La chimica delle uova di Pasqua e altre storie.

Claudio Della Volpe

Le uova di Pasqua sono una tradizione che risale a ben prima della cultura cristiana.

Dioniso con l’uovo e il càntaro, IV sec. a.C. Parigi, Louvre | © RMN

Il Dioniso di Tanagra (Beozia, dove Dioniso sarebbe nato) figura tombale o quello del Louvre, che mostrano un uovo, ricordano l’uso di donare uova (casomai colorate o dipinte) come augurio di fecondità e salute all’inizio della primavera, tradizione che risale al primo millennio a.C. (Egitto, Persia). Solo poi, nella cultura cristiana, l’uovo, apparentemente minerale, ma che nasconde la vita, acquista il senso della rinascita dalla morte e, dunque, della resurrezione.

Le uova di cioccolata invece sono un prodotto recente non foss’altro perchè la cioccolata è stata importata in Europa come dolce frutto dello scambio “colombiano” di cui abbiamo parlato in altro post. E infine solo il macchinismo industriale le ha rese comuni perchè lavorare l’uovo di cioccolata a mano non è certo semplice: roba da re al tempo del Re Sole, le uova di cioccolata diventarono comuni solo dopo la 2 guerra mondiale dalle nostre parti.

Eppure uova colorate cuocendole con foglie e fiori opportuni erano comuni già nel medioevo. Insomma, a parte il simbolismo, le uova colorate e la chimica che c’è dietro sono un prodotto “popolare” dell’”oscuro” medioevo tedesco. (ma poi perchè il medioevo è sempre oscuro?).

Hieronymus Bosch, Concerto nell’uovo, Lille, Palais des Beaux-Arts | © RMN - 
Copia anonima del XVI sec. Fra gli altri significati di quest'opera perduta 
l'uovo potrebbe essere il contenitore  dell'Universo, un contenitore dove 
il chimico ermetico mette a reagire gli elementi creandone una sinfonia,
un pò folle.

La parola “Ostern” in tedesco non si riferisce all’origine greca e latina della festa ebraica per celebrare l’emigrazione degli ebrei dall’Egitto, ma si riferisce invece alla dea “Ostara”. Nella Germania delle figurine bruciate negli “Osterfeuer” (fuochi di Pasqua), pratica molto popolare nel nord del paese ma nota anche in altre regioni, (figurine che erano simboli dell’inverno e bruciate dopo la “Tag-und-Nacht-Gleiche” (giorno e notte dell’equinozio)), lo “Osterhase” (Coniglio di Pasqua), che “nasconde” dolciumi (soprattutto uova di Pasqua di cioccolata) è più popolare dell’agnello come animale simbolico della Pasqua. Già, ma come si fanno le uova colorate e come funziona il meccanismo di colorazione delle uova? Ovviamente c’è un meccanismo base di assorbimento della superficie dell’uovo che è porosa. Ma non solo.

Hamilton, R. M. G. (1986) “The Microstructure of the Hen’s Egg Shell – A Short Review,” Food Structure: Vol. 5: No. 1, Article 13.

Available at: http://digitalcommons.usu.edu/foodmicrostructure/vol5/iss1/13

https://www.researchgate.net/publication/51895246_The_eggshell_structure_composition_and_mineralization/figures       Figure 4. Artistic rendition of cross-sectional view of chicken eggshell. The major morphological features are labelled.

Questo bel grafico lo troviamo su Chemical and Engineering News; il metodo è semplice ed è spiegato bene qui.

Il guscio dell’uovo di gallina è fatto principalmente di carbonato di calcio e, immergendolo in un acido debole come l’aceto, si hanno due effetti:

1) il guscio reagisce con l’acido producendo diossido di carbonio gassoso (vedrete formarsi delle bollicine sulla superficie dell’uovo). Il guscio inizia a sciogliersi il che ne acccresce l’area e ne espone una maggiore superficie al contatto con l’esterno.S. O’Malley su https://www.sciencefriday.com/educational-resources/eggs-to-dye-for/

2) le proteine nella sottile cuticola del guscio reagiscono con l’acido debole e si protonano, acquistano ioni idrogeno e dunque cariche positive in eccesso. Sono proprio queste cariche positive a legare le molecole di colorante se queste sono caricate negativamente come quelle che sceglierete opportunamente seguendo i consigli di C&En News.S. O’Malley su https://www.sciencefriday.com/educational-resources/eggs-to-dye-for/

Ovviamente potrete sperimentare usando acidi deboli diversi come quelli elencati qui sotto (aspirina, succo d’arancia, aceto o vitamina C; o altri) e diversi coloranti che si usano in cucina.Fra i coloranti da cucina: succo di barbabietola, di carota o di cavolo rosso, curcumina dalla curcuma, le antocianine del vino o dei mirtilli, il succo di altri frutti o il thè o il caffè, succo di pomodoro, etc.

Una volta che sarete diventati esperti con questi metodi potrete andare oltre le uova di Pasqua e far cambiare il colore del thè aggiungendo un acido o una base (succo di limone, soda Solvay (carbonato di sodio) o bicarbonato) oppure perfino il colore dei fiori come le ortensie facendo cambiare l’acidità del terreno.

Provate e sappiatemi dire.

Un enzima per la degradazione e riciclaggio del polietilene tereftalato (PET)

Rinaldo Cervellati.

La notizia è riportata da Melissae Fellet in uno speciale dell’ultimo numero di Chemistry & Engineering News on-line (28 febbraio 2018).

Ricercatori americani sono riusciti a inserire uno zucchero in un enzima batterico che potrebbe migliorarne la capacità di degradare il polietilene tereftalato (PET), favorirne il riciclo, evitando quindi che finisca in discarica (Abhijit N. Shirke et al., Stabilizing leaf and branch compost cutinase (LCC) with glycosylation: Mechanism and effect on PET hydrolysis, Biochemistry, 2018, DOI: 10.1021/acs.biochem.7b01189).

Le bottiglie di acqua minerale, bevande, shampoo, ecc. in polietilene tereftalato (PET), una delle plastiche più comuni e usate, vengono in genere riciclate macinandole in piccole scaglie, che vengono poi utilizzate per fabbricare prodotti come contenitori di plastica, tappeti, e altri materiali. Ma alcuni di questi manufatti non possono più essere riciclati e finiscono nelle discariche o nell’ambiente. Usando enzimi per degradare il PET in glicole etilenico e acido tereftalico, i riciclatori potrebbero usare gli ingredienti recuperati per produrre nuove bottiglie di plastica della stessa qualità. Tale processo consentirebbe di riciclare ripetutamente il materiale, contribuendo a risolvere il problema sempre crescente dei rifiuti di plastica.

Rifiuti di plastica

I funghi fitopatogeni responsabili di alcune malattie delle piante usano enzimi chiamati cutinasi per saponificare gli esteri contenuti nella cutina danneggiando così i tessuti vegetali. Sebbene di origine non ben chiara le cutinasi sono simili a enzimi batterici. E’ noto che le cutinasi, particolarmente quella delle foglie (LCC), possono anche “digerire” il PET scomponendolo nei suoi ingredienti monomerici. Le cutinasi degradano il PET più efficacemente a circa 75 ° C, una temperatura alla quale le catene di PET si allentano aprendo spazi fra di esse. Le cutinasi vanno a occupare questi spazi e fanno il loro lavoro degradando la plastica. Tuttavia l’enzima non funziona a lungo a queste temperature perché inizia a aggregarsi con se stesso inattivandosi.

Nel lavoro citato all’inizio, Richard A. Gross del Rensselaer Polytechnic Institute a Troy NY, responsabile della ricerca e i suoi collaboratori hanno cercato di impedire alla LCC di formare questi aggregati inattivi.

Il Gruppo del Prof. Gross (al centro)

Essi hanno pensato di inserire zuccheri in posizioni strategiche, in modo da mantenere intatta la struttura dell’enzima anche a temperature elevate, creando cioè barriere fisiche che rendessero più difficile la formazione degli aggregati.

Sebbene i batteri non rivestano naturalmente le loro proteine ​​con zuccheri, come invece succede per le cellule eucariote, i ricercatori hanno notato tre siti sulla cutinasi in cui le cellule eucariote potrebbero aggiungere una breve stringa di zuccheri. Utilizzando tecniche di ingegnera genetica hanno programmato un lievito, eucariota, per produrre una cutinasi batterica originariamente isolata da microbi trovati nel compost di foglie e rami. Dopo aver prodotto la cutinasi, le cellule hanno naturalmente glicosilato l’enzima nei siti previsti.

Struttura della cutinasi glicosilata: in rosso i siti glicosilati, in verde i siti attivi

I ricercatori hanno purificato la cutinasi glicosilata e ne hanno valutato la tendenza all’aggregazione studiando la luce diffusa attraverso una soluzione dell’enzima a varie temperature.

La cutinasi glicosilata ha iniziato ad aggregarsi e disperdere la luce a temperature intorno agli 80 ° C, mentre l’enzima non glicosilato ha diffuso molta più luce a partire da 70 ° C, formando anche ammassi visibili in alcuni test. La cutinasi glicosilata, lavorando a temperatura e concentrazione ottimali, ha degradato più PET rispetto alla proteina non glicosilata.

La maggiore stabilità e attività della cutinasi glicosilata è un grande passo avanti verso l’ottimizzazione dell’enzima al fine di una sua commercializzazione, dice Gross.

“Questa tecnologia potrebbe contribuire a rendere più degradabile una delle plastiche maggiormente utilizzate”, afferma Lucia Gardossi dell’Università di Trieste, che utilizza gli enzimi per produrre plastiche rinnovabili.

Non molto tempo fa la Cina riciclava circa la metà dei rifiuti di plastica e carta del pianeta. Ma l’anno scorso, la Cina ha vietato l’importazione di 24 tipi di rifiuti solidi, lasciando gli altri Paesi alla ricerca di soluzioni efficaci per smaltire montagne di plastica.

Montagna di rifiuti di plastica

“Il problema dei rifiuti di plastica è così urgente, e lo sviluppo di soluzioni per la gestione della plastica così veloce, da farmi ritenere che un enzima efficace come questo troverà applicazioni pratiche in poco tempo”, ha detto Gardossi.

*Tradotto e adattato da c&en news, web: February 28, 2018

Cosa vogliamo scegliere?

Mauro Icardi

Ho ritrovato recentemente in un angolo della mia libreria, un numero della rivista “Urania” risalente al 1977. E’ il primo volume dei racconti di Isaac Asimov intitolato “Antologia del bicentenario”.

Più che i racconti ho trovato molto interessante la rilettura di un articolo che Asimov scrisse originariamente nel 1975 intitolato “ Best foot backward “ e che in Italiano è stato tradotto “Cosa sceglierete?

Il noto scrittore britannico di fantascienza, ma anche divulgatore scientifico, in questo articolo si schiera apertamente a favore della ricerca scientifica, e delle ricadute che essa ha avuto sulla nostra vita quotidiana, in particolare nel miglioramento delle sue condizioni.

Asimov oltre ad essere considerato uno dei maggiori scrittori di fantascienza, era anche un biochimico.

E in questo articolo fa due esempi legati in qualche modo alla chimica, che ci mostrano come non sempre le scelte siano facili, e come il giudizio su di esse debba essere meditato.

Il primo esempio che ho trovato molto interessante riguarda il chimico italiano Ascanio Sobrero e le sue ricerche sulla nitrazione di composti organici, che portarono alla sintesi prima della piroglicerina e successivamente della nitroglicerina. Sobrero però rimase molto colpito dagli incidenti che si potevano verificare nella manipolazione di questo prodotto. Decise quindi di studiarne altre proprietà in particolare quella di essere utile per la vasodilatazione sanguigna a basso dosaggio in campo farmacologico, nel trattamento delle insufficienze cardiache. Nello stesso periodo Alfred Nobel che soggiornava in quel periodo in Piemonte si dedicò a portare avanti lo studio degli esplosivi ed in particolare della nitroglicerina riuscendo a perfezionarne l’uso attraverso l’invenzione delle cartucce di dinamite, riempite di farina fossile o di segatura. L’industria degli esplosivi diventò quindi una realtà. Nel 1873 la fabbrica Dinamite Nobel di Avigliana entrò in funzione. Entrambi gli scienziati, soprattutto Nobel furono tormentati dal possibile utilizzo a scopi bellici delle loro scoperte. E Alfred Nobel decise per questa ragione di istituire il premio intitolato al suo nome. Certamente per lasciare un ricordo migliore di se.

Asimov però nel suo articolo ci ricorda come l’utilizzo della dinamite sia servito anche per rendere meno faticoso per esempio lo sviluppo delle reti ferroviarie.

Per secoli i lavori di edificazione di qualunque tipo di manufatto (Asimov cita per esempio l’edificazione di edifici) si erano serviti di una massa di operai non qualificati, ma prima ancora di schiavi. Quindi l’invenzione degli esplosivi non può essere vista unicamente in maniera negativa. Purtroppo la tendenza ad utilizzare le nuove invenzioni per scopi di guerra ed aggressione è un tema che deve essere affrontato probabilmente da etica e filosofia. Ma la storia della creazione dell’industria degli esplosivi ben si presta a far comprendere quanto non sia possibile esprimere giudizi affrettati su quanto la ricerca produce. E in particolare la ricerca in chimica.

Una seconda parte dell’articolo poi prende in esame l’aumento della vita media, dovuto allo sviluppo delle reti fognarie e dell’ingegneria ambientale. Ricordando che prima di queste realizzazioni molte malattie rendevano la vita più breve e meno piacevole. La difterite per esempio.

L’articolo riletto oggi è nel suo complesso attuale, forse un po’ troppo improntato ad un’esaltazione quasi positivistica del progresso scientifico. Ma è una lettura che fa riflettere. Senza tutte le scoperte degli ultimi due secoli, abbiamo mai provato ad immaginare quale potrebbe essere la nostra vita? Senza medicinali, reti fognarie, e per restare a scoperte in campo prettamente chimico la nostra stessa vita di relazione che si è modificata per esempio dopo l’introduzione della pillola anticoncezionale.

Tutto questo oggi è messo in discussione da problemi che ci pressano. E che si possono riassumere in un solo grande problema. La necessità di capire che non possiamo oltrepassare i limiti fisici su questo pianeta. Dobbiamo diventare parsimoniosi e capire che possiamo vivere in modo da garantire a tutti un tenore di vita accettabile, e ridurre alcune macroscopiche diversità. Ma rileggere questo articolo mi ha in qualche modo dato la possibilità di trovare il modo di rispondere a chi, quando si parla di questi temi non ha altre argomentazioni che quella di tacciarmi da retrogrado. Ed allo stesso tempo un articolo che può aiutare a confutare alcune tendenze odierne decisamente pericolose. Perché Asimov cita anche i progressi della medicina dovuti a Jenner inventore del vaccino e a Pasteur cui dobbiamo l’invenzione della moderna microbiologia.

Asimov chiude l’articolo con queste parole.

Adesso tiriamo le somme. La grande strada presa dalla scienza e dalla tecnologia moderne può anche non piacervi. Ma non ne esistono altre. Quindi potete scegliere: una vittoria possibile con la scienza e la tecnologia, o una sicura disfatta senza di loro. Che cosa scegliete?

Mai come adesso dobbiamo essere coscienti del tenore di vita di cui abbiamo potuto godere, almeno nel mondo occidentale. Ora dobbiamo affrontare cambiamenti che potrebbero modificare le nostre abitudini. E cambiare le abitudini è sempre faticoso, a qualunque livello. Ma dobbiamo in ogni caso utilizzare le conoscenze che già possediamo, orientandole verso queste nuove sfide. Cedere alle mitizzazioni non credo porti da nessuna parte.

 altri articoli sul tema:

https://ilblogdellasci.wordpress.com/2013/10/03/i-due-volti-della-chimica/

https://ilblogdellasci.wordpress.com/2013/05/02/molecole-a-due-facce/

 

Scienziate che avrebbero potuto vincere il Premio Nobel: Isabella Karle (1921-2017)

Rinaldo Cervellati

Il 3 ottobre dello scorso anno (2017), all’età di 95 anni è deceduta Isabella Helen Lugosky Karle che diede fondamentali contributi all’elucidazione di strutture molecolari con la tecnica dello scattering dei raggi X. Suo marito, Jerome Karle (1918-2013), ottenne il Premio Nobel per la Chimica nel 1985 insieme a Herbert Aaron Hauptman (1917-2011) per i loro successi nello sviluppo dei metodi diretti per la determinazione delle strutture dei cristalli.

Isabella Helen Lugosky nasce il 2 dicembre 1921 a Detroit da genitori immigrati polacchi, il padre dipingeva le lettere e i numeri dei tram della città, la madre gestiva un ristorante e cuciva tappezzerie di interni di auto per le case automobilistiche di Detroit. Frequentò le locali scuole pubbliche dove una insegnante di chimica la incoraggiò a approfondire lo studio delle scienze. Fu influenzata in questo senso anche dalla lettura di una biografia di Marie Curie, unica persona e donna a vincere due Premi Nobel, uno per la Fisica (1903), l’altro per la Chimica (1911), originaria della Polonia come i genitori di Isabella.

Terminato il liceo frequentò l’Università del Michigan, grazie a una borsa di studio. Scelse come materia principale chimica fisica, ottenendo il B.Sc. nel 1941 ancora dicannovenne e il Master nell’anno successivo. Durante gli studi incontrò Jerome Karle anche lui studente di chimica fisica. I due si sposarono nel 1942. Entrambi ebbero come supervisore delle loro tesi per il dottorato Lawrence Olin Brockway[1]. Isabella conseguì il Ph.D. nel 1944.

Isabella Lugosky Karle

Durante la 2a Guerra mondiale, Isabella lavorò, al Progetto Manhattan (una delle poche donne ammesse al Progetto), mettendo a punto tecniche per ottenere cloruro di plutonio da minerali contenenti l’ossido. Per qualche tempo insegnò chimica all’Università del Michigan.

Isabella Karle mentre fa lezione

Nel 1946 trovò impiego nel Laboratorio di Struttura della Materia del Naval Research Laboratory riunendosi così al marito Jerome che già vi lavorava da due anni. All’inizio si dedicò allo studio della struttura di molecole allo stato di vapore attraverso la diffrazione elettronica, logica continuazione del suo lavoro di tesi. Ben presto però si mise a collaborare alla ricerca del marito che stava esplorando, insieme al collega H.A. Hauptman, la possibilità di sfruttare lo scattering (diffrazione) dei raggi X per determinare le posizioni degli atomi nelle molecole in vari stati di aggregazione, gas, liquidi, solidi amorfi.

Mi occupo della parte pratica del progetto mentre Jerome di quella teorica, insieme formiamo una buona squadra che necessita di entrambe le competenze, disse Isabella [1].

Isabella e Jerome Karle al NRL

Prima del lavoro dei Karle e di Hauptman, i cristallografi potevano indagare le strutture cristalline e molecolari solo attraverso il processo lungo e laborioso della riflessione dei raggi X esaminando gli schemi di riflessione delle sostanze colpite dai raggi.

La messa a punto degli apparecchi a diffrazione e il trattamento analitico delle immagini di scattering permise la delucidazione più semplice e “diretta” delle strutture cristalline e molecolari, risparmiando tempo e guadagnando in precisione.

Per molti anni, questo metodo fu praticamente ignorato da molti scienziati.

È stato il lavoro di Isabella a richiamare l’attenzione sulla sua utilità, attraverso l’analisi e la pubblicazione delle strutture molecolari di molte migliaia di molecole complicate [2].

Isabella Karle mostra una struttura molecolare

Isabella Karle infatti mise a punto procedure pratiche basate sul lavoro teorico sviluppato dal marito per la determinazione delle fasi direttamente dalle intensità misurate degli scattering dei raggi X. Queste procedure sono state in seguito adottate in tutto il mondo e sono state essenziali per l’enorme diffusione della diffrattometria a raggi X per la soluzione di problemi in una vasta gamma di discipline scientifiche: chimica, biochimica, biofisica, mineralogia, scienza dei materiali, prodotti farmaceutici, drug design e chimica medicinale, solo per citarne alcune. Isabella Karle ha applicato personalmente il metodo alla delucidazione delle formule molecolari e alla determinazione delle conformazioni di steroidi, alcaloidi, prodotti di fotoriarrangiamento causati da radiazioni, nanotubi e in particolare peptidi. Questo tipo di informazioni strutturali ha fornito le basi per la chimica computazionale, le analisi conformazionali e la previsione delle proprietà di nuove sostanze. Ha pubblicato più di 350 articoli scientifici, in particolare sul Journal of the American Chemical Society e Acta Crystallographica.

Instancabile Isabella…

Quando Jerome Karle ricevette il Nobel nel 1985, disse che sperava che un giorno l’onore sarebbe spettato anche a Isabella.

All’Associated Press affermò: Non riesco a pensare a nessuno che sia più qualificato di mia moglie [1].

Va ricordato in particolare che Isabella Karle è stata una pioniera nella strutturistica di piccole molecole biologiche applicando il metodo con cui sono state poi verificate importanti ipotesi sulla struttura e funzione dei peptidi. Senza i suoi contributi pionieristici in questo campo, gran parte del lavoro che seguì non sarebbe stato possibile [2].

Isabella Karle ha ricevuto molti riconoscimenti per le sue ricerche, fra i quali il Premio Garvan dell’American Chemical Society, il Premio Gregori Aminoff dalla Società Reale Svedese, la Medaglia Bijvoet dalla Società Reale Olandese, nonché otto lauree ad honorem. E’ stata eletta membro della National Academy of Sciences, dell’American Academy of Arts and Sciences e della American Philosophical Society. Ha ricoperto il ruolo di Presidente dall’American Crystallographic Association. Nel 1993 è stata insignita del prestigioso Premio Bowe e del Premio per l’Avanzamento della Scienza dal Franklin Institute, nel 1995 ha ricevuto il premio National Academy of Sciences in Scienze chimiche e la National Medal of Science dal Presidente Clinton. Infine, nel 2007 ha ricevuto il Premio Merrifield dalla American Peptide Society.

Per più di 60 anni ha lavorato al Naval Research Laboratory insieme al marito. Entrambi si ritirarono nel 2009, in occasione del pensionamento la Marina USA organizzò una particolare cerimonia nella quale fu consegnata a entrambi la medaglia e il Certificato di Navy Distinguished Civilian Service, il più alto riconoscimento che la Marina USA può conferire a un dipendente civile.

Jerome e Isabella Karle alla cerimonia del pensionamento

Jerome Karle è morto nel 2013, Isabella Lugosky Karle, ritiratasi in una Casa di riposo di Alexandria in Virginia, si è spenta il 3 ottobre 2017.

Bibliografia

[1] E. Langer, Isabella Karle: Chemist who revealed molecular structures and helped husband win Nobel prize. Obituary. The Washington Post, 15 November 2017.

http://www.independent.co.uk/news/obituaries/isabella-karle-chemist-who-revealed-molecular-structures-and-helped-husband-win-nobel-prize-a8055781.html

[2] D. McKinney, Jerome and Isabella Karle Retire from NRL Following Six Decades of Scientific Exploration, US Naval Research Laboratory, press release, July 21, 2009.

https://www.nrl.navy.mil/media/news-releases/2009/jerome-and-isabella-karle-retire-from-nrl-following-six-decades-of-scientific-exploration

 

[1] Lawrence Olin Brockway (1907-1979), chimico fisico statunitense ha fatto tutta la carriera all’Università del Michigan, dove ha sviluppato le prime tecniche di diffrazione elettronica.

Giornata mondiale dell’acqua 2018 “La natura per l’acqua”

Mauro Icardi

Anche quest’anno si celebra la giornata mondiale dell’acqua. Il tema di quest’anno è “Acqua e natura”, ovverosia ricercare soluzioni basate sulla natura per affrontare le sfide idriche del nuovo millennio.

L’appuntamento annuale, sia pur simbolico va ovviamente ricordato. Dovrebbe servire a ricordarci che l’acqua è un bene indispensabile per la vita umana. Imprescindibile.

Credo che molte, troppe, persone si dimentichino di questo concetto di base, distratti dal semplice gesto di aprire un rubinetto e vedere scorrere l’acqua. Senza chiedersi cosa ci sia dietro, quali risorse in termini monetari e di personale qualificato siano necessarie per la corretta gestione. Ho sostenuto diverse volte, sulle pagine di questo blog, come sul tema acqua si faccia spesso confusione, e in qualche caso anche dell’inutile demagogia. Mi rendo conto che troppo spesso informazioni che oggi chiamiamo bufale o fake news, e che una volta avremmo definito chiacchiere da bar hanno purtroppo maggior riscontro di interesse ma provocano notevoli danni, che spesso sembra rendano inutili gli sforzi di informazione e di divulgazione. E’ un problema che ovviamente coinvolge tutte le tematiche riguardanti i temi ambientali. Qualcosa che i tecnici o i ricercatori non possono risolvere da soli, senza l’aiuto determinante di chi si interessa del comportamento umano. Io ho ricordi personali di come mia nonna, che già anziana doveva pescare acqua dal pozzo della cascina dove viveva, e che per questa ragione poneva molta attenzione all’uso che faceva dell’acqua. Anche nelle pratiche di irrigazione, dell’orto e dei vasi di fiori che disponeva sui davanzali. Questo ricordo è stato utile e formativo. Anche se succedeva nel Monferrato negli anni 70 e non in un paese africano ai giorni nostri.

Da tecnico mi sono reso conto che molte volte gli appelli al risparmio idrico vengano colpevolmente sottovalutati, anche se nutro fiducia che questo tipo di malcostume dovrà cessare.

La scorsa estate è stata significativa in questo senso, basta andare a rivedere le cronache per rendersene conto.

Tra le iniziative che si possono segnalare quella che si terrà a Roma a cura dell’Istituto Superiore per la protezione e la ricerca ambientale.

http://www.sinanet.isprambiente.it/gelso/eventi/xviii-giornata-mondiale-dell2019acqua-2018

I temi del convegno si focalizzano sulla corretta gestione delle acque sotterranee destinate al consumo umano. Quelle che necessitano di maggior protezione dalle contaminazioni di agenti inquinanti.

Oltre a questo i prelievi eccessivi, per esempio l’acquifero di Ogallala negli Stati Uniti dove i prelievi di acqua cosiddetta fossile (e quindi non rinnovabile) ammontano circa 26 km3 all’anno (consumo stimato nel 2000).

Sappiamo da anni che occorre incrementare non solamente il risparmio, ma il riuso e la diversa destinazione di vari tipi di acqua. Non ha molto senso utilizzare acqua potabile per i servizi igienici.

Il tema acqua e natura allarga la visuale anche alla protezione dei corsi d’acqua, delle aree umide. E si lega a quello dell’inquinamento ambientale in senso più ampio.

La natura ci ha già dato una mano in passato, considerando che per esempio le tecniche di depurazione classiche sono nate proprio trasferendo in impianti dotati di depurazione quelli che sono i processi autodepurativi naturali. Attualmente queste tecniche sono supportate da altre innovative, che migliorano il processo nel suo insieme. Ma nessuna tecnica, qualunque essa sia, potrà funzionare se non ci si rende conto di quanto sia importante l’acqua. Che è un diritto non solo per noi esseri umani, ma per le comunità ecologiche in generale. Questo credo vada sottolineato, perché spesso è un concetto dimenticato e non conosciuto. Per chiudere occorre anche doverosamente ricordare l’impegno che il settore chimico ha per la protezione dell’acqua. Non fosse altro che per il controllo a livello analitico di inquinanti vecchi e nuovi, che devono essere monitorati. Per i nuovi limiti di concentrazione e di rilevabilità che dal punto di vista quantitativo sono sempre più bassi.

Non siamo ovviamente i soli che si devono occupare di questo tema, ed è fondamentale la collaborazione con altre discipline scientifiche e tecniche. Anche questa collaborazione è imprescindibile. E in ultimo l’appello che sempre mi sento di dover ripetere. La collaborazione sia a scopo operativo, che divulgativo con le scuole e le Università. Educazione idrica e ambientale diffusa. A partire dalle scuole elementari. Quando ho tenuto lezioni nelle scuole ho sempre riscontrato interesse e arricchimento reciproco.

Auguro a tutti una buona giornata dell’acqua. Per chiudere ci sarebbero moltissimi aforismi che si prestano.

Ma questo tratto da “La ballata del vecchio marinaio” di Samuel Taylor Coleridge credo sia il più adatto.

“Acqua, acqua ovunque. E non una goccia da bere”

Entropia e biosfera.2.

Claudio Della Volpe

Continuiamo a presentare la relazione fra la biosfera e il flusso entropico che la attraversa, la cui prima parte è stata presentata qui. Il flusso di entropia può essere visualizzato molto più semplicemente dell’entropia stessa che appare un concettto molto astratto.

Dato che le sue dimensioni sono quelle di una energia diviso una temperatura diviso un tempo, il flusso di entropia corrisponderà a quello di una potenza diviso una temperatura; se la temperatura del sistema o della sua interfaccia è costante la potenza dissipata dal sistema sarà di fatto proporzionale al flusso entropico.

La biosfera, il sistema Terra, come lo abbiamo definito nel post precedente è di fatto una gigantesca macchina termica che trasforma in energia meccanica, potenziale e chimica la radiazione che arriva dal Sole e anche l’ormai flebile flusso di calore proveniente dal’interno della pianeta. In realtà quel flusso di entropia ha il suo corrispondente, il suo alter-ego diciamo così in quella che noi chimici chiamiamo energia libera, produzione di entropia e grandi gradienti di energia libera che lo sostengono: produzione e flusso di entropia e flusso di potenza che gli corrisponde.

Quanto è grande questo flusso?

Si sente spesso dire che il flusso di energia solare è decine di migliaia di volte superiore a quello che usiamo perciò non dobbiamo preoccuparci: se passiamo alle rinnovabili non avremo più problemi di energia. Ma è così?

Vediamo da vicino.

Certo se stimiamo la quantità netta di energia che arriva dal Sole essa è veramente grande, ma quanta di quella energia si può effettivamente sfruttare? In genere le macchine termiche tradizionali, quelle dotate di due sorgenti una calda ed una fredda hanno un limite di trasformazione che è dato dal famoso teorema di Carnot.

Efficienza= 1-Tbassa/Talta

Di fatto il criterio di Carnot è solo un limite teorico insuperabile; ma esistono altri criteri che consentono di arrivare semplicemente più vicino alla realtà della cose; uno di questi criteri è il cosidetto criterio endoreversibile (AJP, Courzon e Ahlborn, vol. 43 p. 22, 1975) frutto del cosiddetto approccio della termodinamica a tempo finito. L’idea di base è che per avere potenza da una macchina termica occorre considerare dei salti finiti di temperatura e che se si semplificano le condizioni di calcolo considerando ideale la macchina in se e attribuendo la irreversibilità al solo salto termico per di più semplificato considerando degli scambiatori “lineari” ossia in cui la trasmissione del calore è proporzionale al salto termico è possibile arrivare ad una condizione concreta: se la macchina termica così concepita lavora alla massima potenza, allora la sua efficienza effettiva diventa

Efficienza= 1-√(Tbassa/Talta).

Dato che le moderne macchine termiche sono il frutto di oltre due secoli di perfezionamenti e i materiali degli scambiatori sono anch’essi sofisticati l’approssimazione funziona alla grande, anche se pochi testi di fisica tecnica ne fanno menzione; in pratica gli ingegneri snobbano questo approccio mentre i teorici come Callen lo hanno accolto a braccia aperte (Callen, Thermodynamics and an introduction to thermostatistics, 2 ed. p. 125-127, 1985)

Per poter applicare questa stima al nostro caso, alla nostra particolare macchina termica, però dovremmo dimostrare che valgono le condizioni che ho detto prima.

Sulla approssimazione lineare del trasporto di calore nel nostro caso essa è certamente grossolana, anche se considerando valori medi la cosa è certamente applicabile; mentre è più facile immaginare di essere in una situazione di massima potenza e dunque di massima entropia prodotta.

Non ci sono criteri assoluti di evoluzione nei sistemi lontani dall’equilibrio, ma va facendosi strada l’idea che se c’è un numero sufficientemente alto di gradi di libertà l’evoluzione di un sistema seguirà la regola della massima produzione di entropia (MEPP); attenzione non confondete questa idea con quella di Prigogine, valida solo per i sistemi stazionari, in quel caso il sistema produce la minima quantità di entropia compatibile, ma quello è un sistema stazionario.

Dopo tutto l’idea della MEPP è una sorta di generalizzazione del 2 principio; nei sistemi isolati il sistema evolve verso il massimo di entropia; l’evoluzione verso il massimo seguirebbe a sua volta una legge di massimo: va verso il massimo di entropia e ci va alla massima velocità possibile; ripeto non ci sono dimostrazioni, si tratta di una proposta che di fatto è entrata a far parte di alcuni dei sistemi più importanti lontani dall’equilibrio, come quelli ecologici, ma non abbiamo dimostrazioni valide in assoluto (si pensi qui al principio di Odum , principio della massima potenza o anche al caso del teorema di Thevenin per i circuiti elettrici; la massima potenza di una batteria si ottiene quando la resistenza interna e quella esterna sono uguali; mi piace anche ricordare qui la discussione a riguardo di Enzo Tiezzi e Nadia Marchettini in un loro indimenticato libro di qualche anno fa (Che cos’è lo sviluppo sostenibile?: le basi scientifiche della sostenibilità …Donzelli Ed. 1999)

Con queste due ipotesi tuttavia il calcolo è facile: al confine fra Sistema Terra e spazio esterno che viene arbitrariamente posto sulla superficie dove il flusso di radiazione solare in ingresso eguaglia quella terrestre in uscita si hanno, tenendo conto della riflessione dell’albedo circa 235W/m2, come spiegato nel post precedente.

La superficie di cui parliamo è poco più di 500 milioni di chilometri quadri e dunque l’ordine di grandezza della potenza in ingresso è di 100.000 TW, centomila terawatt!! Contro questa sta il consumo di energia primaria dell’uomo di circa 18TW di potenza equivalente*; poco, ma abbiate pazienza, c’è un trucco o due da tener presenti:

  • anzitutto tutta questa energia che entra nella macchina termica usa come piastra calda una sorgente che è alla temperatura media della Terra, molti chilometri più in basso; è lì che la radiazione si assorbe, la temperatura per effetto serra è di circa 15°C, ossia 288K; alla superficie di uscita invece dove effetto serra non ce n’è la temperatura media è stimabile in 254K circa; dunque la nostra macchina che efficienza avrebbe in termini endoreversibili? Beh circa il 6%, perchè 1-√(Tbassa/Talta).=1- √(254/288)= 0.06 dunque solo 6000 TW arrivano come energia meccanica e servono prima di tutto a rimescolare l’atmosfera! A questa quantità occorre sommare sostanzialmente l’energia radiante catturata come fotosintesi, 200TW, e il debole flusso dal centro della Terra, ma sono solo 40TW, è un flusso che ci mette anni a forgiare la forma del pianeta e secoli ad accumulare l’energia meccanica che si scarica poi nei terremoti e nelle eruzioni.
  • L’umanità usa 18TW di energia primaria, intesa come potenza media continua, ma di fatto ne usa di più; perchè per esempio in questa potenza non c’è la quota di energia solare catturata nel nostro cibo; non c’è la quota di energia solare necessaria a pompare l’acqua come pioggia verso la sommità dei nostri bacini di accumulo e tanti altri servizi naturali che di fatto sfruttiamo di “stramacchio”; in totale Kleidon stima la quota di potenza umana media continua a circa 50TW, pensate più di quella che l’interno della Terra cede alla superficie!

Ora facciamo qualche precisazione; questa descrizione che vi ho fatto è una forma diversa da quella usata da Kleidon nei lavori che ho già citato e che ricito qui; ho cercato di essere molto semplice e ho usato un paio di strade concettuali che probabilmente non sono mai state pubblicate per questo scopo, e il mio risultato è uguale quello di Kleidon, che fa però un modello più dettagliato e preciso.

Dalla seguente figura vedete subito i rapporti espressi come potenze istantanee in terawatt e se li intendete come flussi di energia libera (per unità di tempo ovviamente) e li dividete per la temperatura assoluta dissipati dai vari processi avrete i flussi di entropia corrispondenti.

Dunque l’umanità non è tanto piccola; la quota di potenza catturabile qui giù in fondo all’oceano atmosferico non può superare i 6000TW; di questi la fotosintesi vecchia di miliardi di anni ne cattura 200 circa e noi ne rubiamo 50 in due quote: una relativa a quella che la fotosintesi aveva accumulato negli ultimi 400 milioni di anni come combustibili fossili ed un’altra che intercettiamo come servizi di mobilità di acqua e materiali vari (vento, onde, pioggia, etc)che trasformiamo in idroelettrico,eolico e altre cosette tipo cibo per 7 miliardi e mezzo; in tutto sono 50TW (18 è solo energia primaria esplicita diciamo così).

50TW sono all’incirca l’1% del totale di energia libera disponibile (sempre per unità di tempo), ma è molto di più se si pensa che la quota di attività fotosintetica intercettata ad ogni ciclo è dell’ordine del 15-20%. La biomassa terrestre dei vertebrati è praticamente tutta al nostro servizio, ne abbiamo il 98% (uomo e animali domestici mentre i leoni gli elefanti e i lupi e gli orsi sono il 2% e vogliamo anche ammazzarli ancora). Ma anche quella oceanica è talmente sovrasfruttata da essere ridotta al lumicino; dobbiamo interrompere la pesca ogni anno in molte zone per consentire un ripopolamento appena sufficiente.

Certo in una visione dysoniana (la sfera di Dyson ricordate?) potremmo sostituirci alla grande macchina termica; volete sapere come? Beh piazziamo alcune centinaia di milioni di chilometri quadri di pannelli al bordo dell’atmosfera; intercettiamo così il 20% dell’energia in arrivo, sono 20.000TW, energia elettrica pura mica quella povertà di 6000TW attuali da macchina termica!) e li usiamo noi per fare tutto: moto ondoso, venti, monsoni, luce diretta, tutto controllato da una adeguata intelligenza artificiale; vi sembra abbastanza grandioso?

A me sembra una follia ma il fatto è che siamo diretti da quelle parti se continuiamo a crescere così, e sono sicuro che troverei qualcuno che mi finanzierebbe una ricerca in merito. Povero me!!

Voi che ne dite?

* per avere il consumo annuo dovete moltiplicare questo numero per quello dei secondi: 18TWx31.5 milioni di secondi= oltre 500 exajoule

Riferimenti:

1) Axel Kleidon

Phil. Trans. R. Soc. A 2012 370, doi: 10.1098/rsta.2011.0316, published 30 January 2012

2) A.Kleidon R.D.Lorenz (Eds.)

Non-equilibrium Thermodynamics and the Production of Entropy

Life, Earth, and Beyond, Springer 2005

3) . Kleidon Physics of Life Reviews 7 (2010) 424–460

Una riflessione sulle Università (ed i loro musei).

Luigi Campanella, già Presidente SCI

L’attuale situazione dell’Università è caratterizzata da problemi nazionali relativi sia agli aspetti giuridico-istituzionali che a quelli economico-finanziari sia infine a quelli di rete, quella degli Atenei essendo caratterizzata da troppe macroscopiche differenze fra i suoi poli per essere un Sistema.

In più la riforma dei cicli didattici-sulla quale pesano ancora alcuni dubbi circa il suo reale interesse verso le esigenze del Paese, degli studenti, e soprattutto del territorio- non ha rinforzato il legame di questo con gli Atenei che su di esso insistono, mentre tale legame sarebbe una garanzia ad una visione articolata del suddetto Sistema.

Si pensi alle specificità locali in termine di differenza di impegno industriale, tradizioni sociali e culturali, di risorse endogene.

Quanto detto riguarda anche la Chimica ed i suoi corsi di laurea, ma rivendico per essi un risveglio culturale che credo dovrebbe essere assunto anche in altri settori. Se andiamo ad osservare la trasformazione della lauree in chimica e chimica industriale negli ultimi 60 anni possiamo affermare che essa ha soprattutto riguardato lo sforzo di coniugare un’impostazione precedente prevalentemente disciplinare con una tematica, nella convinzione che la conoscenza non possa essere smembrata in informazioni; da qui l’impegno ad aggregare queste attorno alle tematiche sociali e culturali del nostro tempo.

Questa impostazione punta a creare nei giovani una sensibilità nuova. Un esempio recente riguarda il riconoscimento della laurea in chimica fra quelle di interesse sanitario: mai ciò sarebbe potuto avvenire solo 30-40 anni fa, a quel tempo prevalendo un’impostazione di colonizzazione della scienza e della ricerca. Vorrei che tale processo sia sostenuto dalle forze industriali e sindacali, che si riapproprino di una visione della formazione e dell’educazione dei giovani che non sia solo strettamente didattica, ma anche culturale.

Peraltro il recupero delle esigenze culturali è di certo una delle caratteristiche del nostro tempo. Tale recupero è avvenuto, e sta avvenendo, non in chiave elitaria – se così fosse esso resterebbe un fenomeno tanto limitato nel tempo, nello spazio e nei riflessi di costume da costituire oggetto di studi piuttosto che di interesse sociale – ma con una dimensione di partecipazione e di iniziative che ha coinvolto non soltanto le istituzioni “pertinenti”, ma anche istanze del lavoro e della società.

In questo senso un ruolo particolare assumono, o meglio dovrebbero assumerere, le proiezioni di queste in quelle; ed allora quando ci si muove all’interno di strutture culturalmente avanzate ci si viene a trovare nella condizione ideale per concretizzare tali proiezioni.

Questo dovrebbe essere colto da chi si trova in questa fortunata situazione. Con tali premesse si comprende come, dinnanzi alle novità che l’attuale contingenza prevede e consente con la rivoluzione telematica, con i totem di Industria 4.0 e web 3.0, con le nuove capacità di rete e partecipazione, sia forse giunto il momento di una vertenza “cultura”, con un coordinamento scientifico attorno ad iniziative su Arte e Scienza, superando la discrasia fra Facoltà Scientifiche ed Umanistiche, su Ambiente e Territorio superando quella fra discipline soft e discipline hard, su tecnologie ICT integrando piuttosto che tagliando il rapporto con alcune istituzioni anche universitarie, telematiche, sui musei universitari e cultura,superando la visione storicamente solo artistica del ns Paese.

http://news.mytemplart.com/it/arte-e-scienza-le-universita-investono-musei-e-gallerie-scientifiche/

I Musei Universitari rappresentano una preziosa risorsa culturale e scientifica del nostro Paese. La qualità di collezioni, strumenti, pezzi unici in essi raccolti è riconosciuta dagli addetti, ma soltanto di recente intorno ad essi si è andato costituendo un notevole interesse civile e sociale. Al tempo stesso si assiste ad un altro fenomeno: il turismo sempre più assume connotati anche culturali ed i tour operator sempre con maggiore frequenza inseriscono- a richiesta dei loro utenti- la visita di musei scientifici, oltre che di arte, come nella tradizione più riconosciuta del nostro Paese,all’interno dei loro programmi ed itinerari. In tale doppio contesto una rete di musei universitari attiva in tutto il territorio nazionale può rappresentare preziosa occasione di diffusione della cultura delle nostre tradizioni artistiche e scientifiche ed al tempo stesso una fonte di risorse.

Gli alberi e le siepi Lego vengono dalla canna da zucchero.

Rinaldo Cervellati

Lego plants to be made from plants è il titolo originale e accattivante di una interessante notizia riportata da Chemistry & Engineering news on-line del 6 marzo scorso, a firma Alex Scott.

Lego, la società danese di giocattoli, famosa per i suoi mattoncini di plastica, ha iniziato a fabbricare gli elementi botanici, come foglie, cespugli e alberi, con polietilene (PE) ottenuto dalla lavorazione della canna da zucchero.

L’iniziativa è un primo passo del piano annunciato dalla società nel 2015 per ridurre il suo impatto sull’ambiente eliminando gradualmente la plastica derivata da combustibili fossili. Il PE non è però impiegato per gli altri mattoncini iconici e da costruzione, che sono ancora costituiti da acrilonitrile-butadiene-stirene (ABS), un copolimero di tre prodotti della petrolchimica.

Il fornitore del polietilene “organico” è l’azienda brasiliana Braskem, titolare di un processo per convertire l’alcol etilico dalla canna da zucchero in etilene, il monomero del polietilene. Lo zucchero sarà certificato come materia prima nella produzione di “bio”polietilene da Bonsucro, un’organizzazione per l’uso sostenibile dello zucchero di canna.

Piantagione di canna da zucchero

Secondo la Braskem, ogni tonnellata di “bio”polietilene prodotto consuma 3,09 tonnellate di metri cubi di anidride carbonica dall’atmosfera.

Inizialmente, la Lego userà il “bio”polietilene solo per gli elementi botanici, ovvero l’1-2% delle sue parti in plastica.

“Siamo orgogliosi che i primi elementi Lego realizzati con materie plastiche di origine sostenibile siano in produzione e quest’anno saranno presenti nelle scatole Lego”, afferma Tim Brooks, vice presidente dell’azienda per la sicurezza ambientale.

Tim Brooks

Lego non si è pronunciata sull’estensione del biopolietilene anche agli altri elementi iconici e ai mattoncini. Trovare il materiale giusto per tutti presenta una particolare sfida. Nel 2012, Styrolution, uno dei fornitore di ABS alla Lego, ha dichiarato a C&EN che la materia prima deve avere determinate specifiche in modo che i blocchi si incastrino senza uno sforzo eccessivo che potrebbe danneggiarli. Il polietilene, che non è resistente come l’ABS, potrebbe non possedere questa caratteristica sostiene Styrolution.

Nel 2014, Lego ha utilizzato 77.000 tonnellate di materie prime per realizzare oltre 60 miliardi di pezzi. Braskem ha la capacità di produrre 180.000 tonnellate all’anno di “bio”polietilene nello stabilimento di Rio Grande do Sul, in Brasile.

Lego, nell’annunciare l’iniziativa del polietilene “organico”, si è comunque impegnata a investire 150 milioni di dollari e assumere più di 100 dipendenti per la ricerca e lo sviluppo di materie prime sostenibili per sostituire i polimeri a base di derivati del petrolio entro il 2030.

Lego ha collaborato con il World Wildlife Fund e con Bioplastic Feedstock Alliance al progetto. “La decisione del Gruppo Lego di proseguire la ricerca di materie plastiche da materie prime sostenibili rappresenta un’incredibile opportunità per ridurre la dipendenza da risorse limitate”, ha affermato Alix Grabowski, senior program officer del WWF.

(Fin qui il testo è Tradotto e adattato da c&en news, march 6, 2018.)

Ma non è tutto oro quello che luccica, già nel 2013 uno studio di Valutazione del Ciclo di Vita (LCA = Life Cycle Assessment) del biopolietilene fu commissionato dalla Braskem alle E4tech e LCAworks [1]. Queste valutazioni hanno lo scopo di esaminare la somma delle emissioni e l’impatto ambientale totale dalla materia prima (in questo caso la canna da zucchero) alla fine del prodotto dopo l’uso (riciclaggio, compostaggio, discarica). Sia questo studio, sia le successive indagini condotte da gruppi di ricerca in scienze ambientali europei [1] e americani [2] evidenziarono alcune criticità, quali ad esempio la deforestazione per dare spazio a colture intensive di canna da zucchero, l’uso di fertilizzanti e pesticidi nelle colture stesse, l’impiego di energia da combustibili fossili per la trasformazione dello zucchero in alcol etilico e poi in etilene e nel polimero, ecc. Tutto ciò avrebbe ridotto di molto il vantaggio di una minor emissione di CO2 nell’atmosfera.

I suggerimenti per limitare questi svantaggi sono ridurre il più possibile le sorgenti delle criticità e valutare il modo migliore di smaltimento, fra riciclaggio e compostaggio.

Nota. A costo di sembrare ovvio, a beneficio dei non chimici che ci leggono desidero ricordare che il polietilene si ottiene dall’etilene (entrambi prodotti chimici) attraverso un processo chimico che chiamiamo polimerizzazione. Il fatto che l’etilene si ottenga da derivati del petrolio o dalla canna da zucchero e che il prodotto lo si chiami polietilene o biopolietilene non cambia nulla nella sua struttura chimica a parità di numero di etileni nel prodotto stesso. Quello che cambia è l’impatto ambientale che potrebbe essere minore nel caso di etilene ottenuto dalla canna da zucchero (attraverso procedimenti chimici).

Bibliografia

[1] [1] http://www.braskem.com.br/Portal/Principal/Arquivos/ModuloHTML/Documentos/1204/20131206-enviro-assessment-summary-report-final.pdf

[2] I. Tsiropolous et al. Life cycle impact assessment of bio-based plastics from sugarcane Ethanol., Journal of Cleaner Production, 2015, 90, 114-127.

[3] T.A.Hottle, M. M.Bilec, A. E.Landis, Biopolymer production and end of life comparisons using life cycle assessment., Resources, Conservation and Recycling, 2017, 122, 305-326.

Acque amare

Mauro Icardi

Nella mia formazione personale il tema della tutela delle risorse idriche e dell’inquinamento idrico è presente direi da quando ho iniziato il percorso scolastico, cioè dalla scuola elementare. Oltre ad aver seguito lezioni scolastiche, ero interessato e mi preoccupavo di questo tema.

Gli anni 70 come sappiamo sono stati quelli in cui per la prima volta il tema dell’inquinamento ( non solo quello idrico) arrivò anche all’opinione pubblica. Finendo poi per diventare un mantra al quale forse troppi si sono abituati. A distanza di decenni la situazione della risorsa idrica mostra sia segnali incoraggianti, che situazioni molto preoccupanti che dovrebbero essere valutate con attenzione. E a cui si dovrebbero destinare finanziamenti e risorse.

In Italia per molti anni, leggendo libri sia di divulgazione, che testi scolastici o universitari si citavano molto spesso i fiumi Lambro, Seveso, Olona come i casi più eclatanti di inquinamento. Ma anche il caso del fiume Po. La promulgazione della legge Merli diede l’avvio alla costruzione dei depuratori, ai controlli sugli scarichi. Fu un importante primo passo. Che di solito è sempre il più faticoso.

Ma se a distanza di decenni osserviamo la situazione a livello mondiale, possiamo constatare che c’è ancora molto lavoro da fare.

Molti fiumi in tutto il mondo sono sottoposti a grave stress per diverse ragioni. Inquinamento, pesca, dighe e canali artificiali sono le principali cause dello sconvolgimento di interi ecosistemi che si sono sviluppati nel tempo lungo i corsi d’acqua.  Alcuni fiumi sono ancora oggi l’esempio di quello che per noi furono i fiumi Italiani. Ed è abbastanza sconfortante, anzi piuttosto triste vedere che ci sono alcuni fiumi in condizioni davvero molto precarie.

Il Rio Bravo o Rio Grande è il più importante confine naturale tra gli Stati Uniti e il Messico: a causa della costruzione di dighe e canali di irrigazione per deviare le acque verso i campi coltivati e le città, gravi siccità hanno colpito l’area. Il volume del grande fiume diminuisce giorno per giorno, e le sue acque sono inquinate dagli scarichi di varie industrie.

Il Danubio soffre di un eccesso di nutrienti, soprattutto da fertilizzanti. A questo problema si aggiunge un cattivo trattamento delle acque reflue, che aumenta l’inquinamento.

Un bambino nuota nel Gange, fiume sacro per gli indiani

 Il fiume Gange è poi l’esempio di una forte contraddizione. Situato nel nord dell’India, questo fiume, considerato sacro per milioni di indiani che vi si recano in pellegrinaggio, è diventato una discarica di resti umani, industriali e corpi animali. Circa un miliardo di litri di liquami non trattati vengono scaricati ogni giorno nel fiume. La rapida crescita della popolazione dell’India, insieme a normative permissive del settore, ha portato enormi pressioni sul corso d’acqua più importante del Paese. Migliaia di corpi umani e animali vengono cremati sulle sue rive o gettati nella corrente, nella speranza che le loro anime possano accedere al Paradiso.

Per chiudere questo triste elenco (per altro del tutto parziale) possiamo ancora citare il fiume Yangtze.

 Rifiuti, pesticidi e fertilizzanti hanno quasi annientato il fiume più lungo del continente asiatico. Dalla sua origine nell’altopiano del Tibet, lo Yangtze si estende per quasi 6.400 chilometri, sfociando nel mare dal porto di Shanghai. La sua devastazione è stata causata dallo sviluppo di infrastrutture, di centrali idroelettriche, inondazioni, deforestazione, inquinamento, sedimentazione, distruzione delle zone umide e interruzione dei flussi idrici.

Tutto questo lascia perplessi. Si sono ripetuti negli anni errori già fatti. Eccessiva costruzione di dighe che hanno finito per modificare l’equilibrio idrogeologico. La considerazione totalmente sbagliata, ma che si sarebbe già dovuta superare che esistesse un potere autodepurativo o di diluizione degli scarichi praticamente infinito. Ma se tutto questo poteva essere comprensibile a metà ottocento, quando il fenomeno chiamato la “grande puzza di Londra” diede il primo segnale di allarme dell’effetto disastroso dei reflui non trattati nelle acque di un fiume, questa situazioni oggigiorno lasciano sbigottiti.

Il fiume Yangze presso Shangai

 E ovvio che si debbano adottare tutte le misure del caso. E che questo lavoro debba coinvolgere più soggetti in un grande lavoro. Ma rimane come sospeso il problema fondamentale. Che a mio parere non credo sia esagerato definire antropologico, ancor prima che sociale. La presa di coscienza che occorre che siano cambiati diversi atteggiamenti. Che insistere nel considerare i fiumi i collettori di scarico non solo dei nostri rifiuti metabolici , o dei nostri residui industriali, ma anche della nostra incapacità di immaginare e costruire un nuovo modo di pensare a come utilizziamo le risorse del pianeta, in special modo quelle non rinnovabili. Qualcuno potrebbe obbiettare che in teoria l’acqua non è una risorsa non rinnovabile, ed avrebbe ragione. L’acqua ha un ciclo. Ma questo ciclo è ormai disequilibrato. Esistono innumerevoli tecniche di trattamento delle acque. Alcune sono tecniche mature, altre emergenti. Ma è un errore concettuale grave quello di affidare le nostre speranze, in maniera acritica alla sola tecnologia. E quindi le riserve di acqua di buona qualità vanno tutelate. E vanno differenziati gli usi dell’acqua. Occorre un cambiamento di mentalità, ed occorre iniziare il prima possibile a metterlo in pratica. La chimica ha davanti a se la necessità di modificare i propri cicli di produzione, attivandosi per trovare il modo di non produrre molecole biorefrattarie. Lo sta già facendo attraversando un suo cambiamento intrinseco. Ma non può essere vista come la sola responsabile. E’ importante un grande mutamento che per prima cosa ci faccia riscoprire il valore della consapevolezza. Tutto dovrebbe partire da questo. Dal ritornare a guardare la realtà delle cose.

Scienziate che avrebbero potuto vincere il Premio Nobel: Katharine Blodgett (1898-1979)

Rinaldo Cervellati

Anche questo nome figura fra le donne che la sessione “Ladies in Waiting for Nobel Prizes” nel meeting dell’American Chemical Society (agosto 2017) ha inserito fra le scienziate che avrebbero meritato il Premio Nobel. Chi era Katharine Blodgett e quali contributi ha fornito per l’avanzamento della scienza? Ne parliamo in questo post.

Katharine Burr Blodgett nasce a Schenectady il 10 gennaio 1898 (stato di New York), seconda figlia di Katharine Burr e George Blodgett. Suo padre, un avvocato specializzato in brevetti per la General Electric, fu tragicamente ucciso da un ladro penetrato nella loro casa poche settimane prima della nascita di Katharine. Lasciò la sua famiglia in buone condizioni economiche, consentendole di trasferirsi a New York poco dopo la nascita della figlia, e poi in Francia nel 1901.

Undici anni dopo, nel 1912, la famiglia Burr Blodgett tornò a New York dove Katharine fu iscritta alla Rayson School. In questa scuola ricevette un’istruzione equivalente a quella dei maschi della sua età mostrando subito un interesse per la matematica. La giovane finì precocemente il liceo all’età di 15 anni, ottenendo una borsa di studio per il Bryn Mawr College.

Katharine Burr Blodgett

Al college studiò matematica e fisica, eccellendo in entrambe e cominciò a pensare cosa avrebbe desiderato fare dopo il diploma. Era interessata alla ricerca scientifica e nella pausa invernale dell’ultimo anno di college gli ex-colleghi di suo padre le presentarono il Dr. Irving Langmuir[1] ricercatore chimico al General Electric Research Laboratory at Schenectady [2]. Langmuir le fece visitare la struttura rendendosi subito conto delle attitudini e del potenziale della ragazza, poi definita da lui sperimentatore di talento con una rara combinazione di abilità teoriche e pratiche. Le consigliò quindi di proseguire gli studi e poi presentare domanda di impiego alla General Electric. Blodgett seguì il consiglio ottenendo dapprima il B.A. al Bryn Mawr e poi il M.Sc. in fisica all’Università di Chicago nel 1918 discutendo una ricerca sulle capacità di adsorbimento del carbone per maschere antigas. Nel 1920 fu assunta come assistente ricercatrice di Langmuir, prima donna ricercatrice nei laboratori della General Electric. Inizialmente Blodgett collaborò alle ricerche di Langmuir sull’adsorbimento e evaporazione dei gas sui filamenti di tugnsteno usati nelle lampadine. Langmuir si stava occupando anche di chimica delle superfici liquido – liquido, in particolare era riuscito a ottenere strati sottilissimi di olio su superfici acquose e Blodgett si concentrò attivamente in questo campo dove diede successivamente suoi contributi originali.

Nel contempo le fu offerta una partecipazione nel programma di dottorato in fisica dell’Università di Cambridge, ottenne il dottorato nel 1926, prima donna a ricevere un Ph.D. in fisica da quella Università. Fra il 1920 e i primi anni ‘30 pubblicarono insieme importanti lavori, uno dei quali sulla forma a molla del tungsteno per mantenere sempre tesi i filamenti [1-4].

Svilupparono una tecnica che permetteva di ricoprire superfici acquose, metalliche o vetrose con strati monomolecolari di lipidi, proteine o polimeri e di verificarne lo spessore [5].

Nel 1932 Lagmuir aveva ottenuto il Premio Nobel per la Chimica per le sue ricerche sperimentali e teoriche sulla chimica delle superfici.

Blodgett continuò, estendendolo, il lavoro sulla deposizione di successivi strati monomolecolari di varie sostanze su superfici di materiali diversi. Nella nota a piede della prima pagina del suo fondamentale articolo del 1935 [6], Blodgett scrive:

Gli esperimenti descritti in questo articolo sono stati avviati in collaborazione con il Dr. Irving Langmuir e sono proseguiti mentre lui era all’estero. L’autrice è in debito con il dottor Langmuir per averla spinta a sviluppare ulteriormente il metodo descritto nell’articolo precedente*, e per aver contribuire con molti importanti suggerimenti che sono inclusi in questo lavoro[6].

*Con articolo precedente Blodgett si riferisce a una nota preliminare da lei inviata alla stessa rivista e pubblicata l’anno precedente [7].

Nell’articolo viene descritto lo strumento e la tecnica per sovrapporre rivestimenti monomolecolari uno alla volta su vetro o metallo. Immergendo ripetutamente una piastra metallica in acqua ricoperta da uno strato di sostanza grassa (molecole a terminazione idrofila e coda idrofoba), Blodgett riuscì a impilare centinaia di strati di sostanza sulla piastra con precisione molecolare. L’apparecchio usato e perfezionato da Blodgett è oggi conosciuto come trogolo di Langmuir-Blodgett (trough).

Schema e apparecchio di Langmuir-Blodgett

Blodgett individuò i possibili usi pratici di questa tecnica: utilizzando lo stearato di bario ricoprì una lastra di vetro su entrambi i lati con strati monomolecolari di questa sostanza fino a che la luce riflessa dagli strati annullasse quella riflessa dal vetro, rendendolo più trasmettente del 90% rispetto a prima. Aveva realizzato un vetro “invisibile” [8]. Il vetro non riflettente fu usato per la prima volta in cinematografia negli obiettivi delle cineprese per il famoso film Via Col Vento (1939), la nitidezza dei colori fece molta presa sul pubblico e sugli addetti ai lavori, sicchè l’industria presto cominciò a fare largo uso del vetro di Blodgett.

Durante la 2a Guerra mondiale il vetro antiriflesso fu impiegato anche nei periscopi dei sommergibili e per le telecamere degli aerei da ricognizione. Blodgett contribuì inoltre allo sforzo bellico riprendendo la sua vecchia tesi di master, rese più efficaci i filtri delle maschere antigas e inventò un dispositivo per eliminare il ghiaccio dalle ali degli aerei permettendo ai piloti volare su zone prima considerate troppo pericolose.

Blodgett inventò anche l’indicatore di colore, uno strumento per misurare lo spessore dei rivestimenti molecolari depositati sul vetro. Questo “calibro” si basa sul fatto che spessori diversi dei rivestimenti imprimono al vetro colori diversi. Mentre esaminava la stratificazione dell’acido stearico su una lastra di vetro, si rese conto che l’aggiunta di ogni strato, spesso circa 2 / 10.000.000 di pollice (circa 2 nm), cambiava in modo percettibile il colore della lastra. Prima della sua invenzione, i migliori strumenti di misurazione erano accurati fino a pochi millesimi di centimetro. Il suo “calibro di colore” mostra quindi un’alta precisione nell’individuare la progressione dei colori e il loro corrispondente spessore.

Katharine Blodgett al lavoro

Come afferma Jacobs [8], si può dire che le migliori scoperte e invenzioni di Blodgett sono state “invisibili”, ma l’influenza che hanno avuto sulla società è visibile e chiara. Oggi il vetro non riflettente, basato sulla scoperta di Blodgett, viene utilizzato per schermi di computer, occhiali, parabrezza e quasi altro oggetto che richiede una superficie perfettamente trasparente. Gli scienziati stanno ancora studiando i film di Blodgett per cercare di individuare nuovi usi per questa tecnologia nei microchip e nei sensori.

Per i suoi lavori ottenne prestigiosi riconoscimenti, fa i quali l’Achievement Award dall’American Association of University Women (1945) e la prestigiosa Medaglia Francis Garvan dall’American Chemical Society (1951) per il suo lavoro sui film monomolecolari.

Nella sua lunga carriera in General Electric, Katharine Blodgett ha ottenuto otto brevetti USA dal 1940 al 1953, due soli dei quali in collaborazione e ha pubblicato 30 articoli su riviste scientifiche, raggiungendo anche in certa misura la popolarità apparendo in servizi sui noti periodici Life e Time. Ciononostante è riuscita a mantenere riservata la sua vita privata parlando solo delle sua vita professionale e del suo successo come donna.

Dopo il suo ritiro dalla General Electric nel 1963, Blodgett ha vissuto la sua pensione in una Casa di Riposo per donne single. Muore il 12 ottobre 1979 all’età di 81 anni.

Nota. Nel meeting citato all’inizio del post, una delle partecipanti ha suggerito che il Nobel per la chimica 1932 avrebbe potuto essere condiviso da Langmuir e Blodgett. Tuttavia a quel tempo Blodgett non aveva ancora sviluppato i suoi importanti contributi originali, come la ricopertura multistrato, la tecnica di misura degli spessori monomolecolari e relative applicazioni. La mia personale opinione è che avrebbe potuto ottenere il Nobel dopo il 1940.

Chi fosse interessato a ulteriori informazioni biografiche, può trovarle in:

  1. Venezia, Katharine Burr Blodgett: An Innovative, Accomplished Schenectady Native,

http://thefreegeorge.com/thefreegeorge/schenectady-katharine-burr-blodgett/

o in: http://physicstoday.scitation.org/doi/10.1063/1.2913969

Irving Langmuir and Katharine Burr Blodgett

https://www.sciencehistory.org/historical-profile/irving-langmuir-and-katharine-burr-blodgett

oltre che nella citazione bibliografica [8]

Bibliografia

[1] I. Langmuir, K.B. Blodgett, Current Limited by Space Charge between Coaxial Cylinders., Phys. Rev., 1923, 22, 347-356.

[2] I. Langmuir, K.B. Blodgett, Current Limited by Space Charge between Concentric Spheres., Phys. Rev., 1924, 24, 49-59.

[3] I. Langmuir, S. MacLane, K.B. Blodgett, The Effect of end Losses on the Characteristics of Filaments of Tungsten and other Materials, Phys. Rev., 1930, 35, 478-503.

[4] K.B. Blodgett, I. Langmuir, The Design of Tungsten Springs to the Hold Tungsten Filaments Taut., Rev. Sci. Instr., 1934, 5, 321-332.

[5] K.B. Blodgett, I. Langmuir, Accomodation Coefficient of Hydrogen; A Sensitive Detector of Surface Films., Phys. Rev., 1932, 40, 78-104.

[6] K.B. Blodgett, Films Built by Depositing Successive Monomolecular Layers on a Solid Surface., J. Am. Chem. Soc., 1935, 57, 1007-1022.

[7] K.B. Blodgett, Monomolecular Films of Fatty Acids on Glass, J. Am. Chem. Soc., 1934, 56, 495

[8] R. Jacobs, The Invisible Woman, Chemical Heritage Magazine, 2014, 32, 7.

https://www.sciencehistory.org/distillations/magazine/the-invisible-woman

[1] Irving Langmuir (1881-1957) chimico fisico americano ha effettuato ricerche importanti in diversi campi, dai filamenti per lampadine alla teoria del legame chimico, dalla chimica delle superfici alla fisica del plasma. Premio Nobel per la Chimica 1932 con la seguente motivazione: “per le sue scoperte ed i suoi studi sulla chimica delle superfici”.

[2] Scienziati come W.R.Whitney, W.D. Coolidge e Hull avevano contribuito a rendere il General Electric Research Laboratory al tempo stesso uno dei più quotati centri per la ricerca di base e più fecondi nella scienza applicata.