Helen Kemp Archbold Porter (1899-1987)

Rinaldo Cervellati

Helen Porter è stata un biochimico inglese, prima donna professore ordinario all’Imperial College di Londra, una dei primi scienziati britannici a utilizzare le tecniche, allora innovative, della cromatografia e dei marcatori radioattivi.

Helen nacque il 10 novembre 1899 a Farnham, cittadina nel Surrey, circa 55 km a sud-ovest di Londra, da una famiglia della classe media. Il padre, George Kemp Archbold era direttore e comproprietario di una scuola privata, la madre, Caroline Emily Broughton Whitehead, cantante professionista, formatasi al Conservatorio di Bruxelles in Belgio.

Helen descrisse sua madre come persona energica che eccelleva nelle virtù domestiche con un profondo senso del dovere verso la famiglia. Il suo passatempo era la musica.

La prima infanzia di Helen fu felice, come si intende convenzionalmente la vita in una famiglia vittoriana conservatrice della classe media. Nel 1901 i suoi genitori si trasferirono da Farnham a Clifton, un sobborgo di Bristol. La prima educazione di Helen, come quella della sorella maggiore, avvenne in casa, la madre le insegnò a leggere e scrivere e le fornì una buona conoscenza della lingua francese. In casa c’erano molti libri da leggere per le bambine, ma nessun testo scientifico. Il momento clou dell’anno era la lunga vacanza estiva con i nonni materni a Torquay.

Nel 1906 Helen cominciò a frequentare la Clifton High School for Girls e, all’età di 13 anni, cominciò a interessarsi di scienze grazie anche all’influenza che su di lei ebbe Francis Jennet Clark, l’insegnante di scienze e matematica.

Fotografia delle ragazze della Clifton High School for Girls nel 1917. Helen Kemp è la prima a sinistra della Preside Miss Phillips nella fila di mezzo

L’adolescenza fu bruscamente interrotta dallo scoppio della I Guerra mondiale, la famiglia si separò: il padre si recò nello Yorkshire a lavorare in un’altra scuola, la madre andò a Londra per impiegarsi nelle Cucine Nazionali Governative, le figlie restarono a Clifton per continuare a frequentare la Clifton High School for Girls. Come Helen disse più tardi: la mia infanzia felice era finita.

Giocò a cricket, tennis e hockey nelle squadre della Clifton School, diventando poi capitano di queste ultime due. Nel 1917 superò gli esami finali con successo in tutte le materie e si preparò per l’esame di ammissione al Bedford College for Woman, che faceva parte della London University. Fu ammessa con distinzione nell’ottobre 1917, iscrivendosi a un corso di studi quadriennale in chimica, fisica e matematica pura e applicata, conseguendo nel 1921 i diplomi in chimica e fisica con lode. Durante il suo periodo da studente fece parte attiva dell’Unione Studentesca e per due anni fu rappresentante di Facoltà nel Comitato dell’Unione.

Helen Kemp continuò i suoi studi all’Imperial College di Londra come studente post-diploma; lavorò nel laboratorio di chimica organica diretto dal professor Jocelyn Thorpe sotto la supervisione del Dr. Martha Whiteley[1]. I suoi studi nel laboratorio di Thorpe riguardarono derivati ​​di vari barbiturici.

Per perfezionarsi in biologia e biochimica, Helen Kemp frequentò il Birkbeck College e il Chelsea Polytechnical College.

Nel 1922, entrò a far parte di un gruppo di ricerca del Dipartimento di Fisiologia vegetale e Biochimica delle piante che collaborava con la Stazione di Ricerca Basse Temperature associata all’Università di Cambridge, per studiare il deterioramento delle mele nelle celle frigorifere, un problema che affliggeva gli importatori del frutto. Il gruppo di ricerca, in particolare Kemp, analizzò i composti organici contenuti nel frutto, zuccheri, acidi organici, ammidi, emicellulose e pectine. Lo studio di Kemp si estese dalla semplice analisi chimica all’esame del ruolo di queste sostanze chimiche nello sviluppo e nella maturazione del frutto, come pure nel loro trasporto, sintesi e metabolismo. Nel 1931, Helen Kemp e il suo team avevano capito con successo le reazioni chimiche che avvenivano nelle mele immagazzinate ma non ne avevano ancora accertato la causa; quell’anno il finanziamento dello studio fu purtroppo interrotto a causa della grande depressione e le ricerche considerate concluse. Queste ricerche le valsero il titolo di D.Sc. dall’Università di Londra.

Helen Kemp fu definitivamente trasferita al Dipartimento di Fisiologia Vegetale dell’Imperial College, diretto dal Prof. F.G. Gregory[2], collaborando anche con i Laboratori sperimentali Rothamstead. La sua ricerca comprendeva la relazione fra la nutrizione minerale e il metabolismo dei carboidrati nelle monocotiledoni, in particolare nell’orzo. Allo stesso tempo Kemp divenne Visiting Lecturer in Biochemistry presso lo Swanley Horticultural College.

I suoi studi sull’orzo riguardavano l’origine dell’amido nelle granaglie. Si riteneva comunemente che provenisse dallo zucchero conservato nello stelo trasferitosi nel seme e convertito in amido durante la sua maturazione. Helen Kemp e i suoi colleghi dimostrarono, con analisi accurate e dettagliate, che l’amido si formava direttamente dal biossido di carbonio appena fissato e che lo zucchero nel gambo era usato per la respirazione durante la sua senescenza.

Nel 1937 sposò il medico William George Porter, che morì tragicamente solo pochi anni dopo. Helen Kemp mantenne il cognome Porter per il resto della sua vita.

Allo scoppio della II guerra mondiale l’Imperial College fu requisito per scopi militari, Porter e colleghi furono trasferiti al Centro Sperimentale Agrario Rothamstead nella cittadina di Harpenden. Ancora una volta la sua vita e la sua casa furono sconvolte dalla guerra.

Tuttavia Porter continuò il lavoro di ricerca durante il conflitto, gettando le basi per i suoi futuri studi sulla sintesi dei polisaccaridi, specialmente quella dell’amido delle granaglie e i fruttosi.

Il lavoro sull’orzo la condusse a un interesse duraturo sugli enzimi responsabili della formazione e del degrado dell’amido. Nel 1947 alla fine della guerra andò per un anno al Laboratorio Coris a St Louis, Stati Uniti. Proprio in quell’anno i coniugi Cori (Gerthy Theresa e Carl Ferdinand) avevano vinto il premio Nobel per la medicina e la fisiologia per la scoperta dei meccanismi di conversione catalitica del glicogeno. Di conseguenza questa visita fu molto stimolante per Helen Porter.

Al suo ritorno all’Imperial College, continuò a lavorare sul metabolismo dell’amido e nel 1949 fu invitata a trascorrere sei mesi a Bangor nel laboratorio della Prof. Peat. Durante questo periodo è stata in grado di dimostrare la presenza di amido fosforilasi nell’orzo.

Come risultato della sua crescente reputazione scientifica, nel 1953 ebbe una generosa sovvenzione dalla Fondazione Nuffield. Questo è stato un punto fondamentale nella sua carriera di ricercatrice perché questa sovvenzione comprendeva sia personale che apparecchiature, e lei fu in grado di formare un gruppo di ricerca e dotare di adeguata strumentazione un laboratorio dell’Imperial College. L’intenzione iniziale era far partire un progetto di studio dei sistemi enzimatici interessati al metabolismo dei polisaccaridi dai metodi convenzionali disponibili al momento.

Tuttavia negli anni ’50 si stavano sviluppando due nuove tecniche importanti per la ricerca biochimica: la cromatografia e l’impiego di marcatori radioattivi. Porter divenne uno dei primi ricercatori ad applicare questi metodi per preparare prodotti chimici radioattivi e usarli per studiare il metabolismo intermedio delle piante.

Helen Porter nel suo laboratorio

Con l’aiuto del Dr G. Popjak a Mill Hill e del Dr. J.R. Catch ad Amersham, fu costruito un apparecchio mediante il quale fu preparato amido radioattivo partendo dalla fotosintesi di grandi foglie di tabacco in presenza di 14CO2 marcata con C-14. Questo polisaccaride è stato utilizzato per la prima volta per preparare il glucosio radioattivo a scopo di ricerca medica ma poi sia l’apparato sia le sostanze radioattive prodotte da esso furono usate per gli studi di Helen Porter sul metabolismo delle piante. In particolare lo studio della formazione dell’amido da zuccheri contenuti nel tessuto fogliare e il movimento del materiale fotosintetico nelle piante seguito mediante autoradiografia e tecniche di conteggio portarono a una serie di ricerche innovative descritte in altrettanti importanti articoli scientifici.

Helen Kemp Porter

La crescente reputazione scientifica di Helen Porter fu tale da meritare la sua elezione a Fellow della Royal Society nel 1956, e nel 1957 fu nominata Lettrice in Enzimologia nel Dipartimento di Botanica dell’Imperial College. Fu anche incaricata Responsabile scientifico principale dell’Istituto di Ricerca in Fisiologia Vegetale nello stesso College. Nel 1959 divenne la prima donna professore ordinario nella storia dell’Imperial College e succedette al suo collega e mentore, il professor Gregory, come capo del Dipartimento di Fisiologia vegetale. Helen Porter si ritirò nel 1964 con all’attivo ben 36 pubblicazioni scientifiche.

Nel 1962 si unì in secondo matrimonio con Arthur St George Huggett, professore di fisiologia vedovo con due figlie. Sfortunatamente anche il secondo marito morì sei anni dopo, così, anche se non aveva figli suoi, acquisì le due figlie adolescenti del suo secondo marito e, infine, un notevole numero di nipoti. Agì come amica e saggia consigliere della sua famiglia adottiva, aiutandoli tutti finanziariamente e professionalmente.

Porter possedeva anche eccellenti doti amministrative prendendo decisioni senza suscitare troppo risentimento e antagonismo. Quando lasciò la cattedra all’Imperial College fu secondo segretario al Consiglio di Ricerche Agrarie diventando un funzionario pubblico molto efficace. Nel 1972 divenne consigliere del Primo Segretario.

Curiosamente Helen aveva coltivato fin dall’infanzia un interesse che aveva progressivamente maturato. Nel ricamo era insolitamente abile e mantenne questa passione fino alla morte, avvenuta il 7 dicembre 1987, all’età di 88 anni. Gli arazzi che lei ricamava erano artistici e fantasiosi e in molti casi le immagini erano ispirate da fotografie scientifiche che avevano particolarmente attirato la sua attenzione.

Opere consultate

D.H. Northcote, Helen Kemp Porter, Biographical Memoirs of Fellows of the Royal Society1991, 37, 400–409.

Catharine M.C. Haines, International Women in Science, ABC CLIO, Santa Barbara, 2001

  1. B. Ogilvie, J. D. Harvey, eds, The biographical dictionary of women in science: pioneering lives from ancient times to the mid-20th century. Vol.2, L-Z., Routledge. New York, 2000.

[1] Vedi https://ilblogdellasci.wordpress.com/2018/08/24/scienziate-che-avrebbero-potuto-aspirare-al-premio-nobel-martha-annie-whiteley-1866-1956/

[2] Frederick Gugenheim Gregory (1893−1961) britannico, botanico e fisiologo vegetale noto per le sue ricerche sul fotoperiodismo, traspirazione e metabolismo dei carboidrati. Fu direttore del Laboratorio di Fisiologia Vegetale dell’Imperial College nel 1937 e nel 1947 fu nominato Direttore del Dipartimento contribuendo a ricostruirlo dopo i danni subiti nella 2a guerra mondiale. Eletto Fellow della Royal Society (FRS) nel 1940 e insignito della Royal Medal nel 1957 per I suoi importanti studi di fisiologia vegetale.

Agricoltura 4.0.

Luigi Campanella, già Presidente SCI

L’innovazione tecnologica nel settore della coltivazione, che potremmo chiamare agricoltura 4.0, muove un enorme mercato economico: si stima infatti che nel mondo valga 7 miliardi, raddoppiato rispetto al 2017, di cui 400 milioni di dollari in Italia. Ormai Industria 4.0 ò divenuto un’espressione familiare a molti italiani. Non si può dire purtroppo la stessa cosa per Agricoltura 4.0 intendendo con essa non solo agricoltura digitale, come nel caso delle imprese gestionali, ma anche un approccio globale di sistema, che va dalla coltivazione alla raccolta alla gestione attraverso tecnologie innovative che consentono di valorizzare il significato di filiera Agricola.

Questa limitata percezione da parte del cittadino, se poteva essere giustificata dalla situazione reale fino ad un paio di anni fa,oggi lo è molto meno.La nacchina si è finalmente messa in moto: Un fenomeno globale che lo scorso anno ha visto 500 startup raccogliere 2,9 miliardi di dollari di investimenti: di queste un quarto sono attive nel campo dell’Agricoltura 4,0; nel nostro Paese il settore è cresciuto in un anno del 270% ed è rappresentato per l’80% da aziende esistenti che si sono innovate e per il restante 20% da nuove realtà (elettronica e sensori, software, robotica e droni, produttori indoor). Si tratta comunque di una nicchia rispetto al mercato globale perché il nostro mercato vale soltanto il 5% del mercato globale e il 18% di quello europeo (dati Osservatorio Smart AgriFood del Politecnico di Milano).

Ma l’agricoltura 4.0, anche in un mercato piccolo come il nostro, può dare risposte alle sfide climatiche e ambientali dei prossimi anni e fornire tecnologie che mitighino la mancanza di risorse e riducano gli sprechi, come per esempio le coltivazioni fuori suolo, l’idroponica, l’acquaponica, l’agricoltura urbana e il vertical farming.

La prima sfida è nutrire la crescente popolazione cercando il minor impatto ambientale possibile ed è stata tradotta in numeri da Daniel Podmiserg del Vertical Farm Institute. L’introduzione nelle aree urbane di coltivazioni verticali integrate ha impatto positivo su molte dimensioni della sostenibilità urbana, a patto che il modello agricolo riesca a valorizzare l’intero volume degli edifici, inserendo colture complementari.

La tecnologia del fuori suolo permette di ottenere efficienze elevatissime anche senza iperspecializzare la fattoria, a patto di far coincidere il luogo di vendita/consumo con quello di produzione: il vero Km 0.https://www.wired.com/2017/01/rise-vertical-farm-weeks-must-read-stories/

Dalle micro e nano plastiche nei mari si parla da tempo, ma il problema riguarda anche i terreni agricoli. Si parla delle microplastiche, che vengono ingerite dagli animali da cortile attraverso i vermi, che si occupano anche di diffonderle, e della nanoplastiche, che per le piccolissime dimensioni riescono a entrare in circolo nei vegetali. I pericoli potenziali provengono dalle sostanze chimiche nocive che si attaccano alle particelle di plastica, e in questo modo aggirano le barriere difensive degli organismi. Ancora in larga parte misterioso è invece l’effetto che le nanoplastiche più piccole, sotto i 20 nanometri, hanno sul funzionamento cellulare, per esempio mimando l’azione di determinati enzimi o interferendo sulle membrane.

L’inquinamento da microplastiche e nanoplastiche del terreno e delle falde acquifere.

Tante sono le fonti possibili: una di queste sono i teli usati per la pacciamatura, che si sta diffondendo per combattere meccanicamente le malerbe eliminando i diserbanti; un’altra il compost ottenuto anche con plastiche bio-based, che prima di essere assorbite si comportano come le plastiche tradizionali (anzi peggio, perché sono più bio-affini).Questi sono i primi risultati emersi dalla ricerca del team di Esperanza Huerta della Wageningen University & Research sulla sfida che la richiesta per maggiore produzione agricola con metodi tradizionali pone all’umanità.Per questa sfida, oltre all’educazione contro lo spreco e l’inquinamento, una soluzione radicale è rappresentata dall’ indoor farming, termine che racchiude in sé un alto sviluppo tecnologico, oltre a essere sinonimo di produttività, controllo sulla qualità e localizzazione della produzione. Se il problema è il suolo, perché non disponibile o a rischio di contaminazione o di sfruttamento non sostenibile, riduciamone la necessità per la produzione agricola. Questo innovato approccio alla produzione di cibo include mercati che vanno dai più tradizionali, ortofrutticoli, fino a quelli del non food, come la nutraceutica e la canapa. Oltre ai vantaggi spesso ricordati, rese elevatissime per metro quadro, riduzione dell’uso di suolo, acqua, fertilizzanti, azzeramento di pesticidi e diserbanti, il fuori suolo ne ha molti altri: uniformità della qualità, possibilità di controllare le caratteristiche dei prodotti, purezza dei principi attivi estratti, possibilità di utilizzare varietà ottimizzate che richiederebbero uso di prodotti chimici in grandi quantità, indipendenza dalle condizioni climatiche.

Un altro aspetto importantissimo riguarda la necessità di una buona legge sul consumo di suolo per fare i conti con serietà e responsabilità con il dissesto idrogeologico e l’alto rischio sismico che caratterizzano buona parte del nostri Paese. Va anche resa più equa e sostenibile la filiera alimentare ed è per questo che vanno rilanciati con forza due strumenti che vorremmo fossero supportati anche dalle norme dello Stato.

I prodotti Dop (più menzionati sono stati Parmigiano Reggiano, Prosciutto di Parma, Grana Padano, Prosecco, Chianti e Barolo)e Igp hanno assunto un ruolo nuovo all’interno dei territori italiani diventando il baricentro di una crescita che non è solo economica.

Attraverso le analisi del Big Data, Mauro Rosati, il direttore generale della Fondazione Qualivita sintetizza così i risultati della prima ricerca sperimentale che associa i dati economici e sociali del comparto con le conversazioni digitali sul web e offre il primo report delle informazioni digitali sul food made in Italy: dall’analisi della “nuvola” emergono significative ricadute sulla crescita culturale, turistica e sociale del Paese; ad oggi infatti sugli 882 prodotti Food e Wine IG sono 501 quelli con un sito ufficiale (nel 2016 erano 412, per una crescita del +22%), mentre 420 hanno almeno un profilo social (contro i 268 del 2016, per un +60%);quel che conta è “il lavoro in rete che stanno facendo consorzi e singoli produttori che permettono di fare una promozione di sistema del cibo made in Italy”. I prodotti Dop: non si parla solo più di tradizione, ma anche di “arti, architettura, storia e ambiente ,della conoscenza generale di una comunità. Non è un caso, allora, che le aziende Ig siano in prima linea “con azioni che spaziano dalle ricerche scientifiche che migliorano l’impatto dei metodi di produzione agli studi per l’educazione alimentare e la salute dell’uomo, passando per il sostegno alle più significative attività ricreative delle comunità territoriali.https://novagricoltura.edagricole.it/agricoltura-4-0/

Elementi della Tavola Periodica: Alluminio, Al

Alberto Zanelli*

L’alluminio (Al) è l’elemento con numero atomico 13 e si trova nel terzo periodo, tredicesimo gruppo (IIIA), dell’attuale sistema periodico degli elementi. Con una abbondanza relativa del 8% é il terzo elemento più presente sulla crosta terrestre dopo ossigeno e silicio. In natura si trova con i soli isotopi 27Al, quasi 100% del totale , 26Al (dalla spallazione dei raggi cosmici) ; sempre ossidato, sotto forma di feldspati, miche, argille e caolini. L’ossido puro è il corindone, gemma con durezza Mohs pari a 9 (il diamante sta a fondo scala cioè a 10), di cui alcune varietà sono note come rubino e zaffiro. Per l’estrazione del metallo si ricorre all’ossido idrato (bauxite). A causa del basso potenziale standard di riduzione (E0 = -1.66 V), non è possibile ottenere il metallo per riduzione ad alta temperatura con coke, come per ferro e rame, ma è necessario ricorrere ad un processo elettrochimico, come per magnesio e titanio.

Nel processo Hall-Heroult (1886) la bauxite viene fusa a circa 1000°C con criolite (3NaF·AlF3) che più recentemente è stata sostituita con miscele artificiali di fluoruri di sodio, alluminio e calcio. La riduzione avviene alla base della cella elettrolitica contro anodi di carbone con un dispendio di energia che oggi è circa 14 kWh per 1 kg di Al, secondo la reazione di cella: [1]

2Al2O3 + 3C → 4Al + 3CO2

Ne esce il metallo fuso (punto di fusione di Al 660°C) con un titolo del 99.4 – 99.9%. Recentemente Alcoa ha introdotto una preventiva conversione in carburo di Al e Calsmelt ha ridotto le temperature di esercizio aggiungendo rottami di alluminio nella miscela di minerali fusi, abbassando i consumi energetici.

Nel 2017 la produzione mondiale di Al primario è stata circa 63,4 milioni di tonnellate, di cui il 57% in Cina e solo il 12% in Europa, con un assorbimento di circa il 3,5% della produzione elettrica mondiale. L’elevato costo dell’energia, insieme alla riduzione della richiesta interna e all’aumento del riciclaggio, è il motivo per cui Italia, Paesi Bassi e Regno Unito hanno abbandonato, negli ultimi anni, la produzione di Al primario.[2] Nel 2012 in UE si estraevano poco più di due milioni di tonnellate di bauxite tra Grecia, Francia e Ungheria mentre la produzione di allumina, usata principalmente nei refrattari, raggiungeva 5,6 milioni di tonnellate. La produzione europea di Al soffre anche dell’incertezza sull’approvvigionamento di fluoruro di calcio (fluorite) che la UE importa peri il 70%, principalmente dalla Repubblica Popolare Cinese, responsabile di 2/3 dell’estrazione mondiale.[3] In Italia la bauxite non si estrae più dal 2016, l’allumina dal 2010 e si è ridotta drasticamente anche l’estrazione di fluorite. Era di fluorite la miniera per cui vennero maldestramente costruiti i bacini di decantazione dell’impianto di flottazione che crollarono il 19 luglio 1985 provocando 268 morti in Val di Stava (TN), ma questa è un’altra storia. Resta il fatto che i consumi energetici, le crisi nell’approvvigionamento delle materie prime e i rischi derivanti dall’attività industriale sono tre aspetti interconnessi su cui interrogarsi quando si ragiona sul nostro modello economico anche per un metallo così familiare come Al.

Dopo il ferro, Al è il metallo più utilizzato soprattutto grazie alla sua bassa densità (2690 kg m-3 a 20°C) e alla resistenza alla corrosione dovuta alla formazione spontanea di uno strato protettivo per reazione con l’ossigeno (passivazione). Grazie al punto di fusione relativamente basso Al può essere lavorato per pressofusione in stampi di acciaio o per idroformatura. Le leghe leggere basate su Al, magnesio, rame e zinco a seconda dell’uso, sono utilizzate in aeronautica, ma anche per scafi di imbarcazioni e particolari di automobili sportive. Lo strato di passivazione può essere ispessito con il così detto processo di anodizzazione che ne consente anche una tenace colorazione: per questo Al è largamente usato per la realizzazione di infissi in edilizia.

Figura 1. Manufatti in alluminio: bicicletta, cartellonistica, infissi e, riflessa sul vetro, linea di alta tensione (foto A. Zanelli).

Per la sua buona conducibilità elettrica Al, puro o in lega con Manganese e Silicio per aumentarne il carico di rottura in trazione, sostituisce il rame nelle linee elettriche aeree poiché consente di realizzare cavi che gravano meno sui tralicci di sostegno. Per la sua buona conducibilità termica invece viene utilizzato negli scambiatori di calore mentre leghe Al-silicio-rame si utilizzano per parti di motori.[4]

La versatilità di questo metallo e delle sue leghe ha consentito a ingegneri e stilisti una grande libertà di progettazione per realizzare una miriade di oggetti per uso professionale, sportivo e domestico. Al Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia “Leonardo da Vinci” di Milano, nell’esposizione permanente dedicata ad Al, è esposta un’ampia campionatura di questi oggetti.

Al è molto utilizzato anche per gli imballaggi tanto che, nel 2017 solo in Italia, ne sono stati immesse al consumo 65.000 tonnellate delle quali il 90% riguarda il settore alimentare e oltre 40.000 tonnellate sono ad uso domestico. In quell’anno il 63,4% degli imballaggi in Al è stato riciclato superando l’obiettivo per il 2025 (50%) e sfiorando quello per il 2030 (65%) che era stato superato però nel 2016 con un riciclaggio del 72%.[5] Per riciclare Al è sufficiente separarlo da altri rifiuti, pretrattarlo a 500°C per bruciare vernici ed etichette, rifonderlo a 800°C in atmosfera inerte, descorificare, e colare in lingotti o placche, la resa sul rottame iniziale è dell’87% ma il risparmio sull’energia ―e sulle relative emissioni di CO2― che si consumerebbe per la produzione del metallo primario dai minerali è del 95%.[6]

Figura 2. Utilizzo di Al come imballaggio.

Sempre nel settore imballaggi, piccole quantità di Al sono fatte aderire in fogli sottili o spruzzate su materiali diversi (cartone o plastiche) per ottenere un effetto barriera all’ingresso dell’ossigeno e consentire una maggiore durata delle derrate alimentari ivi contenute in atmosfera inerte. Il recupero da questi materiali poliaccoppiati è però estremamente difficile.

Nel corpo umano Al è presente in concentrazioni inferiori alla parte per milione e, in rapporto all’abbondanza relativa, si colloca al penultimo posto sopra al silicio nella graduatoria degli elementi su cui pare essersi evoluto Homo sapiens. In generale sembra che Al non sia essenziale per gli esseri viventi ma non sia neanche particolarmente tossico, nonostante l’elevata concentrazione nella litosfera e i complessi cicli geochimici che lo mettono continuamente in contatto con la biosfera. Ma se la lenta evoluzione della Vita è rimasta pressoché indifferente ad Al, l’Uomo, nella sua breve storia, ha dapprima sapientemente usato i minerali di Al poi, a partire dal ‘900, forse anche per il valore strategico nell’aereonautica, ha massicciamente introdotto il metallo nel suo armamentario tecnologico facendone uno dei materiali su cui si basa l’impennata del nostro sviluppo negli ultimi decenni. Il frequente uso dei Al nella vita di tutti i giorni, ma ancor di più l’inacidimento delle precipitazioni determinato dall’attività antropica sta aumentando l’esposizione ambientale ad Al e i sospetti di correlazione con l’aumento di casi di alcune patologie tipiche del nostro tempo. [7]

Proprio al controllo di Al nell’acqua potabile è legato un bel ricordo dei miei primi anni da laureato in chimica quando, nella calda mattina del ferragosto ’97, durante il mio stage estivo presso il laboratorio di controllo delle acque dell’allora SeaBo, la concentrazione di Al in un impianto di potabilizzazione sull’Appennino superò il livello di guardia.

Figura 3. Il cloruro di alluminio allo stato solido si presenta con catene di eleganti ottaedri uniti su un lato, centrati sul’atomo di Al e con gli atomi di cloro nei vertici (https://en.wikipedia.org/wiki/Aluminium_chloride)

L’impianto usava “polialluminio cloruro” come agente floculante e, a causa di un anomalo aumento di temperatura del bacino di captazione, cominciò a liberare Al. L’unico tecnico in servizio quella mattina si mosse per andare a risolvere il problema e, non potendo entrare in impianto da solo per motivi di sicurezza, mi chiese di accompagnarlo, con l’unica consegna di chiamare i soccorsi in caso d’incidente. Così io potei fare la mia scampagnata di ferragosto. Grazie alluminio!

[1] World aluminium.

[2] M. Conserva, La produzione mondiale di alluminio primario, A&L 21/02/2019.

[3] Deloitte Sustainability, British Geological Survey, Bureau de Recherches Géologiques et Minières, Netherlands Organisation for Applied Scientific Research, Study on the review of the list of Critical Raw Materials. Critical Raw Materials Factsheets, 2017.

[4] AA. VV. Enciclopedia della Chimica Garzanti, Garzanti editore, Milano, 1998.

[5] I.S.P.R.A Rapporto rifiuti urbani edizione 2018.

[6] CIAL – Consorzio Imballaggi in Alluminio.

[7] C. Exley J. Inorg. Biochem. 97 (2003) 1–7.

* Alberto Zanelli, consigliere del Gruppo Interdivisionale per la Diffusione della Cultura Chimica della S.C.I., si è laureato in Chimica e si è specializzato in Metodologie chimiche di controllo e di analisi presso l’Università di Bologna. Si è occupato di elettrochimica ed igiene industriale è ricercatore presso l’Istituto per la Sintesi Organica e la Fotoreattività del Consiglio Nazionale delle Ricerche dove si è occupato di materiali organici per l’elettronica, sensori e processi avanzati di ossidazione per la riqualificazione delle acque. Consigliere nel Gruppo interdivisionale per la divulgazione della cultura chimica della Società chimica italiana, è coinvolto in alcuni progetti di divulgazione scientifica.

I PFAS nell’uovo di Pasqua.

Mauro Icardi

Di composti organici bioresistenti, ed in particolare di Pfas sulle pagine di questo blog si è scritto parecchio negli ultimi due anni. Ma purtroppo la cronaca di questi giorni riporta il problema alla nostra attenzione.

https://www.rovigooggi.it/n/86836/2019-04-18/4-kg-al-giorno-del-nuovo-pfas-nel-po-servono-limiti-nazionali-per-impedirlo

Viene lanciato un allarme, e un giorno dopo un’altra notizia è in controtendenza rispetto alla prima.

http://www.telestense.it/arpae-nessuna-emergenza-pfas-emilia-romagna-20190418.html

Cominciamo col dire che il susseguirsi di notizie che si smentiscono non aiutano la comprensione del problema. Ammetto di fare fatica, e io sono un tecnico del settore idrico. Immagino lo sgomento della pubblica opinione. Per altro su un tema decisamente molto sentito come quello dell’acqua.

Occorre rendersi conto di alcune cose. E dopo le opportune riflessioni cercare di intraprendere delle azioni mirate e coraggiose.

A mio parere, per tutta una serie di ragioni concomitanti in Italia si è perso lo slancio iniziale, quello che negli anni 70 aveva dato il via alle realizzazioni degli impianti di depurazione e dei collettamenti delle acque fognarie. In Italia abbiamo percentuali di acque fognarie trattate che raggiungono percentuali del 98% nella provincia autonoma di Bolzano, e solo del 40% in Sicilia. Sono dati conosciuti. Occorre uniformare al più presto le percentuali di acque fognarie che devono essere sottoposte almeno alla depurazione fino al trattamento secondario. Ma relativamente al problema dei Pfas tutto questo non è sufficiente. Per eliminare questo genere di inquinanti solamente trattamenti di tipo innovativo (per esempio cavitazione idrodinamica o impianti a membrane) possono essere efficienti. E se guardiamo ai dati Istat la percentuale di Impianti in Italia dotati di trattamento terziario avanzato è solo del 10%, anche se la percentuale di acque trattate è del 60% (Fonte censimento delle acque per uso civile Istat 2012).Un secondo punto da cui partire è l’implementazione dei controlli sugli scarichi di origine industriale. E credo si debba evitare la concessione di deroghe allo scarico per aziende che nel loro ciclo produttivo rilasciano composti che possono esercitare interferenza endocrina, o essere inquinanti persistenti. Ho proposto su queste pagine di creare una sorta di new deal idrico, o in termine italico gli “stati generali dell’acqua”. Abbiamo già procedure di infrazione pendenti per la scarsa qualità delle acque reflue depurate. E non riusciamo a raggiungere gli stati di qualità previsti dalle norme europee per i nostri corsi d’acqua. Il problema degli inquinanti emergenti, legato a quello delle siccità prolungate rischia di creare situazioni decisamente gravi. In Italia esiste il “Portale dell’acqua” dove i cittadini possono recepire informazioni relative. Trovo debba essere migliorato e reso maggiormente fruibile.

Proporrei anche un centro di ricerca, o un coordinamento di Arpa, Ats, Utilitalia, Ispra, Cnr Irsa e Istituto superiore di sanità.

Prendendo esempio da quanto è usuale in Olanda. Creare sinergie significa in ultima analisi ottenere risultati concreti.

Un’altra proposta è quella di inserire i Pfas tra i parametri da ricercare sia nelle acque reflue, che in quelle potabili. In tempi congruenti, ma piuttosto rapidamente. Ricordiamoci che i Pfas sono classificati come cancerogeni di classe 2B e hanno attività di interferenti endocrini. Cancerogeni di classe 2B significa o che sono sicuramente cancerogeni per gli animali ma solo possibilmente per gli uomini o quando c’è limitata evidenza di cancerogenicità nell’uomo e meno che sufficiente evidenza di cancerogenicità negli animali da esperimento. Possibilmente perché i dati disponibili non sono sufficienti per i pochi studi condotti. Servono studi ulteriori. Quindi si devono destinare fondi alla ricerca.La vicenda Pfas ha avuto un impatto piuttosto importante in Veneto. E ha visto e vede i medici impegnati. In particolare quelli dell’associazione Isde (medici per l’ambiente).

http://archivio.vicenzapiu.com/leggi/il-dott-cordiano-risultati-indagine-epidemiologica-isde-su-mortalita-da-pfas

Ai medici la proposta che faccio è quella di dare informazioni certe, e di contribuire ad orientare tutti noi.

La notizia oggi riguarda le acque superficiali. Che sono poi le acque che utilizzeremo per irrigare i nostri campi. Non credo sia più il tempo dei rinvii. Occorre agire. Presto.

Lebbra antiplastica: dalla fantasia alla realtà.

Claudio Della Volpe

Una delle serie più longeve della TV è quella di Doctor Who, un personaggio a metà fra lo scienziato e lo stregone che viaggia avanti e indietro nel tempo e nello spazio in una astronave con le apparenze di cabina telefonica inglese, originario di un altro pianeta ma con l’aspetto di un terrestre che lotta contro i cattivi e per la giustizia; partita negli anni 60 sulla BBC, dunque quasi 60 anni fa, è ancora sulla breccia. Incredibile.

Uno degli autori con più successo delle storie del Doctor Who è stato KIT Pedler, ossia Christopher Magnus Howard “Kit” Pedler, capo del dipartimento di microscopia elettronica dell’istituto di oftalmologia dell’Università di Londra, che è stato un noto autore di libri di fantascienza.

Pedler insieme con Gerry Davis curò un altro programma di fantascienza della BBC Doomwatch.

Il tema di una delle puntate di Doomwatch fu poi usato per scrivere nei primi anni 70 un libro destinato ad un notevole successo, Mutante 59, il mangiatore di plastica, tradotto in italiano con il titolo di Lebbra antiplastica.  Nel libro una mutazione spontanea di alcuni batteri li porta ad attaccare la plastica e produce una gran quantità di disastri prima di essere debellata.

Lo spirito degli autori va in controtendenza rispetto al clima di scienza ultrapossente che spadroneggiava all’epoca, con l’idea che la catastrofe possa annidarsi dove meno ce lo aspettiamo.

Pendler fu anche autore di un libro sull’ecologia del pianeta e sull’ipotesi Gaia, sviluppata da James Lovelock, un modo di spiegare ed introdurre nella scienza i meccanismi di retroazione che rendono la biosfera un sistema complesso e omeostatico, in un universo in continua trasformazione.Insomma un esponente indomito di quella scuola materialista, utopista inglese che vide fra i suoi esponenti di punta il grande biologo JBS Haldane.

L’idea di batteri che potessero “mangiare” la plastica, che è un prodotto sintetico, non naturale è tornata a più riprese non solo nella letteratura, ma sempre più anche nella ricerca; e in anni recenti si è tramutata in ricerca di punta con lo scopo di rendere la plastica un materiale effettivamente riciclabile. Ci sono state osservazioni fortunate, serendipità vera e propria di cui abbiamo reso conto in un post del 2017 (La serendipità della camola) la scoperta delle capacità di digerire la plastica di un comune insetto, la camola del miele.

In realtà ci sono vari organismi che sono in grado di digerire certi tipi di plastica grazie anche alla simbiosi con batteri.

Plodia interpunctella e Galleria mellonella (la camola) , si è dimostrato che possono digerire il PE il primo certamente attraverso l’azione della sua flora intestinale, Enterobacter asburiae e un tipo di Bacillus. Ma si sa che esistono altri casi come Aspergillus tubingensis e Pestalotiopsis microspora, due funghi che digeriscono il poliuretano.

Vi riferisco qua dei tre sistemi enzimatici in grado di aggredire il PET che sono stati scoperti e migliorati in questi ultimi anni.

Nel 2016 Yoshida e collaboratori del Kyoto Institute of Technlology scoprirono un batterio la Ideonella Sakaiensis in grado attraverso due enzimi specifici di degradare il PET a acido tereftlaico e etilenglicole.

I due enzimi chiamati PETasi e MHETasi sono di dimensioni alquanto diverse come appurato da ricerche sucessive. . Nell’aprile 2018 la struttura del Petase è stata decodificata grazie a una ricerca condotta fra Gran Bretagna e Stati Uniti (2)e pochi giorni fa è stata decodificata anche quella del secondo enzimaLa PETasi è la prima forbice a entrare in azione, scomponendo la plastica in frammenti; quindi la MHETasi, molto più grande del primo enzima, scompone i frammenti fino a ottenere gli elementi di base del Pet, ossia l’acido tereftalico e il glicole etilenico.

La conoscenza dei due enzimi e del loro meccanismo di azione apre la possibilità della loro riprogettazione (attraverso modifiche geniche dei batteri) e del loro miglioramento in termini di efficienza, con potenziali enormi ricadute applicative per quanto riguarda l’economia circolare.

Riferimenti.

1) Science, 1196 11 MARCH 2016 • VOL 351 ISSUE 6278

A bacterium that degrades and assimilates poly(ethylene terephthalate) Shosuke Yoshida et al.

 

2) E4350–E4357 | PNAS | vol. 115 | no. 19

Characterization and engineering of a plastic-degrading aromatic polyesterase

Harry P. Austin   et al

3) NATURE COMMUNICATIONS | (2019)10:1717 | https://doi.org/10.1038/s41467-019-09326-3 | http://www.nature.com/naturecommunications

Structure of the plastic-degrading Ideonella sakaiensis MHETase bound to a substrate Gottfried J. Palm et al.

Chimica: oltre le apparenze.

Mauro Icardi

Ho avuto occasione ultimamente, di discutere e scambiare opinioni con ragazzi molto giovani. Cosa che cerco di fare sempre molto volentieri, in particolare se la discussione verte su temi oggi molto sentiti. In particolare la crisi ambientale e climatica. Durante questi anni di collaborazione al blog, ho sempre espresso con chiarezza il mio punto di vista, raccontando anche quale sia stata la mia formazione personale. Non solo legata al percorso formativo scolastico, ma anche a quello dello studio successivo. Studio legato alla formazione continua che ho seguito per passione personale, molto prima di doverlo fare per rispettare le indicazioni e i regolamenti dell’ordine professionale. Parlando con uno studente giovane, che appartiene ad uno dei gruppi locali italiani di “Friday for future”, ho raccontato della mia formazione e interesse per questi temi. E mi sono anche qualificato come chimico ambientale. La risposta che ho ricevuto, mi ha lasciato vagamente sbigottito. Sostanzialmente questo ragazzo mi ha detto “Lei è un chimico e si interessa di queste cose?” Abbiamo ancora chiacchierato per una mezz’oretta, con la promessa di mantenerci eventualmente in contatto.

Per l’ennesima volta ho sentito crescere dentro di me una sensazione di palese ingiustizia. Per riassumerla credo che questo brano, tratto dall’editoriale del mese di Marzo de “L’almanacco delle scienze” del CNR, a firma di Marco Ferrazzoli sia decisamente utile.

Sta di fatto che la chimica sembra scontare sia la sottovalutazione della sua importanza per la vita dell’uomo, sia la sopravvalutazione dei rischi a cui viene consuetamente legata. Chimica vista quindi come scienza complicata, noiosa, oppure causa dell’inquinamento e responsabile della mancanza di rispetto per la natura e per il Pianeta. La chimica se la batte quasi con la matematica per il titolo di disciplina più negletta a livello popolare e mediaticamente con minor appeal. Un giudizio severo, ingiusto, immotivato, poiché si tratta invece di una materia di grande fascino e importanza, a patto ovviamente che sia spiegata e comunicata in modo efficace e comprensibile.

Questo è quello che cerchiamo di fare anche noi che scriviamo su questo blog.

Per quanto riguarda la mia formazione personale, e per il lavoro che svolgo, la chimica e le nozioni principali di questa scienza sono state il mio costante ausilio. Il mio lavoro riguarda l’acqua e la sua salvaguardia. Negli anni mi sono confrontato con moltissime persone (ingegneri, biologi, tossicologi) e con molte persone con le quali collaboro per lavoro (elettricisti, meccanici). Da tutti ho ricevuto qualcosa, e a tutti ho cercato di dare qualcosa. Ma con quasi tutti ho dovuto faticare, lavorare ai fianchi. Per dimostrare (o tentare di farlo) che la chimica è qualcosa di molto diverso, da una sorta di vaso di Pandora dal quale sono scaturiti tutti i mali di questo nostro tempo. Altre volte ho scritto pezzi in difesa di una scienza che a troppi appare come il ricettacolo di ogni male. Mi occupo di acqua. Bastano queste poche nozioni per capire la bellezza della chimica.

Le eccezionali proprietà chimico-fisiche e la maggior parte di quelle chimiche dell’acqua sono legate alla sua polarità elettrica e alla possibilità di formare legami a idrogeno intermolecolari. Pur essendo formata da molecole semplici, possiede una stabilità chimica sorprendentemente elevata. Poiché le sue molecole sono polari è un solvente eccellente per sali e molecole che presentano legami polari (soluzioni).

Questo brano è tratto da appunti scritti a macchina che ho conservato gelosamente. Risalgono all’anno scolastico 1974/75. Frequentavo la seconda classe della scuola secondaria di primo grado, meglio conosciuta come seconda media. Mi vennero regalati da un ragazzo di qualche anno più vecchio di me, che frequentava il liceo scientifico. Sono stati in qualche modo profetici.

Non vorrei ripetere concetti già espressi. Sarebbe tutto sommato noioso e ripetitivo ritornare sul concetto che la chimica ha rischi, ma ci ha concesso molti benefici. Che molto del benessere di cui godiamo oggi, e delle cose a cui siamo abituati dipende da scoperte fatte nei laboratori chimici. Non mi voglio ripetere. La chimica che utilizzo io, è una chimica che deve affinare i propri metodi analitici. Che deve migliorare la parte preparativa dei campioni difficili (fanghi, morchie,reflui, rifiuti di varia tipologia). E’ una chimica che deve modellizzare flussi di acque, oppure di inquinanti aerodispersi. E che quindi deve dialogare strettamente con fisica e matematica. Una chimica che deve guardare al proprio futuro. E che sarà modificata da chi la vorrà studiare con lo stesso impegno. Ritornando per un attimo alla conversazione di cui parlavo all’inizio, mi ha fatto invece molto sorridere l’idea che quel ragazzo aveva della chimica, cioè che si occupasse esclusivamente di petrolio. In parte è vero, se uno sfoglia in maniera distratta e superficiale un testo di chimica organica. Io continuo a studiarla, magari non sistematicamente. Tenendo sul comodino (si lo confesso) dei testi che ogni tanto rileggo, o per meglio dire riassaporo. Tutto questo mi serve ogni giorno, e mi aiuta anche a mantenermi aggiornato ed attento.

Ecco, vorrei dire a quel ragazzo ,e a chi avrà la pazienza e la voglia di leggere questo post. Provate anche voi ad approcciarla. Se lo farete sono certo che troverete almeno un argomento che vi potrà appassionare. Ma per farlo liberatevi da condizionamenti che non hanno più ragione di essere. Perché posso assicurarvi che anche i chimici possono essere artefici di un nuovo modo di guardare al mondo, al pianeta ed al futuro.

E credo ne abbiano tutto il diritto. Lo abbiamo scritto come presentazione di questo blog : “Nell’Antropocene, l’epoca geologica attuale fortemente caratterizzata dalle attività dell’uomo, la Chimica ha il compito di custodire il pianeta e aiutare a ridurre le diseguaglianze mediante l’uso delle energie rinnovabili e dell’economia circolare.

Provate a leggere la tavola periodica, come fosse il calendario dell’avvento, anche se il Natale è trascorso, ed il prossimo non è alla porte. Provateci, potreste rimanerne finalmente affascinati, abbandonando le due p che si legano alla chimica. Tranquilli, non sto parlando delle p degli orbitali sp. Sto parlando delle p che significano le iniziali di preconcetto e pregiudizio. Che la chimica davvero non merita. Datele una possibilità.

NdA. Spero che le immagini “leggere” di questo post non siano fraintese. Tutto può servire a mio parere ad avvicinare, non solo alla chimica, ma alla conoscenza in generale.

Altre storie di piante e di chimica.

Claudio Della Volpe

Abbiamo recentemente parlato del metil-jasmonato,una molecola simile alle prostaglandine, che serve alle piante a costruire un sistema per comunicare alle altre piante situazioni di pericolo ed a difendersi da esso . E’ un esempio di come le piante non siano esseri che “vegetano”, vegetali come li chiamiamo sprezzantemente noi umani, ma complessi sistemi viventi diversi da noi, alieni, costruiti secondo una logica differente, ma non per questo meno efficace.

La storia di come le piante comunicano ha a che fare con la loro chimica e ci insegna tante cose.

Stavolta vi racconto la storia di come i sistemi di comunicazione delle piante che sono altamente evoluti possono essere messi in difficoltà da un insetto pestifero; e di cosa possiamo imparare da questa lotta fra piante e insetti e dalla sofisticata chimica che vi viene usata.

Questa storia è stata scoperta e raccontata in un lavoro (1) pubblicato di recente su PNAS.

La mosca bianca del tabacco (Bemisia tabaci), scoperta dapprima sul tabacco, è in realtà un insetto responsabile di danni molto ingenti a parecchi tipi di piante coltivate, come il pomodoro. Infatti essa è prima di tutto polifaga, mangia di tutto, induce dunque danni a parecchie colture e per quote elevate, ma trasporta anche virus di vario genere.

La mosca bianca del tabacco.

E’ caratteristica comune di questa specie di insetti, ma anche di altri della medesima famiglia (denominata Aleurodidi) avere comportamenti che ne rendono difficile l’eliminazione: elevato potenziale riproduttivo, insorgenza di fenomeni di resistenza, difficoltà intrinseca di raggiungere con gli insetticidi di copertura la pagina inferiore delle foglie dove comunemente stanziano, la polifagia, ossia l’essere onnivori, attaccare molte piante diverse, la mobilità degli adulti e, infine, la semplificazione degli agrosistemi, in particolare le colture protette in serra, in termini di biodiversità.

Per tutti questi motivi si è sviluppato un grande interesse nello scoprire come queste tipologie di insetti riescono ad essere così invasivi.

La premessa del racconto è che le piante rispondono agli erbivori e alle infezioni patogene con la sintesi di vari composti di difesa, inclusi composti volatili che sono emessi nell’ambiente circostante. Questi composti possono essere percepiti dalle piante vicine e le avvisano dell’attacco e anche dello specifico attaccante.

In particolare le piante usano un sistema a base di acido jasmonico (JA),

che interagisce con il sistema digestivo degli insetti compromettendone l’alimentazione, per difendersi dall’attacco degli insetti ed in genere dei mangiatori di foglie ed invece un secondo sistema a base di acido salicilico (SA), (proprio lui, il nostro antenato dell’aspirina) per comunicare e difendersi dai virus e dai patogeni.

E’ da notare che le due strade di difesa interferiscono, nel senso che se si accentua l’una si deprime l’altra e viceversa.

Difesa JA -> contro gli insetti e gli erbivori (mediata per esempio da (E)-β-ocimene, linaloolo e metil-isonicotinato, composti 8,10 e 11 della figura precedente, attacco di bruchi)

(E)-β-ocimene

linaloolo

metilisonicotinato

Difesa SA -> contro i virus e le infezioni (mediata per esempio da α-pinene e β-mircene, composti 3 e 4 della figura precedente attacco di Pst DC3000 una infezione batterica)

β- mircene

Le mosche bianche sono in grado invece di interferire in questo meccanismo inducendo come conseguenza nelle piante vicine una risposta sbagliata. L’attacco delle mosche bianche (nella prima riga) per esempio induce nel pomodoro la riduzione della produzione del composto 11, il metil-isonicotinato ed invece l’aumento del composto 3, l’α-pinene, così i pomodori circostanti attivano le difese contro i virus ma non quelle contro i mangiatori di foglie.

Ma come fa la mosca bianca ad indurre le piante a produrre il segnale sbagliato?

I ricercatori cinesi hanno usato sia esperimenti sul campo in ambienti controllati misurando le sostanze presenti nell’aria e nei tessuti, sia invece usando sostanze di sintesi, molecole sintetiche usate dalle piante come messaggeri e verificando che le piante infestate da batteri o attaccate da bruchi emettevano composti di allarme diversi da quelli emessi dalle piante attaccate dalla mosca bianca. Il meccanismo era messo in moto tramite l’attivazione di geni specifici. Hanno potuto escludere che la sostanza necessaria fosse emessa dalla mosca direttamente ma che invece la sua produzione era indotta nella pianta. Rimane da capire il meccanismo esatto di induzione da parte dell’insetto alla produzione della sostanza sbagliata da parte della pianta.

In effetti leggendo l’articolo ci si rende conto che la risposta potrebbe essere complessa; le piante potrebbero rispondere ai virus trasportati dagli insetti, quasi come cavalli di troia, prima che agli insetti e mentre combattono i primi sono distrutte dai secondi. Gli insetti da parte loro contribuiscono ad indebolire le difese anti-insetto stimolando quelle antivirus. Nella forma di ninfe fanno dire alle piante: attente ai virus e quando quelle si preparano a combattere i virus, gli insetti ormai maturati da ninfe in insetti adulti sono pronti a distruggerle.

Lotta per la vita mediata dalla chimica.

(1) Airborne host–plant manipulation by whiteflies via an inducible blend of plant volatiles

Peng-Jun Zhang, Jia-Ning Wei, Chan Zhao, Ya-Fen Zhang, Chuan-You Li, Shu-Sheng Liu, Marcel Dicke, Xiao-Ping Yu e Ted C. J. Turlings

Si veda anche Gli hacker delle piante su Internazionale 1301, pag. 102 oppure su The economist https://www.economist.com/science-and-technology/2019/03/30/whiteflies-are-such-a-pest-because-they-hack-the-way-plants-communicate

Spammatori di idrogeno.

Vincenzo Balzani

Bologna, 11 aprile 2019

                                    Lettera aperta al Corriere della Sera

Gentile Direttore,

Sul Corriere del 2 aprile a pag. 35 nella rubrica “Sussurri & Grida” c’era un titolo in grande,  “Snam sperimenta il mix idrogeno-gas, prima in Europa”, e un breve articolo nel quale si elogia “la prima sperimentazione in Europa da parte della Snam di una miscela di idrogeno al 5% e gas naturale (H2HG) fornita a un pastificio  e a un’azienda di imbottigliamento di acque minerali”. L’articolo poi continua così: “Una prima volta che <proietta la Snam e il nostro Paese nel futuro dell’energia pulita>, ha detto il CEO di Snam Marco Alverà, che era a Contursi insieme al sottosegretario al ministero per lo sviluppo economico Andrea Cioffi”. L’articolo infine conclude  notando che “L’idrogeno avrà un ruolo cruciale nel raggiungimento degli obiettivi europei e globali di decarbonizzazione al 2050”.

Forse è giusto aver messo questa notizia nella rubrica “Sussurri & Grida”.  Faccio notare, però, che i primi “sussurri” riguardo la possibilità di utilizzare miscele di idrogeno e metano risalgono al 2006 in Emilia Romagna e al 2010  in Lombardia come combustibile per auto, apparentemente senza successo.  Wikipedia ci informa che dal 2009 al 2013 è stato attivo il “progetto MHyBus“, finanziato dalla Commissione Europea con l’obiettivo di indagare scientificamente sul comportamento di un autobus per trasporto urbano alimentato con una miscela di idrometano al 15% di idrogeno. La relazione finale su questo progetto, al quale hanno lavorato Regione Emilia-Romagna, ENEA, ATM Ravenna, SOL ed ASTER, è molto sintetica: “l’autobus portato in strada ha mostrato significativi risparmi di carburante e riduzioni delle emissioni di anidride carbonica rispetto a un veicolo a metano”. Poi non si è sentito più nulla.

La prima domanda è allora che senso ha “gridare”  che “Snam sperimenta il mix idrogeno-gas, prima in Europa”? Il dubbio che viene è che in Europa nessuno se ne sia interessato perché hanno subito capito che non è una strada utile per decarbonizzare il mondo.

D’altra parte, come potrebbe essere altrimenti? L’idrogeno (5-15%) che viene miscelato al metano e che viene ottenuto anch’esso dal metano, forse migliora un po’ combustione, ma non può ridurre significativamente le emissioni totali di anidride carbonica e non ci sono prove né motivi scientifici cha possa abbattere le emissioni di ossidi di azoto e di particolato ultrafine.

La seconda domanda, allora, è come si può “gridare” che l’esperimento del pastificio di Contursi  <proietta la Snam e il nostro Paese nel futuro dell’energia pulita>?

E’ bene anche ricordare che l’idrogeno, come l’energia elettrica, non è una fonte energetica primaria, semplicemente perché non esiste in natura (non ci sono pozzi di idrogeno!).  La scienza è riuscita a convertire la luce solare, fonte di energia primaria abbondante ed inesauribile, in energia elettrica con ottimi rendimenti mediante i pannelli fotovoltaici. Se anche la scienza riuscirà ad ottenere idrogeno (pulito) dall’acqua mediante la cosiddetta fotosintesi artificiale,  non sarà conveniente “bruciarlo” in un motore a combustione, ma piuttosto convertirlo in elettricità mediante pile a combustibile per alimentare un motore elettrico, che è 3-4 volte più efficiente di un motore a combustione. Ecco, quindi, che la terza  <grida> dell’articolo,  “L’idrogeno avrà un ruolo cruciale nel raggiungimento degli obiettivi europei e globali di decarbonizzazione al 2050”, andrebbe dedicata non all’idrogeno, ma all’energia elettrica prodotta con fonti rinnovabili.

D’altra parte, basta guardare a quello che accade nei paesi all’avanguardia nei trasporti pubblici. Mentre noi stiamo parlando di cose inutili come l’idrometano, un fantasma con cui le compagnie petrolifere tentano disperatamente di tenere in vita i motori a combustione, in Cina ogni cinque settimane vengono messi in strada 9.500 bus elettrici, un numero uguale a quello della intera flotta di bus di Londra. Gli autobus elettrici in funzione nel mondo sono già più di 300.000 e si prevede che dal prossimo anno costeranno meno di quelli convenzionali utilizzati nelle città. È probabile che nel 2040 l’80% di tutti gli autobus saranno elettrici.

Un discorso simile vale per le tratte non elettrificate delle linee ferroviarie. Mentre la Snam spinge per sostituire le motrici a gasolio con motrici a LNG (metano liquefatto), in altri paesi utilizzano treni elettrici alimentati da batterie.

Infine, sempre Snam è molto attiva per diffondere l’uso del biometano per autotrazione. Anche questo è un estremo tentativo per tener in vita il motore a combustione: fin che ci saranno opportunità per usare questi motori, una parte (anzi, la gran parte) di essi continuerà, infatti, ad usare metano fossile. Questo è anche ciò a cui mira la politica di Eni, che continua a trivellare in molte parti del mondo anche se è noto che le riserve di combustibili fossili già disponibili alle compagnie petrolifere sono superiori alle quantità di combustibili fossili che potremo utilizzare senza causare danni gravi al pianeta. Eni e Snam, aziende controllate dallo Stato, fanno quindi una politica in netta contraddizione con quella ufficiale del Governo che, almeno a parole, sostiene la transizione dai combustibili fossili alle energie rinnovabili.

Cordiali saluti,

Vincenzo Balzani, Università di Bologna, Coordinatore del gruppo energiaperlitalia

 

Il racconto del 2019.

Claudio Della Volpe

Come sappiamo questo è l’anno dedicato alla Tavola periodica degli elementi; e certo la rubrica che ci siamo inventati sul più alto numero possibile di elementi da commentare facendo riferimento al loro ciclo biogeochimico ed mano è un modo di celebrarlo. Così come gli innumerevoli riferimenti al nostro autore preferito, Primo Levi ed alla sua opera “Il Sistema periodico”, che sembra fatta apposta per questo anno.

Ma c’è un altro racconto, almeno uno, di fantascienza, scritto molti anni fa, nel 1957, che merita di essere citato come racconto dell’anno.

Il racconto di cui di parlo oggi si chiama “Omnilingual” (Onnilinguista) e fu scritto da uno scrittore americano, Henry Beam Piper e pubblicato su una delle più note riviste di FS del mondo, ossia Astounding Science Fiction; il racconto mi è stato segnalato da due soci della sez. TAA della SCI i colleghi Jolanda Filippi e Marino Kofler.

Henry Beam Piper, morto a soli 60 anni nel 1964 fu uno scrittore autodidatta che scrisse varie serie di racconti legati da due temi: lo sviluppo di una futura federazione terrestre, una sorta di storia del futuro umano e storie basate su pianeti alternativi alla Terra.

Omnilingual è un racconto breve scritto nel 1956-57 e publicato nel numero di febbraio 1957 della rivista; il testo inglese è pubblico, ma non so quello italiano che comunque si trova in rete, se aveste problemi a trovarlo chiedetemi;

https://www.gutenberg.org/files/19445/19445-h/19445-h.htm

Quell’anno è stato un anno decisivo nella scienza e tecnologia internazionali. E’ noto per essere stato il primo anno geofisico internazionale che vide una collaborazione vastissima di ricercatori in ambito geofisico ma anche astronomico; era in corso la lotta per la supremazia spaziale e verso la fine di quell’anno il primo satellite artificiale solcò lo spazio attorno alla Terra, lo Sputnik 1, un piccolo dispositivo che rimase in orbita per parecchio tempo.

L’interesse per lo spazio era enorme.

Il racconto si svolge in un futuro prossimo (e per noi passato) nel 1997 e racconta l’esplorazione di Marte e la scoperta di un modo per tradurre la lingua marziana, una ipotetica civiltà fiorita sul pianeta rosso solo 50.000 anni prima. La protagonista è una astroarcheologa che spera di trovare un modo per tradurre la lingua marziana contro le opinioni di tutti i suoi colleghi maschi.

Ma era il massimo a cui arrivava. Era in grado di pronunciare dalle tre alle quattromila parole marziane, ma non era in grado di assegnare un significato a nessuna di esse. Selim von Ohlmhorst era convinto che non ci sarebbe mai riuscita. E lo stesso credeva Tony Lattimer, il quale era assai meno reticente a dirlo. Ed era sicura che anche Sachiko Koremitsu la pensava allo stesso modo. Di tanto in tanto c’erano momenti in cui cominciava ad aver paura che avessero ragione.

Le lettere sulla pagina davanti a lei cominciarono ad agitarsi e a danzare, magre vocali con piccole e grasse consonanti. Adesso lo facevano ogni notte, nei suoi sogni. E c’erano altri sogni nei quali lei le leggeva con la stessa facilità dell’inglese; quando si svegliava, cercava disperatamente, ma invano, di ricordarsene.

Marte è coperto di polvere depositata dalle famose tempeste e le costruzioni dei marziani sono accessibili solo dalle sommità che emergono.

La squadra terrestre esplora ed occupa questi edifici condizionandoli per usarli come propria base e trova anche materiali nuovi che sulla Terra non sono ancora stati inventati.

Già, ma come si fa a tradurre la lingua di una civiltà di un altro pianeta, ormai scomparsa in assenza di una pietra di Rosetta come è servita sulla Terra per le lingue di altre culture di società più primitive tecnologicamente?

E’ una domanda a cui Asimov, che presenta il testo, dichiara di non essere riuscito a rispondere pur essendo un chimico.

Quando lessi per la prima volta questo racconto nel 1957, non riuscii a prevedere in anticipo la soluzione di Beam. Ma questo non mi rese felice. Mi riempì d’un inconsulto rincrescimento. Avrei dovuto. Ancora oggi per me «Onnilinguista» è la storia il cui finale non mi riuscì di prevedere, anche se avrei dovuto.

Oh, be’, se non avete mai letto la storia, forse riuscirete a fare meglio di me.

ma in realtà la risposta è facile e nella sua forma generale è stata anche applicata da noi stessi nei materiali inclusi nelle due sonde inviate nello spazio profondo: il Pioneer e il Voyager.

Una civiltà avanzata, che domina lo spazio e che dunque per forza di cose conosce la scienza ha un riferimento che è comune a qualunque altra intelligenza, ossia la Natura stessa e le sue leggi e secondo alcuni anche la matematica. Sia su Pioneer che su Voyager ci sono delle piastre d’oro con incisi simboli che si sono ritenuti di universale interpretazione.

Alcuni dei simboli fanno riferimento ad aspetti chimico spettroscopici (come la transizione iperfine dell’idrogeno), ma nulla fa riferimento alla Tavola.

Ho qualche dubbio che siano così banali da interpretare, mentre una tavola periodica o perfino alcuni elementi chimici tipo la Heritage Table ma inserendoci quelli radioattivi sarebbe stata a mio parere comprensibile, fornendo la possibilità di associare numeri e costanti universali o altre notizie come le lettere dell’alfabeto e la loro posizione nell’alfabeto.

«Quella non è soltanto la tavola marziana degli elementi: è la tavola degli elementi. È l’unica che ci sia,» esclamò Mort Tranter, quasi sul punto di esplodere. «Guarda, l’idrogeno ha un protone e un elettrone. Se invece avesse più protoni ed elettroni non sarebbe più idrogeno, ma qualcos’altro. E lo stesso vale per il resto degli elementi. E l’idrogeno, su Marte, è uguale a quello sulla Terra, o su Alfa Centauri, o nella galassia più lontana…»

«Basterà che tu metta i numeri in quell’ordine, e qualunque studente del primo anno di chimica potrà dirti che elementi rappresentano,» disse Penrose. «Sempre che voglia essere promosso, s’intende.»

La Tavola Periodica è uno dei più potenti strumenti di comprensione della Natura e rappresenta verosimilmente una costante universale, qualcosa che non cambia in nessun posto dell’Universo conosciuto dove la vita possa svilupparsi. Il suo uso come strumento di comunicazione è un altro aspetto di questa universalità.

Ed è appunto la scoperta di una tavola degli elementi marziana che consentirà alla protagonista di avere la sua Stele di Rosetta; una stele che varebbe per qualunque civiltà dell’Universo conosciuto, sappiamo infatti dalle osservazioni astronomiche, dalla spettroscopia stellare che la materia è la stessa dappertutto con gli stessi atomi, almeno nella sua parte più facile da sperimentare; se dunque trovassimo una civiltà stellare certamente la tavola Periodica sarebbe uno strumento di comunicazione comune.

Voi che ne dite?

Elsie May Widdowson (1906-2000)

Rinaldo Cervellati

Elsie Widdowson è stata una delle prime donne a ottenere un dottorato di ricerca in chimica all’Imperial College, nato come Istituto di Scienze, Tecnologia e Medicina, uno dei primi college inglesi ad accettare studenti di sesso femminile.

Elsie Widdowson nacque il 21 ottobre 1906 a Wallington, una cittadina nella contea di Surrey, non molto distante da Londra. Il padre faceva l’assistente droghiere. Elsie frequentò la Sydenham County Grammar School for Girls a Durwich, un sobborgo di Londra. La sua materia preferita era la zoologia e lei pensava di proseguirne gli studi all’università. Tuttavia ebbe un’ottima insegnante di chimica che la convinse piuttosto a scegliere questa materia. La tradizione voleva che le donne si iscrivessero ad uno dei college a loro riservati. Incoraggiata da tre ragazze più grandi di lei che erano andate all’Imperial College, decise di fare la stessa cosa. Si trovò in un ambiente del tutto maschile: nell’anno in cui si iscrisse su circa 100 studenti soltanto tre erano donne.

Widdowson sostenne gli esami per il diploma di B.Sc. dopo due anni ma le fu riconosciuto soltanto un anno dopo, nel 1928. Trascorse questo periodo nel laboratorio di biochimica del prof. S.B. Schryver[1] che si occupava di chimica di proteine e aminoacidi estratti da vegetali. A quei tempi non c’era la cromatografia e nel laboratorio si utilizzavano metodi chimici di separazione, lavorando con grandi quantità di materiale contenute in recipienti enormi.

Verso la fine del 1928 Widdowson iniziò il lavoro post-diploma nel Dipartimento di Fisiologia Vegetale dell’Imperial College, che aveva ottenuto una sovvenzione governativa per la ricerca sulla chimica e fisiologia delle mele. Responsabile della ricerca era Helen Porter[2] che affidò a Elsie il compito di analizzare i carboidrati dei frutti dal momento della loro comparsa sugli alberi fino alla maturazione e raccolta, e successivamente durante lo stoccaggio. Per questo lavoro Widdowson si recava ogni due settimane nei frutteti del Kent a raccogliere i frutti di specifici alberi per poi analizzarli in laboratorio. Mise a punto un metodo per separare e analizzare amido, emicellulose, saccarosio, fruttosio e glucosio nelle mele. Nel 1931 pubblicò i risultati di questa lunga ricerca su Biochemical Journal [1]. Nello stesso anno ottenne con questo lavoro il dottorato in chimica.

Indubbiamente Helen Porter diede a Elsie aiuti e consigli, e le comunicò il suo amore per la ricerca, che lei conservò per tutta la vita.

Esaurita la sovvenzione, Widdowson, che peraltro non desiderava dedicare la sua vita alle piante ma era più interessata agli animali e agli umani, lasciò il Dipartimento di Fisiologia Vegetale. Nel 1932 si recò al Courtauld Institute del Middlesex Hospital, facendo ricerche sotto la guida del Professor Edward C. Dodds[3], acquisendo esperienza in biochimica umana. Nei 18 mesi passati al Courtauld, pubblicò i risultati di una ricerca sul confronto fra l’urina e le proteine del siero di soggetti sani e di malati di nefrite [2].

Nel 1933 Elsie rimase senza occupazione e in quei tempi i lavori di ricerca erano difficili da trovare, soprattutto per una donna. Il professor Dodds le disse che quella della dietetica era una professione promettente e, su suo consiglio, Widdowson si iscrisse al primo corso di diploma post-universitario in dietetica, nel Dipartimento di Economia domestica e Scienze sociali al King’s College, diretto dal prof. V.H. Mottram[4].

Figura 1 Elsie May Widdowson

Nella prima parte del corso Widdowson dovette studiare tecniche di cucina industriale nelle cucine del King’s College Hospital. Qui incontrò Robert McCance, un giovane medico che indagava gli effetti chimici della cottura dei cibi come parte della sua ricerca clinica sul trattamento del diabete. Widdowson rilevò un errore nella tecnica analitica di McCance sul contenuto di fruttosio nella frutta, entrambi realizzarono inoltre che c’erano errori significativi anche nelle tabelle nutrizionali standard. Da quel momento iniziò fra i due un sodalizio scientifico che durò per i successivi 60 anni (figura 2), fino alla morte di McCance avvenuta nel 1993[5].

Figura 2

Su suggerimento di Elsie i due ricercatori si proposero di analizzare in dettaglio la composizione di tutti gli alimenti che componevano la dieta britannica. Questa ricerca, durata per più di 15 anni, richiese circa 15000 analisi e condusse alla raccolta dei risultati nel volume The chemical composition of foods, senza dubbio uno dei libri più longevi (v. nota 5).

Poiché McCance e Widdowson stavano raccogliendo così tante informazioni sulla composizione del cibo, erano in una posizione privilegiata per calcolare l’assunzione di energia e sostanze nutritive da parte di uomini, donne e bambini individualmente, invece che basarsi sulle famiglie come era stato fatto fino ad allora. Elsie iniziò le sue indagini seguendo le assunzioni dietetiche dapprima di 63 uomini e 63 donne (lei compresa), per un periodo di una settimana. In seguito estese l’indagine su oltre 1000 bambini e ragazzi di età compresa fra 1 e 18 anni. I risultati evidenziarono la grande variazione nel fabbisogno energetico e sostanze nutritive tra un individuo e un altro dello stesso sesso ed età [3,4]. I Sali minerali (Cu, Zn, Cr e Co) e la loro escrezione furono oggetto di questa e successive ricerche.

Seguì un periodo molto intenso. A McCance furono concessi alcuni letti per pazienti nell’ospedale del King’s College. In particolare, una dei degenti era affetta da policitemia vera e venne trattata con acetil fenilidrazina. Così facendo si ruppero abbastanza globuli rossi da liberare 5 grammi di ferro nel suo corpo. Con loro grande sorpresa il ferro non venne escreto. McCance e Widdowson quindi si auto iniettarono e iniettarono a colleghi volontari ferro per via endovenosa[6].

Anche in questo caso il ferro non fu escreto. Ciò li portò a suggerire che la quantità di ferro nel corpo deve essere regolata non per escrezione ma per assorbimento intestinale controllato. Studi più sofisticati dimostrarono la veridicità dell’ipotesi [5-8].

McCance, analizzando le urine di pazienti in coma diabetico, notò che queste erano prive di sale (cloruro di sodio). Insieme a Widdowson iniziarono una serie di test clinici su volontari cui veniva applicata una dieta senza sale. I risultati di questi esperimenti aiutarono i medici a comprendere l’importante ruolo dei fluidi e del sodio nell’organismo [9].

Oggi, il mantenimento dell’equilibrio dei fluidi e del sale è una parte del trattamento standard dei pazienti con coma diabetico, disfunzioni renali e infarto cardiaco e di chi ha subito interventi chirurgici.

In seguito alla pubblicazione degli articoli sull’assorbimento del ferro, a McCance fu offerto il posto di Lettore di Medicina all’Università di Cambridge. Egli accettò a patto che anche Elsie Widdowson fosse assunta, in modo che la loro collaborazione non si interrompesse. Così McCance e Widdowson si trasferirono a Cambridge nel 1938.

Dopo pochi mesi scoppiò la Guerra. Widdowson, McCance e i loro colleghi divennero essi stessi soggetti sperimentali adottando per diversi mesi una dieta molto povera costituita da pane, cavoli e patate con poca carne e latticini, per scoprire se tale dieta potesse influire sulla loro salute (fig. 3).

Figura 3 Widdowson (al centro), McCance (alla sua destra) e il loro staff mentre sperimentano la loro dieta, 1940 ca.

Dimostrarono che una buona salute poteva essere supportata da questo tipo di dieta se integrata con calcio e vitamine. Il ministro degli approvvigionamenti li nominò responsabili della formulazione del razionamento bellico della Gran Bretagna durante la seconda guerra mondiale. A questo scopo suggerirono di aggiungere piccole quantità di sali di calcio al pane e il loro lavoro è diventato la base della dieta di austerità in tempo di guerra [10].

Dal 1946 Widdowson e McCance lavorarono al Medical Research Council partecipando alla riabilitazione delle vittime della grave inedia nei campi di concentramento nazisti. Visitarono i Paesi Bassi e la Danimarca per studiare l’impatto della dieta in tempo di guerra sulla salute di queste popolazioni sotto l’occupazione tedesca. I due scienziati furono anche per diverso tempo nella Germania del primo dopoguerra visitando diversi orfanotrofi dove il cibo era severamente razionato e di conseguenza i bambini erano denutriti.

Widdowson proseguirà poi questa ricerca nei successivi anni ’50, ’60 e ’70 studiando la malnutrizione in Africa.

Nel 1949 Widdowson e McCance tornarono al Medical Department di Cambridge, riprendendo la ricerca che avevano lasciato prima della guerra sulla composizione del corpo umano. Studiarono le variazioni di composizione dalla nascita alla maturità, analizzando gli stessi costituenti come avevano fatto con gli alimenti: grassi, proteine, carboidrati, ecc. Questa ricerca condusse a numerose pubblicazioni in collaborazione, la più importante è riportata in [11].

La ricerca si estese al confronto con la composizione degli organismi animali e alle funzioni di organi come reni e fegato.

Figura 4 Elsie Widdowson in età matura

Nel 1968 Elsie si trasferì al Dunn Nutrition Laboratory del Medical Research Council, come capo della divisione di ricerca sulla nutrizione infantile. I suoi studi portarono a un importante confronto fra la velocità di crescita di diverse specie animali, fra cui l’uomo [12]. Widdowson mostrò che un neonato umano ha il 16% del suo peso in grasso, molto più elevato dell’1-2% in altre specie. Ha anche studiato l’importanza del contenuto nutrizionale delle diete per bambini, in particolare di tracce di vitamine e minerali nel latte materno. Questo lavoro portò alla revisione degli standard per i sostituti del latte materno nel Regno Unito negli anni ’80.

Nel 1973 si ritirò una prima volta continuando comunque a fare ricerca nel Dipartimento di Medicina Investigativa, nuovo nome dato al Dipartimento di Medicina Sperimentale di cui McCance era stato direttore. Agli amministratori dell’ospedale, sensibili ai movimenti animalisti non piaceva la parola “sperimentale”. Per un certo tempo usufruì di un laboratorio e seguì alcuni studenti di dottorato, ma anche quando il laboratorio non fu più disponibile aveva ancora un ufficio che il direttore Ivor Mills le permise di mantenere fino a quando andò in pensione. Elsie si ritirò per la seconda volta nel 1988.

Anche questo fu però un ritiro “attivo”: Widdowson aveva assunto molte responsabilità, in particolare la presidenza della British Nutrition Foundation dal 1986 al 1996, la presidenza di diversi comitati nazionali e internazionali e la presidenza della Società Nutrizionale e della Società Neonatale.

Elsie Widdowson fu nominata membro della Royal Society nel 1976 e Commander of the Order of the British Empire nel 1979. Ricevette lauree ad honorem da università britanniche e americane.

È morta all’Addenbrooke Hospital (l’Ospedale di Cambridge) in seguito a un ictus il 14 giugno 2000.

Elsie Widdowson divenne una persona famosa e molto amata dai suoi connazionali, oltre ai necrologi sulle riviste specializzate (Nature, 2000, 406, 844), è stata ricordata sui quotidiani: The Telegraph (22/6/2000), The Guardian (22/6/2000) e l’autorevole The Economist (14/6/2000).

Omaggio a Elsie Widdowson

Opere consultate

  1. Ashwell, Elsie May Widdowson, C.H., Biogr. Mems Fell. R. Soc. Lond. 2002, 48, 483–506.

Bibliografia

[1] E. Widdowson, A method for the determination of small quantities of mixed reducing sugars and its application to the estimation of the products of hydrolysis of starch by taka-diastase. Biochem. J., 1931, 25, 863–879.

[2] E. Widdowson, A comparative investigation of urine- and serum-proteins in nephritis. Biochem. J. 1932, 27, 1321-1331.

[3] R.A. McCance, E. Widdowson, A study of English diets by the individual method. Part I. Men. J. Hyg., Camb., 1936, 36, 269–292.

[4] R.A. McCance, E. Widdowson, A study of English diets by the individual method. Part II. Women, J. Hyg., Camb., 1936, 36, 293–309.

[5]R.A. McCance, E. Widdowson, The fate of the elements removed from the blood-stream during the treatment of polycythaemia by acetyl-phenylhydrazine. Q. J. Med. 1937, 6, 277–286.

[6] R.A. McCance, E. Widdowson, The absorption and excretion of iron before, during and after a period of very high intake. Biochem. J., 1937, 31, 2029–2034.

[7] R.A. McCance, E. Widdowson et al., Absorption and excretion of iron. Lancet, 1937, 230(5951), 680–684.

[8] R.A. McCance, E. Widdowson, The absorption and excretion of iron following oral and intravenous administration. J. Physiol., Lond., 1938, 94, 148–154.

[9] R.A McCance, E. Widdowson, The secretion of urine in man during experimental salt deficiency. J. Physiol., Lond. 1937, 91, 222–231.

[10] R.A. McCance, E. Widdowson, Mineral metabolism of healthy adults on white and brown bread dietaries. J. Physiol., Lond. 1942, 101, 44–85.

[11] R.A. McCance, C.M. Spray, E. Widdowson, The chemical composition of the human body. Clin. Sci. 1951, 10, 113–125.

[12] E. Widdowson, Harmony of Growth, Lancet, 1970, 295(7653), 901-905.

[1] Samuel Barnett Schryver (1869-1929) chimico e biochimico britannico, professore all’Imperial College di Londra, è stato un pioniere nell’isolamento di amminoacidi da proteine vegetali.

[2] Di Helen Kelp Archbold Porter (1899-1987) parleremo in un prossimo articolo.

[3] Edward Charles Dodds (Sir) (1899-1973) biochimico britannico, professore di Biochimica all’Università di Londra. I suoi interessi scientifici furono ampi e vari; ebbe un continuo interesse per il cancro e la ricerca sulle sue cause, e fu anche un’autorità in materia di alimentazione e dieta. Incoraggiò sempre colleghi più giovani in attività quali immunopatologia, chimica degli steroidi, citochimica e al lavoro che portò alla scoperta dell’aldosterone.

[4] Vernon Henry Mottram (1882-1976), biochimico e fisiologo britannico compì inizialmente ricerche sul metabolismo dei grassi nel fegato, per dedicarsi poi alla chimica della nutrizione. Divenuto professore di Fisiologia al King’s College di Londra nel 1920, raccolse i suoi studi nel volume Human Nutrition (1944).

[5] Robert Alexander McCance, (1898-1993) britannico, è stato un pediatra, fisiologo, biochimico e nutrizionista, primo professore di Medicina Sperimentale all’Università di Cambridge. Coautore insieme a Elsie Widdowson dell’ampio volume The Chemical Composition of Foods, 1940. Il libro divenne noto come riferimento per il pensiero nutrizionale occidentale moderno, più volte riedito fino al 2002.

[6] A questo proposito Elsie Widdowson scrisse: “Non pensavamo di usare soggetti umani in esperimenti che comportassero dolori o difficoltà, a meno che non avessimo fatto gli stessi esperimenti su noi stessi”