Domani, 29 settembre, mi son svegliato e…

Luigi Campanella già Presidente SCI

Il 29 settembre è diventata una data nota a molti in quanto ad essa è stata dedicata una popolare canzone degli anni 60.

A me piacciono le canzoni,  ma da buon ricercatore, quale spero di essere, non posso non ricordare che quella data è importante per tutto il mondo per ben altro motivo, è la data di nascita di Enrico Fermi, il ragazzo di via Panisperna e Nobel per la Fisica, nato a Roma nel1901, come si diceva, il 29 settembre. A lui di deve l’idea di utilizzare neutroni lenti per bombardare gli atomi dei diversi elementi. Giunto all’elemento più pesante, l’uranio, pensò di aver ottenuto elementi transuranici. In effetti successivamente ammise che gli esperimenti eseguiti da Hahn e Strassmann facevano pensare piuttosto alla disintegrazione dell’uranio. Non sono un fisico, ma mi sento di affermare che Fermi rappresenti l’icona dello scienziato, con mille interessi, curioso e razionale al tempo stesso, intuitivo e deduttivo. Si affermò rapidamente tanto da divenire cattedratico all’età di soli 25 anni, radunando attorno a sè nell’edificio di via Panisperna studiosi come Amaldi, Setti,Segre.

Nel 1938 gli fu assegnato il Nobel e da Stoccolma dove lo ricevette si trasferì negli USA, senza tornare in Italia, per evitare che le famigerate mai sufficientemente vitupefate leggi razziali fossero scontate da sua moglie ebrea. In effetti già prima di ricevere il NOBEL e di trasferirsi negli USA era stato affascinato dalle esperienze condotte sull’atomo da Hahn e Strassman per scinderlo, tanto che nella sua Nobel Lecture aggiunse, rispetto all’originaria versione, la seguente nota: la scoperta di Hahn e Strassmann (di cui abbiamo parlato in un recente post) rende necessario riesaminare tutta la questione degli elementi transuranici poiché molti di essi potrebbero essere dovuti alla disintegrazione dell’atomo. In ogni caso a riconoscimento e dimostrazione del successivo importante lavoro di Fermi e collaboratori negli USA tre anni dopo era pronta la prima pila atomica, che frantumando un atomo di uranio produceva energia, in effetti neutroni, che colpivano altri atomi in un processo controllato  a cascata. Questo successo nasceva però dal riconoscimento da parte di Fermi della misinterpretazione dei suoi esperimenti e dall’accettazione di quella data con l’apparecchiatura di Hahn e Strassmann. Oggi la Storia della Fisica riconosce questi diversi ruoli, anche sulla base delle attente  analisi condotte sui quaderni  di laboratorio del team di via Panisperna. Dopo questo successo, affascinato da Einstein e adulato da Roosevelt, prese la direzione scientifica dei laboratori di Los Alamos dove fu preparata la bomba che esplose nel vicino deserto-era il 16 luglio del 1945- paragonata dallo stesso Fermi per i suoi effetti a diecimila tonnellate di tritolo. Quello che avvenne dopo – un nuovo test sganciandola su  “una base militare” circondata da abitazioni (NdB cioè Hiroshima, il presidente Truman la definì così nel discorso del 9 agosto 1945)- non vide d’accordo nè Fermi nè Oppenheimer, il direttore tecnico di Los Alamos. La domanda che ancora oggi si sente formulare in relazione alle responsabilità ed alle terribili devastanti  conseguenze di quel lancio è: Fermi può essere considerato il padre della bomba atomica? La storia della scienza ci insegna che le scoperte non sono mai  merito di un solo ricercatore; ciascuno è sempre l’erede di precedenti studi  e  significative  collaborazioni. Credo sia  anche il caso di Fermi i cui studi partirono e comunque si appoggiarono a quelli di Born, Einstein, Heisenberg, Rutherford.

Quello che ancora oggi gli viene imputato è di avere diretto l’esperimento su Hiroshima e soprattutto di non avere mai sconfessato la sua creatura giustificandola come necessaria per la rapida fine della guerra ed il conseguente risparmio di altre vite umane. Sappiamo che neanche questo accadde perchè ci volle un’altra bomba su Nagasaki affinchè ciò avvenisse. Fermi credette  anche nell’energia nucleare come strumento in medicina contro i tumori in particolare. Le valutazioni di un ricercatore dinnanzi alle ricerche  che svolge possono scaricarne le responsabilità? E’ questa una domanda continuamente riproposta-al centro dell’Etica della Scienza-ma  ancora con risposte ambigue e discordanti.

altri post sul tema:

https://ilblogdellasci.wordpress.com/2018/06/07/la-storia-della-scoperta-della-fissione-nucleare-i-chimici-risolvono-un-problema-fisico-prima-parte/

https://ilblogdellasci.wordpress.com/2017/11/20/scienziate-che-avrebbero-dovuto-vincere-il-premio-nobel-lise-meitner-1878-1968/

https://ilblogdellasci.wordpress.com/2017/11/06/scienziate-che-avrebbero-dovuto-vincere-il-premio-nobel-ida-noddack-1896-1978/

https://ilblogdellasci.wordpress.com/2015/08/04/era-bario-davvero/

https://ilblogdellasci.wordpress.com/2015/10/29/quanta-chimica-ce-nelle-bombe-atomiche-3/

 

Si fa presto a dire ricicliamo…… 1. Premessa.

Claudio Della Volpe.

Riciclare è l’imperativo categorico diventato addirittura una direttiva europea (DIRETTIVA (UE) 2018/851 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 30 maggio 2018 che modifica la direttiva 2008/98/CE relativa ai rifiuti). Ma riciclare è di fatto una attività che l’industria porta avanti da più di cento anni in qualche settore, si pensi all’industria siderurgica che ricicla il ferro: una parte significativa della produzione siderurgica si fa nei forni elettrici e il tondino del calcestruzzo è ferro riciclato, usato per fare le nostre case e i nostri manufatti stradali.

Dunque ricicliamo già, e anche parecchio, ma non basta. Abbiamo già fatto notare questa contraddizione in una serie di articoli pubblicati 6 anni fa da Giorgio Nebbia (https://ilblogdellasci.wordpress.com/2016/01/11/noterelle-di-economia-circolare/ e nei successivi di analogo titolo).

Riciclare è una necessità sempre maggiore; lo facciamo già e non in piccola quota ma dovremo farne di più e soprattutto diversamente; ma cosa distingue allora il riciclo che dovremo sviluppare da quello che già facciamo? quanto ne facciamo e quanto dovremo farne? Cosa distingue il semplice riciclo che già si fa dall’economia circolare?

Non sono domande facili. In questo post e nei successivi analizzeremo la situazione in qualche dettaglio e soprattutto cercheremo di mettere dei numeri in questo discorso.

Due o tre osservazioni basilari da fare.

La prima è che il riciclo o ricircolo è una caratteristica base dei reattori chimici che si insegna in tutti i corsi di principi di ingegneria chimica: in un impianto chimico tradizionale un riciclo è rappresentato da un “ciclo chiuso” di correnti materiali, che può passare attraverso una o più apparecchiature chimiche.

Il rapporto di riciclo è dato dal rapporto tra la portata della corrente riciclata e la portata della corrente principale prima del punto di reimmissione del riciclo. Lo scopo del riciclo è quello di aumentare la resa complessiva del processo e riciclare in un reattore è una necessità produttiva indiscutibile. Se la trasformazione è parziale il riciclo fa aumentare la resa. Dunque la chimica ha il riciclo nel proprio DNA.

Non solo, ma in qualunque azienda moderna si riciclano, almeno pro quota, gli sfridi di lavorazione; pensate all’alluminio; gli sfridi dei lingotti ottenuti vengono rimessi nei forni subito; insomma molte aziende di fatto costituiscono già dei sistemi di riciclo molto efficienti al proprio interno. In questo caso il riciclo corrisponde al risparmio. La questione nasce quando esternalizzando i problemi, diventa più economico per l’azienda lasciare all’”esterno” di occuparsi del riciclo: al mare, all’aria o alla terra. E questo non è un problema tecnico, ma di forma della proprietà; se il bene inquinato è “comune”, non privato perché l’azienda privata dovrebbe riciclare? Non altera i suoi conti, altera solo quelli “comuni”. E dunque non è interessata a meno che una legge e una serie di severi controlli non la obblighino. E’ la cosiddetta “tragedy of commons” analizzata dal famoso articolo di Garret Hardin.La seconda osservazione è che riciclare di solito si fa parzialmente, mentre l’economia circolare è un cosa diversa, è chiusa corrisponde ad un riciclo del 100%; di solito si prendono come esempio dell’economia circolare i cicli naturali degli elementi, C, N, P, S etc; e si dice in natura non ci sono discariche.

Già, ma i cicli naturali sono molto lunghi, in genere durano milioni di anni e da qualche parte occorre stoccare le cose; anche la Natura deve farlo; pensiamo al petrolio e in genere ai combustibili fossili, frutto della degradazione degli organismi a partire dal Carbonifero; noi stiamo estraendo questi intermedi di riciclo del carbonio in gran parte nascosti sotto il suolo e li stiamo rimettendo in circolo anzitempo accelerandone la trasformazione in CO2. In un certo senso stiamo solo accelerandone il riciclo. Già, ma il risultato è stato il riscaldamento globale.

E’ un tema del famoso libro: Tempi storici e tempi biologici del compianto Enzo Tiezzi. (Enzo come ci manchi.)

Aggiungiamo che anche i perfetti cicli naturali possono essere alterati; ricordiamo che l’ossigeno che respiriamo e che oggi costituisce la base della vita come la intendiamo, solo un paio di miliardi di anni fa era il prodotto di discarica della reazione di fotosintesi che, accumulandosi in atmosfera come oggi i gas serra, ne cambiò irreversibilmente la composizione. Questo costrinse gli allora dominatori del pianeta, i batteri anaerobi, a rifugiarsi nel sottosuolo, nel fondo del mare, negli intestini degli animali.

Volete un altro esempio? Beh parliamo ancora di ciclo dell’azoto e del fosforo, ma in realtà questi due cicli sono stati completamente alterati dalla nostra azione in quanto oggi produciamo noi uomini la gran parte del fosfato che va in mare e dell’azoto assorbito dall’atmosfera, ma non abbiamo inserito alcun controllo dalla parte del recupero, mandando in tilt il ciclo naturale originario. Dunque cicli naturali sono perfetti ma lunghi e delicati.

Facciamo qualche conto per far capire un’altra differenza fra riciclo naturale e artificiale. Poniamo di avere un materiale che abbia un ciclo di vita di 10 anni, chessò l’oro dei contatti elettronici e supponiamo di riciclarlo al 95%.

Cosa succede dopo 100 anni? Avremo fatto 10 ricicli e quanto dell’oro originale ci sarà rimasto? 0.9510=0.60; avremo comunque perso negli sfridi il 40% e avremo dovuto estrarre altro materiale vergine, in grande quantità. Detto fra di noi nessun materiale è riciclato dalla nostra tecnologia attuale a questo livello, ossia con meno del 5% di spreco. Tutti gli altri stanno peggio.

Ecco, fatte queste riflessioni siamo pronti a partire per una analisi più dettagliata della situazione.

(continua)

Fatberg: oli e grassi nei depuratori.

Mauro Icardi

Oli e grassi si riscontrano negli scarichi civili e in quelli provenienti dalle industrie alimentari. Questo nonostante molte realtà industriali del settore alimentare abbiano propri impianti di trattamento con sezioni di rimozione dei grassi residui. Le concentrazioni e le proporzioni di questo tipo di inquinanti sono variabili ma la loro rimozione è una fase fondamentale. Gli impianti di depurazione normalmente hanno una sezione di disoleatura di per sé sufficiente ad evitare questo tipo di inconvenienti. Ma si possono verificare accumuli nella stessa sezione, e in qualche caso anche nelle condutture di adduzione, provocandone in qualche caso il restringimento e la parziale occlusione.

Un anno fa la notizia del rinvenimento di una palla di grasso nelle fognature di Londra ebbe un forte risalto, sui giornali e nel web.

https://www.corriere.it/esteri/13_agosto_06/grasso-fogne-londra_ae729aea-fe80-11e2-9e44-1a79176af940.shtml

Questo è stato un caso eclatante, ma l’accumulo di grassi nelle condotte fognarie provoca ovviamente lo sviluppo di cattivi odori dovuti ad irrancidimento e parziale idrolisi. Con tutte le spiacevoli conseguenze del caso. Per i cittadini e per gli operatori.

Per altro questa reazione può trovare condizioni adatte al suo svilupparsi principalmente per la temperatura, considerando che essa si mantiene sempre intorno a valori superiori a 10°C (normalmente 12° C nella stagione invernale, e circa 20°C in quella estiva) nei reflui di fognatura e da tracce di metalli che sono anch’essi presenti nelle medesime acque.

In caso di trascinamento nella sezione di ossidazione le sostanze grasse ed oleose formano una pellicola che rende impermeabile ed ostacola l’assorbimento di sostanze nutritive ed ossigeno da parte della biomassa, ed allo stesso modo danneggiano i corpi idrici ricettori.

Nel comparto di sedimentazione finale tendono a far flottare il fango biologico, peggiorando sensibilmente la qualità delle acque scaricate. Nei casi più gravi non permettono di raggiungere i limiti previsti per legge per diversi parametri, quali BOD5,COD, odore, solidi e naturalmente quello degli oli e grassi.

In passato si sono utilizzate soluzioni diverse, dalla cattura meccanica superficiale, sfruttando la naturale tendenza al galleggiamento ed alla flottazione, o effettuando lavaggi con soda e tensioattivi. Tutte queste soluzioni sono spesso risultate parziali e costose, e con un impegno importante di manodopera, che in qualche caso si è anche dovuta addestrare all’utilizzo corretto ed in sicurezza di questi prodotti chimici.

Una soluzione praticabile più facilmente è quella dell’utilizzo di prodotti batterico enzimatici che possono iniziare il loro ciclo riproduttivo, sia in campo aerobico che anaerobico, appena le condizioni di umidità , temperatura, pH. ecc. siano idonee. La componente biologica di questi prodotti comprende microrganismi selezionati non patogeni. L’ immissione di prodotti di questo tipo in un sistema inquinato, sia solido che liquido, avvia immediatamente il ciclo metabolico e riproduttivo dei microrganismi in essi contenuti innescando una serie di reazioni. In generale si ha un aumento della riproduzione biologica e della secrezione enzimatica, sia in aerobiosi che in anaerobiosi, a spese della componente organica inquinante. L’ingegnerizzazione industriale di questi microorganismi li rende efficienti anche nei confronti di composti difficilmente biodegradabili come oli e grassi, tensioattivi, fenoli, che la normale biomassa che si sviluppa nei fanghi di ossidazione biologica degrada molto più lentamente, e dopo periodi di acclimatamento generalmente molto più lunghi.

L’aggiunta di questo tipo di prodotti generalmente riduce i tempi di mineralizzazione della componente organica inquinante riducendo i quantitativi di ossigeno ed energia da fornire.

I prodotti usati per ridurre gli inconvenienti provocati dall’accumulo di oli e grassi sono in grado, a differenza dei microrganismi spontanei, di secernere l’enzima lipasi che è responsabile della scissione dei lipidi in glicerina ed acidi grassi, composti facilmente biodegradabili. Dal punto di vista dell’applicazione pratica, prodotti di questo genere quando siano forniti allo stato liquido si possono dosare piuttosto facilmente con una pompa dosatrice, nelle condotte a monte. Le acque reflue normalmente non necessitano di correzione del pH, in quanto questi prodotti hanno attività massima in un intervallo di pH tra 5 e 9. In questo modo si crea una sorta di pellicola protettiva sulla condotta, o nei punti come la sezione di disoleatura dove il materiale viene rimosso e destinato allo smaltimento. Ovviamente il costo di questi prodotti si può ammortizzare considerando che si riducono gli interventi di pulizia e spurgo, e di manutenzione straordinaria. In chiusura però la raccomandazione solita. Anche se è meno immediato rispetto ad esempio alla raccolta differenziata, cerchiamo di porre attenzione a ciò che scarichiamo dalle nostre abitazioni e dagli insediamenti industriali. Raccomandazione niente affatto banale. Per quanto riguarda la mia esperienza diretta posso dire che attualmente situazioni di questo tipo si sono notevolmente ridotte. Ma non è detto che una palla di grasso (che i londinesi hanno   battezzata “fatberg” cioè iceberg di grasso) possa comparire anche alle nostre latitudini.

Scienziate che avrebbero potuto aspirare al Premio Nobel: Erika Cremer (1900-1996)

Rinaldo Cervellati

Forse solo pochi chimici sanno che Erika Cremer è stata praticamente la prima a studiare le basi teoriche della gas cromatografia e a costruire e utilizzare con successo, insieme al suo studente di dottorato Fritz Prior, il primo gas cromatografo [1,2].

Nata a Monaco (Baviera) il 20 maggio 1900, da Max Cremer e Elsbeth Rosmund, unica femmina fra due figli maschi. Suo padre, Max Cremer, professore di fisiologia, è stato, fra l’altro, il pioniere ideatore dell’elettrodo a vetro[1], il fratello maggiore, Hubert divenne un matematico e il minore, Lothar un fisico specializzato in acustica. Anche il nonno e il bisnonno erano coinvolti in ricerche scientifiche.

In un tale ambiente Erika desiderò dedicarsi all’apprendimento delle scienze e alla ricerca, nonostante a quei tempi queste attività fossero ancora decisamente sconsigliate alle donne.

Trasferitasi la famiglia a Berlino, Erika trovò qualche difficoltà ad adattarsi al sistema scolastico prussiano, tuttavia riuscì a ottenere il diploma di scuola superiore nel 1921. Nello stesso anno si immatricolò all’Università di Berlino per studiare chimica. Seguì le lezioni di Fritz Haber (1868-1934), Walther Nersnt (1864-1941), Max Plank (1858-1947), Max von Laue (1868-1960) e Albert Einstein (1979-1953), tutti già Premi Nobel.

Cremer ottenne il dottorato in chimica fisica nel 1927 sotto la guida di Max Bodenstein[2], discutendo una tesi sulla cinetica della reazione fra idrogeno e cloro [3]. La tesi fu pubblicata con il solo suo nome perché la conclusione che la reazione seguisse un meccanismo a catena era ancora considerato un concetto estremamente originale per quel tempo[3]. A causa di questo articolo e più in generale per il suo lavoro in cinetica, Nikolay Semyonov[4] la invitò a lavorare a Leningrado. Cremer rifiutò e rimase in Germania per lavorare con Karl-Friedrich Bonhoeffer[5] all’Istituto Kaiser Wilhelm per la Chimica Fisica e l’Elettrochimica, diretto da Fritz Haber.

Erika Cremer in gioventù

Per un breve periodo Cremer usufruì di una borsa di studio all’università Di Friburgo dove compì ricerche sulla decomposizione degli alcoli catalizzata da ossidi metallici. Tornata a Berlino, Cremer lavorò nel dipartimento di Michael Polanyi[6] del Kaiser Wilhelm dove hanno approfondito lo studio della conversione dell’orto-idrogeno in para-idrogeno. Rimase in quel dipartimento fino al 1933 quando il partito nazista salì al potere in Germania e il dipartimento venne sciolto per la sua reputazione anti-nazista. Tutto lo staff fu allontanato e Cremer non fu in grado di continuare a fare ricerca o di trovare un lavoro per quattro anni [4].

Nel 1937 Cremer fu chiamata da Otto Hahn al Kaiser Wilhelm Institute for Chemistry per studiare i tipi di radiazioni emesse dai radioelementi concentrandosi in particolare sulla separazione isotopica. Nel 1938, Cremer ricevette l’abilitazione alla docenza universitaria dall’Università di Berlino. Normalmente questa qualifica l’avrebbe portata a una cattedra nella facoltà di chimica; tuttavia, il governo nazista dell’epoca aveva approvato una legge sulla posizione delle donne dipendenti pubblici. Questa legge vietava alle donne di ricoprire cariche elevate e richiedeva alle donne di dimettersi in caso di matrimonio. Molte donne scienziate e studiose furono lasciate senza lavoro o limitate nelle prospettive di carriera da questa legge, anche Cremer non divenne mai docente a Berlino [4].

Con l’inizio della seconda guerra mondiale molti scienziati e professori maschi furono chiamati o richiamati nell’esercito e Cremer nel 1940 ottenne un posto di docente all’Università di Innsbruck in Austria. Fu tuttavia informata che avrebbe dovuto lasciare il posto una volta finita la guerra e gli uomini tornati a casa.

E’ a Innsbruck che Cremer concepisce i principi della gascromatografia e realizza il primo strumento.

Erika Cremer in laboratorio

Mentre era impegnata in una ricerca sull’idrogenazione dell’acetilene stava incontrando notevoli difficoltà nel separare i due gas con calori di assorbimento simili usando le tecniche a disposizione a quel tempo. Basandosi sugli studi di cromatografia liquida di adsorbimento che venivano effettuati in quel momento all’università di Innsbruck, pensò che un gas di trasporto inerte avrebbe avuto lo stesso ruolo del solvente usato come fase mobile in cromatografia liquida. Nel 1944 sottopose un’illustrazione teorica di questa idea alla rivista Naturwissenschaften, sfortunatamente il reparto stampa della rivista fu distrutto da una incursione aerea proprio mentre era in stampa il fascicolo contenente il suo articolo, che fu pubblicato solo 30 anni più tardi [5] e quindi considerato come un reperto storico.

Nel dicembre 1944 tutte le strutture dell’Università di Innsbruck erano seriamente danneggiate dalla guerra e a Erika Cremer non fu permesso di utilizzare le poche attrezzature funzionanti. Il suo studente di dottorato e insegnante di chimica nelle scuole superiori, Fritz Prior (1921-1996) scelse l’idea di Cramer come argomento di tesi e continuò il lavoro con lei nel laboratorio della scuola dove lavorava. Anche dopo la parziale agibilità dell’istituto Cremer fu temporaneamente interdetta dal lavoro a causa della sua cittadinanza tedesca ma continuò a frequentare segretamente il laboratorio per continuare la ricerca. A Cremer fu concesso di tornare al suo lavoro alla fine del 1945. La ricerca fu completata e la tesi discussa nel 1947 dimostrando la messa a punto di un nuovo metodo strumentale di analisi qualitativa e quantitativa per gas e vapori [6]. Cremer iniziò a presentare il lavoro di Prior e suo nel 1947 a vari incontri scientifici [7]. Un altro studente, Roland Müller, sviluppò le possibilità analitiche del gascromatografo nel suo lavoro di tesi del 1950 [8].

Cremer fu nominata direttore del Physical Chemistry Institute di Innsbruck e professore ordinario nel 1951.

Schema del gascromatografo di Cremer e Prior [6,9]

Nello stesso anno, due articoli sul lavoro di Cremer furono pubblicati su Zeitschrift für Elektrochemie e uno su Mikrochemie [9-11], riviste scientifiche tedesche meno prestigiose di Naturwissenschaften. La comunità scientifica sembrò darvi poco peso o ignorarli del tutto.

Nel 1952, i britannici Anthony Trafford James (1922-2006) e Archer Porter Martin (1910-2002) pubblicarono articoli che rivendicavano l’invenzione della gascromatografia. Lo stesso fece il collaboratore di Martin, Richard Laurence Millington Synge (1914-1994). A Martin e Synge fu assegnato il premio Nobel per la Chimica 1952 per la cromatografia di ripartizione liqudo-liquido, associata al possibile uso di un gas inerte come fase mobile. Tutti costoro erano completamente all’oscuro dei primi lavori di Cremer. Secondo Bobbleter [2] , il mancato riconoscimento del lavoro di Cremer e dei suoi collaboratori può essere ricondotto a tre motivi. Innanzitutto, le loro pubblicazioni furono ritardate a causa della situazione geopolitica in Europa centrale, inoltre i risultati furono per lo più presentati ai convegni della società chimico fisica tedesca (la Bunsengesellschaft) scarsamente interessata a questo settore di indagine. Secondo, quando gli articoli di Cremer furono finalmente pubblicati, le varie parti d’Europa erano ancora divise in zone di occupazione; quindi, un risultato scientifico proveniente dall’Europa centrale poteva non essere immediatamente diffuso o riconosciuto in altre aree. Infine, non si deve dimenticare che gli articoli di Cremer furono pubblicati in tedesco e in riviste relativamente poco conosciute, in un periodo di tempo in cui la lingua scientifica era già largamente l’inglese. Va poi ricordato che nei primi anni del dopoguerra la comunicazione tra scienziati inglesi e tedeschi era scarsa.

Negli anni successivi, grazie anche all’applicazione nell’industria petrolifera per la separazione degli idrocarburi isomerici, la tecnica gascromatografica si diffuse ampiamente e il lavoro di Cremer ottenne lentamente il riconoscimento che meritava.

Erika Cremer in età matura

Cremer e i suoi collaboratori hanno continuato il lavoro sullo sviluppo teorico e l’implementazione strumentale della gascromatografia nei due decenni successivi. Si deve a loro il concetto di “tempo di ritenzione relativa” e il metodo di calcolare l’area del picchi moltiplicando la loro altezza per la larghezza a metà altezza, hanno inoltre dimostrato la relazione tra le misure e la temperatura della colonna.

Cromatogramma originale e calcolo area dei picchi

Nel 1958 le fu assegnata la Wilhelm Exner Medal, istituita dall’Associazione delle Industrie Austriache per una ricerca scientifica eccellente, e nel 1970 il Premio Erwin Schrödinger dell’Accademia Austriaca delle Scienze.

Cremer continuò la sua ricerca all’Università di Innsbruck fino al suo ritiro nel 1971. Rimase attiva nella ricerca in gascromatografia fino quasi alla fine della vita. Nel 1990 si svolse a Innsbruck un simposio internazionale in celebrazione del suo lavoro e del novantesimo compleanno [1].

È morta nel 1996 all’età di 96 anni.

Omaggio a Erika Cremer

Nel 2009, l’Università di Innsbruck ha istituito un premio a suo nome per donne scienziate altamente qualificate in attesa di concorrere al diploma di abilitazione all’insegnamento universitario.

Nota. Per chi fosse interessato, la bibliografia completa di Erika Cremer si può trovare in un in memoriam di Ortwin Bobleter: http://www.zobodat.at/pdf/BERI_84_0397-0406.pdf

In inglese vale la pena citare il ricordo comparso su Analytical Chemistry, 1990, 62, 1015A-1017A.

Bibiografia

[1] L.S Ettre, Professor Erika Cremer Ninety Years Old., Chromatographia, 1990, 29, 413-4.

[2] O. Bobleter, Exhibition of the First Gas Chromatographic Work of Erika Cremer and Fritz Prior., Chromatographia, 1996, 43, 444-446.

[3] E. Cremer, (1927). Uber die Reaktion zwischen Chlor, Wasserstoff und Sauerstoff im Licht, Thesis, University of Berlin, 1927 (in German)

[4] A.B. Vogt, Erika Cremer (1900-1996). In: J. Apotheker, L. S. Sarkadi (Eds.), European Women in Chemistry, Wiley-VCH Verlag & Co. Weinheim, Germany, 2011, pp. 135-137

[5] E. Cremer, On the Migration Speed of Zones in Chromatographic Analysis., Chromatographia, 1976, 9, 363-4 (in German); v. anche: E. Cremer, How We Started to Work in Gas Adsorption Chromatography., Chromatographia, 1976, 9, 364-366.

[6] F. Prior, Determination of Adsorption Heats of Gases and Vapors by the Application of the Chromatographic Method in the Gas Phase., Doctoral Thesis, University of Innsbruck, May 1947 (in German).

[7] v. ad es. E. Cremer, F. Prior, Meeting of the Verein Osterreichischer Chemiker, Linz, May 1949.

[8] R. Müller, Anwendung der chromatographischen Methode zur Trennung und Bestimmung kleinsten Gasmengen., Doctoral Thesis, University of Innsbruck, May 1950.

[9] E. Cremer, F. Prior, Application of the Chromatographic Method to the Separation of Gases and to the Determination of Adsorption Energies., Z. Elektrochem., 1951, 55, 66-70 (in German).

[10] E. Cremer, R. Müller, Separation and Determination of Substances by Means of Gas-Phase Chromatography., Z. Elektrochem., 1951 55, 217-220 (in German).

[11] E. Cremer, R. Müller, Trennung und quantitative Bestimmung kleiner Gasmengen durch Chromatographie. — Mikrochemie u. Microchim. Acta, 1951, XXXVI-XXXVII, 533 – 560.

[1] Parleremo dell’origine e dello sviluppo dell’elettrodo a vetro in un prossimo post.

[2] Max Ernst August Bodenstein (1871 –1942), chimico fisico tedesco, noto per le sue ricerche in cinetica chimica, fu il primo a immaginare un meccanismo di reazione a catena e che le esplosioni si potevano essere interpretate in base a un tale meccanismo.

[3] Ricordiamo che la corrispondente reazione fra idrogeno e iodio segue una cinetica semplice del secondo ordine, quindi per molti decenni è stata considerata un atto elementare. Qualche testo, fortunatamente sempre meno, la presenta ancora così.

[4] Nikolay Semyonov (1896-1986) chimico fisico sovietico noto per i suoi lavori sulle reazioni con meccanismo a catena e a catena ramificata. Premio Nobel per la chimica 1956 insieme a Sir Cyril Hinshelwood per le loro ricerche sui meccanismi delle reazioni chimiche.

[5] Karl-Friedrich Bonhoeffer (1899 – 1957) chimico tedesco, fu allievo di Fritz Haber ed è noto per le sue ricerche in meccanica quantistica che lo portarono a scoprire l’orto e para idrogeno.

[6] Michael Polanyi, (1891 – 1976), ungherese britannico è stato uno scienziato eclettico, che ha dato importanti contributi teorici alla chimica fisica, all’economia e alla filosofia. Dal 1926 al 1933 è stato professore di chimica al Kaiser Wilhelm Institute di Berlino, nel 1933 è stato il primo professore di chimica e poi di scienze sociali all’Università di Manchester. Dal 1944 membro della Royal Society. La sua opera filosofica più nota è il libro Towards a Post-Critical Philosophy del 1958, pubblicato in italiano col titolo La conoscenza personale da Rusconi, Milano, 1990. Suo figlio, John Charles è stato covincitore del Nobel per la Chimica nel 1986 per il contributo allo studio delle dinamiche delle reazioni elementari. Curioso perché fra le ricerche in chimica del padre, forse la più importante ha riguardato la teoria cinetica dello stato di transizione per le reazioni elementari.

Vaccini, negazioni e Jenner.

Luigi Campanella, già Presidente SCI

É dei nostri giorni il dibattito sulla obbligatorietà o meno delle vaccinazioni. Riflettevo su questo quando un mio amico mi ha dato un appuntamento a cena in un ristorante a via Jenner nella mia città. Qualcuno si chiederà quale sia il collegamento fra i due eventi. Il fatto è che io nella mia curiosità dinnanzi ai nomi delle vie dedicate a personaggi cerco sempre di raccogliere informazioni sugli intestatari, quando a me non noti.

 

Non mi vergogno di dire che lo stesso è avvenuto con Jenner e così ho potuto apprendere il grande contributo dato da questo studioso allo sviluppo della pratica protettiva basata sulla vaccinazione. Edward Jenner fu un medico inglese vissuto a cavallo fra diciottesimo e diciannovesimo secolo che per primo introdusse il vaccino contro il vaiolo.
Scriveva Voltaire che su 100 persone a quel tempo 60 contraevano questa brutta malattia ed in effetti tutta l’Europa fu vittima di questo morbo. Solo la peste nera in altri tempi aveva prodotto un maggiore numero di vittime.Eppure proprio quello è il tempo in cui Jenner, una mente scientificamente fertile, appassionata non solo alla propria disciplina,ma anche a Chimica, Fisica, Botanica fino all’Aeronautica, tanto da divenire costruttore di una mongolfiera.

(un riassunto della sua vita affascinante nel link in fondo all’articolo)
Era quello un periodo molto strano: da un lato l’illuminismo ed il razionalismo, dall’altro una medicina spesso basata su pressapochismo e ciarlataneria, condite da farmaci costituiti spesso da improbabili miscugli con nomi ambigui ed effetti imprevedibili e casuali, un’espressione della quale poteva considerarsi Cagliostro con il suo elisir di lunga vita o Mesmer con la sua vasca magnetica.
La grande scoperta di Jenner -non credo adeguatamente conosciuta- fu in effetti solo un’osservazione: le ragazze cinesi – un Paese la Cina che combatteva contro il vaiolo che si diffondeva- che lavoravano nei caseifici non si ammalavano. La spiegazione che diede Jenner al fatto osservato si basava sul fatto che le ragazze mungevano le vacche, finivano per contrarre un’eruzione e con essa si immunizzavano rispetto al vaiolo. Messa a punto l’ipotesi ecco , secondo le regole del metodo scientifico, la prova sperimentale. Cosi Jenner inoculò l’essudato dell’eruzione ad un amico disponibile che fu poi contagiato con il virus del vaiolo: il paziente non si ammalò. Era nata la vaccinazione strumento prezioso contro numerose malattie che si diffusero successivamente nel tempo. Da Pasteur a Sabin furono salvate centinaia di milioni di vite: ma queste vittorie fantastiche per l’umanitá spesso si scontrarono con ignoranza e pregiudizi, gli stessi che oggi ritroviamo in alcuni interventi del nostro tempo.
Se oggi molte gravi malattie sono state debellate è merito di persone come Jenner che hanno tracciato con intuito e studio paziente la via del progresso scientifico. Tale progresso non può essere osteggiato in assenza di controprove: come diceva Popper il compito dello scienziato con i suoi studi non é solo la conferma di una tesi, ma anche la smentita.
Ecco io credo che la lezione di Jenner che ho imparato a conoscere, apprezzare e ringraziare per quanto ha fatto sia proprio questa: la negazione va documentata al pari dell’affermazione.

https://it.wikipedia.org/wiki/Edward_Jenner

Plastica biodegradabile: il polibutirrato (PBAT)

Rinaldo Cervellati.

Tutti abbiamo familiarità con la pellicola da cucina per avvolgere alimenti, con i guanti in plastica sottile per la scelta di frutta e verdura al supermercato e per i sacchetti che oggi sono obbligatori in tutti i negozi di alimentari (figura 1). Sono in larga misura costituiti da una plastica biodegradabile, sostanzialmente polibutilene adipato tereftalato, in sigla PBAT (nome comune polibutirrato).

Figura 1. Pellicola di plastica biodegradabile e suoi molteplici usi

Sintetizzato per la prima volta da chimici della BASF più di venti anni fa, si tratta di un copolimero, specificatamente un copoliestere dell’1,4-butandiolo esterificato con acido adipico e del dimetil tereftalato[1]. Viene generalmente commercializzato come alternativa completamente biodegradabile al polietilene a bassa densità, con molte proprietà simili tra cui flessibilità e resistenza allo stiramento, che consente di utilizzarlo per gli usi sopra ricordati. La struttura del copolimero PBAT è mostrata in figura 2.

Figura 2. Le unità costitutive del PBAT: butandioltereftalato e butandioladipato

Nella figura, il PBAT è mostrato come un copolimero a blocchi a causa del comune metodo sintetico di sintetizzare inizialmente i due blocchi del copolimero e quindi combinarli. Tuttavia, è importante notare che la struttura effettiva del polimero è un copolimero casuale dei blocchi mostrati, ottenuta miscelando i due blocchi in presenza di tetrabutossi titanio come catalizzatore.

Questa casualità, cioè l’assenza di qualsiasi tipo di ordine strutturale fa si che il polimero non può cristallizzare in misura significativa. Ciò porta a diverse proprietà fisiche: ampio intervallo di fusione, basso modulo elastico e rigidità, ma elevata flessibilità e tenacità. Infine, la particolare struttura lo rende biodegradabile da batteri (o loro enzimi) contenuti nel terreno.

Per tenere sotto controllo le infestanti e mantenere l’umidità del terreno, gli agricoltori inseriscono piccoli ammassi (“pacciame”) di pellicole di plastica nei loro campi. Ma questi sottili film polimerici sono poi difficili da raccogliere dopo l’uso e l’accumulo di plastica riduce inevitabilmente la fertilità del suolo. I pacciami di pellicole biodegradabili evitano questi problemi e sono quindi sempre più usati. Un gruppo di ricercatori del Politecnico di Zurigo (ETH) e dell’Università di Vienna, combinando varie tecniche fra cui marcatura isotopica, spettroscopia NMR e NanoSIMS (Nanoscale secondary ion mass spectrometry), hanno sviluppato quello che alcuni esperti dicono sia il metodo più completo per rintracciare quali atomi di carbonio del PBAT finiscono nel suolo. La notizia è stata riportata da Carmen Drahl in C&EN newsletters del 31 luglio scorso (Technique tracks carbon as soil microbes munch plastic).

Il guppo di ricerca, coordinato dal prof. Michael Sander, si è prefisso anzitutto lo scopo di stabilire quale carbonio venisse utilizzato dai microrganismi, se quello presente nel terreno o quello contenuto nel polimero.

Michael Sander

La ricerca, molto dettagliata, è stata recentemente pubblicata on-line su Science Advances (M.T. Zumstein et al., Biodegradation of synthetic polymers in soils: Tracking carbon into CO2 and microbial biomass, Sci. Adv., 2018, DOI: 10.1126/sciadv.aas9024).

Di seguito una sintesi del protocollo della ricerca e dei risultati ottenuti.

La prima fase è consistita nel preparare un pacciame di PBAT marcato con isotopi 13C in diverse posizioni come mostrato in figura 3, ottenendo tre campioni diversamente sostituiti.

Figura 3. Isotopi 13C sostituiti nelle posizioni colorate

I tre campioni del pacciame isotopicamente sostituito mescolati a opportune quantità di terreno sono state fatte incubare in appositi contenitori per sei settimane. La CO2 marcata 13C emessa dalla biodegradazione dei polimeri è stata monitorata nel tempo con la tecnica CRDS (cavity ring-down spectroscopy). Questa tecnica ha permesso anzitutto ai ricercatori di distinguere fra l’anidride carbonica derivata dal polimero da quella formata dalla mineralizzazione della materia organica del suolo.

Dopo l’incubazione, le superfici dei film polimerici sono state studiate mediante microscopia elettronica a scansione (SEM), figura 4, mostrando l’incorporazione di 13C derivato dal polimero nella biomassa e dovuta ai microorganismi che ne utilizzerebbero parti specifiche.

Figura 4. Immagine di numerose colonie microbiche sul film polimerico

Quest’ultima considerazione è stata verificata attraverso spettrometria di massa di ioni secondari su scala nanometrica (NanoSIMS, figura 5).

Figura 5. Schema di un NanoSIMS

Lo studio di tre varianti PBAT con proprietà fisico-chimiche simili ma variati nel monomero che conteneva gli atomi di carbonio marcati 13C [cioè, adipato, butandiolo e tereftalato (v. figura 3] ha permesso ai ricercatori di seguire la biodegradazione dei tre blocchi costitutivi il PBAT.

Il lavoro presentato è un nuovo approccio per studiare i passaggi fondamentali nella biodegradazione dei polimeri in sistemi complessi.

Gli autori concludono che nell’arco di sei settimane la biodemolizione del PBAT non è completa, in parte viene incorporato nella biomassa. La percentuale cumulativa di CO2 marcata proveniente dal polimero marcato nella parte adipato è maggiore di quella proveniente dagli altri due. I ricercatori hanno dato una spiegazione del fatto studiando la biodegradazione del PBAT non marcato sia dalla lipasi del Rhizopus orza che dalla cutinasi del Fusarium solani, due carbossilesterasi fungine con meccanismi di idrolisi diversi. Come previsto, la spettrometria H1NMR ha rivelato che il residuo del PBAT dopo parziale idrolisi enzimatica era arricchito in tereftalato, mentre i prodotti dell’idrolizzato erano ricchi in adipato.

Infine gli autori affermano che il loro lavoro fa avanzare sia la comprensione della biodegradazione dei polimeri sia la capacità metodologica di valutare questo processo in ambienti naturali o ingegnerizzati.

Markus Flury, scienziato del suolo nella Washington State University, dice: “Questo studio mostra chiaramente che il carbonio proveniente da diverse posizioni in un polimero biodegradabile si trasferisce effettivamente in biomassa e CO2, e che ciò avviene a velocità diverse per diversi atomi di carbonio” Tuttavia Flury vorrebbe vedere uno studio a lungo termine per dimostrare che il polimero può essere completamente degradato; lo studio di sei settimane ha mostrato solo un parziale degrado. Vorrebbe anche conoscere il destino degli additivi per la pacciamatura in plastica che conferiscono proprietà ai materiali come resistenza alla luce ultravioletta.

Prof. Markus Flury

A quest’ultimo proposito Sander risponde: gli additivi sono nella lista delle cose da fare. Il mio team sta attualmente conducendo test a lungo termine in diversi terreni e pianificando progetti per condurre anche test sul campo. Il lavoro è stato supportato in parte da BASF, che ha prodotto il polimero biodegradabile.

Un certo numero di scienziati vorrebbe determinare se i microorganismi del lavoro di Sander potrebbero demolire anche altri polimeri più resistenti alla biodegradazione, come il polietilene.

Dr. Till Opaz

Till Opatz, che ha studiato la biodegradazione della plastica all’Università di Mainz, afferma: le indagini precedenti non hanno fornito risposte definitive, ma questa combinazione di tecniche probabilmente sarebbe in grado di farlo.

[1] La BASF (Badische Anilin und Soda Fabrik) lo mise in commercio col marchio ecoflex®, oggi è prodotto da molte altre industrie con i marchi Wango, Ecoworld, Eastar Bio e Origo-Bi.

Le molecole della pubblicità: l’acqua micellare.

Claudio Della Volpe

(per i precedenti articoli di questa serie vedi in fondo)

L’”acqua micellare” è uno dei prodotti di maggior successo pubblicitario degli ultimi tempi; il suo mercato dominante sono le donne che se si truccano poi si struccano ( a questo serve l’acqua micellare, a ripulire la pelle), una attività che in realtà risale a tempi immemorabili; certo la pubblicità e il mercato hanno spinto sul filone della bellezza femminile e non, ma il trucco femminile e anche maschile è una tradizione culturale che risale alle origini della nostra specie e si coniuga con aspetti sociali e sessuali, ma anche religiosi. La caverna di Blombos in sud Africa che testimonia attività di tipo chimico di Homo Sapiens e di cui abbiamo parlato in uno dei primi post pubblicati su questo blog, risale a 100.000 anni fa e vi si producevano, guarda un po’, polveri colorate per scopi analoghi.

Dunque non mi scandalizzo affatto che esistano prodotti del genere; qua si tratta solo di capire di cosa stiamo parlando esattamente. Ha senso questa definizione e a cosa si riferisce esattamente? Cosa è l’acqua micellare?

L’acqua micellare si presenta come una soluzione limpida ma contenente sia componenti acquose che idrofobiche, come l’olio di ricino (si veda più avanti per la formula completa di uno dei tanti prodotti commerciali); ne segue che abbiamo qui qualcosa di simile ad una emulsione, ma a differenza delle normali emulsioni tipo acqua-sapone ed eventualmente olio che sono opache o tendono comunque a diffondere la luce, questa non la diffonde.

Come mai?

Sembra che il primo prodotto di questa classe sia stato fatto in casa ed usato come detergente della lana dalle donne australiane fin dall’inizio del XIX secolo; se mescolate nelle giuste proporzioni acqua/olio di eucalipto/sapone in scaglie e una miscela del cosiddetto spirito bianco, un distillato del petrolio ottenete una emulsione di questo medesimo genere, stabile e trasparente; analogamente la ricetta di Bosisto per lavare la lana è costituita da

scaglie di sapone 300g/spirito metilato (ossia 95% di alcool etilico e 5% di metilico) 200ml agitare bene; miscelare con 50ml di olio di Eucalipto; conservare la pasta che viene fuori e aggiungere poca acqua calda quanto basta al momento del lavaggio; poi aggiungete all’acqua di lavaggio totale.

Dopo avere strizzato i panni avvolti in un tessuto fateli asciugare senza esporli alla luce.

Cosa avete ottenuto con quella miscela e perché il prodotto finale è trasparente e stabile?

Si tratta delle cosiddette microemulsioni, scoperte ufficialmente solo nel 1943 da Hoar and Schulman mescolando una soluzione lattescente con esanolo per produrre una soluzione uniforme, una fase singola e non conduttiva.

Come potete leggere nel testo il fenomeno, dicono gli autori, era già ben conosciuto. La prima applicazione commerciale   delle microemulsioni o delle “idromicelle oleopatiche”, fu infatti costituita dalle cosiddette cere liquide , brevettate da Rodawald nel 1928.

da Microemulsions Theory and Practice a cura di Leon Prince

Nella tabella sottostante vedete le differenze fra i due tipi di emulsioni:

Una rappresentazione più grafica delle differenze in cui è introdotto anche il caso intermedio della nanoemulsioni, (non fatevi confondere dal nome, le nanoemulsioni sono a micelle più grandi della microemulsioni, scherzi della lingua).

Si tratta dunque di micelle, gocce di diametro piccolo di una fase circondate da uno strato di molecole di tensioattivo ben orientate più piccole delle altre; la fase esterna o interna può essere acquosa mentre l’altra è oleosa e viceversa. Il diametro così piccolo delle microemulsioni è dovuto alla particolare geometria dei tensioattivi usati e dei co-tensioattivi, ossia le altre molecole, alcooli per esempio, che consentono di creare una forte curvatura e di rafforzarla, rendendole stabili nel tempo.

Questo giustifica la trasparenza, poichè il diametro delle micelle non consente la diffusione laterale della luce e anche il fatto che le soluzioni ottenute siano stabili, mentre sia le emulsioni normali che le cosiddette nanoemulsioni non lo sono.

Come si spiegano quantitativamente le differenze di comportamento fra i vari tipi di emulsioni? La teoria base fu sviluppata da Eli Ruckenstein negli anni 70 ed è esemplificata dal seguente grafico che vado a commentare, tratto da un classico della letteratura della termodinamica superficiale (J. Chem. Soc., Faraday Trans. 2, 1975,71, 1690-1707); Ruckenstein è stato uno dei maggiori teorici delle soluzioni e delle interfacce e forse è poco ricordato, ma molte teorie affascinanti sono dovute a lui; l’ho conosciuto di persona nel 2000 a Princeton, in un congresso dove presentavo una serie di misure che supportavano una delle sue teorie sul fenomeno della rottura dei film superficiali, fenomeno che poi ha trovato applicazione nell’industria dei detergenti (avete notato che quando lavate l’auto alla pompa usate due detergenti diversi? Uno è il solito anionico per togliere lo sporco, l’altro è un cationico che serve invece a togliere via l’acqua di lavaggio, è un rinsing aid in inglese; la teoria sui rinsing aids è di Ruckenstein). Ruckenstein era seduto in prima fila e mi fece anche una domanda; la cosa mi emozionò parecchio.

In questo grafico si confrontano le energie libere superficiali delle micelle contro la loro dimensione per alcuni casi chiave, ottenuti sommando i contributi delle varie componenti :formazione della microemulsione, aumento dell’area totale, interazione fra le micelle, adsorbimento del tensioattivo ed entropia legata alla dispersione dellla fase oleosa nelle micelle. Questi 5 termini variano al variare del diametro della micella e dunque la somma complessiva.

Per i casi C e D l’energia libera è sempre positiva per cui si possono formare solo emulsioni che non sono termodinamicamente stabili. Nel caso C che mostra un massimo relativo si possono ottenere emulsioni cineticamente stabili, ossia che si possono destabilizzare se in qualche modo il sistema può superare la barriera di energia potenziale (per esempio aumentando la temperatura) ma che rimangono stabili solo se la barrriera è sufficientemente grande. Per i casi A e B invece la energia libera è negativa in certi valori del raggio o anche sempre. Questo vuol dire che una dispersione di micelle aventi un raggio in questo intervallo è stabile rispetto alla separazione di fase e dunque si formerà una microemulsione stabile; ovviamente per il raggio R* la microemulsione presenterà la situazione di massima stabilità.

Giusto per fare un esempio di separazione di fase si pensi all’impazzimento della maionese; quello è un esempio di separazione di fase, mentre la maionese ben riuscita è una emulsione stabile (cineticamente , non è una microemulsione).

Qui sotto la composizione di una specifica acqua micellare:

Acqua micellare Venus

aqua; poloxamer 184; disodium phosphate; hexylene glycol; hamamelis virginiana water; phenoxyethanol; benzyl alcohol; disodium cocoamphodiacetate; potassium phosphate; sodium chloride; parfum; peg-40 hydrogenated castor oil (olio di ricino); limonene;

Il poloxamer 184 è il tensioattivo non ionico, coadiuvato dal glicole, dall’alcol benzilico e dal cocoamfodiacetato, che aiutano a forzare il raggio delle micelle; l’olio di ricino è la componente oleosa che aiuta invece a eliminare il trucco. Gli altri componenti servono essenzialmente a proprietà estetiche come il profumo, ma notate che possono questi avere anche proprietà allergizzanti.

Aggiungo che le microemulsioni hanno molte applicazioni in campo medico e biologico. Ma ne parleremo un’altra volta.

Venus è un marchio della Kelemata-Perlier, una azienda Italiana, fondata nel 1919 dalla famiglia Giraudi, con un fatturato attale di circa 80 milioni di euro e proprietaria di parecchi marchi. Nel 2013 aveva poco più di 200 dipendenti.

Colgate-Palmolive invece è una grandissima multinazionale americana fondata nel 1953 che ha un fatturato di 20 miliardi di dollari e 37000 dipendenti.

La storia dei brevetti su questo tema è troppo intricata per farne una sia pur breve lista; Kelemata non appare detenere brevetti specifici, dunque probabilmente produce su licenza (mi farebbe piacere saperlo).

Esistono molti altri prodotti analoghi in commercio; ho riportato l’esempio anche perchè questo mi appare uno dei pochi produttori italiani di microemulsioni cosmetiche; è da dire che esistono molte altre applicazioni nel campo della detergenza, basate su microemulsioni formulate anche da piccole aziende.

Riferimenti.

J.H. Schulman, W. Stoeckenius, L.M. Prince,

Mechanism of formation and structure of micro emulsions by electron microscopy, J. Phys. Chem. 63 (1959) 1677–1680

HOAR, T. P., & SCHULMAN, J. H. (1943). Transparent Water-in-Oil Dispersions: the Oleopathic Hydro-Micelle. Nature, 152(3847), 102–103. doi:10.1038/152102a0

Microemulsion vs. nanoemulsion Devesh Kumar Jain – SlideShare

https://patentimages.storage.googleapis.com/bd/ad/cd/18969d516e71b1/US5874393.pdf

https://ilblogdellasci.wordpress.com/2016/12/21/la-chimica-della-pubblicita-prodotti-per-la-rasatura

https://ilblogdellasci.wordpress.com/2016/12/16/le-molecole-della-pubblicita-lanticalcare-2/

https://ilblogdellasci.wordpress.com/2016/11/04/le-molecole-della-pubblicita-la-biogenina-e-i-suoi-discendenti

https://ilblogdellasci.wordpress.com/2016/11/30/le-molecole-della-pubblicita-dentifrici-ripara-smalto

https://ilblogdellasci.wordpress.com/2016/11/20/la-chimica-della-pubblicita-lacchiappacolore/

https://ilblogdellasci.wordpress.com/2016/10/24/le-molecole-della-pubblicita-2c/

Nanoinnovation 2018.

Luigi Campanella, già Presidente SCI

Torno a parlare del NANOFORUM (http://www.nanoinnovation.eu/2018 ) in corso dall’11 al 14 presso la Facoltà di Ingegneria della Sapienza a Roma non solo per l’importanza dell’evento, ma per focalizzare ancora una volta il peso e l’influenza delle nanoscienze sulla nostra vita di tutti i giorni, quindi sulla stessa qualità del nostro vivere quotidiano.

Il nanomateriale forse più noto, più studiato, più utilizzato è probabilmente il grafene. Per comprenderne la specificità e l’originalitá basta pensare che con esso la distribuzione degli atomi costituenti perde una delle tradizionali 3 dimensioni delle molecole che rappresentiamo nello spazio: il grafene è un composto bidimensionale, si sviluppa cioè sul piano. Esso è costituito da un singolo strato di carbonio dello spessore di un solo atomo:lo possiamo immaginare come uno strato tipo millefoglie,tanto per addolcire una spiegazione tecnica. Questa caratteristica sin dalla sua scoperta l’ha fatto individuare come un materiale prezioso con aspettative rispetto ad esso confrontabili con quanto atteso da materiali naturali che hanno segnato la storia della nostra civiltà (bronzo, ferro, acciaio, silicio). Al grafene è correlato il premio Nobel ai 2 russi (Geim e Noviselov) che con i loro studi sul comportamento degli elettroni nello spazio a 2 dimensioni hanno di fatto aperto la corsa alle possibili applicazioni del grafene stesso, che sono risultate così molteplici e speciali da assegnare al grafene stesso la denominazione di supermateriale. Come accade in genere per gli strati sottilissimi è trasparente, flessibile, conduttore elettrico (anzi in effetti il grafene è un superconduttore) e termico, ma al contrario  di essi è resistentissimo, impermeabile a gas e liquidi. Una proprietà quasi unica è quella di interagire con luce di qualsiasi lunghezza d’onda e quindi colore.Volendo confrontarlo con i materiali a noi noti si può dire che il grafene si comporta similmente ad una gomma.

Gli studi sul grafene sono stati condotti in tutto il mondo e l’Europa ha addirittura lanciato il”graphene flagship”, un consorzio con un miliardo di euro a disposizione, tanto che simulando la Silicon Valley,ci si riferisce all’Europa come alla Graphene Valley. Non si deve credere che la struttura bidimensionale del grafene sia unica: esistono migliaia di composti con questa caratteristica, il grafene è solo il capostipite più conosciuto.

Come si diceva queste proprietà sono state già sfruttate in molte applicazioni e di certo lo saranno in molte altre.

Le applicazioni già mature sono nei campi

-delle batterie con innovazioni che migliorano dimensioni, potenza e ciclo di vita

-delle telecomunicazioni nel passaggio dal 4G al 5G

-della sensoristica applicata alle tecnologie di portabilità ( vestiti e imballaggi) per il controllo ai fini ambientali ed igienico sanitari

-della sicurezza alimentare con la realizzazione di etichette intelligenti.

La produzione del grafene è oggi possibile a livelli di tonnellate o chilometri, ma resta il problema della diversificazione del prodotto in funzione dell’applicazione.

La ricerca è però molto attiva , anche in Italia presso l’Università di Pisa, i Politecnici di Torino e Milano, il CNR ed anche imprese privati e certamente arriveranno le risposte a molte delle attuali domande.

Ancora sull’aspirina.

Rinaldo Cervellati.

Il 4 aprile 2016 in un breve post sulla storia dell’aspirina https://ilblogdellasci.wordpress.com/2016/04/04/aspirina-breve-storia-di-un-farmaco-pluripotente/

ricordai i quattro effetti farmacologici clinicamente accertati di questo usatissimo farmaco: antidolorifico, antiinfiammatorio, antifebbrile e cardioprotettore. Dissi anche che si stavano effettuando ricerche per evidenziarne eventualmente altri. In questo post riporterò alcuni studi su possibili proprietà preventive per alcune forme di cancro e malattie neurodegenerative.

Acido Acetilsalicilico, principio attivo dell’aspirina

Fra il 2007 e il 2014 diverse ricerche osservazionali e prove randomizzate riportarono evidenze sostanziali sull’effetto chemopreventivo dell’aspirina sul cancro colonrettale. Tuttavia la suscettibilità al farmaco variava fa gli individui partecipanti alle sperimentazioni, quindi il meccanismo con cui il comune antidolorifico eserciterebbe questo effetto protettivo restava insoluto[1].

Nello stesso 2014, un folto gruppo di ricerca guidato da Andrew T. Chan del Massachusetts General Hospital e Sanford D. Markowitz della Case Western Reserve University di Cleveland (OH) ha riportato che l’effetto preventivo dell’aspirina sul cancro del colon è legato ai livelli dell’ enzima idrossiprostaglandina deidrogenasi (15-(nicotinammide adenine dinucleotide), chiamato 15-PGDH) [1].

Andrew T. Chan

Sanford D. Markowitz

                                                                                       Questo enzima svolge un ruolo nella degradazione delle prostaglandine, importanti molecole messaggeri lipidici coinvolti in alcuni tumori del colon. L’aspirina ridurrebbe i livelli di prostaglandine inibendo l’attività di un altro enzima coinvolto nella loro sintesi. I ricercatori hanno esaminato campioni di tessuto prelevati da 270 casi di tumore del colon derivanti da due studi che monitorarono gli effetti dell’ aspirina su 128.000 persone per tre decenni. Essi hanno trovato che il gruppo di individui cui erano state somministrate due compresse di aspirina da 375mg a settimana, vedeva ridotto il rischio di cancro al colon del 50% rispetto al gruppo controllo ma solo fra coloro i cui livelli di 15-PGDH erano superiori alla media. La scoperta potrebbe aiutare a identificare le persone che possono veder ridotto il rischio di cancro al colon assumendo aspirina. Allo stesso modo, l’identificazione di individui privi del giusto livello di 15-PDGH potrebbe aiutarli a evitare gli effetti collaterali del farmaco, tra cui ulcere e sanguinamento gastrointestinale.

* * * * *

Come noto il morbo di Alzheimer è una malattia neurodegenerativa che colpisce particolarmente persone in età avanzata o molto avanzata giungendo più o meno rapidamente a ridurre chi ne viene colpito in uno stato quasi vegetativo. Purtroppo sono sempre più comuni anche i casi di Alzheimer precoci che coinvolgono persone poco più che cinquantenni. Per questo l’alzheimer è oggetto di intensa ricerca medica e biomedica anche se a tutt’oggi non è stata trovata alcuna cura. Esistono comunque trattamenti che possono rallentare temporaneamente il peggioramento dei sintomi della demenza e migliorare la qualità della vita delle persone affette dal male e di chi si occupa di loro.

Nel numero di C&EN newsletters del 28 luglio scorso, Cici Zhang ha riportato i risultati di un gruppo di ricerca, coordinato dal prof. Kalipada Pahan del Rush University Medical Center, Chicago (IL), che mostra indizi di un collegamento fra l’acido acetilsalicilico e i sintomi tipici dell’Alzheimer [2].

Kalipada Pahan

Combinando esperimenti biochimici con la tecnica del computer modeling, i ricercatori hanno scoperto che l’acido acetilsalicilico si lega a un recettore chiamato peroxisoma proliferatore-attivato recettore α (PPARα), coinvolto nel metabolismo degli acidi grassi. Quando il PPARα viene attivato dall’associazione con acido acetil salicilico, si scatena una cascata di segnali che portano ad un aumento delle connessioni fra le cellule nervose nell’ippocampo, una regione chiave del cervello per la formazione della memoria. Per il momento è stata fatta una sperimentazione su un modello animale utilizzando due gruppi di topi con sintomi Alzheimer: a un gruppo è stata somministrata una soluzione di aspirina 5 μM nell’arco di 18 ore, mentre all’altro (gruppo controllo) è stato somministrato un placebo. Il primo gruppo ha mostrato un significativo aumento dell’attenzione e del coordinamento dei movimenti, indice dell’efficacia del trattamento con aspirina. Ovviamente il prof. Pahan afferma che l’obiettivo finale sarà la verifica del rallentamento dei sintomi attraverso adeguati studi clinici.

Scusatemi, ma mentre cercavo un’immagine ho trovato questa curiosa novità (almeno per me):

https://blog.kamagra.co.in/aspirina-trovata-efficace-per-la-disfunzione-erettile

Dunque, l’aspirina sarà anche un sostituto di viagra e cialis ???????????

Bibliografia

[1] S.P. Fink et al., Aspirin and the Risk of Colorectal Cancer in Relation to the Expression of 15-Hydroxyprostaglandin Dehydrogenase (HPGD)., Science Translational Medicine, 2014, 6(233), 1-7.

[2] D. Patel et al., Aspirin binds to PPARα to stimulate hippocampal plasticity and protect memory., Proc. Natl. Acad. Sci. USA2018, DOI: 10.1073/pnas.1802021115

[1] Dal 1971 era stato comunque accertato che gli effetti antiinfiammatori e cardioprotettivi dell’aspirina sono dovuti all’inattivazione irreversibile dell’enzima ciclo ossigenasi necessario alla produzione di prostaglandine e tromboxani nell’organismo (v. post citato sopra).

Lettera aperta alla SAIPEM.

Con il permesso dell’autore pubblichiamo qui una lettera inviata al Corriere e non pubblicata.

Vincenzo Balzani

Bologna, 22 agosto 2018

SAIPEM: mai sentito parlare dell’Accordo di Parigi?

Caro Direttore,

Leggo sul Corriere di oggi a p. 37 l’articolo di Marco Sabella che annuncia con entusiasmo il rialzo del titolo Saipem in seguito a contratti relativi alla estrazione di petrolio e metano in varie zone del globo, fra le quali Congo, Uganda e Nigeria.

Non un cenno al fatto che il governo Italiano è fra i 195 firmatari dell’Accordo sul clima di Parigi, che prevede di ridurre l’uso dei combustibili fossili e lo sviluppo delle energie rinnovabili per salvare il pianeta dai cambiamenti climatici. E’ un’ulteriore conferma di quanto ha scritto papa Francesco nell’Enciclica Laudato si’: “I combustibili fossili devono essere sostituiti senza indugioma la politica e l’industria rispondono con lentezza, lontane dall’essere all’altezza delle sfide”.

L’Africa ha un enorme potenziale di energia solare ed eolica, ed è nello sviluppo di queste energie che dovrebbe essere aiutata.

Secondo gli esperti, In base all’Accordo di Parigi la maggior parte delle riserve di combustibili fossili già note dovrà rimanere nel sottosuolo. Quindi, se l’Accordo di Parigi sarà osservato, Saipem avrà problemi economici perché parte delle sue attività saranno bloccate; forse chi ha acquistato le azioni Saipem non ha tenuto conto di questa eventualità. Se invece la politica permetterà alle aziende petrolifere di usare tutte le riserve, i problemi, purtroppo, li avremo noi,  abitanti della Terra.

Vincenzo Balzani

Professore Emerito, Università di Bologna