Luigi Campanella, già Presidente SCI
L’innovazione tecnologica nel settore della coltivazione, che potremmo chiamare agricoltura 4.0, muove un enorme mercato economico: si stima infatti che nel mondo valga 7 miliardi, raddoppiato rispetto al 2017, di cui 400 milioni di dollari in Italia. Ormai Industria 4.0 ò divenuto un’espressione familiare a molti italiani. Non si può dire purtroppo la stessa cosa per Agricoltura 4.0 intendendo con essa non solo agricoltura digitale, come nel caso delle imprese gestionali, ma anche un approccio globale di sistema, che va dalla coltivazione alla raccolta alla gestione attraverso tecnologie innovative che consentono di valorizzare il significato di filiera Agricola.
Questa limitata percezione da parte del cittadino, se poteva essere giustificata dalla situazione reale fino ad un paio di anni fa,oggi lo è molto meno.La nacchina si è finalmente messa in moto: Un fenomeno globale che lo scorso anno ha visto 500 startup raccogliere 2,9 miliardi di dollari di investimenti: di queste un quarto sono attive nel campo dell’Agricoltura 4,0; nel nostro Paese il settore è cresciuto in un anno del 270% ed è rappresentato per l’80% da aziende esistenti che si sono innovate e per il restante 20% da nuove realtà (elettronica e sensori, software, robotica e droni, produttori indoor). Si tratta comunque di una nicchia rispetto al mercato globale perché il nostro mercato vale soltanto il 5% del mercato globale e il 18% di quello europeo (dati Osservatorio Smart AgriFood del Politecnico di Milano).
Ma l’agricoltura 4.0, anche in un mercato piccolo come il nostro, può dare risposte alle sfide climatiche e ambientali dei prossimi anni e fornire tecnologie che mitighino la mancanza di risorse e riducano gli sprechi, come per esempio le coltivazioni fuori suolo, l’idroponica, l’acquaponica, l’agricoltura urbana e il vertical farming.
La prima sfida è nutrire la crescente popolazione cercando il minor impatto ambientale possibile ed è stata tradotta in numeri da Daniel Podmiserg del Vertical Farm Institute. L’introduzione nelle aree urbane di coltivazioni verticali integrate ha impatto positivo su molte dimensioni della sostenibilità urbana, a patto che il modello agricolo riesca a valorizzare l’intero volume degli edifici, inserendo colture complementari.
La tecnologia del fuori suolo permette di ottenere efficienze elevatissime anche senza iperspecializzare la fattoria, a patto di far coincidere il luogo di vendita/consumo con quello di produzione: il vero Km 0.https://www.wired.com/2017/01/rise-vertical-farm-weeks-must-read-stories/
Dalle micro e nano plastiche nei mari si parla da tempo, ma il problema riguarda anche i terreni agricoli. Si parla delle microplastiche, che vengono ingerite dagli animali da cortile attraverso i vermi, che si occupano anche di diffonderle, e della nanoplastiche, che per le piccolissime dimensioni riescono a entrare in circolo nei vegetali. I pericoli potenziali provengono dalle sostanze chimiche nocive che si attaccano alle particelle di plastica, e in questo modo aggirano le barriere difensive degli organismi. Ancora in larga parte misterioso è invece l’effetto che le nanoplastiche più piccole, sotto i 20 nanometri, hanno sul funzionamento cellulare, per esempio mimando l’azione di determinati enzimi o interferendo sulle membrane.
L’inquinamento da microplastiche e nanoplastiche del terreno e delle falde acquifere.
Tante sono le fonti possibili: una di queste sono i teli usati per la pacciamatura, che si sta diffondendo per combattere meccanicamente le malerbe eliminando i diserbanti; un’altra il compost ottenuto anche con plastiche bio-based, che prima di essere assorbite si comportano come le plastiche tradizionali (anzi peggio, perché sono più bio-affini).Questi sono i primi risultati emersi dalla ricerca del team di Esperanza Huerta della Wageningen University & Research sulla sfida che la richiesta per maggiore produzione agricola con metodi tradizionali pone all’umanità.Per questa sfida, oltre all’educazione contro lo spreco e l’inquinamento, una soluzione radicale è rappresentata dall’ indoor farming, termine che racchiude in sé un alto sviluppo tecnologico, oltre a essere sinonimo di produttività, controllo sulla qualità e localizzazione della produzione. Se il problema è il suolo, perché non disponibile o a rischio di contaminazione o di sfruttamento non sostenibile, riduciamone la necessità per la produzione agricola. Questo innovato approccio alla produzione di cibo include mercati che vanno dai più tradizionali, ortofrutticoli, fino a quelli del non food, come la nutraceutica e la canapa. Oltre ai vantaggi spesso ricordati, rese elevatissime per metro quadro, riduzione dell’uso di suolo, acqua, fertilizzanti, azzeramento di pesticidi e diserbanti, il fuori suolo ne ha molti altri: uniformità della qualità, possibilità di controllare le caratteristiche dei prodotti, purezza dei principi attivi estratti, possibilità di utilizzare varietà ottimizzate che richiederebbero uso di prodotti chimici in grandi quantità, indipendenza dalle condizioni climatiche.
Un altro aspetto importantissimo riguarda la necessità di una buona legge sul consumo di suolo per fare i conti con serietà e responsabilità con il dissesto idrogeologico e l’alto rischio sismico che caratterizzano buona parte del nostri Paese. Va anche resa più equa e sostenibile la filiera alimentare ed è per questo che vanno rilanciati con forza due strumenti che vorremmo fossero supportati anche dalle norme dello Stato.
I prodotti Dop (più menzionati sono stati Parmigiano Reggiano, Prosciutto di Parma, Grana Padano, Prosecco, Chianti e Barolo)e Igp hanno assunto un ruolo nuovo all’interno dei territori italiani diventando il baricentro di una crescita che non è solo economica.
Attraverso le analisi del Big Data, Mauro Rosati, il direttore generale della Fondazione Qualivita sintetizza così i risultati della prima ricerca sperimentale che associa i dati economici e sociali del comparto con le conversazioni digitali sul web e offre il primo report delle informazioni digitali sul food made in Italy: dall’analisi della “nuvola” emergono significative ricadute sulla crescita culturale, turistica e sociale del Paese; ad oggi infatti sugli 882 prodotti Food e Wine IG sono 501 quelli con un sito ufficiale (nel 2016 erano 412, per una crescita del +22%), mentre 420 hanno almeno un profilo social (contro i 268 del 2016, per un +60%);quel che conta è “il lavoro in rete che stanno facendo consorzi e singoli produttori che permettono di fare una promozione di sistema del cibo made in Italy”. I prodotti Dop: non si parla solo più di tradizione, ma anche di “arti, architettura, storia e ambiente ,della conoscenza generale di una comunità. Non è un caso, allora, che le aziende Ig siano in prima linea “con azioni che spaziano dalle ricerche scientifiche che migliorano l’impatto dei metodi di produzione agli studi per l’educazione alimentare e la salute dell’uomo, passando per il sostegno alle più significative attività ricreative delle comunità territoriali.https://novagricoltura.edagricole.it/agricoltura-4-0/
Molto interessante
La ringrazio per l’articolo, esauriente e con spunti interessanti.
Finalmente vengo a sapere che “il compost ottenuto anche con plastiche bio-based, che prima di essere assorbite si comportano come le plastiche tradizionali (anzi peggio, perché sono più bio-affini)”. Fin dall’inizio delle bio-plastiche lo avevo sospettato, ma non ne avevo mai trovato (e cercato) conferma.
Tante cose vengono spesso sottaciute dal nostro mondo fortemente industrializzato, forse perché vi è un superamento di problemi più appariscenti, anche quando invece certe nuove soluzioni sono solo parziali e anche loro creano ulteriori problemi, meno percepibili, ma non per questo meno insidiosi.
Ricordo che quando il PET prese piede come primary container per le bevande al posto del PVC, sui mezzi di comunicazione di massa si levavano lodi sperticate al PET, sostenendo che era così ecologico che, anche bruciandolo, se ne sarebbe ottenuto – dalla scomposizione – solo CO2 e H2O. E lo dicevano, in tono rassicurante, anche al Numero Verde – negli anni ’90 – di una famosa bibita nera con le bollicine. Eppure, alla “prova del fuoco (!)” io sentivo anche col PET una puzza per lo meno di idrocarburi policiclici aromatici (s-fortunatamente non so distinguere quella della diossina…).
Un po’ come quella pubblicità del burro, credo degli anni ’70, dove si sosteneva che pulisse – facendo scivolar via – il colesterolo dai vasi sanguigni.
O quella dello zucchero (saccarosio) – quando in Italia arrivò la saccarina – la quale sosteneva che facesse bene al cervello (come se prima della scoperta dell’America la gente fosse stata tutta deficiente).
Ecco, sarebbe bene che il mondo della chimica trovasse il modo – così come già all’asilo e poi alle elementari la Polizia Municipale e i Vigili del Fuoco girano le classi ogni anno – di portare “chimici divulagatori” presso le scuole di ogni ordine e grado almeno per un giorno all’anno (se necessario creando anche una giornata extracurricolare, magari un sabato, facoltativa), per avvicinare i giovani alla chimica e al suo uso ragionato (come dovrebbe fare ogni cittadino nel rispetto dei suoi doveri civici ma anche in qualità di acquirente/consumatore critico e informato) nella vita di ogni giorno. Per non far nascere timori reverenziali, paure di eccessiva teoricità e l’impressione che la chimica si limiti a formule astruse.
Anche questo permetterebbe di sfatare il mito – a partire dalle generazioni più giovani – che ancora accosta alla chimica solo connotati negativi.
Dopotutto, parlando di architetti o ingegneri, chi al giorno d’oggi si sognerebbe di collegare a dette figure professionali solo ponti crollati, incidenti stradali e armi in dotazione agli eserciti in guerra?