentrato nelle radici rispetto al suolo; “accumulatrici” quando il metallo è più concentrato nelle parti aeree rispetto alle radici e al suolo.

piante

Le ipotesi che possono derivare per un meccanismo di detossificazione sono per i metalli, una possibile compartimentalizzazione nel vacuolo in forma di complessi con acidi organici come malato, citrato o con peptidi ricchi di gruppi tiolici (glutamil-cisteinil-glicine o fitochelatine).

Nel caso invece di inquinamenti organici la captazione da parte delle piante è in relazione con il loro coefficiente di ripartizione ottanolo-acqua: composti con logKow>1,8, più idrofobiche, attraversano le membrane lipidiche radicali, ma alcune sostanze eccessivamente idrofobiche non entrano nello xilema. Le sostanze meno idrofobiche, logKow<1,8, non penetrano nelle radici. Un modello concettuale di detossificazione, per composti aromatici come l’acido 2,4-diclorofenossiacetico acido_24-diclorofenossiacetico_struttura-svge il pentaclorofenolo, 240px-pentachlorophenol-svg

prevede la captazione per traspirazione dello xenobiotico, reazioni di ossidazione, riduzione, idrolisi, la coniugazione con composti come il D-glucosio, il glutatione, aminoacidi o acido malonico. Infine l’inquinante viene compartimentalizzato nel vacuolo, o incluso nel materiale che costituisce la parete cellulare o nella lignina.

Captando questi inquinanti le piante finiscono per “sentirli” reagendo ad essi e su questo, come si diceva all’inizio, si basano i processi di bioindicazione. Dai bioindicatori la tecnologia ha derivato i biosensori con esiti e finalità più quantitativi rispetto a quelli più qualitativi dei bioindicatori.

I biosensori sono dispositivi costituiti di un trasduttore associato ad un catalizzatore biologico. Originariamente si tendeva ad usare un enzima purificato, recentemente si cercano nuovi materiali biocatalitici da associare a elettrodi ionoselettivi e a diffusione gassosa: piante, microrganismi, tessuti animali o vegetali. I vantaggi principali sono tempi di vita maggiori, bassi costi, una maggiore attività catalitica. Il regno vegetale è una fonte particolarmente ricca e varia di eventuale materiale biocatalitico, non solo per la varietà delle specie, ma anche perché le strutture specializzate per la crescita, la riproduzione, il deposito di nutrienti, recano un’attività biocatalitica altamente selettiva, concentrata e stabile. Durante la messa a punto del biosensore è necessario verificare se i processi metabolici siano rapidi, sensibili, selettivi.

fitodepurazione2Un ulteriore impiego dei vegetali quasi un’applicazione virtuosa dell’interazione “viziosa” fra sistemi vegetali e inquinanti, è costituito dal recupero ambientale di ecosistemi inquinati, secondo il concetto di phytoremediation, la cui applicazione si sta notevolmente diffondendo per la maggiore economicità, efficacia, la versatilità dovuta alla capacità di differenti specie di accumulare vari inquinanti anche presenti contemporaneamente, con un positivo impatto ambientale; le piante sono comunque indispensabili per la produzione   di biomassa ed energia. Quest’ultimo impiego, proposto da Cunningham nel 1995, può essere esteso alla decontaminazione di acque di scarico industriali.

La phytoremediation presenta diversi vantaggi: il basso costo, almeno il 25% in meno rispetto alla rimozione del terreno contaminato ed al suo stoccaggio in apposite discariche, la versatilità dovuta alla disponibilità di diverse specie vegetali accumulatrici di diversi inquinanti anche contemporaneamente presenti, il positivo impatto ambientale dato dal recupero paesaggistico del sito decontaminato.

Le foglie autunnali come fonte di utili sostanze naturali

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Rinaldo Cervellati

Fino ad oggi le foglie autunnali delle piante caduche, soprattutto alberi, sono state o compostate, o abbandonate in discariche, o peggio bruciate completamente aumentando così il carico di anidride carbonica nell’atmosfera. Il VTT Technical Research Centre della Finlandia, uno dei più importanti centri di ricerca tecnologica scandinavi, ha da qualche tempo avviato un progetto per l’uso sostenibile delle foglie nell’industria cosmetica, tessile, zootecnica e nutraceutica.

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Le foglie autunnali derivano il loro colore principalmente da carotenoidi arancioni e gialli, e antociani rossi.

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 (si veda anche https://ilblogdellasci.wordpress.com/una-alla-volta/astaxantine/ )

Oltre ai pigmenti, queste foglie contengono molte altre sostanze interessanti come polifenoli, lignina, carboidrati, proteine e composti che inibiscono la crescita di batteri dannosi. Come ho scritto in due precedenti post, polifenoli e antociani, per esempio, mostrano spiccate proprietà antiossidanti e possono avere effetti benefici sulla salute, per questo motivo vengono usati in nutraceutica.

Il VTT ha messo a punto un processo in cui le foglie raccolte in parchi e giardini vengono dapprima essiccate, poi macinate quindi vengono sottoposte a opportune estrazioni per ottenere le sostanze in esse contenute.

 

 Le fasi di lavorazione sono state sviluppate in laboratorio, il progetto è ormai entrato nella fase pilota, utilizzando grandi quantità di foglie raccolte nella zona di Otaniemi dalla società di smaltimento rifiuti Lassila & Tikanoja. Particolare attenzione è stata dedicata alla compatibilità ambientale del processo globale e alla sicurezza degli estratti prodotti.

La dottoressa Liisa Nohynek, senior scientist presso il VTT commenta: “In esperimenti di laboratorio abbiamo utilizzato vari metodi di estrazione dalle foglie. Sono ancora in corso esperimenti pilota per esaminare il funzionamento delle differenti metodologie estrattive e le relative quantità dei diversi composti attivi che possono essere isolati dagli estratti di foglie”.

I pigmenti ottenuti possono essere utilizzati anche in cosmetica e come coloranti naturali nell’industria tessile. La composizione chimica delle foglie varia ampiamente tra le diverse specie di alberi. Il valore aggiunto può essere ottenuto dalla lavorazione delle foglie solo di certi tipi di alberi.

Dopo l’estrazione, la biomassa residua ha un alto contenuto di sostanze nutritive e può quindi essere utilizzata come fertilizzante naturale in agricoltura, nei parchi pubblici, come pure nei giardini privati. D’altro canto questi rifiuti possono essere ulteriormente trattati per ottenere composti che inibiscono la crescita di battèri dannosi, un’altra caratteristica che potrebbe essere sfruttata in agricoltura.

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Per le foglie autunnali si possono inoltre sviluppare ulteriori applicazioni. I composti ottenuti dalle foglie possono essere utilizzati anche come coloranti e conservanti alimentari, oltre che come supplementi nutrizionali. Inoltre, questi coloranti possono essere usati per migliorare le proprietà nutrizionali di cellule derivate da piante edibili, in fase di sviluppo presso la stessa azienda. Anche i carboidrati provenienti dal residuo di estrazione potrebbero essere utilizzati per la produzione di mangimi ricchi di proteine o come integratori in zootecnia. Infine, la biomassa residua ricca di sostanze nutritive può anche avere applicazioni domestiche, ad esempio nella coltivazione casalinga di funghi eduli.

Fonte: NUTRAIngredients newsletter – Botanicals and Herbals – 04-11-2016

La chimica e il nuovo presidente.

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura  di Claudio Della Volpe

Pochi giorni fa gli USA hanno eletto un nuovo Presidente che rimarrà in carica almeno per 4 anni; lo scontro politico è stato durissimo come forse non era da parecchio tempo (sebbene già il caso Gore-Bush sia stato un sintomo che qualcosa stava cambiando nell’immagine almeno della strapotenza americana).

108761_gettyimages-621864896-heroQuesto ha avuto effetti anche in campo scientifico; gli USA sono da almeno 100 anni considerati il paese leader in praticamente tutti i settori scientifici di avanguardia ed in genere vanno fieri di questo primato, indipendentemente dal settore politico; tuttavia l’intellighenzia americana non fa eccezione alla regola generale che gli intellettuali siano di sinistra o comunque difficilmente siano di destra, e quindi il mondo scientifico americano tende ad essere democratico, piuttosto che repubblicano (d’altronde perfino gli artefici del potenziale nucleare americano caddero vittima del maccartismo, il caso Oppenheimer su tutti).

Alcune riviste divulgative ed informative di chimica, si sono schierate apertamente contro Trump, già nel corso della campagna elettorale; mi riferisco a Chemistry World, per esempio, espressione della prestigiosa Royal Society of Chemistry; e da questa rivista traggo un paio di commenti sulla elezione di Trump.

Mark Peplow, già chief editor di Nature, ha scritto un articolo durissimo (Trump scatenato), in cui ricorda le posizioni politicamente scorrette sui vari temi dal femminismo alla immigrazione manifestate da Trump ma cerca anche di capire cosa succederà in campo scientifico.

Peplow ricorda che Trump, contrario alla immigrazione, si pone agli antipodi di una politica aperta all’ingresso di ricercatori di altri paesi; con la sua retorica populista si pone in antitesi al pensiero critico; tuttavia ricorda anche che non ha fatto dichiarazioni specifiche contro la scienza, ma che ci si può aspettare che le richieste di un mercato “libero” siano in antitesi ai controlli più incisivi richiesti dal Toxic Substances Control Act (TSCA).

Il principale tema caldo riguarda tuttavia gli interventi in materia climatica; Obama ha giocato un ruolo essenziale nella ratifica di COP21 e anche nello sviluppo della nascente industria delle energie rinnovabili; le dichiarazioni di Trump sul mercato libero e la libertà di scelta del consumatore americano nei riguardi dell’energia fanno pensare che spingerà l’acceleratore sui fossili, ancora una volta; fra l’altro dovendo scegliere uno dei membri della Corte Suprema proprio mentre la Corte sta vagliando la proprosta di legge di Obama, il Clean Power Plan, per limitare le emissioni fossili, la cosa non sarà indolore.

Anche in campo educativo Trump ha espresso la posizione che debba essere il libero mercato a decidere gli orientamenti educativi senza che lo stato ci metta becco.

E conclude amaramente Peplow:

But it is a sad and worrying state of affairs when our best-case scenario is that the next US president is merely a mendacious, opportunist demagogue.”

In un altro articolo, a firma di Rebecca Trager, si legge:

Trump’s election sparks anxiety among scientists

ossia “L’elezione di Trump provoca ansietà fra gli scienziati”.

La Trager ricorda che mentre i democratici hanno ripetutamente espresso posizioni favorevoli all’ambiente della ricerca (per esempio proponendo di dare la cittadinanza americana a tutti coloro che si laureino o prendano il PhD in USA e promettendo di sostenere le agenzie di ricerca), Trump non ha fatto analoghe dichiarazioni, ma al contrario ha dato adito ripetutamente a sospetti opposti.

I democratici hanno fatto notare che Trump sarebbe ben felice di lasciare gli affari scientifici alle commissioni del congresso (a maggioranza repubblicana attualmente) e che se Trump decide di realizzare effettivamente i suoi piani di riduzione delle tasse e di investimento nelle infrastrutture americane (alquanto obsolete in alcuni casi) il costo di queste decisioni corrisponderebbe al taglio delle spese in ricerca; d’altronde Trump esprime direttamente gli interessi proprio dell’industria delle costruzioni, con un conflitto di interesse i cui effetti noi italiani ben conosciamo avendolo sperimentato direttamente con un altro famoso tycoon, leggermente più spelato.

Nell’articolo si fa notare come molti commentatori di ambito scientifico, biologi o fisici, concordino nel ritenere che gli obiettivi dichiarati di Trump siano in opposizione anche solo al mantenimento del livello di investimento in ricerca fatto finora e ci sia il timore sul mantenimento degli effettivi livelli di spesa in campo scientifico; questo per la prima volta da molti anni scalfirebbe il primato di investimento in ricerca degli USA, che hanno consentito a quel paese di costituire una solida base per il suo dominio politico; mai come per gli USA “Scientia potestas est!”.

C’è addirittura il timore che il brain-drain, l’attrazione che gli USA hanno avuto per molti decenni nei confronti delle migliori e più brillanti menti del pianeta sia vicina ad un punto di svolta; le idee politiche generali del nuovo presidente mettono in dubbio che si voglia continuare a sostenere questo processo che ha concentrato negli USA un potenziale umano incredibile e che ne ha reso possibile, ne ha concimato il potere economico e politico fin da prima della 2° guerra mondiale.

Mark Wilson, che dirige il dipartimento di chimica alla University of Durham in UK è d’accordo e sostiene che la situazione inglese sia analoga con Brexit: “The immigration stance would be worrying,’. ‘In a similar way to Brexit, it is a major problem to UK scientists because we rely on easy movement of scientists and easy scientific exchanges.

Ma i timori principali sono ancora una volta sui temi dell’ambiente con il blocco della TSCA e dell’accordo di Parigi sul clima. La cosa sarebbe tragica poichè altri paesi soprattutto emergenti potrebbero seguire la deriva trumpista.

Ovviamente le dichiarazioni delle associazioni padronali sono diverse; la SOCMA, l’equivalente della Federchimica per le piccole medie imprese, pur chiedendo di approvare il TSCA si dichiara certa dell’appoggio governativo dal punto di vista del controllo del mercato interno; in questo senso le industrie biotech e farmaceutiche per esempio che avevano ricevuto dalla Clinton una tirata di orecchi per le politiche troppo aggressive sul costo dei farmaci vedono di buon occhio la vittoria dell’antagonista Trump difensore del libero mercato. Non a caso il giorno dopo l’elezione il Nasdaq farmaceutico ha fatto un salto del 9%.

 

Le Toline precursori sintetici di molecole organiche nel Sistema Solare

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Diego Tesauro*

diegotesauroLa formazione di composti organici base della formazione della vita nel sistema solare è sempre stato oggetto di studio e di ipotesi da parte di astronomi. chimici e biologi. Questa ricerca ha le sue origini sia nella comprensione dell’evoluzione della vita sulla Terra che in una estensione della ricerca di forme di vita basate sulla chimica del carbonio verso altri sistemi planetari. In questo ambito va collocarsi anche un recente articolo pubblicato sulla rivista Nature (Nature 2016, 539, 65-68).

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Plutone e Caronte (in secondo piano) in una imagine della NASA (NASA/JHUAPL/SwRI).

A seguito del flyby della sonda New Horizon del sistema Plutone-Caronte avvenuto nel luglio 2015 il team di New Horizons ha pubblicato un modello per spiegare la formazione del materiale di colore rosso scuro presente ai poli di Caronte. La materia rossa sarebbe costituita da Toline che quindi sono presenti su molti corpi del sistema solare, allargando la casistica, infatti inizialmente erano state ipotizzate sul satellite di Saturno Titano e sul satellite di Nettuno Tritone. Ma cosa sono le Toline? Perché rivestono tale importanza nella formazione di composti organici base per la vita?

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New insights into the structure and chemistry of Titan’s tholins via 13C and 15N solid state nuclear magnetic resonance spectroscopy Derenne et al. Icarus 221 (2012) 844–853

Con il termine Toline il planetologo Carl Sagan, in un articolo apparso su Nature nel 1979 (Nature 1979, 277, 102- 9, 65-68), classificò una classe di macromolecole di formula generale CxHyNz presenti su Titano, unico satellite del sistema solare a presentare un’atmosfera costituita essenzialmente da azoto molecolare, per il 1.5 % da metano e tracce di idrocarburi a massa molecolare maggiore come acetilene ed etano. Il nome toline, coniato dallo stesso Sagan, viene dal greco θόλος (fango, sudiciume) ma anche θολός (volta, cupola) in quanto queste macromolecole presenti nello spazio si formano a seguito di scariche elettriche in ambiente di reazione contenente metano, acqua e ammoniaca o/e irraggiamento a lunghezza d’onda UV depositandosi come solido rosso scuro in fondo nel reattore.

Ottenute per la prima volta nel famoso esperimento di S.L. Miller (J. Am Chem Soc. 1955, 77, 2351-2361) in cui furono ottenuti per la prima volta amminoacidi da una miscela di metano, acqua, idrogeno e ammoniaca a seguito di una scarica elettrica nel reattore, negli ultimi trenta anni sono state riprodotte in laboratorio nelle più svariate condizioni ed analizzate mediante tecniche GC-MS e più di recente mediante spettrometria di massa ESI con analizzatore a trappola ionica ed a risonanza ionica ciclotronica a trasformata di Fourier. I risultati di queste analisi hanno permesso di dimostrare l’esistenza di queste macromolecole, che non possono dirsi polimeri, in quanto non hanno un’unità monomerica ripetitiva, anche a masse superiori alle 200 u.m.a. Inoltre una volta formatisi in assenza di ossigeno ed acqua , subiscono reazioni di ossidazione all’aria ed idrolisi se esposte all’acqua a temperatura intorno ai 100°C (J Am Soc Mass Spectrom. 2005, 16, 850 – 859). Recentemente, producendo in laboratorio Toline nelle condizioni che si verificano nell’atmosfera di Titano, analizzandole dopo averle esposte ad una soluzione acquosa ammoniacale per 2.5 anni, è stata ritrovata una composizione in amminoacidi simile a quella ottenuta nell’esperimento di Miller (Icarus 2014, 237, 182-189). Le toline pertanto sono uno step essenziale nella sintesi, nello spazio interstellare, di una serie di composti organici alla base della vita.

toline3La loro formazione può non essere limitata a determinate condizioni planetarie come quelle di Titano, ma formarsi anche nelle calotte polari di Caronte a seguito della combinazione di molteplici fattori che si verificano su questo satellite. Il suo asse di rotazione ha infatti un’inclinazione di 112° gradi sul piano dell’eclittica, per cui ha un polo che resta per lungo tempo non esposto alla radiazione solare ad una temperatura di 25K (basti pensare che la rotazione completa intorno al sole, a causa della distanza, avviene in 247,8 anni). Pertanto il metano e l ‘azoto emesso da Plutone e catturato da Caronte viene inglobato nei ghiacci e solo la successiva esposizione alla radiazione, terminato il lungo inverno permette la formazione delle toline prima che i reagenti volatili sfuggano all’attrazione gravitazionale di Caronte.

Ma le toline possono aver svolto un ruolo anche nella formazione di composti organici sulla Terra? Il dibattito è più che mai aperto, anche se le ipotesi più accreditate dalla comunità scientifica è che la l’atmosfera terrestre non abbia avuto un carattere riducente nelle prime centinaia di milioni di anni e che la materia organica sia arrivata da comete, meteoriti o comunque da oggetti provenienti dalle zone lontane e fredde del sistema solare. Ma le conferme devono essere ancora trovate e pur aggiungendo di anno in anno nuovi elementi al puzzle della nascita della vita, ancora la scienza necessita di molti dati per chiarire il quadro.

* Diego Tesauro è ricercatore confermato di Chimica generale ed Inorganica (CHIM03) presso l’Università degli studi Napoli “Federico II”. Dal 2013 afferisce al dipartimento di Farmacia. Si è occupato di complessi organometallici di metalli di transizione, di preparazione di polimeri di condensazione termosistenti. Negli ultimi quindici anni l’interesse si è spostato verso la progettazione, sintesi e caratterizzazione di coniugati peptidici. Ovviamente è anche da molti anni un astrofilo, afferente alla Unione Astrofili Napoletani (UAN).