Piccola lezione sui fanghi di depurazione.1.

Mauro Icardi

La polemica sul decreto Genova, relativamente al fango di depurazione non si è ancora esaurita. In questo post vorrei fare una specie di breve lezione. Che serva per spiegare come si originano e perché.

I fanghi di depurazione si originano come principale residuo dei processi depurativi. Sono sostanzialmente una sospensione di solidi di varia natura, organici ed inorganici e con una percentuale di sostanze secche (che nel gergo degli addetti viene definita normalmente “secco”), variabile in funzione del tipo di processo di trattamento che il liquame ha subito. I fanghi di depurazione sono originati nei processi di sedimentazione, e si distinguono in fanghi originati dalla sedimentazione primaria, e da quella secondaria o finale. Il miscuglio di questi due tipi di fanghi origina il cosiddetto fango misto, che è quello che deve subire il trattamento di stabilizzazione e di disidratazione finale.

I fanghi estratti dalla sedimentazione secondaria possono essere stati prodotti da sistemi di trattamento a colture sospese (vasca di ossidazione biologica), da sistemi a biomassa adesa (letti percolatori o biodischi) e dai più recenti sistemi a membrana. Altri tipi di fanghi possono invece derivare da processi di chiariflocculazione per esempio la defosfatazione chimica, che si adotta per rispettare il limite di legge per il fosforo, che normalmente riesce ad essere abbattuto solo in percentuali pari al 50% se si effettua il solo trattamento di tipo biologico.Nel 2015 i fanghi dal trattamento delle acque reflue urbane prodotti sul territorio nazionale (codice 190805) sono pari a oltre 3 milioni di tonnellate. La Lombardia e l’Emilia Romagna con, rispettivamente, 448 mila tonnellate e 409 mila tonnellate sono le regioni con il maggiore quantitativo prodotto, seguite dal Veneto (361 mila tonnellate) e dal Lazio (312 mila tonnellate) (Figura 4.3). Il quantitativo di fanghi gestito, nel 2015, è pari a circa 2,9 milioni di tonnellate.

I fanghi rappresentano il cuore del trattamento depurativo, e sono la fase del trattamento su cui in futuro maggiormente si dovranno concentrare gli sforzi dei gestori, dei ricercatori, degli enti di controllo. Per minimizzarne la produzione, e per trovare il modo ecologicamente sicuro, economicamente sostenibile e socialmente accettato di essere smaltiti o recuperati.

I trattamenti dei fanghi devono essere differenziati in funzione della loro provenienza, ma due trattamenti sono solitamente comuni a tutti i tipi di fango: l’ispessimento e la disidratazione finale.

L’ispessimento serve a concentrare il fango e a ridurre al minimo il contenuto di acqua nello stesso.

Il tenore di acqua di un fango ( o umidità del fango) è il rapporto percentuale tra il peso dell’acqua contenuto nel fango, e il peso totale del fango, compresa tutta la fase acquosa. Si esprime con questa formula:  Uf (%) = 100*PH2O/Ptot.

(continua)

altri articoli dello stesso autore sui fanghi

https://ilblogdellasci.wordpress.com/2018/08/06/smaltimento-dei-fanghi-di-depurazione-qualche-considerazione-conclusiva/

https://ilblogdellasci.wordpress.com/2015/05/15/trattamento-e-recupero-dei-fanghi-di-depurazione/

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Arte e scienza, questioni di reputazione.

Luigi Campanella, già Presidente SCI

Roberta Sinatra e Albert Laszlo Barabasi sono autori (fra altri) di un interessante articolo comparso su Science finalizzato allo studio delle dinamiche del successo nel mondo dell’arte.

Fraiberger et al., Science 362, 825–829 (2018) 16 November 2018

Il valore dell’opera conta, ma molti altri elementi concorrono a decretarne il successo. Il primo elemento è senz’altro rappresentato dalla sede di esposizione che non solo condiziona il successo iniziale, ma determina quello degli anni successivi di carriera, soprattutto se riferito,non solo alla prima opera, ma anche alle successive dello stesso autore con relative sedi espositive. La qualità non coincide da sola con il valore percepito che è fortemente influenzato dalla sede. Se questo per la scienza sembra logico : la dipendenza del successo di una ricerca dal livello di qualità del laboratorio o della istituzione in cui viene svolta, colpisce che questo sia ancor più vero nell’arte. Lo studio è riferito a 7500 musei,16000 gallerie,1200 case d’arte sparsi in Paesi diversi con dati raccolti negli ultimi 36 anni, confermando i dati stessi con un’ulteriore precisazione:è tanto più influente la qualità del sito di esposizione quanto più il curatore dell’evento stesso è internazionalmente riconosciuto. Sono molti gli esempi citati nello studio: dal caso di 2 autori della stessa opera prima, uno solo dei quali si è poi correlato con celebrità del settore: solo questo ha avuto successo,dell’altro si è persa traccia; come anche quello del quadro che ha in se stesso la capacità di distruggersi dopo un certo tempo di vita e che è divenuto famoso. A volte i fattori moltiplicativi del successo dipendono da eventi casuali, quali la morte prematura dell’autore, un evento atmosferico estremo, un conflitto internazionale. L’area geografica coinvolta nello studio è quella di Europa e Nord America. Non si può non pensare all’arte moderna spesso all’affannosa ed infruttuosa ricerca di sedi espositive importanti e di prestigio:forse può questo giustificare i pregiudizi verso di essa?

L’uomo con l’elmo d’oro (allievo di Rembrandt)

L’uomo con l’elmo d’oro, un quadro del XVIII secolo attribuito a Rembrandt è stato per decenni il più famoso quadro di Berlino. Una volta emersa l’evidenza, nel 1980, che il quadro non era di Rembrandt esso ha perso la maggior parte del suo valore artistico ed economico, anche se il quadro in se non è cambiato affatto.

Questo succede o potrebbe succedere per una ricerca scientifica?

Una scienziata mancata: Clara Immerwahr (1870-1915), moglie di Fritz Haber (1868-1934)

Rinaldo Cervellati

Il 16 dicembre dell’anno scorso si è tenuto a Como un evento teatrale dal titolo “Un cuore puro”, una rivisitazione delle lettere di Clara Immerwahr. L’evento, organizzato dal Dipartimento di Scienza e Alta Tecnologia dell’Università dell’Insubria su proposta didattica del prof. Maurizio Martellini ha inteso ricordare la figura di Clara Immerwahr prima donna a ottenere un dottorato in chimica nel 1900. Questo lungo post intende raccontare la vicenda scientifica e personale di Clara Immerwahr.

Clara Immerwahr è stata un chimico tedesco di origine ebraica. Prima donna a ottenere un dottorato in chimica in Germania, è accreditata pacifista e attivista per i diritti delle donne.

Il matrimonio con Fritz Haber, noto chimico tedesco, è enfatizzato nel titolo perché fu determinante nella successiva vita di Immerwahr e nella sua tragica scomparsa, come riportato anche in un recente dettagliato lavoro di B. Friedrich e D. Hoffmann [1].

Clara Immerwahr nacque il 15 giugno 1870 nella ricca fattoria paterna di Polkendorff vicino a Breslau (oggi Wroclaw, in Polonia). Era la figlia più giovane di genitori ebrei, il chimico Philipp Immerwahr e sua moglie Anna (nata Krohn). Crebbe nella fattoria con i suoi tre fratelli maggiori, Elli, Rose e Paul. Nel 1890, quando sua madre morì di cancro, Clara si trasferì a Breslau, dove il padre aveva avviato un negozio di tessuti e tappeti di lusso.

All’epoca, a Breslau vi era una vasta comunità di origine ebraica, che rappresentava in gran parte l’”aristocrazia intellettuale” della città, cui gli Immerwahr appartenevano. In queste famiglie “aristocratiche” non c’era spazio per religione, costumi e pratiche ebraiche, e raramente o mai si frequentava la sinagoga. Gli atteggiamenti politici della famiglia Immerwahr erano liberali, con qualche comportamento tipico del patriottismo nazionale prussiano-tedesco, tipo modestia e semplice stile di vita. Quindi, nonostante la ricchezza di famiglia, Clara e i suoi fratelli crebbero senza ostentazioni [1].

In Germania le scuole superiori (Gymnasium) erano precluse alle donne. Era possibile per loro assistere alle lezioni universitarie come uditrici ospiti solo se in possesso di speciali permessi.

Il percorso educativo di Clara e la sua successiva esistenza sono stati condizionati da questi vincoli. Iniziò i suoi studi in una Höhere Töchterschule (“Scuola per Donne”) a Breslau, studi integrati durante i mesi estivi trascorsi presso la tenuta di Polkendorf, da lezioni impartite da un tutor privato.

La scuola doveva fornire un’educazione di base per le giovani donne compatibile con il loro status sociale e prepararle per il loro “scopo naturale” cioè compagne dei loro mariti, casalinghe, e madri.

Clara si diplomò alla Töchterschule all’età di 22 anni. Si iscrisse al Teacher’s Seminary, l’unico tipo di istituzione che offriva un’istruzione professionale superiore alle donne. Tuttavia, i diplomati del Seminario erano qualificati solo per insegnare alle scuole femminili, rimanendo inammissibile l’ingresso all’università per studiare, ad esempio, le scienze, che era ciò che Clara voleva fare. Per realizzare questa aspirazione Clara dovette prendere lezioni private intensive e superare un esame equivalente all’Abitur (Esame di Maturità).

Questo esame si svolse davanti a una commissione speciale del Realgymnasium di Breslau e fu superato con successo da Clara Immerwahr nel 1896, all’età di 26 anni.

Successivamente, iniziò i suoi studi all’Università di Breslau, solo come uditore ospite e con una serie di permessi (professori, facoltà, ministero)[1].

Oggi è difficile immaginare cosa significasse per le donne entrare in un dominio maschile e che tipo di discriminazione e umiliazione erano costrette a subire.

Clara fece le necessarie domande per ottenere il permesso di frequentare le lezioni di fisica sperimentale come uditrice, e dovette procedere alla stessa snervante trafila per tutti gli altri corsi che intendeva seguire.

La attrassero in particolare le lezioni di Richard Abegg[2], professore di chimica impegnato in ricerche nell’allora nuovo campo della chimica fisica. Richard Abegg svolse un ruolo chiave nel favorire l’interesse di Clara per la chimica fisica, senza tanto badare al suo status di uditrice.

Richard Abegg

Fu proprio Abegg a supervisionare il lavoro per la tesi di dottorato di Clara. La tesi, intitolata Beiträge zur Löslichkeitsbestimmung schwerlöslicher Salze des Quecksilbers, Kupfers, Bleis, Cadmiums und Zinks (Contribution to the Solubility of Slightly Soluble Salts of Mercury, Copper, Lead, Cadmium, and Zinc) fu discussa presso l’auditorium dell’Università il 22 dicembre 1900, approvata magna cum laude. Clara Immerwahr ottenne così il dottorato in chimica, prima donna a ricevere questo titolo in Germania.

Clara Immerwahr nel 1900

Si può tranquillamente affermare che Abegg fu non solo mentore ma anche confidente di Immerwahr. In effetti Abegg e Immerwahr pubblicarono in collaborazione un articolo tratto dalla tesi di dottorato [2]. L’articolo, pubblicato nel 1900, oltre a fornire tabelle di quantità sperimentalmente determinate come le concentrazioni di equilibrio e i relativi potenziali elettrodici, affronta il problema delle elettroaffinità come quantità additive. Questa potrebbe essere la ragione per il numero relativamente elevato di citazioni ricevute da questo articolo. Esso fu percepito dal giovane pubblico femminile come prova di successo e riconoscimento per una donna scienziata.

L’intenzione di proseguire la carriera di ricercatrice è evidente dalla successiva ricerca di Immerwahr, approfondimento ed estensione del lavoro di tesi concretizzatasi in due articoli, pubblicati con il suo solo nome [3,4]. Il secondo lavoro di Clara aveva lo scopo di espandere il lavoro sulla solubilità includendo sali di rame e utilizzando idee e metodi sviluppati da Walther Nernst, Wilhelm Ostwald e Friedrich Wilhelm Küster[3]. La parte sperimentale di questa ricerca fu svolta nel laboratorio di Küster, nella Bergakademie di Clausthal in Bassa Sassonia, dove Immerwahl si era recata come visting researcher.

Il 3 agosto 1901 Clara Immerwahr si unì in matrimonio con Fritz Haber, al tempo ambizioso giovane chimico all’università di Karlsruhe. I due si erano conosciuti qualche anno prima, nel 1895, in una scuola o in un locale di ballo, ma poco si sa su questo primo incontro. Pare che Haber abbia ammesso “che si era innamorato [della sua futura sposa] come uno studente delle scuole superiori” e che “negli anni successivi avesse cercato di dimenticarla senza successo”. Quando nel marzo 1901 in occasione dell’annuale Conferenza della Società Tedesca di Elettrochimica, i due si incontrarono di nuovo, lui sempre più in carriera, lei fresca di dottorato e unica donna partecipante, la relazione si riaccese tanto che Clara si persuase a sposarlo[4].

Fritz Haber

Come sostiene Margit Szöllösi-Janze, biografa di entrambi, il matrimonio segnò la fine dell’attività scientifica di Clara Immerwahr, certamente non senza effetti sulla sua personalità. Probabilmente all’inizio Clara sperò di poter riprendere il suo lavoro di ricerca ma a lungo questa speranza dovette ridursi sempre di più [1].

In effetti, appena sposata, Clara scrive in una lettera ad Abegg:

“… una volta diventati milionari potremo permetterci servitori. Perché non posso nemmeno pensare di rinunciare al mio lavoro scientifico.”

Durante il primo anno di matrimonio Clara partecipò alle conferenze del marito e apparve spesso nei laboratori della Technische Hochschule a Karlsruhe, dove Haber sarebbe presto diventato il direttore dell’istituto di chimica fisica. Nella dedica alla moglie del libro Thermodynamics of technical gas-reactions, Haber scrive:

“Alla mia cara moglie Clara Haber, Ph.D., in segno di gratitudine per la sua cooperazione silenziosa”

Tuttavia, il coinvolgimento di Clara in questo libro di testo e di ricerca deve aver comportato qualcosa in più di una collaborazione silenziosa se Clara nella sua corrispondenza con Abegg, riferisce e discute i progressi di Haber nella stesura del libro e sollecita consigli.

Un importante punto di svolta nella vita di Immerwahr è certamente la nascita, nel 1902, del figlio Hermann, un bambino di scarsa salute, che reclamò gran parte dell’attenzione della sua madre.

Nel poco tempo rimasto dal lavoro di casalinga, Clara organizzò una serie di conferenze pubbliche su: “La chimica in cucina e nei lavori domestici”, destinate soprattutto a istruire le donne sull’uso dei prodotti chimici di uso comune nelle abitazioni.

Gli Haber divennero effettivamente ricchi, specialmente in seguito all’applicazione industriale della sintesi dell’ammoniaca da idrogeno e azoto atmosferico, effettuata da Haber e resa industriale da Carl Bosch. Il processo Haber-Bosch permise a sua volta la produzione quasi illimitata di fertilizzanti azotati, ciò che fece considerare Haber come uno dei grandi benefattori dell’umanità. Tuttavia Clara non ritornò mai più in laboratorio.

Nel 1911 Haber venne nominato direttore dell’Istituto di Chimica Fisica al Kaiser Wilhelm Institute di Berlino, città dove si trasferì con tutta la famiglia.

Con il passare degli anni dovette calarsi sempre più nel ruolo tradizionale di moglie di un grande scienziato, casalinga preoccupata del benessere della famiglia e madre premurosa. Anche a Berlino organizzò conferenze pubbliche di chimica a carattere divulgativo.

Con grande lucidità Clara Immerwahr descrive il suo stato d’animo e insoddisfazione nel 1909 in una lettera ad Abegg:

È sempre stato il mio modo di pensare che una vita valga la pena di essere vissuta solo se si è fatto pieno uso di tutte le proprie abilità e si è cercato di vivere ogni tipo di esperienza che la vita umana ha da offrire. È stato sotto questo impulso, tra le altre cose, che ho deciso di sposarmi in quel momento … la vita che ho avuto è stata molto breve … e le ragioni principali sono il modo oppressivo di Fritz di mettersi al primo posto in tutto…, così che una personalità meno spietatamente auto-assertiva è stata semplicemente distrutta.

Le tensioni e i conflitti tra Clara Immerwahr e Fritz Haber si aggravarono ulteriormente dopo lo scoppio della prima guerra mondiale. In accordo con la sua massima “in pace per l’umanità, in guerra per la patria”, Fritz Haber si applicò in modo maniacal patriottico allo sforzo bellico tedesco. In particolare sintetizzò diversi gas a base di cloro, il più tristemente famoso è il cosiddetto gas mostarda (il tioetere del cloroetano) usato nella seconda battaglia di Yprès dai tedeschi sotto la supervisione di Haber il 22 aprile 1915, causando 5000 morti nei primi dieci minuti.

Si può affermare che in questa battaglia fu usata per la prima volta un’arma di distruzione di massa e Haber divenne noto nei Paesi dell’Intesa come “padre della guerra chimica”.

Haber celebrò il “successo” della battaglia di Yprès e la sua promozione al grado di capitano durante un raduno nella sua villa di Berlino-Dahlem il 1 maggio 1915. Durante la notte dal 1 al 2 maggio, Clara Haber Immerwahr si suicidò sparandosi con la pistola di ordinanza del marito nel giardino della villa. A Fritz Haber fu negato dall’autorità militare un qualsiasi permesso per i funerali, fu fatto partire per il fronte orientale il giorno successivo [1].

All’epoca, il suicidio di Clara rimase in gran parte nell’ombra. Sei giorni dopo la sua morte, solo il giornale locale Grunewald-Zeitung riferì che “la moglie del Dr. H. dei Servizi Segreti, che è attualmente al fronte, ha messo fine alla sua vita sparandosi. Le ragioni del gesto infelice della donna sono sconosciute.”[5]. Non ci sono prove che vi sia stata un’autopsia.

Ma, dopo circa vent’anni, le circostanze scarsamente documentate della sua morte hanno provocato notevoli discussioni e controversie sulle sue ragioni.

Poiché a detta di molte persone Clara aveva criticato la ricerca del marito bollandola come una “perversione degli ideali della scienza” e “un segno di barbarie, corrompendo la disciplina stessa che dovrebbe portare nuovi benefici all’umanità”, il suicidio di Clara viene da alcuni biografi visto in quest’ottica [6]. Scrive ad esempio Gerit von Leitner: “Durante la guerra la sua presa di posizione chiara e univoca è malvista e ostacolata. Le rimane un’unica possibilità per non diventare complice. Quando la casa è vuota…Clara scrive per ore lettere di commiato in cui spiega- a chi leggerà- il significato del suo gesto…I domestici hanno visto le lettere. Chi le ha distrutte?” [7].

Tuttavia Friedrich e Hoffmann affermano che non ci sono conferme a quanto riportato da Goran e von Leitner. Ci sarebbero invece testimonianze che fanno pensare a motivazioni più complesse per il suicidio di Immerwahr.

Il ruolo della guerra chimica nel suicidio di Clara è stato riportato da suo cugino Paul Krassa nel 1957, secondo cui Clara fece visita a sua moglie poco prima del suicidio per confidarle i “macabri effetti” della guerra chimica e di aver assistito, in particolare al “test sugli animali”. Krassa, tuttavia, ha aggiunto che altri fattori potrebbero avere anche giocato.

Allo stesso modo, James Franck[5] ha dichiarato nella sua testimonianza del 1958:

“… che il coinvolgimento del marito nella guerra chimica aveva avuto sicuramente un effetto nel suo suicidio. ” Tuttavia, Franck ha aggiunto che Fritz Haber: “… fece un grande sforzo per riconciliare i suoi punti di vista con quelli politici e umani di Clara.

Secondo Friedrich e Hoffmann [1], la conclusione di Von Leitner si riferisce solo alle prime parti di queste due testimonianze e ignora altre fonti che suggeriscono che le ragioni del suicidio di Clara potrebbero aver avuto a che fare con la sua vita privata . Parte delle fonti disponibili suggerisce che Clara fosse davvero depressa e che questa depressione aveva a che fare con la sua vita matrimoniale infelice e insoddisfacente.

Anche il pacifismo e la contrarietà di Clara alla guerra sono state messe in dubbio, in particolare dalla risposta a una lettera del Dr. Setsuro Tamaru, collaboratore di Fritz Haber, costretto a lasciare la Germania in seguito all’entrata in guerra del Giappone a fianco della Triplice Intesa. La lettera di Tamaru, molto amara, è una critica feroce alla politica di guerra della Germania e dei suoi alleati.

Nella lettera di risposta, pubblicata nel lavoro di Friedrich e Hoffmann, Clara descrive il suo atteggiamento “utile e di aiuto alla patria”, afferma che il marito sta lavorando 18 ore al giorno e infine descrive se stessa come “… troppo ignorante in materia di affari esteri per essere in grado di rispondere correttamente … ” alle critiche di Tamaru.

Secondo Friedrich e Hoffman la lettera di Clara a Tamaru è difficile da conciliare con la sua immagine di pacifista i cui disaccordi col marito riguardo alla condotta della guerra l‘avrebbero portata al suicidio [1]. Personalmente ci vedo solo una sorta di obbligo verso il suo paese in risposta alle accuse dell’amareggiato Tamaru. Casomai dalla lettera ciò che traspare sono le sue preoccupazioni per come la guerra abbia influenzato in peggio i suoi problemi personali. Peccato che sia rimasta solo la risposta e non la lettera originale di Tamaru.

Quindi Friedrich e Hoffmann propendono per complesse ragioni personali.

Ma i motivi profondi di un gesto di rifiuto estremo, come il suicidio sono a mio avviso noti (forse) solo a chi lo commette (anche in presenza di lettere o biglietti), parenti, biografi, storici, ecc. possono solo fare congetture più o meno verosimili.

Infine, cosa successe a Fritz Haber?

Ottenne il Premio Nobel per la Chimica 1918 (ma lo ricevette effettivamente nel 1919) per la sintesi dell’ammoniaca. Continuò a lavorare all’Istituto di Chimica Fisica della Kaiser Wilhelm Gesellshaft fino al 1933 quando, essendo di origine ebraica fu destituito in seguito alle prime leggi razziali promulgate dal regime della Germania nazista. Emigrò in Gran Bretagna, dove trovò un posto all’Università di Cambridge. Nel 1934 decise di recarsi in Palestina, nella città di Reovhot, ma morì durante il viaggio di attacco cardiaco, in un albergo di Basilea in Svizzera. Nel testamento chiese che le sue ceneri fossero inumate insieme a quelle di Clara, cosa che effettivamente avvenne.

Opere consultate

Oltre al lavoro di Friedrich e Hoffmann, citato in [1]:

  1. Offereins, Clara Immerwahr (1870-1915). In: J. Apotheker and L.S. Sarkadi, European Women in Chemistry, Wiley-VCh verlag GmbH & Co. Weinheim, Germany, 2011, pp. 47-50.

Bibliografia

[1] B. Friedrich, D. Hoffmann, Clara Haber, nee Immerwahr (1870–1915): Life, Work and Legacy Z. Anorg. Allg. Chem. 2016, 642, 437–448.

[2] R. Abegg, C. Immerwahr, Notes on the electrochemical behavior of silver and zinc fluorides, Z. Phys. Chem., 1900, 32, 142-144. (in German)

[3] C. Immerwahr, Potentials of Cu electrodes in solutions of analytically important Cu precipitates. Z. Anorg. Chem. 1900, 24, 269–278. (in German)

[4] C. Immerwahr, On the solubility of heavy metal precipitates determined by electrochemical means. Z. Elektrochem. 1901, 7, 477–483. (in German)

[5] J. Dick, Clara Immerwahr 1870-1915., Jewish Women: A Comprehensive Historical Encyclopedia, (On-line Ed.), marzo 2009.

https://jwa.org/encyclopedia/article/immerwahr-clara

[6 ] M. Goran, The Story of Fritz Haber, University of Oklahoma Press, Norman, 1967

[7] Gerit von Leitner, Der Fall Clara Immerwahr: Leben für eine humane Wissenschaft, G.H. Beck, Munchen, 1993.

[1] In Prussia le donne diventarono legalmente ammissibili come studenti universitari solo dal 1908. Prima, a partire dal 1895, le donne erano autorizzate a frequentare le lezioni solo come uditori ospiti, e anche questo era subordinato al sostegno del professore e della facoltà e a un permesso del Ministero.

[2]Richard Wilhelm Heinrich Abegg (1869 – 1910), chimico fisico tedesco, pioniere della teoria della valenza. Notò che la differenza fra la valenza massima positiva e negativa di un elemento era otto (regola di Abegg), anticipando la regola dell’ottetto di Gilbert Lewis. Ha svolto ricerche su molti argomenti chimico fisici, compresi i punti di congelamento, la costante dielettrica del ghiaccio, la pressione osmotica, i potenziali di ossidazione e gli ioni complessi. Appassionato di volo morì in un incidente con la sua mongolfiera a soli 41 anni.

[3] Friedrich Wilhelm Albert Küster (1861-1917), chimico tedesco si è occupato di chimica fisica e analitica, noto per il famoso manuale di tabelle e calcoli chimici.

[4] Letteralmente: “Ci siamo visti, abbiamo parlato e alla fine Clara si lasciò persuadere a provarci con me. “, da una lettera di Fritz Haber citata dalla storica M. Szöllösi-Janze in:, Fritz Haber (1868–1934). Eine Biographie, 1998, C. H. Beck, München.

[5] James Franck (1882-1964) fisico tedesco, vinse il Premio Nobel per la fisica 1925 con Gustav Hertz “per la scoperta delle leggi che governano l’impatto di un elettrone su un atomo”. Esule negli USA partecipò al progetto Manhattan. Nel suo Franck report raccomandò che i giapponesi fossero avvertiti prima dello sgancio delle bombe atomiche sulle loro città ma non fu ascoltato.

Cos’è lo strano oggetto al centro del logo dell’American Chemical Society?

Roberto Poeti

Al centro del logo della Società Chimica Americana, sotto l’aquila, c’è uno strano oggetto fatto da cinque palline unite tra loro. Ma cosa rappresenta? E perché è così importante da essere inserito nel logo di una delle più prestigiose e antiche Società Chimiche ? ( La sua fondazione è del 1876 )

Ancora più sorprendente è la scoperta che nella parete dello Sterling Chemistry Laboratory ( 1923 ) dell’università di Yale (USA) è inserita l’immagine in pietra dello stesso oggetto .

Chi ha avuto l’idea di inserirlo nel logo della ACS? La Società Americana di Chimica venne fondata nel 1876 da trentacinque chimici riuniti a New York City. J. L. Smith, uno dei fondatori, suggerì di inserire nel logo della Società il nostro oggetto. Ma dove aveva visto e soprattutto usato questo oggetto? J. L. Smith era stato, come molti altri chimici europei e americani, nel laboratorio di Justus von Liebig a Giessen in Germania, come studente, nel 1842 per apprendere le tecniche di laboratorio, in particolare la tecnica per l’analisi elementare delle sostanze organiche .

Visitiamo il laboratorio nell’Istituto di Chimica di Liebig

E’ uno dei laboratori dell’800 che si sono meglio conservati fino ad oggi. Oggi è un museo di chimica tra i più interessanti al mondo. Vale proprio la pena di visitarlo .

La sede dell’Istituto di Chimica di Liebig a Giessen in Germania . Venne ricavato da una caserma militare nel 1819 . Nel 1825 Liebig sostituì il Prof. Zimmermann alla guida dell’Istituto . Lo diresse fino al 1852 , quando si trasferì all’Università di Monaco di Baviera .

Il museo è costituito da molti ambienti, tra cui lo studio di Liebig. Una sala più grande fu destinata ad essere, per quel tempo, un moderno laboratorio, progettato dallo stesso Liebig ( 1834 ), che venne frequentato dai chimici provenienti da tutta Europa e perfino dell’America. 

Il nuovo laboratorio era munito di cappe aspiranti, una novità in quel periodo, che eliminavano la gran parte dei problemi di salute. L’ambiente dei laboratori, prima dell’istallazione delle cappe, era così insalubre che sottoponeva a forte stress i chimici che vi lavoravano. L’“isteria del chimico”, una patologia a sé, era la diagnosi che veniva più di frequente diagnosticata .

In uno dei due banchi centrali del laboratorio si trovano due apparecchi utilizzati per l’analisi delle sostanze organiche. In entrambi vediamo il nostro oggetto in vetro (vedi immagine seguente ).

L’oggetto faceva parte dell’apparecchio per l’analisi elementare. Fu disegnato dallo stesso Liebig ( 1831). La sua posizione rispetto all’apparato è evidenziata nell’immagine seguente tratta dalla Enciclopedia di Chimica Vol. II del 1868 curata dal Prof. Francesco Selmi .L’apparecchio è simile al primo esemplare apparso nel laboratorio di Liebig verso la fine degli anni trenta dell’800.

Come funzionava l’apparato per l’analisi elementare

Osserviamo la figura precedente. Nel fornetto di metallo F veniva collocato, su uno strato di carbone, un tubo di vetro chiuso ad una estremità E, contenente la sostanza organica da analizzare e ossido rameoso. La temperatura raggiunta nel fornetto decomponeva l’ossido rameoso in rame e ossigeno. Era quest’ultimo che alimentava la combustione della sostanza organica. Non veniva usata aria, l’ossidazione risultava più completa, e la velocità della reazione controllata dal grado di riscaldamento del fornetto. L’apparecchio, così come è rappresentato, veniva utilizzato per l’analisi di composti quali aldeidi, alcoli, chetoni ecc. Erano esclusi i composti azotati .

I prodotti della combustione CO2 e H2O uscivano dall’estremità A , passavano nel tubo riempito di cloruro di calcio C che tratteneva l’acqua, mentre il biossido di carbonio gorgogliava nel nostro strumento di vetro a cinque bolle contenente una soluzione di idrossido di potassio, e per questo chiamato “ Kaliapparat”, dove veniva assorbito. Il disegno di quest’ultimo era pensato per favorire l’assorbimento del biossido di carbonio aumentando la superficie assorbente e il percorso del gas.

                             Il Kaliapparat   –   Nella grossa bolla gorgogliavano i gas provenienti dalla combustione della sostanza organica mentre la più piccola era collegata con la parte finale dell’ apparato .

Terminata la combustione veniva rotta la punta B del tubo F, l’aria entrava, dopo averla prima essiccata, fluiva attraverso l’apparato, aspirata attraverso il boccale E (operazione che non era priva di rischi ). L’operazione serviva a rimuovere dall’apparecchio le ultime tracce di acqua e biossido di carbonio. Da notare che una bolla di vetro H era inserita dopo lo strumento a cinque bolle. Era riempita di idrossido di potassio solido. La sua funzione era quella di trattenere le tracce di gas CO2 che potevano sfuggire al Kaliapparat e/o le gocce d’acqua che da quest’ultimo potevano essere trasportate dalla corrente d’aria finale. Terminata l’operazione l’aumento di peso del tubo C forniva la quantità di acqua prodotta con la combustione e quindi la quantità dell’elemento idrogeno del campione .

L’aumento di peso che si registrava nel Kaliapparat D più quello eventuale nella bolla H dava la quantità di CO2 prodotta con la combustione da cui si ricavava il peso dell’elemento carbonio del campione. La differenza tra il peso del campione e quello degli elementi carbonio e idrogeno trovati, forniva il peso dell’ossigeno contenuto nel campione .

Il contributo del Kaliapparat

Il procedimento per l’esecuzione di una analisi era in realtà molto minuzioso, fatto da tanti trucchi, per esempio le bolle del Kaliapparat erano inclinate durante l’analisi con la bolla più grossa in basso, e accorgimenti, tra cui la verifica della tenuta dell’apparecchio poiché lavorava in depressione. A Liebig occorsero sei anni per perfezionare il suo metodo di analisi. La difficoltà più grande fu quella di ottenere un assorbimento quantitativo della CO2. Un risultato che raggiunse con il suo ingegnoso strumento a cinque bolle, il   “ Kaliapparat “ che rimase in uso per tre quarti di secolo. Una analisi veniva compiuta in meno di un’ora. Quell’abile sperimentatore quale era Berzelius impiegava nell’analisi di una sostanza organica un tempo non inferiore ai due giorni .

(Nella bibliografia sono riportati i riferimenti in cui viene descritto il funzionamento dell’apparecchio e dell’assorbitore Kaliapparat )

Una bilancia su misura

Poiché gli elementi si ottenevano per via gravimetrica era necessario avere bilance sensibili e accurate. Nella stanza delle bilance, adiacente al laboratorio di Liebig, si conserva ancora la bilancia che Liebig si fece costruire su suo disegno da un locale ebanista. Aveva una portata di cento grammi e una accuratezza di 0.3 mg. Per esempio la combustione di un campione di 0.5 g produceva qualcosa come un grammo di CO2 con una accuratezza migliore dello 0.1 % . Una nota curiosa, ad ogni pesata, i lunghi bracci della bilancia oscillavano lentamente avanti e indietro molte volte prima di fermarsi . L’operazione risultava così noiosa che era chiamata “ il martirio della pesata “ . Liebig la rese più sopportabile per se stesso da fumatore , coniando il motto “ un sigaro per ogni pesata “ .

Una lunga storia

Per oltre 150 anni dall’epoca di Lavoisier fino alla seconda guerra mondiale, l’analisi per combustione fu lo strumento principale per il progredire della chimica organica. Molte delle nostre attuali conoscenze furono possibili utilizzando questo strumento. I principali miglioramenti nel corso di questo lungo periodo sono consistiti nel migliorare la convenienza del metodo e nel ridurre la dimensione del campione necessario per analisi su molecole di origine biologica. Le analisi di Lavoisier (anni 1780) potevano consumare più di 50 g di oli vegetali, richiedevano una squadra di operatori e un apparecchio molto costoso ( lo si può vedere al bellissimo Museo delle Arti e dei Mestieri di Parigi). Quaranta anni dopo Liebig, modificando l’approccio di Berzelius, ideava un apparato che richiedeva una quantità di campione che era soltanto 1% di quella usata da Lavoisier ( 0.5 g ). L’analisi poteva essere eseguita velocemente da un solo studente con una attrezzatura economica. Quasi cento anni dopo Liebig, Fritz Pregl ha ricevuto il Premio Nobel 1923 per avere miniaturizzato l’apparato che richiedeva un campione il cui peso era soltanto l’ 1% di quello impiegato da Liebig ( 5 mg o meno ).

Un ricordo

Ho visitato l’istituto di Chimica di Liebig a Giessen nel 2012, durante un soggiorno in Germania. Penso sia stata una delle visite più interessanti e coinvolgenti fatte nei luoghi della chimica. Il Prof. Manfred Kroeger dell’Università di Giessen, uno dei curatori del museo, ci ha accompagnato nella visita spiegandoci in dettaglio e con pazienza la storia e gli ambienti del museo. Erano in vendita presso il negozio del museo modelli in scala reale del Kaliapparat costruiti dagli studenti di chimica .

Il materiale filmico

Nella visita a Giessen scattai molte fotografie e girai dei filmini che ho trasferito su You Tube. Nel primo filmino è ripreso il laboratorio di Liebig a Giessen. Liebig si trasferì all’Università di Monaco di Baviera nel 1852. Al Deutsches Museum, il Museo della Scienza e della Tecnica di Monaco, si può vedere una parziale ricostruzione del laboratorio di Giessen. Il museo è un altro luogo di eccezionale valore per la storia della scienza e della tecnica ( in specie per la chimica ). Nel secondo filmino è ripreso il laboratorio al Museo di Monaco .

https://www.youtube.com/watch?v=MLFNKonPSzs&t=29s

https://www.youtube.com/watch?v=Hr2Qq3QzwVM

Nel mio blog

http://www.robertopoetichimica.it/la-composizione-delle-sostanze-la-combustione/

Bibliografia

Valore legale: si o no?

Luigi Campanella, già Presidente SCI

Si torna a parlare di valore legale del titolo di studio,in particolare della laurea.

Si tratta di un tema che ritorna periodicamente negli anni con schieramenti a favore e contro questo valore.

Cercherò di fare il punto sulle differenti posizioni.

Mantenere il valore legale della laurea significa riconoscere ad ogni laurea conferita da un’università italiana lo stesso valore e quindi la stessa importanza nel mercato degli impieghi pubblici. Le critiche contestano l’uguale peso che così viene dato ad atenei che pure hanno valore diverso rispetto alla formazione impartita. Cadrebbe anche l’incentivazione a migliorare il proprio livello didattico cercando di arruolare docenti sempre più qualificati,preparati ed accreditati. Tali critiche sono addirittura arrivate ad ipotizzare un ranking quantitativo delle università stabilito da un ente terzo e che dovrebbe potere incidere sulla valutazione del voto di laurea conseguito.

D’altra parte chi è a favore del valore legale invoca a giustificazioni che una perdita del valore legale del titolo affosserebbe le università più povere, così discriminando in base al censo gli studenti in grado di iscriversi a quelle più qualificate e care rispetto agli studenti non in grado di farlo per mancanza di risorse. Conseguentemente anche l’autofinanziamento con le tasse di iscrizione sarebbe a danno delle università più povere. Ciò risulta ancora più grave in un Paese come il nostro dove il finanziamento statale è pesantemente sottodimensionato. C’è poi l’aspetto del rapporto pubblico/privato: togliere valore al titolo può risultare in un ridimensionamento dell’università pubblica rispetto alla privata.

Volendo commentare la situazione non si può fare a meno di osservare che togliere il valore legale al titolo può in molti casi spostare il problema in avanti; in molti Paesi Europei,ed in parte anche in Italia, molte professioni (medico, dentista, ingegnere, architetto), pure in assenza del valore legale del titolo, possono essere esercitate solo in presenza di garanzie fornite da altre sedi di valutazione e di percorsi formativi accreditati. Il problema può forse trovare una mediazione con l’applicazione di criteri di valutazione del laureato, oltre che con la qualità della sua formazione, criteri che hanno a volte dimostrato di ribaltare credenze comuni: ad esempio la classifica delle scuole superiori formulata dalla Fondazione Agnelli per le grandi città favorisce le scuole di periferia rispetto a quelle dei quartieri più ricchi e blasonati.

Il POLIMI all’esame di elettrochimica.

Claudio Della Volpe

Della reazione di Volta e delle arance o dei limoni usati come batterie (in inglese orange e lemon batteries) abbiamo parlato più volte, si tratta di un argomento affascinante e che attira l’attenzione; l’ultima volta abbiamo segnalato anche una bufala riguardante la possibilità di accendere il fuoco con un’arancia.Stavolta siamo costretti a tornare sulla questione per un piccolo errore nientepocodimenochè del Politecnico di Milano, POLIMI, (nella persona del collega Francesco Grimaccia associato di elettrotecnica) che nel meritevole proposito di divulgare la scienza con una iniziativa definita #IlPOLIMIrisponde (su Youtube) riportata da ANSA, racconta (in data 7 novembre, anniversario dell presentazione di Volta a Napoleone) di come con un’arancia e una coppia di elettrodi metallici (e meglio con un paio almeno messi in serie) si possa accendere un LED.

La cosa come sappiamo è vera, a patto che il LED sia rosso, cioè a più basso voltaggio; un led bianco sarebbe difficile da accendere con sole due arance; ma vedremo dopo. Tuttavia il collega Grimaccia incorre in un banale errore di elettrochimica che vale la pena di correggere, visto che quel filmato l’avranno visto in alcune centinaia e grazie a questo commento lo vedranno in altre centinaia.

Dopo una introduzione storica l’autore scrive quale è il principio del processo ed indica la seguente reazione:Dunque secondo Grimaccia nella reazione di Volta lo zinco metallico  si ossida e lo ione rame si riduce. E’ da dire che nella successiva descrizione la cosa rimane non spiegata poichè si analizza solo il passaggio da un elettrodo all’altro fuori dall’arancia.

Ora questa interpretazione della reazione di Volta non è corretta per la semplice ragione che ioni rame nell’arancia e nella soluzione acidula di Volta non ce ne sono e non ce n’erano; si tratta invece di una reazione che potrebbe avere dal lato della riduzione ossia del rame (che funziona qui come semplice catalizzatore) o la riduzione degli ioni H+ oppure quella dell’ossigeno molecolare, che pure sarebbe più utile; per vari motivi, fra cui la concentrazione, la soluzione “acidula” di Volta e quella naturale dell’arancia o del limone (acidule per acido citrico) vedranno come interpretazione giusta la prima:(qua c’è un errore di stampa in quanto il potenziale di riduzione dello Zinco è -0.76) come scritto ed analizzato in questo articolo divulgativo:

https://pubs.acs.org/doi/abs/10.1021/ed078p516

Observations on Lemon Cells di Jerry Goodisman J. Chem. Educ., 2001, 78 (4), p 516 DOI: 10.1021/ed078p516

Come si vede è chiaro che ci vogliano almeno un paio di arance (e rispettivi elettrodi) collegate in serie ed usate come soluzione elettrolitica per il LED rosso che lavora a 1.5-2 V, ma per un LED bianco che lavora a circa 3V ci vorranno quattro o cinque frutti (motivo banale: il rosso è la radiazione a più elevata lunghezza d’onda e dunque più bassa energia delle altre e i LED, ma ne parleremo un’altra volta, sono nient’altro che delle giunzioni p-n usate alla rovescia rispetto alle celle fotovoltaiche: il LED trasforma energia elettrica in luce e la FV la luce in energia elettrica, ma potete usare un LED come FV e viceversa anche se con poca sostanza; ed infine una giunzione p-n è l’equivalente moderno sui semiconduttori dei metalli in contatto che furono alla base dell’esperimento di Volta).La reazione scritta dal collega Grimaccia, e che non vale in questo caso, invece diventerà la base di un’altra importantissima batteria, quella di Daniell, dove però lo ione rame viene aggiunto esplicitamente;Dunque l’errore consiste nell’aver usato le reazioni di Daniell al posto di quelle di Volta. Per fare una pila di Volta va bene al posto del rame anche un elettrodo di grafite o di qualunque altro metallo a potenziale di riduzione adeguato e come il rame dunque di fatto inerte nella situazione in questione.

Si può perfino NON usare una soluzione acidula e le cose funzionano lo stesso ragionevolmente per introduzione dell’effetto dell’ossigeno gassoso che è pur solubile per 9mg/litro in acqua; a quel punto si avrebbe una batteria Zinco-aria e manco lo ione idrogeno servirebbe più. A questo punto si introdurrebbe una tematica che è quella della sovratensione di reazione dei vari reagenti ione idrogeno o ossigeno su elettrodi metallici che in realtà non partecipano alla reazione; si arriva ad un altro celeberrimo tema che è quello dei meccanismi cinetici dell’elettrochimica, un argomento che la chimica generale sfiora solamente, ma molto importante in pratica.

Tutte queste cose Volta non poteva saperle, ma noi suoi eredi dopo 200 anni dovremmo scriverle chiaramente.

Ovviamente al collega Grimaccia va il beneficio di inventario; né si può pretendere da un ingegnere elettrotecnico (che si occupa di correnti alternate in genere) la stessa conoscenza di un elettrochimico su questi fenomeni. Sia all’ANSA che al Polimi il consiglio è lo stesso; per parlare di Chimica rivolgetevi ad un Chimico (in fondo a pochi chilometri da voi c’è la sede del Dipartimento dove lavorarono Bianchi, Mussini e Trasatti senior, che hanno fondato l’elettrochimica italiana).

E’ pur vero che la Chimica serve a tutti, ma non per questo tutti la conoscono in dettaglio.

Da consultare anche:

http://www.ansa.it/canale_scienza_tecnica/notizie/energia/2018/11/16/cosi-le-arance-accendono-la-luce-video_b46c8e68-3da1-4e17-b055-5b8772f333ff.html

https://www.youtube.com/watch?time_continue=146&v=x8PV-0vRMbE

https://www.scientificamerican.com/article/generate-electricity-with-a-lemon-battery/

La transizione energetica: come la vedono gli scienziati

Vincenzo Balzani, professore emerito UniBo

Il cambiamento

In due recenti articoli pubblicati su La Chimica e l’Industria on line [1,2] ho provato a spiegare perché per salvare il nostro pianeta, l’unico luogo dove possiamo vivere, dovremo portare a termine tre transizioni: dai combustibili fossili alle energie rinnovabili, dall’economia lineare all’economia circolare e dal consumismo alla sobrietà.

Transizione vuol dire cambiamento e l’esperienza dimostra che le persone non amano cambiare. Se ne era già accorto molto tempo fa Niccolò Macchiavelli che, secondo alcune fonti, pare abbia scritto: Non c’è niente di più difficile da prendere in mano, più pericoloso da condurre, o più incerto nel suo successo che prendere la guida di un cambiamento. Perché il riformatore ha nemici in tutti coloro che traggono profitto dal vecchio ordine e ha solo tiepidi difensori in tutti coloro che trarrebbero profitto dal nuovo ordine; questa tiepidezza deriva in parte dalla paura dei loro avversari e in parte dall’incredulità dell’uomo, che non crede veramente in qualcosa di nuovo fino a quando non ne ha avuto l’esperienza effettiva”.

Quindi, portare avanti tre transizioni, in parte interconnesse, per salvare il pianeta non sarà affatto facile. Sappiamo però che questa è l’unica via che possiamo percorrere per giungere alla sostenibilità ecologica, che a sua volta è la base per raggiungere la sostenibilità sociale. Ciascuno di noi, nella situazione in cui si trova e con l’attività che svolge deve assumersi la sua parte di responsabilità. Questa vale particolarmente per gli scienziati, dai quali la pubblica opinione si aspetta prese di posizione chiare e ben documentate, per gli educatori che operano nelle scuole di ogni ordine e grado e per i mezzi di comunicazione che hanno il compito di diffondere le conoscenze e mettere a confronto in modo costruttivo proposte e opinioni affinché quelle più giuste possano affermarsi.

Difficoltà intrinseche

Affinché una transizione avvenga nel modo corretto, deve essere guidata. Bisogna partire da un quadro chiaro e completo della situazione in cui ci si trova e fare previsioni, formulare scenari e preparate roadmap per raggiungere l’obiettivo in un tempo ragionevole. Guidare la transizione energetica è un’impresa molto difficile perché la realtà è in continua evoluzione: aumenta il numero di abitanti del pianeta; aumentano le esigenze energetiche di miliardi di persone; in molte nazioni la situazione politica è confusa e i suoi esiti sono difficilmente prevedibili; le decisioni politiche sono influenzate da fattori economici e pressioni sociali, spesso in contraddizione; il prezzo del petrolio, con cui le energie rinnovabili devono competere, ha variazioni spesso irrazionali; infine, è sempre più evidente che le risorse del pianeta sono limitate, per cui i progressi nella transizione energetica sono forzatamente collegati a quelli della transizione dall’economia lineare all’economia circolare.

Gli scenari, inevitabilmente basati su estrapolazioni, devono quindi essere frequentemente aggiornati e, in ogni caso, vanno sempre considerati con cautela. Ciò nonostante, è importante cercare di prevedere cosa ci può riservare il futuro e ancor più capire l’impatto che avranno nei prossimi decenni le scelte che siamo chiamati a fare oggi. La domanda urgente a cui è necessario rispondere, se vogliamo custodire il pianeta, è: possiamo limitare le emissioni di CO2 in modo da mantenere l’aumento di temperatura al 2050 sotto i 2°C o, meglio, sotto 1,5 °C? [3, 4]. Su tempi lunghi, poi, la domanda che aspetta risposta diventa: è fattibile e sostenibile un mondo che funzioni solo con le energie rinnovabili?

Quasi tutte le agenzie internazionali hanno centri di studio sulla transizione energetica [5]. A volte le previsioni di queste agenzie sono condizionate dalla potente lobby del petrolio, come nel caso della IEA. Gli scenari che alcune di queste agenzie presentano per il futuro hanno come compito principale quello di suggerire al mondo economico e finanziario come comportarsi per mantenere profitti nell’ottica di una lenta transizione dai fossili alle rinnovabili, senza preoccuparsi dei tempi indicati dagli scienziati. I centri di ricerca scientifici, invece, cercano di analizzare la situazione e di suggerire cosa bisogna fare in concreto, incominciando da oggi, per portare a termine la transizione entro il 2050.

Il piano WWS proposto da M.Z. Jacobson e collaboratori

Negli ultimi anni sono stati riportati studi dettagliati da parte di molti gruppi di ricerca secondo i quali si possono sostituire completamente, entro il 2050, i combustibili fossili con le energie rinnovabili. Alcuni di questi piani sono stati criticati (si veda, ad esempio, [6]), ma la fattibilità della transizione energetica che prevede solo l’uso di energia elettrica generata dalle rinnovabili nel 2050, senza energia nucleare, è stata recentemente ribadita da una rassegna esaustiva della ricca letteratura scientifica sull’argomento [7].

Lo studio più dettagliato [8] è quello di M.Z. Jacobson della Stanford University che, con 26 co-autori, presenta roadmap di transizione per 139 paesi del mondo molto più spinte di quelle previste dagli accordi di Parigi. Gli autori sottolineano che le roadmap da loro illustrate non sono previsioni di quello che potrebbe accadere da oggi al 2050, ma proposte che, se attuate, risolveranno concretamente i problemi del cambiamento climatico, dell’inquinamento e della sicurezza energetica.

Il piano di Jacobson e collaboratori è denominato WWS (wind, water, sunlight) in quanto è basato unicamente sull’utilizzo di vento, acqua e sole come sorgenti primarie nel 2050. Sono esclusi il gas e il nucleare (proposti da altri autori come «energie-ponte»), e anche i biocombustibili, le biomasse e le tecnologie per la catturare ed immagazzinare la CO2. Il piano WWS prevede che i consumi energetici di tutti i settori dell’attività umana siano soddisfatti esclusivamente con elettricità fornita dalle energie rinnovabili e distribuita tramite reti, con l’impiego di accumulatori e idrogeno elettrolitico (celle a combustibile) per i trasporti, anche aerei e marittimi.

Secondo il piano WWS, la potenza che sarebbe necessaria nel 2050 se usassimo l’attuale sistema energetico, basato prevalentemente sui combustibili fossili (20.604 TW), sarà ridotta del 42%, per tre motivi: 1) la conversione dell’energia elettrica in lavoro è più efficiente del 23% rispetto all’uso di combustibili fossili; 2) WWS non ha le perdite di efficienza (valutate al 12,6%) legate all’estrazione, al trasporto e alla raffinazione delle fonti fossili; 3) in un sistema tutto elettrico si può contare su un aumento dell’efficienza energetica (6,9%). Il piano, illustrato nella Figura 1, prevede l’80% della conversione entro il 2030 e il 100% nel 2050.

Figura 1. Schema della transizione energetica secondo Jacobson e altri [8]. Per una descrizione dettagliata, si veda il testo e il lavoro originale.

Gli 11.840 TW di potenza elettrica richiesta nel 2050 per le 139 nazioni prese in considerazione saranno forniti principalmente da impianti fotovoltaici di varie dimensioni (48%), eolico onshore e offshore (37%) e per il 9,7% da impianti solari a concentrazione (Concentrating Solar Power, CSP) [8]. Sarà necessario installare fra l’altro 1.840.000.000 impianti fotovoltaici da 5 kW che saranno collocati sui tetti delle abitazioni, sulle tettoie dei parcheggi e sulle autostrade e 1.580.000 impianti eolici onshore da 5 MW, distesi sullo 0,9% del territorio che rimarrà usabile per l’agricoltura. Le tecnologie necessarie per sostituire nell’uso finale i combustibili fossili con energia elettrica sono già in gran parte disponibili in commercio, mentre altre (ad esempio, navi e aerei elettrici) sono in via di sviluppo e si prevede che saranno di uso comune fra una ventina d’anni.

La realizzazione del piano WWS diminuirà le emissioni di CO2, evitando che si superino 1,5 °C di riscaldamento globale nel 2050. Darà a ogni nazione la possibilità di produrre l’energia che consuma e faciliterà l’accesso all’energia per tutti; eviterà anche la morte prematura di circa 3,5 milioni persone causata dall’inquinamento e permetterà un risparmio medio di 5.800 dollari per persona all’anno sulle spese dovute da inquinamento e cambiamento climatico. Creerà circa 25 milioni di posti di lavoro permanenti nelle costruzioni e 27 milioni di posti permanenti per la manutenzione del sistema, per un totale di circa 52 milioni, a fronte di circa 28 milioni di posti persi nelle attività dei combustibili fossili e dell’energia nucleare.

Il piano WWS è estremamente dettagliato [8]. Esamina, paese per paese, i dati disponibili sui consumi energetici attuali e stima la domanda di potenza che ci sarà nel 2050 in ciascun paese prima e dopo l’elettrificazione di tutti i settori energetici. Poi analizza per ciascun paese la disponibilità di risorse rinnovabili per generare elettricità e propone una roadmap basata sul mix energetico rinnovabile più adatto per ciascun paese, tenendo conto della disponibilità di suolo, tetti, vento, acqua e situazioni particolari. Un simile, dettagliatissimo piano è stato poi formulato anche per 53 città del Nord America [9].

Per l’Italia, l’analisi dettagliata dello studio si può riassumere con i seguenti dati riferiti al 2050 [8]:

– la potenza di 240,8 GW per uso finale prevista sulla base del sistema energetico attuale si ridurrà a 134,9 GW in seguito all’elettrificazione;

– la potenza sarà generata dalle varie fonti rinnovabili in base a queste percentuali:

fotovoltaico nelle sue varie applicazioni 56,7%; eolico onshore e offshore 26,3%; CSP 11,3%; idroelettrico 4,9%; geotermico 0.6%

– il fotovoltaico residenziale genererà il 16,4% della potenza totale, utilizzando il 67% dei 737 km2 di tetti disponibili;

– dal punto di vista economico, si avrà un risparmio di 382 $/persona/anno sul costo dell’elettricità e un risparmio sui costi dei danni causati da inquinamento e cambiamento climatico per una media di 7.700 $/persona/anno;

– si eviterà la morte prematura per inquinamento, in media, di circa 20.000 persone all’anno;

– verranno perduti circa 160.000 posti di lavoro nei settori dei combustibili fossili, ma si creeranno circa 300.000 nuovi posti di lavoro permanenti per attività di costruzione e 350.000 per attività di gestione delle energie rinnovabili con un saldo positivo di circa 500.000 posti.

Lo studio conclude notando che la transizione, pur essendo tecnicamente ed economicamente fattibile, incontrerà molti ostacoli di tipo sociale e politico: c’è quindi un grande bisogno di informare le persone su quello che è possibile fare e sollecitarle a portare avanti la transizione nelle loro case e nella loro vita di ogni giorno. In Italia, purtroppo, la Strategia Energetica Nazionale punta fortemente sul gas e sui biocombustibili e il tentativo di informare sulla necessità della transizione energetica solo eccezionalmente arriva al grande pubblico [10]

  1. 1. La Chimica e l’Industria – ISSN 2532-182X – 2018, 5(7), ottobre
  2. La Chimica e l’Industria – ISSN 2532-182X – 2018, 5(8), novembre
  3. http://unfccc.int/resource/docs/2015/Cop21/eng/l09r01.pdf
  4. http://report.ipcc.ch/sr15/pdf/sr15_spm_final.pdf
  5. http://www.iea.org/weo/

https://about.bnef.com/new-energy-outlook/

http://www.iiasa.ac.at/web/home/research/twi/TWI2050.html

http://exponentialroadmap.futureearth.org

http://www.irena.org/publications/2018/Apr/Global-Energy-Transition-A-Roadmap-to-2050.

  1. B. Heard et al., Renew Sustainable Energy Rev, 2017, 76, 1122 DOI:10.1016/j.rser.2017.03.114
  2. T. W. Brown et al., Renewable and Sustainable Energy Reviews, 2018, 92, 834; 
https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S1364032118303307
  3. M.Z. Jacobson et al., Joule, 2017, 1 ,108-21, con 186 pagine di informazioni supplementari

http://dx.doi.org/10.1016/j.joule.2017.07.005

  1. M.Z. Jacobson et al., Sustainable Cities and Society, 2018, 42, 22 https://doi.org/10.1016/j.scs.2018.06.031
  2. https://ilblogdellasci.wordpress.com/2018/08/15/ascoltare-la-scienza-lincidente-di-bologna-e-la- transizione-energetica/

6 anni di blog.

La redazione.

6 anni di blog.

Oggi 14 novembre 2018 questo blog compie 6 anni; abbiamo pubblicato poco meno di 1000 articoli (985), 3 alla settimana in media con poco meno di un milione di contatti totali (per la cronaca sono 970.000).

Il numero di contatti al giorno è cresciuto parecchio arrivando a superare negli ultimi tempi i 1000 al giorno. Ma siamo particolarmente fieri dei quasi 500 iscritti, che ricevono notizia dei post automaticamente; si tratta in buona parte di non iscritti alla SCI, dunque che hanno scelto di seguirci autonomamente.

Poco più di 2500 interventi, circa 3 per ogni articolo.

Qualche curiosità; l’articolo più gettonato in assoluto?

Quello sulla Chimica alle elementari, della sempreverde Silvana Saiello che ha raggiunto quasi 20.000 contatti da quando (2013) è stato pubblicato e continua a ricevere una crescente attenzione; nello scorso mese di ottobre ha avuto da solo oltre 1200 lettori. Pensate un po’. Un classico della divulgazione.

Il più letto in un giorno è stato invece un articolo di Gianfranco Scorrano, gennaio 2014 una critica feroce di alcuni metodi concorsuali all’Università, oltre 2500 contatti in 24 ore , La cattedra e…. la sedia.

Non dimentichiamo però anche le serie sulla merceologia, sulla depurazione, sulla storia della scienza al femminile, le riflessioni etiche, quelle sulla contemporaneità, sulle nuove scoperte, sull’energia rinnovabile e l’economia circolare, il cuore del blog. E non dimentichiamo che ci siamo schierati, sul clima, sull’energia, sui diritti delle donne, sull’uso della Chimica; abbiamo scelto, preso posizione; non possiamo più tacere.

Tanto lavoro per la nostra piccola redazione che, seppure ha cambiato un po’ composizione nel tempo, rimane una redazione di una decina di persone.

Certo abbiamo ricevuto nel tempo anche i contributi di tanti colleghi che più o meno regolarmente ci mandano qualche testo e che ringraziamo; all’inizio speravamo di riuscire a catalizzare maggiori contributi, ma siamo contenti comunque. Non pretendiamo un Primo Levi, ma continuiamo ad insistere su una partecipazione discreta ma continua; se dei 3500 soci della SCI, che sono, dopo tutto, meno del 5% dei chimici italiani, il 10% scrivesse un articolo all’anno avremmo un post al giorno.

C’è stata una crisi di crescita quando abbiamo cambiato nome nel gennaio 2017; il blog della SCI è diventato “La Chimica e la Società” (richiamando il titolo della rivista storica della SCI); questo cambio ha corrisposto ad un notevole incremento dei lettori, che sono quasi raddoppiati .Negli ultimi mesi un ulteriore crescita catalizzata sia dagli agguerriti testi di Vincenzo Balzani sull’impegno dello scienziato, che anche dal lancio su Facebook aperto a tutti i lettori.

Siamo ancora lontani dal fare un giornale online di chimica, una piazza aperta a tutti i chimici italiani, uno strumento per fare opinione, ma col nostro sottotitolo attuale siamo una testimonianza del fatto che la Chimica è la scienza fondamentale per la nostra società e cerchiamo di stare sul pezzo, seguire i fatti importanti in cui la Chimica conta e sui quali occorre schierarsi.

Homo sapiens è stato un chimico fin dall’epoca di Blombos 101.000 anni fa, quando faceva pigmenti per dipingersi il corpo; poi ha iniziato a dipingere gli animali attorno a lui e tante, tante mani sulle pareti delle caverne.

La più antica testimonianza di pitture rupestri, Lubang Jeirji-Saleh, Borneo 40.000 anni fa (Nature nov. 2018 Palaeolithic cave art in Borneo)

Oggi, nell’Antropocene dovrebbe calmarsi un po’ dato che ha “dipinto”, ha messo le sue mani su tutto il pianeta, con una impronta non particolarmente positiva per il resto della biosfera, e che si sta rivelando un boomerang, capace di danneggiare la stessa Umanità.

Siamo qua per dare un piccolo contributo in questo senso: prendere coscienza della potenza insita nelle nostre mani, nei nostri cervelli, nell’azione comune; e della necessità di sottomettere al controllo della ragione e dell’amore la nostra intelligenza. Dunque chimica del riciclo, chimica sostenibile e rinnovabile ma soprattutto chimica dell’amore, usata con amore della Natura e per amore dell’Umanità; dopo tutto siamo solo una minuscola specie di primati saccenti, che infilano mani dappertutto, in una piccola arancia blù, un minuscolo pianeta, alla periferia di una Galassia lontana lontana.

Buona lettura.

Più aromatico di così…..

Rinaldo Cervellati

Evidenza sperimentale di doppia aromaticità in una molecola stabile: il dicatione esa(fenilselenil)benzene presenta aromaticità σ e π concentriche.

La scoperta, dovuta a un team di ricercatori giapponesi guidati dal prof. Masaichi Saito (S. Furukawa et al., Double aromaticity arising from σ- and π-rings, Commun. Chem. 2018, DOI: 10.1038/s42004-018-0057-4) è stata riportata da Sam Lemonick su Chemistry & Engineering newsletter on-line l’11 ottobre scorso. Vediamo di capire di cosa si tratta.

Dalla scoperta del benzene, i composti aromatici, che hanno struttura e proprietà simili a quelle del benzene, hanno svolto un importante ruolo in molti campi della chimica. Qualsiasi studente che ha seguito un corso di chimica organica sa che il carattere aromatico deriva da orbitali-π delocalizzati, completamente “occupati” da sei elettroni, come si osserva appunto nel benzene (figura 1).

Fig. 1 Aromaticità “classica” π

Ma come capita per molti concetti insegnati in un primo corso di chimica organica, la realtà è più complessa. I chimici hanno attivamente discusso ed esteso il concetto di aromaticità.

Attualmente, l’aromaticità σ- e δ- derivante da (4n + 2) elettroni σ e δ rispettivamente, sono state previste da calcoli teorici e studi sperimentali (figura 2).

Fig. 2 Aromaticità- σ

La successiva logica domanda è se diversi tipi di aromaticità possano coesistere in una singola molecola. Poiché la previsione teorica su una misteriosa molecola ipotetica che possedeva aromaticità doppia σ- e π- fu riportata da Schleyer et al. nel 1979 (J. Chandrasekhar et al., Double aromaticity: aromaticity in orthogonal planes.The 3,5-dehydropenyl cation., Tetrahedron Lett., 1979, 20, 3707-3010), la ricerca sperimentale di composti aromatici stabili σ- e π- è proseguita negli anni con pazienza.

Ispirato da un precedente lavoro di Martin (D.J. Sagl, J.C. Martin, The Stable Singlet Ground State Dication of Hexaiodobenzene: Possibly a σ-Delocalized Dication, J. Am. Chem. Soc. 1988, 110, 5827-5833), Saito e collaboratori hanno autonomamente progettato un dicatione esaselenilbenzenico come potenziale composto a doppia aromaticità σ- e π-.

Prof. Masaichi Saito

Il razionale per tale scelta si è basato sulle seguenti considerazioni: 1) la sua π-aromaticità è giustificata dalla presenza di un anello benzenico, 2) gli orbitali σ delocalizzati ciclici sono possibili a causa delle interazioni tra coppie solitarie sugli atomi di selenio, e 3) i composti di selenio sono facilmente ossidati.

In effetti, i calcoli precedentemente effettuati dal gruppo sul composto modello, [C6(SeH)6]2+, predicono il suo carattere aromatico doppio σ- e π (M. Hatanaka et al., σ-Aromaticity in Hexa-Group 16 Atom-Substituted Benzene Dications: A Theoretical Study., J. Org. Chem., 2014, 79, 2640-6). Il gruppo di ricerca è quindi riuscito a sintetizzare e caratterizzare completamente il dicatione dell’esa(selenilfenil)benzene (figura 3) e a delucidare il suo carattere aromatico doppio σ- e π.

Fig. 3 Il catione esa(selenilfenil)benzene (Ph = fenil)

Il carattere aromatico doppio σ- e π del dicatione, ottenuto dall’ossidazione del precursore neutro (M. Saito, Y. Kanatomi, Reinvestigation on the synthesis of hexakis(phenylseleno)benzene., J. Sulphur Chem., 2009, 30, 469-476), è stato chiarito in base ai criteri di aromaticità.

La struttura molecolare determinata dall’analisi di diffrazione a raggi X ha rivelato un’alterazione trascurabile dei legami C-C nell’anello centrale a sei membri, indicando che esso mantiene la sua aromaticità originaria. I legami selenio-selenio e selenio-carbonio (sull’anello benzenico centrale) sono quasi identici, caratteristica dei composti aromatici. Anche le proprietà magnetiche del dicatione supportano il suo carattere doppio-aromatico (figura 4).

Fig.4 Doppia aromaticità nell’esa(selenilfenil)benzene (E = −SePh) dicatione

Il gruppo ha dimostrato che il dicatione possiede un carattere aromatico doppio σ- e π- derivante da orbitali delocalizzati ciclici σ- e π-simmetrici, formalmente occupati da dieci e sei elettroni, rispettivamente. L’aromaticità segue quindi la regola di Hückel 4n+2 (n = 1, 2, …), indipendentemente dalla simmetria orbitale σ- o π-.

Saito e collaboratori affermano che i loro risultati ampliano il concetto di aromaticità e possono rappresentare un passo avanti nella scienza dei materiali, considerando che dovrebbero favorire lo sviluppo della prossima generazione di sistemi π-aromatici.

Alexander I. Boldyrev, un chimico teorico della Utah State University, che ha predetto molecole aromatiche doppie contenenti boro, dice che Saito ha effettivamente scoperto un vero esempio di aromaticità π e σ e afferma che il fatto più importante è la stabilità del composto. Boldyrev ritiene che la molecola potrebbe aiutare i chimici a capire il legame, la struttura e la stabilità in altre molecole, specialmente inorganiche.

Scienziate che avrebbero potuto aspirare al Premio Nobel: Marthe Louise Vogt (1903-2003)

Rinaldo Cervellati

Marthe Louise Vogt, neurofisiologo e chimico, è considerata una fra i principali scienziati nelle neuroscienze, particolarmente nel campo dei neurotrasmettitori.

Marthe Louise nacque l’8 settembre 1903 a Berlino, da Cecile Mugnier Vogt, francese e Oscar Vogt, di origine tedesco-danese, discendente da una famiglia di lunga tradizione comprendente religiosi luterani, capitani di marina e perfino un pirata. Marthe ebbe una sorella minore, Marguerite, che divenne genetista.

Cecile e Oskar Vogt erano i principali neuroanatomisti del loro tempo, dal 1898 al 1937 lavorarono insieme a Berlino sull’anatomia, la fisiologia e la patologia del cervello. Essi hanno descritto la sindrome di Vogt-Vogt[1] . A Oskar Vogt fu chiesto di eseguire un esame post-mortem sul cervello di Lenin. Egli trovò cellule piramidali corticali insolitamente grandi, suggerendo che potevano essere indicazione di una funzione mentale superiore.

Marthe crebbe quindi in una famiglia di talento dove la curiosità intellettuale era la grande forza trainante. Da bambina accompagnava il padre in spedizioni per raccogliere insetti, che erano usati come materiale per studi sulla variabilità genetica.

Anche se il padre è stato un attivo socialista, sembra che la giovane Marthe abbia avuto scarso interesse per la politica: nonostante la prima guerra mondiale, la sua prospettiva era internazionale, probabilmente un riflesso delle origini cosmopolite dei genitori. Marthe parlava correntemente francese, inglese e tedesco.

Dal 1909 al 1922 Marthe Vogt frequentò l’Auguste Viktoria-Schule di Berlino-Charlottenburg, finendo con l’Abitur, qualifica di ingresso per qualsiasi università tedesca.

Marthe Louise Vogt da giovane

Dal 1922 al 1927 intraprese contemporaneamente gli studi di chimica e medicina all’Università di Berlino. Agli studenti era infatti permesso di organizzare liberamente i loro studi e orari e Martha fu in grado di frequentare molti corsi e lezioni oltre a quelli stabiliti dai singoli curricula delle due facoltà. Furono in particolare le lezioni di W. Schlenk[2] e F. A. Paneth[3] che la stimolarono a ciò che avrebbe voluto fare in futuro: applicare le conoscenze chimiche ai problemi medico-neurologici.

Marthe Vogt ottenne il diploma universitario in medicina nel 1927 e passò l’anno successivo di pratica medica per metà lavorando in ospedale e per metà nel laboratorio del padre su un progetto neuro-anatomico che fu oggetto del suo dottorato medico ottenuto l’anno successivo, il 9 maggio 1928. I successivi due anni furono spesi da Marthe al Kaiser-Wilhelm-Institut für Biochemie sotto la guida di C. Neuberg[4], per completare la formazione in chimica organica e produrre una tesi sul metabolismo dei carboidrati. Discusse la tesi e ottenne il dottorato in chimica il 27 settembre 1929. Dalla tesi ricavò due articoli pubblicati in tedesco su Biochemische Zeitschrift nel 1929.

Nel 1929, Vogt iniziò a lavorare su farmacologia e endocrinologia presso l’Istituto di Farmacologia a Berlino, diretto da Paul Trendelenburg[5] dove strinse amicizia con diversi colleghi, in particolare con il figlio di Paul, Ullrich, che rimase suo amico per tutta la vita. Qui Vogt imparò a conoscere l’endocrinologia e utilizzò tecniche chimiche nell’analisi farmacologica. All’inizio degli anni ’30, si era affermata come una delle principali farmacologhe tedesche e nel 1931, a soli 28 anni, fu nominata responsabile della divisione chimica del Kaiser Wilhelm Institut für Hirnforschung (“Scienza del Cervello”). All’Istituto intraprese studi elettrofisiologici sul cervello e indagò gli effetti di vari farmaci sul sistema nervoso centrale. Annota che all’inizio l’atmosfera lavorativa all’istituto era eccellente, ma col passare del tempo divenne sempre più opprimente a causa del clima politico, tanto da indurla a cercare opportunità all’estero. Effettivamente Vogt non aveva creduto che Hitler e il partito nazista sarebbero saliti al potere, ma dovette rendersi conto di aver sbagliato valutazione, fu per questo che si mise a cercare lavoro fuori dalla Germania.

Fortunatamente, il futuro Premio Nobel Sir Henry Dale[6] le aveva offerto un posto nel suo laboratorio a Londra se avesse ottenuto un supporto finanziario. Vogt conseguì una borsa di studio Rockefeller Travelling per un anno e lasciò la Germania per Londra il 1 aprile 1935. Chissà se in quel momento Marthe Vogt realizzò che forse non avrebbe mai più lavorato in Germania.

Vogt trascorse la prima metà della borsa Rockefeller nel laboratorio di Sir Henry Dale a Hampstead in collaborazione con Wilhelm Feldberg (1900-1993) sul rilascio di acetilcolina dai nervi motòri. Deve essere stato un momento emozionante perché l’idea della trasmissione chimica degli impulsi nervosi era relativamente nuova e questa scoperta era un’ulteriore prova della supposizione. Il lavoro fu pubblicato nel Journal of Physiology (H.H.Dale, W. Feldberg, M. Vogt, Release of Acetylcholine at Voluntary Motor Nerve Endings., J. Physiol., 1936, 86, 353-380.), lo stesso anno in cui a Dale fu conferito il premio Nobel. Dale in particolare menzionò il lavoro con Feldberg e Vogt nella sua Nobel lecture e suggerì cautamente che la trasmissione chimica che si trova in periferia potrebbe essere alla base della connettività interneuronale nel cervello.

Non possiamo sapere se questo suggerimento abbia influenzato Vogt, certamente questa fu l’area in cui fece le sue scoperte più importanti, usando metodi chimici per misurare le sostanze neuro trasmittenti. Si pensi a quanto dovesse essere difficile misurare l’acetilcolina rilasciata dalla stimolazione dei nervi motòri. La produzione è molto piccola, in particolare in relazione alla massa muscolare e a quei tempi la sostanza trasmittente poteva essere rilevata solo da un noioso biosaggio.

Vogt trascorse la seconda metà della borsa Rockefeller a Cambridge con E. B. Verney (1894-1967), professore di Farmacologia, insieme hanno compiuto notevoli indagini sull’ipertensione.

Le condizioni della sua borsa erano tali che avrebbe dovuto rientrare in Germania dopo un anno, ma con l’aiuto di Verney ottenne un’altra borsa annuale continuando così a fare ricerca a Cambridge. Nel frattempo fece domanda per l’Alfred Yarrow Research Fellowship al Girton College di Cambridge, vincendola ebbe un ulteriore supporto finanziario di tre anni. In teoria, quindi, ebbe un sostegno sufficiente per rimanere in Gran Bretagna fino al 1940. Nel 1938 l’Università di Cambridge le conferì il dottorato ad honorem, dove divenne Dimostratrice in Farmacologia e Fisiologia.

Marthe Vogt nel 1939

Sfortunatamente, lo scoppio della seconda guerra mondiale minacciò la sua carriera. Nel 1939 i servizi britannici di intelligence scoprirono che Marthe Vogt era ancora un membro del partito nazista. Tecnicamente infatti Marthe faceva ancora parte del personale docente ricercatore di un’università tedesca e automaticamente era membro di quel partito. I suoi tentativi di dimettersi non erano stati accettati dai funzionari nazisti. Fu portata davanti a un tribunale che la classificò “straniera nemica di categoria A” e dispose per il suo immediato internamento. Tuttavia, tutti i colleghi e gli amici di Vogt si radunarono in suo aiuto e le fu concesso un processo d’appello. La categoria fu cambiata in “straniera amica”, liberandola per continuare il suo lavoro a Cambridge, nel febbraio 1940. Marthe Vogt fece quindi domanda per la naturalizzazione britannica che però le fu concessa solo nel 1947, due anni dopo la fine della guerra.

Finita la borsa di studio al Girton College a Vogt si presentò l’opportunità di condurre ricerche indipendenti: nel giugno del 1941 fu nominata membro del personale dei Laboratori Farmacologici della Pharmaceutical Society of Great Britain a Bloomsbury Square a Londra, comunemente noto come “The Square” (“La Piazza”). Fu in questo ambiente che Marthe Vogt espresse maggiormente la sua originalità. Lei focalizzò l’attenzione sulla ghiandola surrenale e alla sua relazione con lo stress. Fu il suo importante, ma non principale interesse di ricerca per il resto della sua carriera (peraltro iniziato nel periodo berlinese). Uno sguardo alla sua lista di pubblicazioni mostra che pubblicò oltre 30 articoli sull’argomento, per lo più solo a suo nome, il che rappresenta uno sforzo colossale di ricerca.

Gli studi sulle ghiandole surrenali rimasero un serio interesse di Vogt anche dopo il suo trasferimento come Lecturer al Dipartimento di Farmacologia di Edimburgo nel 1947. Non vi può essere alcun dubbio che i contributi più importanti di Marthe Vogt furono in neurofarmacologia. Ancor prima di lasciare “The Square”, aveva collaborato con il suo collega e amico Wilhelm Feldberg. Insieme decisero di studiare la sintesi dell’acetilcolina in diverse regioni del cervello. Misurando la colina acetilasi (oggi chiamata colina acetiltransferasi), l’enzima che sintetizza l’acetilcolina, che poteva essere rilevata in piccoli volumi di tessuto cerebrale, hanno fornito forti evidenze del ruolo dell’acetilcolina come neurotrasmettitore e hanno dimostrato la distribuzione dei sistemi colinergici nelle diverse regioni del cervello (W. Feldberg, M. Vogt, (Acetylcholine synthesis in different regions of the central nervous system., Journal of Physiology, 1948107, 372–381).

Marthe Vogt e Wilhelm Feldberg

Mentre era a Edimburgo, Vogt pubblicò un articolo sulla concentrazione di simpatina (noradrenalina e adrenalina) nel sistema nervoso centrale che molti considerano la sua migliore ricerca (M. Vogt, The concentration of sympathin in different parts of the central nervous system under normal conditions and after the administration of drugs. J. Physiol., 1954, 123, 451–481).

Marthe Vogt Royal Society Member

Avendo già a disposizione tecniche di separazione cromatografica, metodi fluorimetrici e attraverso una serie di analisi biologiche ha analizzato il contenuto di noradrenalina e adrenalina nel cervello. Va ricordato che la concentrazione di queste sostanze è solo di circa 1μg g−1 nelle zone più ricche e in molte parti è molto inferiore. Inoltre, lavorò con campioni di massa 10-250 mg.

Tuttavia riuscì a ottenere i valori per il contenuto di 41 diverse aree del cervello. La distribuzione era irregolare, alcune aree avevano 20 volte la concentrazione delle altre. La distribuzione poteva poi modificarsi sotto l’azione di diversi farmaci. Con la dovuta cautela, Vogt diede un’interpretazione di questi risultati.

Nel 1951 fu elevata a un grado superiore e nel 1952 divenne Reader (equivalente di professore), nello stesso anno fu eletta Fellow della Royal Society, un riconoscimento assegnato in precedenza a sole altre otto donne.

Nel 1960 si trasferì all’Agricultural Research Council’s Institute of Animal Physiology at Babraham, appena fuori Cambridge, dove è stata a capo dell’unità di farmacologia fino al 1968. Anche se si è ufficialmente ritirata a questa data ha continuato a pubblicare e a ricevere visiting professors fino agli ultimi anni ’80.

Marthe Vogt in età avanzata

Nel 1988, lasciò il suo paese d’adozione per vivere con sua sorella Marguerite, 10 anni più piccola, a La Jolla, in California. Marthe Vogt è morta il 9 settembre 2003, il giorno dopo il suo 100° compleanno.

Opere consultate

Alan W. Cuthbert, Marthe Louise Vogt. 8 September 1903 — 9 September2003: Elected FRS 1952, Biogr. Mems Fell. R. Soc. 2005, 51, 409-423.

A.B. Vogt, Marthe Louise Vogt (1903-2003). In: J. Apotheker and L.S. Sarkadi, European Women in Chemistry, Wiley-VCh verlag GmbH & Co. Weinheim, Germany, 2011, pp. 149-152.

[1] Questa sindrome è il risultato di una lesione del corpo striato, solitamente associata a danno alla nascita che causa una forma di paralisi cerebrale. La malattia insorge nella primissima infanzia quando dovrebbe cominciare a svilupparsi un’attività motoria complessa, come sedersi, stare in piedi e camminare.

[2] Wilhelm Johann Schlenk (1879 – 1943) chimico tedesco, noto soprattutto per aver sviluppato apparecchiature che permettono la manipolazione di composti sensibili all’aria, che gli permisero di preparare per la prima volta composti organometallici del litio.

[3] Friedrich Adolf Paneth (1887 – 1958) chimico austriaco naturalizzato britannico nel 1939 dopo essere fuggito dall’Austria nazista. Dopo la guerra, Paneth tornò in Germania per diventare direttore dell’Istituto Max Planck per la chimica nel 1953. Fu considerato la massima autorità del tempo sugli idruri volatili, diede anche importanti contributi allo studio della stratosfera.

[4] Carl Alexander Neuberg (1877-1956), ebreo tedesco è spesso definito il “padre della moderna biochimica”. Il suo notevole contributo alla scienza include la scoperta della carbossilasi e la delucidazione della fermentazione alcolica che dimostrò avvenire attraverso una serie di reazioni enzimatiche, comprensione cruciale per l’interpretazione dei percorsi metabolici.

[5] Paul Trendelenburg (1884 – 1931), farmacologo tedesco particolarmente noto per le sue ricerche sull’adrenalina, per lo sviluppo di procedure di misurazione biologica per la standardizzazione dei preparati ormonali.

[6] Sir Henry Hallett Dale (1875 – 1968), farmacologo e fisiologo inglese, condivise con Otto Loewi il Premio Nobel per la medicina o fisiologia 1936 per le loro scoperte sulla trasmissione chimica degli impulsi nervosi.