Luigi Campanella, già Presidente SCI
Si torna a parlare di valore legale del titolo di studio,in particolare della laurea.
Si tratta di un tema che ritorna periodicamente negli anni con schieramenti a favore e contro questo valore.
Cercherò di fare il punto sulle differenti posizioni.
Mantenere il valore legale della laurea significa riconoscere ad ogni laurea conferita da un’università italiana lo stesso valore e quindi la stessa importanza nel mercato degli impieghi pubblici. Le critiche contestano l’uguale peso che così viene dato ad atenei che pure hanno valore diverso rispetto alla formazione impartita. Cadrebbe anche l’incentivazione a migliorare il proprio livello didattico cercando di arruolare docenti sempre più qualificati,preparati ed accreditati. Tali critiche sono addirittura arrivate ad ipotizzare un ranking quantitativo delle università stabilito da un ente terzo e che dovrebbe potere incidere sulla valutazione del voto di laurea conseguito.
D’altra parte chi è a favore del valore legale invoca a giustificazioni che una perdita del valore legale del titolo affosserebbe le università più povere, così discriminando in base al censo gli studenti in grado di iscriversi a quelle più qualificate e care rispetto agli studenti non in grado di farlo per mancanza di risorse. Conseguentemente anche l’autofinanziamento con le tasse di iscrizione sarebbe a danno delle università più povere. Ciò risulta ancora più grave in un Paese come il nostro dove il finanziamento statale è pesantemente sottodimensionato. C’è poi l’aspetto del rapporto pubblico/privato: togliere valore al titolo può risultare in un ridimensionamento dell’università pubblica rispetto alla privata.
Volendo commentare la situazione non si può fare a meno di osservare che togliere il valore legale al titolo può in molti casi spostare il problema in avanti; in molti Paesi Europei,ed in parte anche in Italia, molte professioni (medico, dentista, ingegnere, architetto), pure in assenza del valore legale del titolo, possono essere esercitate solo in presenza di garanzie fornite da altre sedi di valutazione e di percorsi formativi accreditati. Il problema può forse trovare una mediazione con l’applicazione di criteri di valutazione del laureato, oltre che con la qualità della sua formazione, criteri che hanno a volte dimostrato di ribaltare credenze comuni: ad esempio la classifica delle scuole superiori formulata dalla Fondazione Agnelli per le grandi città favorisce le scuole di periferia rispetto a quelle dei quartieri più ricchi e blasonati.
Ennesima battaglia neoliberista partita in circoli elitari a cui ci si accoda. Rincorriamo il modello americano, anglosassone e nordeuropeo: la modalità è sempre la stessa, si crea un problema dove non c’è (i nostri laureati sono i migliori al mondo in qualunque ateneo abbiano studiato) e troviamo la soluzione (restringere quei pochi spazi di libertà di insegnamento non ancora ideologizzati e soggetti a piegarsi ai finanziatori esterni). Come sempre, il meccanismo è ormai noto, si tagliano i fondi ad un’impresa o ad un’istituzione pubblica fino a portarla al punto di rottura e poi si privatizza, con la scusa che non funziona. I veri e nefasti obiettivi sempre nascosti dietro motivazioni apparentemente virtuose: distruggere, nell’impeto di omologarsi a modelli importati, quel sistema pubblico che, oltre a rappresentare il vero ascensore sociale, aveva permesso di accedere all’università ai figli di quelle famiglie sempre escluse dall’istruzione di alto livello. Contribuiamo a distruggere l’università pubblica, torniamo pure all’università per censo, riceveremo ricchi premi e cotillons.
Sono assolutamente d’accordo. Anch’io penso sia un falso problema o peggio un problema inventato. Nella migliore delle ipotesi per inguaribile provincialismo italico che ci porta a scimmiottare il sistema anglo-sassone senza essere anglo-sassoni (di esempi, anche recenti, ne abbiamo avuti parecchi). Nella peggiore, per secondi fini poco commendevoli come suggerisce chi mi precede. L’esempio di come si sta smantellando la Sanità regionale, anche dove funziona, è sotto gli occhi di tutti.
Anch’io mi riconosco in quello che ha detto Luigi.
Condivido i commenti precedenti. E aggiungo che il titolo legale da sempre fornisce una copertura formale di comodo ad ogni possibile abominio pedagogico che precede il corso di studi. Incluso che si studi per i crediti e non per la comprensione e si insegni valuti in funzione di ciò che possa essere facilmente “restituito” e “misurato”. All’inizio l’università, per lo meno quella, non era così.
Molte sono le “magagne” dell’Università, questa mi sembra la minore…
Se volete potrei scrivere un lungo post sulla mia esperienza, ora che sono a un paso dall’uscirne, di come negli ultimi 15 anni l’istituzione si sia degradata, sia per l’incapacità dei politici, sia per il disinteresse e l’ignavia di colleghi e responsabili, per quanto concerne la gestione interna alle singole sedi…
Ora i docenti ed i ricercatori sono soggetti alla burocrazie degli uffici amministrativi, e gli sudenti a scalare sopportano tutto…
stefano antoniutti