Presenza ed origine del platino nello spazio

Diego Tesauro

Il platino, 78° elemento della tavola periodica, come riportato in un precedente post, è uno dei metalli preziosi maggiormente conosciuto, inizialmente per il suo uso in oreficeria, poi nell’ultimo secolo per essere un catalizzatore di molti processi chimici industriali divenendo popolare per il suo impiego negli scarichi delle automobili che ne ha comportato un’ampia diffusione. Non da trascurare è anche l’uso di suoi composti quale chemioterapico. Ma a fronte di questo impiego su una più larga scala, bisogna constatare, che come tutti gli elementi della terza serie dei metalli di transizione, non è particolarmente diffuso. Rappresenta infatti solo 5 parte per miliardo in massa della crosta terrestre, ma rispetto agli altri elementi che lo precedono nella tavola periodica e molti elementi della seconda serie è più abbondante. Come tutti gli elementi con numero atomico pari nel sistema solare, e quindi nell’universo, sono più abbondanti rispetto agli elemnti con numero atomico dispari. Questa prevalenza è determinata in quanto si sono generati per decadimenti radioattivi verso nuclei più stabili che hanno nuclei con un numero di protoni, soprattutto, e neutroni pari. La scarsità di questo elemento è dovuta a due fattori: uno di natura geologica, l’altro risiede nella genesi a seguito della nucleosintesi. La presenza sulla Terra è però ancora più scarsa che nel sistema solare per la storia evolutiva geologica della Terra che, come l’oro, ne ha visto un inabissamento verso le zone più interne del nostro globo. Il platino presente nella crosta terrestre ha quindi origine dall’impatto di meteoriti, così come è stato anche riportato per l’oro in un precedente intervento. Essendo di natura extraterrestre è rinvenuto insieme agli altri elementi omologhi come l’iridio e l’osmio negli asteroidi. In particolare gli asteroidi di tipo M situati nella fascia centrale degli asteroidi, situata a circa 300 milioni di distanza dalla Terra, sono costituiti essenzialmente da metalli in quanto rappresentano il nucleo di un potenziale pianeta che si sarebbe potuto formare fra l’orbita di Marte e l’orbita di Giove all’origine del sistema solare. Tra questi è Psyche, l’asteroide n°16 (Scoperto a Napoli dall’osservatorio di Capodimonte da Annibale De Gasperis nel 1852 https://it.wikipedia.org/wiki/Annibale_De_Gasparis ), costituito essenzialmente da metalli (ferro e nichel).

Psyche ripreso dal Very large telescope (VTL)

Verso Psyche è stata programmata dalla NASA una missione in partenza per 2022 con l’obiettivo di raggiungere l’asteroide per il 2023 per studiarne meglio la composizione. Il platino e i suoi omologhi sono certamente presenti su questo asteroide. La missione potrebbe essere da apripista per la possibilità di sfruttamento degli asteroidi come future miniere di metalli preziosi rari. La loro presenza nei corpi più piccoli del sistema solare ha addirittura spinto la fantasia nel catturare questi corpi e nel porli in rotazione attorno alla Terra per poi sfruttarne le potenzialità dal punto di vista minerario. Oggi questa evenienza sembra fantascienza, ma in futuro non troppo lontano potrebbe verificarsi, anche se il trattato sullo spazio extra-atmosferico del 27 gennaio 1967 (https://it.wikipedia.org/wiki/Trattato_sullo_spazio_extra-atmosferico) consente operazioni di estrazione di materie prime dallo spazio da parte di privati solo se autorizzate dagli stati. Ma il platino presente nel sistema solare come si è formato?

La formazione del platino così come quella degli altri metalli della terza serie ha essenzialmente origine nei processi di cattura neutronica di tipo r, che come già abbiamo visto, hanno luogo nelle esplosioni di supernova di tipo II (quelle che avvengono a carico di stelle super- massicce con massa superiore alle 8 masse solari) oppure nella fusioni di stelle di neutroni.

Arricchimento della nebulosa primordiale da parte di una fusione fra due stele di neutroni

L’osservazione per la prima volta delle onde gravitazionali da parte degli esperimenti LIGO–Virgo, emesse dalla collisione di stelle di neutroni, ha permesso, a seguito di una campagna di ricerche di individuare nell’oggetto GW170817 la controparte emettitrice di onde elettromagnetiche nel dominio del visibile e dell’infrarosso. Questa osservazione ha rappresentato la prima opportunità per rilevare elementi chimici sintetizzati recentemente con il processo r. Le emissioni rilevate collimano effettivamente con modelli sviluppati confermando le ipotesi che accreditano a questi eventi la formazione di elementi con massa superiore a 140 nucleoni [1] La formazione quindi degli elementi pesanti da eventi catastrofici finali dell’evoluzione stellare permette a stelle di prima popolazione (quale è il Sole) e gli oggetti più piccoli quali i pianeti e i pianeti nani abbiano tra gli elementi anche il platino. Ma questi elementi sono presenti in basse quantità anche in stelle più antiche La ricerca quindi del platino e degli elementi che lo precedono nella terza serie di transizione osmio e iridio, costituisce dagli anni novanta del secolo scorso un importante obiettivo per chiarire i processi di nucleosintesi e trovare conferme ai modelli di evoluzione delle galassie. In precedenza questa ricerca era preclusa essendo effettuata con l’uso di strumenti basati sulla Terra. L’osservazione delle transizioni atomiche infatti cadono in un intervallo di lunghezza d’onda che viene assorbita dall’atmosfera terrestre. Fu solo l’avvento dello space Hubble telescope nel 1991 che permise di rilevare i segnali come per esempio dalla stella HD 126238 appartenente all’alone galattico cioè una stella di II popolazione (più antica del Sole, stella di I popolazione)[2]. Da questo panorama emerge quindi sia un interesse scientifico speculativo che economico nella ricerca del platino e dei suoi omologhi nello spazio.

1 D. Kasen et al. Origin of the heavy elements in binary neutron-star mergers from a gravitational-wave event Nature 2017, 551, 80-84.

2 J J. Covan et al. First Detection of Platinum, Osmium, and Lead in a Metal-Poor Halo Star: HD 126238 The Astrophysical Journal, 1996, 460, L115–L118.

 

Chimica e alimentazione.

Luigi Campanella, già Presidente SCI

L’alimentazione cattura con sempre crescente interesse l’attenzione dei cittadini.

Il triangolo salute/ambiente/alimenti sempre più si identifica con le componenti essenziali della qualità della vita. Negli ultimi anni però nel web ci si imbatte spesso in “ricerche scientifiche” o “suggerimenti” da parte di esperti della salute che contribuiscono a diffondere informazioni sbagliate – o parziali – sulla nostra alimentazione.

Ad esempio un bicchiere di vino al giorno può fare realmente bene o è vero quanto da parte degli epidemiologi si sostiene e cioè che non esista nessun consumo di alcol completamente sicuro. Ed ancora l’olio di cocco è la panacea universale che credevamo tanto che l’abbiamo usato per tutto: cucinare, lavare i denti, idratare la pelle, etc.? Le calorie ad esso imputate sono in maggiore quantità rispetto ad altri oli.

Ed ancora gli zuccheri naturali non sono così sani come si crede rispetto allo zucchero raffinato: le calorie in gioco sono più o meno le stesse. Ci hanno convinto che il cioccolato fondente sia buono per la nostra salute: fioccano ricerche e articoli che lo eleggono ad alleato della salute su tutti i fronti. Forse, e diciamo forse, le ricerche finanziate dall’industria dolciaria potrebbero avere avuto in ruolo in tutto ciò?

I superfood in realtà non esistono. Spendere tutto lo stipendio in cavolo nero e avocado non ti farà arrivare a 150 anni. Il dottor Crandall Snyder dice, sui cosiddetti SuperFood che dovrebbero risolvere tutti i mali del mondo,: “Io consiglio sempre di risalire allo studio originale. E’ stato fatto su animali o esseri umani? Sono stati usati estratti o cibi industriali? Qual era il dosaggio e la frequenza? Lo studio teneva in considerazione correlazioni o rapporti di causa?

I carboidrati non sono i nemici giurati della tua dieta: ce ne sono di molto sani, come nei cereali nella frutta, nei legumi. Acqua e limone al mattino sono consigliati. Ma potrebbero addirittura nuocere: si pensi allo smalto dei denti.

Ma gli aspetti che oggi sono sotto la lente di ingrandimento nel tema alimentare sono anche altri. Il cibo è la prossima questione che l’umanità tutta (nei prossimi cinque anni sfonderà il tetto degli 8 miliardi) deve affrontare. Lo confermano i super esperti di Ibm Research, che si sono focalizzati sulla sostenibilità alimentare per individuare le “Cinque innovazioni in cinque anni” del 2019.

La sostenibilità di ciò che mangiamo è uno dei problemi più importanti che dovremo fronteggiare: +45% di popolazione e una riduzione del 20% delle terre coltivabili. Le cinque innovazioni Ibm toccano aspetti diversi della catena alimentare, dall’agricoltura di precisione allo smaltimento degli imballaggi. Il primo punto riguarda proprio il miglioramento del processo di coltivazione, unendo le forze di blockchain, dei dispositivi della cosiddetta Internet of Things e degli algoritmi di Intelligenza Artificiale sarà possibile evitare molti sprechi, valutando le decisioni migliori su come coltivare. Si potrà capire lo stato di irrigazione in un dato terreno, se va concimato o no, se ci sono parassiti e di conseguenza se usare pesticidi.

Secondo e terzo passaggio sono lo stoccaggio e il trasporto: un terzo degli alimenti va perso o va a male durante la distribuzione, circa la metà di tutta la frutta e verdura si degrada. La quarta e quinta tecnologia hanno a che fare con il controllo della qualità. In cinque anni gli ispettori potranno identificare i patogeni che si trovano nel cibo prima che diventino dannosi.

Le spese associate a costi medici per malattie che vengono dall’ingestione di cibo avariato sono sui nove miliardi di dollari l’anno. Richiamare cibi avariati costa alle società 75 miliardi di dollari l’anno. E causano 128mila ricoveri e 3 mila morti ogni anno, solo negli Usa.

C’è poi il problema del comportamento del cittadino rispetto al cibo. Fare la lista della spesa, leggere attentamente la scadenza sulle etichette, verificare quotidianamente il frigorifero dove i cibi vanno correttamente posizionati, effettuare acquisti ridotti e ripetuti nel tempo, privilegiare confezioni adeguate, scegliere frutta e verdura con il giusto grado di maturazione, preferire la spesa a km0 e di stagione che garantisce una maggiore freschezza e durata, riscoprire le ricette degli avanzi, dalle marmellate di frutta alle polpette fino al pane grattugiato, ma anche non avere timore di chiedere la doggy bag al ristorante sono alcuni dei consigli elaborati dalla Coldiretti e diffusi in occasione della Giornata nazionale contro lo spreco alimentare.

Secondo l’indagine Coldiretti quasi tre italiani su quattro (71%) hanno diminuito o annullato gli sprechi alimentari nell’ultimo anno mentre il 22% li ha mantenuti costanti e purtroppo c’è anche un 7% che dichiara di averli aumentati. Nonostante la maggiore attenzione il problema resta però rilevante con gli sprechi domestici che rappresentano in valore ben il 54% del totale e sono superiori a quelli nella ristorazione (21%), nella distribuzione commerciale (15%), nell’agricoltura (8%) e nella trasformazione (2%) per un totale di oltre 16 miliardi di euro che finiscono nel bidone in un anno. Anche se negli ultimi anni la sensibilità su questo tema è aumentata portando ad una riduzione del fenomeno, credo sia necessario continuare a investire in progetti di educazione alimentare per promuovere le buone pratiche e migliorare la sensibilità di noi cittadini e consumatori.

Collegate ad un comportamento virtuoso in materia ci sono tante iniziative benefiche, a partire dalle oltre 1090 tonnellate di frutta e verdura fresca recuperate dal Centro Agroalimentare di Roma (Car) e poi ridistribuite alle onlus della Capitale e della Regione Lazio. E’ di oltre 2 milioni di euro (ipotesi prezzo medio al dettaglio di 2 euro/Kg) la stima del valore di mercato dei prodotti recuperati e del potenziale risparmio.

L’impatto ambientale dei prodotti recuperati fornisce una stima delle risorse naturali impiegate in fase di produzione e quindi non sprecate: 2.207 cassonetti di rifiuti evitati; 354 piscine olimpiche di acqua non sprecate (acqua per produrre i prodotti recuperati); la produzione del recuperato inquinerebbe come la CO2 di quasi 10.000 viaggi in auto da Roma a Milano; 1.036 campi da calcio equivalgono alla superficie di territorio che sarebbe necessaria per compensare gli impatti dei prodotti recuperati.

Donna e/è Scienza

Anna Maria Salvi*

La giornata di studio di venerdì 11 ottobre a Potenza sul tema ‘Donna e è Scienza’, intesa come momento di riflessione sulle reali opportunità di genere nelle discipline scientifiche STEM (Science, Technology, Engineering, Mathematics), è iniziata con un omaggio a Elena Lucrezia Cornaro Piscopia (1646-1684)* la prima donna laureata della storia, simbolo della libertà e dell’autoaffermazione femminile.

L’evento è stato organizzato, con il consenso della Rettrice, da Anna Maria Salvi, Presidente CUG, da Giuliana Bianco, Presidente SCI Basilicata , da Donatella Caniani, prorettrice al MIUR per le carriere STEM e con la partecipazione di altri docenti e rappresentanti UniBas. Esso è stato ispirato dal blog della SCI, curato da Claudio Della Volpe, che ha pubblicato una raccolta di Rinaldo Cervellati, contenente accurate ricerche biografiche di importanti donne scienziate del passato che, per tutte, “ricordano il cammino difficile e lungo per la parità femminile nel settore scientifico; processo ancora in corso”.

XVII Convegno nazionale di storia e fondamenti della chimica

Di tale ampia panoramica, che sarà pubblicata a breve dalla casa editrice Aracne di Roma con il titolo “Chimica al femminile, sono state selezionate sette figure femminili (con data di nascita) per la video conferenza “Donne che hanno dato contributi fondamentali al progresso delle Scienze Chimiche”: Julia Lermontova (1846), Maria Bakunin (1873), Maud Leonora Menten (1879), Erika Cremer (1900), Marguerite Perey (1909), Rosalind Franklin (1920), Rachel Carson (1907). Le prime sei si sono occupate prevalentemente di chimica, Rachel Carson, biologa ha praticamente dato il via al movimento ambientalista contemporaneo.

Importanti spunti di riflessione sono stati offerti dal confronto con la testimonianza diretta di Luisa Torsi nella sua relazione incoraggiante e propositiva dal titolo “Viaggio entusiasmante verso la parità” che, nella prima parte, mostra la propria esperienza come docente universitaria, responsabile di progetti di ricerca di rilevanza internazionale, il gruppo di ricerca e gli ambiti applicativi dei progetti. Nella seconda parte invece considera la sua situazione di donna nel mondo attuale della ricerca con riferimento alle risultanze da azioni di monitoraggio condotte su ampia scala nelle università e in istituti di ricerca dalla commissione europea ‘She Figures’ che riporta “un grafico in cui la forbice uomo donna parte con più donne che studiano e si laureano, si incrocia a 30 anni con i maschi che crescono lentamente fra dottorandi e post-doc e poi esplode a partire dalle posizioni base dell’università verso il dominio incontrastato di associati e ordinari maschi” come riportato nel post di Claudio Della Volpe su ‘Premio Nobel per la Chimica 2019’ il giorno successivo all’incontro di Potenza https://wp.me/p2TDDv-4ef La Chimica e la Società

La ‘giornata di studio ’ è stata così nominata perché nelle intenzioni del comitato organizzatore e docenti partecipanti** poteva e doveva essere un concerto di ‘lezioni sulle pari opportunità’ per laureandi/e dottorande/i, nel loro ultimo stadio di formazione, prossimi all’ingresso nel mondo del lavoro e nella società che li vedrà protagonisti attivi.

E la partecipazione della comunità universitaria è stata attiva anche nella fase del dibattito, con richiami alle indicazioni del MIUR sui temi della parità nella ricerca universitaria e alle attività del gruppo di lavoro (GdL-STEM) della CRUI e ad altre realtà, ad esempio in USA, alla consuetudine della Power Hour, dal 2016, nel corso della Gordon Research Conference e, importante, con interventi condivisi dalla rappresentanza studentesca, condivisione parimenti espressa da entrambi i generi.

Nelle conclusioni sono state ribadite le raccomandazioni sulle misure da adottare per ridurre la disparità di genere in ambito scientifico che emerge anche nelle ‘scelte’ di orientamento professionali. E’ stato richiamato ‘il viaggio entusiasmante verso la parità’ come viaggio difficoltoso ma con buone possibilità di riuscita se le persone sostenitrici della parità sono vere portatrici di buoni esempi e buone pratiche. Uomini e donne cioè che ‘insieme’ possono contribuire a creare un ambiente favorevole per la conciliazione vita-lavoro, in particolare per le donne in maternità, che preveda l’attivazione di procedure compensative tra le quali permesso di paternità obbligatorio, asili aziendali e baby-sitting……. in sintonia con la nuova strategia per la parità di genere, presentata a Copenaghen dal Consiglio d’Europa per il quinquennio 2018-2023, che assegna un ruolo fondamentale ai maschi nella lotta alla disparità.

Il messaggio beneaugurante è che tali incontri possano ripetersi con una certa frequenza in modo che la buona semente attecchisca e si propaghi tra le nuove generazioni……

* Anna Maria Salvi è professore presso UniBas; si occupa di XPS ed altre tecniche di analisi superficiale con applicazioni in svariati campi dai sensori, alla scienza dei materiali, alla biochimica.

** Vedere locandina evento, comunicato stampa e documentazione allegata: http://portale.unibas.it/site/home/in-primo-piano/articolo7355.html

Elementi della Tavola Periodica: Platino, Pt.

Rinaldo Cervellati

Il platino (Pt) è l’elemento n. 78 della tavola periodica, collocato fra gli elementi di transizione nel gruppo 10, 6° periodo, sotto al palladio (Pd), a destra dell’iridio (Ir) e a sinistra dell’oro (Au). È un elemento raro, la sua abbondanza nella crosta terrestre è stimata in 0.005 ppm. Si può trovare libero in natura, e, insieme a minerali di rame e nickel, in depositi alluvionali. Una delle principali fonti di platino è la sperillite (arseniuro di platino PtAs2), associata ai minerali di nichel, principalmente nel deposito del bacino di Sudbury (Ontario, Canada).

Figura 1. Cristalli di platino nativo (a sinistra), sperillite (a destra)

Gli archeologi hanno scoperto tracce di platino nell’oro usato nelle antiche sepolture egiziane già nel 1200 a.C. Tuttavia è probabile che gli antichi egizi non riconoscessero l’esistenza del metallo nel loro oro. Il metallo fu usato dai nativi americani precolombiani, in quello che oggi è l’Ecuador, per produrre manufatti in una lega di oro bianco e platino. Gli archeologi di solito associano la tradizione della lavorazione del platino in Sud America con la cultura di La Tolita (circa 600 a.C. – 200 d.C.), ma la datazione e la posizione precise sono incerti perché la maggior parte dei manufatti di platino della zona furono acquistati attraverso il commercio di antichità piuttosto che ottenuti per scavi archeologici diretti. Per lavorare il metallo, i precolombiani impiegarono un sistema relativamente sofisticato di metallurgia delle polveri. Il platino utilizzato in tali oggetti non era puro, ma piuttosto una miscela naturale con piccole quantità di palladio, rodio e iridio.

Quando gli spagnoli arrivarono in sud America, confusero il metallo con il molto apprezzato argento (in spagnolo plata), da cui il nome platino, dal dispregiativo platina, che si potrebbe tradurre come “falso argento”.

Durante una lunga spedizione fra Colombia e Perù, nel 1735, Antonio de Ulloa (scienziato ed esploratore, 1716-1795) e Jorge Juan (matematico e ufficiale di marina, 1713-1773), videro i nativi americani estrarre platino. Ulloa e Juan trovarono delle pepite di metallo biancastro e le portarono in Spagna. Antonio de Ulloa tornò in patria, fondò il primo laboratorio di mineralogia in Spagna e fu il primo a esaminare il platino, nel 1748. Il suo resoconto includeva una descrizione del metallo come non separabile né calcinabile, quindi non continuò a indagare oltre.

Figura 2. Antonio De Ulloa, pepita di platino (ingrandita)

Nel 1741 Charles Wood, un metallurgista britannico, trovò vari campioni di platino colombiano in Giamaica, che inviò a William Brownrigg (medico e chimico, 1712-1800) per ulteriori indagini.

Nel 1750, dopo aver studiato il platino che gli era stato inviato, Brownrigg presentò alla Royal Society un resoconto dettagliato del metallo, affermando di non averne visto menzione in nessun precedente resoconto di minerali noti. Brownrigg prese atto dell’altissimo punto di fusione del platino e della refrattarietà verso molti agenti chimici. Altri chimici in tutta Europa iniziarono presto a studiare il platino, tra cui Jöns Jakob Berzelius, e Pierre Macquer. Nel 1752, Henrik Scheffer (chimico svedese, 1712-1759) pubblicò un resoconto scientifico dettagliato del metallo, che chiamò “oro bianco”, descrivendo come riuscì a fondere il minerale di platino mescolandolo con arsenico. Scheffer descrisse il platino come meno malleabile dell’oro, ma con una resistenza simile alla corrosione.

Nel 1786, Pierre-François Chabaneau (chimico francese, 1754-1842) riuscì a rimuovere varie impurità dal minerale di platino, tra cui oro, mercurio, piombo, rame e ferro. Questo lo portò a credere che stesse lavorando con un singolo metallo, in realtà il minerale conteneva i metalli del gruppo platino ancora da scoprire per cui gli esperimenti fornivano risultati incoerenti. Finalmente, dopo diversi mesi, Chabaneau riuscì a produrre 23 chilogrammi di platino puro e malleabile martellandolo e comprimendolo al calor bianco. Chabaneau si rese conto che l’infusibilità del platino avrebbe dato valore agli oggetti fatti con esso, e così iniziò un’attività con il metallurgista spagnolo Joaquín Cabezas per produrre lingotti e utensili in platino.

Il platino puro è un metallo di color bianco argento brillante, duttile e malleabile, più duttile dell’oro, dell’argento o del rame, il più duttile dei metalli puri, ma meno malleabile dell’oro. Il platino ha un’eccellente resistenza alla corrosione, è stabile alle alte temperature e ha proprietà elettriche stabili. A 500 °C si ossida, formando il biossido (PtO2), questo ossido può essere facilmente rimosso termicamente. Reagisce energicamente con il fluoro a 500 °C per formare platino tetrafluoruro. È anche attaccato da cloro, bromo, iodio e zolfo. Il platino è insolubile in acido cloridrico e nitrico, ma si dissolve a caldo nella loro miscela detta acqua regia per formare acido cloroplatinico, H2PtCl6.

Le sue caratteristiche fisiche e la stabilità chimica lo rendono utile per applicazioni industriali; per la sua resistenza a ossidazione e usura è ampiamente impiegato in gioielleria, considerato metallo nobile.

Il platino ha sei isotopi naturali: 192Pt (0,78%), 194P t (32,96%), 195Pt (33,83%), 196Pt (25,21%) e 198Pt (7,36%). Il 190Pt (0,012%) è radioattivo (emettitore α) con un lunghissimo tempo di emivita, 6,5´1011 anni, tanto da potersi considerare stabile.

Gli stati di ossidazione più comuni del platino sono +2 e +4. Gli stati di ossidazione +1 e +3 sono meno comuni e sono spesso stabilizzati dal legame metallico nelle specie bimetalliche. I composti di platino (II) tetracoordinato tendono ad adottare geometrie planari quadrate.

Con proprietà acide deboli, il platino ha una grande affinità per lo zolfo e suoi composti, come il dimetilsolfossido (DMSO); sono stati segnalati numerosi complessi DMSO e occorre prestare attenzione nella scelta del solvente quando si usa il platino come catalizzatore.

L’acido esacloroplatinico, già menzionato, è probabilmente il composto di platino più importante, perché funziona da precursore per molti altri composti di platino. Di per sé, ha varie applicazioni in fotografia, incisioni di zinco, inchiostro indelebile, placcatura, specchi, colorazione della porcellana e come catalizzatore.

Trattando l’acido esacloroplatinico con un sale di ammonio, ad es. il cloruro di ammonio, si ottiene esacloroplatinato di ammonio, che è relativamente insolubile nelle soluzioni di ammoniaca. Il riscaldamento dell’esacloroplatinato di ammonio in presenza di idrogeno lo riduce a platino elementare. L’esacloroplatinato di potassio è allo stesso modo insolubile. L’acido esacloroplatinico è stato usato nella determinazione degli ioni di potassio mediante gravimetria.

Quando l’acido esacloroplatinico viene riscaldato, si decompone in platino elementare attraverso il cloruro di platino (IV) e il cloruro di platino (II), sebbene le reazioni non si verifichino gradualmente.

Sono noti anche i bromuri di platino (II) e platino (IV). L’esafluoruro di platino è un forte ossidante in grado di ossidare l’ossigeno.

L’ossido di platino (IV), PtO2, noto anche come “catalizzatore di Adams”, è una polvere nera solubile in soluzioni di idrossido di potassio (KOH) e acidi concentrati. PtO2, e il meno comune ossido di platino (II), PtO, si decompongono entrambi per riscaldamento. È noto anche un ossido di platino misto (II, IV), Pt3O4.

Sono stati sintetizzati numerosi platinuri di bario in cui il platino presenta stati di ossidazione negativa che vanno da −1 a −2. Questi includono BaPt, Ba3Pt2 e Ba2Pt, come pure il platinuro di cesio, Cs2Pt. È stato dimostrato che questo composto cristallino trasparente rosso scuro contiene anioni Pt2−. Su superfici opportunamente trattate, il platino presenta quindi anche stati di ossidazione negativa. Gli stati di ossidazione negativa esibiti dal platino sono insoliti per gli elementi metallici e sono stati attribuiti a effetti relativistici.

Il sale di Zeise, contenente etilene come ligando, è stato uno dei primi composti organometallici scoperti. Il dicloro(cicloocta-1,5-diene)platino(II) è un complesso olefinico disponibile in commercio che, insieme agli alogenuri, sono i punti di partenza per lo studio della chimica del platino.

Il cisplatino (cis-diamminodicloroplatino (II)) è il primo di una serie di farmaci chemioterapici quadrati contenenti platino(II) tetracoordinato planare quadrato, (figura 3).

Figura 3. Struttura del cisplatino

Altri includono carboplatino e oxaliplatino. Questi composti sono in grado di interferire con tutte le fasi del ciclo cellulare legandosi al DNA attraverso la formazione di legami crociati tra filamenti complementari del DNA, un percorso simile a quello degli agenti chemioterapici alchilanti. Tuttavia, gli effetti collaterali del cisplatino comprendono nausea e vomito, perdita di capelli, diminuzione dell’udito e nefrotossicità.

Il platino, insieme agli altri metalli rari del “gruppo” del Pt (rutenio, rodio, osmio, palladio e iridio), si ottiene commercialmente come sottoprodotto dell’estrazione e dalla lavorazione di nichel e rame. Durante l’elettrorefinitura del rame, argento, oro e metalli del gruppo del platino, si depositano sul fondo della cella elettrolitica come “fango anodico”, che costituisce il punto di partenza per la successiva estrazione. Un metodo adatto per la purificazione del platino grezzo è quello di trattarlo con acqua regia, in cui si dissolvono palladio, oro e platino, mentre osmio, iridio, rutenio e rodio non reagiscono e sono separati per filtrazione. L’oro viene precipitato dall’aggiunta di cloruro di ferro (II) e dopo aver filtrato l’oro, il platino viene precipitato come cloroplatinato di ammonio mediante l’aggiunta di cloruro di ammonio, poi convertito in platino mediante riscaldamento. L’esacloroplatinato (IV) non precipitato può essere ridotto con zinco elementare. Un metodo simile è adatto anche per il recupero su piccola scala del platino dai residui di gioielleria o di laboratorio.

Se il platino si trova nativo nei depositi alluvionali o in altri minerali, è isolato da essi con vari metodi di sottrazione delle impurità. Poiché il platino è significativamente più denso di molte di esse, quelle più leggere possono essere rimosse semplicemente immergendo la miscela in un opportuno liquido. Il platino è paramagnetico, mentre il nichel e il ferro sono entrambi ferromagnetici. Queste due impurità sono così rimosse facendo scorrere un elettromagnete sopra la miscela. Poiché il platino ha un punto di fusione più elevato rispetto alla maggior parte delle altre sostanze, molte impurità possono essere fuse senza fondere il platino. Infine, il platino è resistente agli acidi cloridrico e solforico, mentre altre sostanze vengono prontamente attaccate da essi. Le impurità metalliche possono essere rimosse agitando la miscela in uno dei due acidi e recuperando il rimanente platino.

In ogni modo l’estrazione e la raffinazione del platino hanno notevoli impatti ambientali.

Nel 2011 il Sudafrica è stato il principale produttore di platino, seguito da Russia, Canada, Zimbabwe e USA.

Delle 218 tonnellate di platino vendute nel 2014, 98 tonnellate sono state utilizzate per dispositivi di controllo delle emissioni dei veicoli (45%), 74,7 tonnellate in gioielleria (34%), 20,0 tonnellate nell’industria chimica e del petrolio (9,2%) e 5,85 tonnellate per applicazioni elettroniche (2,7%). Le restanti 28,9 tonnellate sono state utilizzate in applicazioni minori, as es. in medicina e biomedicina, nella fabbricazione del vetro e di elettrodi, sensori di ossigeno, candele e di motori a turbina.

L’uso più comune del platino è come catalizzatore nelle reazioni chimiche, spesso come nero e “spugna” di platino. All’inizio del XIX secolo, la polvere di platino fu utilizzata per catalizzare l’accensione dell’idrogeno. Una sua applicazione importante come catalizzatore è nelle automobili perché favorisce la completa combustione di basse concentrazioni di idrocarburi incombusti dallo scarico in anidride carbonica e vapore acqueo.

Figura 4. Marmitte per auto

Il platino è anche usato nell’industria petrolifera come catalizzatore in una serie di processi, ma soprattutto nel reforming catalitico di nafta di prima distillazione in benzina ad alto numero di ottano che diventa ricca di composti aromatici. PtO2, noto anche come catalizzatore di Adams, è utilizzato come catalizzatore di idrogenazione, in particolare per oli vegetali. Il platino inoltre catalizza fortemente la decomposizione del perossido di idrogeno in acqua e ossigeno e viene utilizzato nelle celle a combustibile come catalizzatore per la riduzione dell’ossigeno.

Nel 2007, Gerhard Ertl ha vinto il premio Nobel per la chimica per la determinazione dei meccanismi molecolari dettagliati dell’ossidazione catalitica del monossido di carbonio sul platino.

Figura 5. Prof. Gerhard Ertl

Dal 1889 al 1960, il metro è stato definito come la lunghezza di una barra in lega di platino-iridio (90:10), nota come barra internazionale del prototipo. Fino a maggio 2019, il chilogrammo era definito dall’Unione Internazionale Pesi e Misure come la massa del cilindro in platino-iridio fabbricato nel 1879.

L’elettrodo di idrogeno standard utilizza anche un elettrodo di platino platinato per la sua resistenza alla corrosione.

Il platino è un metallo prezioso: monete, barrette e lingotti vengono venduti, scambiati o raccolti. Il platino trova impiego in gioielleria, di solito come lega al 90-95%, per anelli, bracciali e collane.

Figura 6. Gioielli in platino

Nel settore dell’orologeria, Patek Philippe, Rolex, Breitling e altri marchi usano il platino per produrre le loro serie di orologi in edizione limitata. Gli orologiai apprezzano le proprietà uniche del platino, poiché non si appanna e praticamente non si consuma (a differenza dell’oro).

Riciclaggio

A causa del suo valore, il platino tende a essere riciclato abbastanza rapidamente. La maggior parte degli scarti di platino proviene dai catalizzatori automobilistici esauriti, al secondo posto la vecchia gioielleria e i componenti di dispositivi elettronici, infine i residui dell’industria petrolifera e farmaceutica. In generale il recupero viene realizzato con gli stessi metodi usati nel processo di purificazione, cioè facendo uso di acqua regia fumante o di soluzioni di cianuro di sodio. Tuttavia, questi sistemi, sebbene efficienti, presentano, oltre ad alcuni aspetti pratici, anche gravi problemi ambientali: rilascio di gas pericolosi (vapori di HCl, Cl2, NOx, nitrosil cloruro e così via) e residui di lisciviazione, senza contare l’impiego uso di sostanze chimiche tossiche e pericolose:acidi concentrati, liscivianti, alti reagenti e attrezzature che prevedono temperature elevate e alte pressioni. Pertanto, una svolta nella chimica del riciclaggio di Pt è necessaria affinché l’intero processo diventi più sicuro, più economico, sostenibile ed ecologico.

Nel 2016, Nejc Hodnik, Claudio Baldizzone e altri [1] hanno dimostrato che è possibile ottenere la completa dissoluzione del platino metallico per alterazione indotta del potenziale superficiale, un processo “senza elettrodi” che utilizza alternativamente gas ossidativi e riduttivi. Questo concetto di riciclaggio del platino sfrutta il cosiddetto meccanismo di dissoluzione transitoria, innescato da una variazione ripetitiva dello stato di ossidazione della superficie di platino, senza utilizzare corrente elettrica o elettrodi esterni. Lo schema è il seguente (figura 7):

Figura 7. Schema del proposto riciclaggio sostenibile [1]

In breve, il metallo da recuperare viene alternativamente ossidato tramite una corrente di ozono, O3, (freccia in alto) e poi ridotto di nuovo in corrente di monossido di carbonio, CO. Il processo transitorio con l’ozono genera una superficie di ossido di platino che viene poi trasformato nel metallo puro dal CO (freccia in basso). L’alternanza delle due fasi conduce infine al ripristino totale del platino Si tratta di un processo elettrochimico complesso, chi volesse approfondirne i dettagli può trovarli nel lavoro citato [1].

Oltre al riciclaggio a fine vita, quantità significative di platino vengono utilizzate nei processi di produzione a circuito chiuso, ad esempio nella produzione di vetro, in cui le vecchie apparecchiature in platino vengono riciclate e trasformate in nuove apparecchiature.

Ciclo biogeochimico

Nel 2017, A. Mitra e S. Sen [2] hanno pubblicato uno studio sui cicli antrobiogeochimici dei metalli del gruppo del platino (PGE), facendo emergere l’inquinamento ambientale da essi provocato. In figura 8 sono riportate le riserve e i flussi del ciclo del platino.

Figura 8. Ciclo biogeochimico del platino [2]

I flussi naturali sono contrassegnati da linee nere, mentre i flussi antropogenici sono contrassegnati da linee rosse. La quantità di Pt atmosferico è stata calcolata aggiungendo i flussi naturali e antropogenici che spostano elementi dalle altre sfere nell’atmosfera. Gli autori hanno ipotizzato che l’atmosfera non sia un deposito adeguato e che i PGE abbiano un breve tempo di permanenza, come altri metalli industriali [2].

Ma il ciclo biogeochimico di un elemento può variare secondo le caratteristiche e le attività di un certo territorio. Recentemente Mélina Abdou ha discusso una tesi di dottorato all’Università di Bordeaux, intitolata: Cicli biogeochimici del platino in ambienti costieri [3].

La ricerca ha combinato sperimentazioni di laboratorio e monitoraggio sul campo in zone costiere dell’oceano Atlantico e del Mar Mediterraneo nordoccidentale, compresa la sua distribuzione tra acqua di mare, particelle e organismi viventi.

Gli esperimenti di esposizione su ostriche a un’ampia gamma di concentrazione hanno mostrato un accumulo di Pt nei bivalvi marini, che supporta l’assorbimento di Pt dall’acqua di mare, in linea con le osservazioni sul campo.

Livelli di Pt fra 50 e 100 ngxL-1sono in correlazione lineare positiva fra esposizione e accumulo di Pt nei tessuti, che giustifica l’uso di ostriche come bioindicatori per la contaminazione da Pt dell’acqua di mare. A livelli di Pt relativamente elevati si riscontrano effetti fisiologici deleteri nei bivalvi. Il confronto fra il “rumore di fondo geochimico” regionale nell’acqua di mare in siti diversi delle coste dell’Atlantico e del Mediterraneo (rispettivamente 0,05 ng.L-1 e 0,08 ng.L-1 Pt) e i dati di accumulo nel plancton (~ 104) e nei bivalvi (~ 103) suggeriscono una maggiore contaminazione lungo la costa del nord-ovest del Mediterraneo, specialmente nei sistemi industrializzati/ urbanizzati (baia di Tolone e porto di Genova). I dati rilevati nei sedimenti (periodo ~ 1900-2010) e nei bivalvi (dal 1980 a oggi) nello spartiacque della Gironda e nella baia di Tolone mostrano una contaminazione da Pt dovuta ad attività industriali (metallurgiche, petrolifere, carbone), mentre il forte recente aumento di contaminazione proviene da fonti emergenti di Pt, come i convertitori catalitici per auto, effluenti ospedalieri e liquami.

Abdou conclude che input continui di metallo in queste zone costiere già altamente contaminate possono causare un ulteriore aumento dell’inquinamento, pertanto dovrebbero essere avviati sistematici (bio)programmi di monitoraggio. Ulteriori indagini sarebbero di grande importanza per determinare con precisione la distribuzione, la reattività e il destino del Pt biogeochimico nelle acque marine.

Bibliografia

[1] N. Hodnik, C. Baldizzone et al., Platinum recycling going green via induced surface potential alteration enabling fast and efficient dissolution., Nature Communications, 2016, DOI: 10.1038/ncomms13164

[2] A. Mitra, S. Sen, Anthrobiogeochemical Platinum, Palladium and Rhodium Cycles of Earth:

Emerging Environmental Contamination., Geochimica et Cosmochimica Acta, 2017, DOI: 10.1016/j.gca.2017.08.025

[3] Melina Abdou. Platinum biogeochemical cycles in coastal environments. Ecotoxicology. Université de Bordeaux, 2018. English. NNT : 2018BORD0068. tel-01968069.

Ricerca chimica ed UE.

Luigi Campanella, già Presidente SCI

Una parte significativa del patrimonio europeo e della sua storia è nei risultati scientifici conseguiti, in particolare nel campo della chimica.

Nei secoli i chimici europei hanno sviluppato reti di esperienza e di teoria capaci di impattare su qualunque aspetto della vita di tutti i giorni, consentendo di affermare che l’Europa resta il leader della creazione di nuove conoscenze. Più di recente USA, Cina e Giappone sono divenuti potenze scientifiche con ambizioni di innovazione e di sviluppo scientifico. L’Europa spende in Ricerca e Sviluppo circa il 2,05% del PIL,con un impegno di arrivare al 3% nel 2020, poco probabile da rispettare, contro il 2,07% della Cina , ma ben indietro al 2,79 degli USA, al 3,29 del Giappone ed al 4,22 della Corea del Sud. In tale contesto EUCHEMS la Federazione delle Società Chimiche Europee ha apprezzato la nuova posizione del Parlamento Europeo rispetto al Programma Quadro di Ricerca,chiamato Horizon Europe, condiviso attraverso una serena e leale intesa con i governanti nazionali europei. La Commissione Europea ha proposto un budget di 100 miliardi di euro, ma il Parlamento lo ha portato a 120, sempre comunque al di sotto dei 180 richiesti dai Centri di Ricerca Europei, Università ed Organizzazioni dei Ricercatori. Le Scienze Chimiche sono centrali per la salute, l’ambiente, il clima, l’energia, l’agricoltura, gli alimenti.

La proposta per attivare delle Mission all’interno del P.Q., iniziative di grande profilo nei confronti delle richieste più pressanti dei cittadini europei, è quindi da considerare con interesse ed attenzione. Attraverso workshop focalizzati EUCHEMS ha dimostrato il ruolo concreto che le Scienze Chimiche possono giocare nel fornire consiglio e supporto alla politica. Mettendo insieme rappresentanti delle istituzioni europee, scienziati ed industriali, EUCHEMS offre una piattaforma sulla quale i punti di vista possono essere con successo condivisi e discussi.

Uno dei workshop più recenti ha riguardato il dibattito sui potenziali rischi derivanti dall’uso del glifosato, come anche le più recenti misure innovative per fornire una cura contro il morbo di Parkinson.https://www.visualcapitalist.com/money-country-puts-r-d/

Il patrimonio culturale e scientifico dell’Europa si basa sul suo capitale umano e sulla collaborazione fra ricercatori di Paesi diversi, ciascuno di loro dimostrando esperienza di qualità nei rispettivi campi di ricerca. I Paesi Europei insieme possono con successo competere con la capacità di ricerca e di innovazione di Paesi come Stati Uniti e Cina. Uno dei maggiori risvolti del P.Q. è la possibilità di partecipazione ad esso di Paesi non Europei. In vista dell’applicazione del Brexit EUCHEMS è preoccupata per i pochi dettagli emersi sullo stato che sarà assegnato ai ricercatori inglesi nei progetti europei, consapevole del fatto che una maggiore collaborazione garantisce un esito scientifico di migliore qualità e di maggiore impatto sulla qualità della vita. Per questo grande attenzione viene prestata a tutte le iniziative che comportano mobilità e scambi con conferenze,seminari, progetti in collaborazione. Un ulteriore punto di attenzione è il dibattito su Open Science ed Open Access alle pubblicazioni scientifiche. Si tratta di nuovi approcci, certamente positivi per lo sviluppo della chimica europea, ma da percorrere con attenzione in quanto una transizione troppo rapida ad essi potrebbe danneggiare la scienza europea ed il suo rapporto con l’industria, ove non si tenga conto del contesto internazionale globale.

Rispetto a questi temi le singole Società Scientifiche possono fornire contributi preziosi.

La lista dei 100.000.

Maurizio D’Auria

Chiunque si occupi di ricerca scientifica, ormai da molti anni deve fare i conti con la “valutazione” della ricerca stessa. Nel corso degli anni sono stati proposti diversi indici, il più famoso è l’h-index, che hanno tentato di definire cosa si può intendere per una ricerca “di successo”.

Recentemente è stato pubblicato su PLOS Biology, una rivista online open access, un articolo (J. P. A. Ioannidis, J. Baas, R. Klavans, K. W. Boyack, “A standardized citation metrics author database annotated for scientific field” doi:10.1371/journal.pbio.3000384) relativo ad un nuovo metodo cumulativo di valutazione dell’impatto della ricerca. Il nuovo indice proposto utilizza l’insieme di diversi indici (numero totale delle citazioni, h index, h index corretto per coautori, numero di citazioni per articoli con autore singolo, numero di citazioni per articoli come primo autore, numero di citazioni per articoli in cui si è autore singolo, primo o ultimo autore). Questo indice è stato poi tarato per ogni disciplina e testato su un numero molto alto di ricercatori considerati attivi. Nell’articolo sono stati presi in considerazione 6.880.389 ricercatori in 22 settori di ricerca (agricoltura, ingegneria, tecnologia dell’informazione, studi storici, filosofia, ricerche biomediche, medicina clinica, matematica, chimica, fisica, etc.) e 176 sottosettori. Nello studio è presente una tabella riguardante i primi 100.000 (in verità 105.000) ricercatori di cui viene analizzata la carriera aggiornata fino al 2018.

In questa tabella sono presenti solo 2281 ricercatori italiani (2.17%) (o assimilati, stranieri che lavorano in Italia). Il dato non sembra esaltante. Ma non basta: considerando le Università del Sud (Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia), i ricercatori compresi in questo elenco sono solo 211 (meno del 10% del totale degli italiani). Questo dato farebbe pensare ad un netto squilibrio della qualità della ricerca nel Sud Italia rispetto al resto della produzione scientifica nostrana. I chimici in questo elenco sono 203 (9.6% sul totale degli italiani).

Di questi 203, 20 sono chimici analitici (la Tabella 1 li raccoglie in ordine decrescente di “rilevanza scientifica”). La chimica fisica raccogli un numero molto più alto di ricercatori (84, Tabella 2). Lo stuolo dei chimici organici è molto meno affollato, essendo solo 52 (Tabella 3). I chimici inorganici e/o generai sono ancora di meno, risultando 42 (Tabella 4). Ancora di meno sono i chimici industriali (34, Tabella 5).

Io penso che i dati che ho riportato debbano farci riflettere. Si evidenzia un ruolo importante della chimica nel non grande numero di ricercatori italiani “quotati” nella Tabella 4 dell’articolo di PLOS Biology. Si evidenzia un evidente squilibrio Nord-Sud che imporrebbe alla comunità tutta un grande lavoro di riequilibrio. Rivela squilibri anche all’interno della chimica, dovuti sia alla diversa numerosità dei vari gruppi disciplinari, ma anche ad altri fattori. C’è da discutere e vorrei tanto che questo mio primo intervento suscitasse un discussione vera su questi temi.

Tabella 1. Chimici analitici nella tabella 4 dell’articolo di Plos Biology.

Cognome, Nome Sede
Righetti, Pier Giorgio Polytechnic University of Milan
Sberveglieri, Giorgio University of Brescia
Fanali, Salvatore University of Verona
Pietta, Piergiorgio CNR
Mascini, Marco University of Florence
Comini, Elisabetta University of Brescia
Leardi, Riccardo University of Genoa
Neri, Giovanni University of Messina
Mondello, Luigi Universita Campus Bio-Medico di Roma
Paolesse, Roberto University of Rome Tor Vergata
Roda, Aldo University of Bologna
Todeschini, Roberto University of Milan – Bicocca
Casella, Innocenzo G. University of Basilicata
Di Corcia, Antonio University of Rome La Sapienza
Raggi, Maria Augusta University of Bologna
Di Natale, Corrado University of Rome Tor Vergata
Campanella, Luigi University of Rome La Sapienza
Gianazza, Elisabetta University of Milan
Vincenti, Marco University of Turin
D’Ulivo, Alessandro CNR

Tabella 2. Chimico-fisici nella tabella 4 dell’articolo di Plos Biology.

Cognome, nome Sede
Barone, Vincenzo University of Eastern Piedmont
Busca, Guido University of Genoa
Tomasi, Jacopo University of Pisa
Serpone, Nick University of Pavia
Ngai, K. L. CNR
Pacchioni, Gianfranco University of Milan – Bicocca
Centi, Gabriele Department MIFT (Industrial Chemistry), ERIC aisbl and CASPE/INSTM
Mennucci, Benedetta University of Pisa
Sciortino, Francesco CNR
Trovarelli, Alessandro University of Udine
Forzatti, Pio Polytechnic University of Milan
De Angelis, Filippo CNR
Cossi, Maurizio University of Eastern Piedmont
Cavani, Fabrizio University of Bologna
Vaccari, Angelo CNR
Clementi, Enrico International Academy of Quantum Molecular Science
Cammi, Roberto University of Parma
Laio, Alessandro International School for Advanced Studies
Lamberti, Carlo University of Turin
Morterra, Claudio University of Turin
Ferrando, Riccardo CNR
Zecchina, Adriano University of Turin
Dovesi, Roberto University of Turin
Di Valentin, Cristiana University of Milan – Bicocca
Nagy, J. B. University of Calabria
De Gironcoli, Stefano International School for Advanced Studies
Dal Corso, Andrea International School for Advanced Studies
Silvestrelli, Pier Luigi University of Padova
Gatti, Carlo CNR
Liotta, Leonarda Francesca CNR
Costantino, Umberto University of Perugia
McWeeny, Roy University of Pisa
Trifirò, Ferruccio University of Bologna
Zaccarelli, Emanuela CNR
Strukul, Giorgio Ca’ Foscari University of Venice
Bordiga, Silvia University of Turin
Zerbetto, Francesco University of Bologna
Bussi, Giovanni International School for Advanced Studies
Tronconi, Enrico Polytechnic University of Milan
Martra, Gianmario University of Turin
Lietti, Luca Polytechnic University of Milan
Venezia, A. M. CNR
Bardi, Ugo University of Florence
Di Paola, Agatino University of Palermo
Tozzini, Valentina CNR
Kiskinova, Maya Sincrotrone Trieste
Garavelli, Marco University of Bologna
Giamello, Elio University of Turin
Forni, Lucio CNR
Selli, Elena University of Milan
Zerbi, Giuseppe Polytechnic University of Milan
Fornasiero, Paolo University of Trieste
Zannoni, Claudio University of Bologna
Caminati, Walther University of Bologna
Graziano, Giuseppe University of Sannio
Lo Nostro, Pierandrea University of Florence
Pinna, Francesco Ca’ Foscari University of Venice
Russo, Nino University of Calabria
Bianchi, Claudia L. University of Milan
Scoles, Giacinto S. Maria Della Misericordia Hospital
Gervasini, Antonella University of Milan
Pisani, Cesare University of Turin
Muniz-Miranda, Maurizio University of Florence
Moretti, Giuliano University of Rome La Sapienza
Angeli, Celestino University of Ferrara
Coluccia, Salvatore University of Turin
Groppi, Gianpiero Polytechnic University of Milan
Arena, Francesco University of Messina
Prince, Kevin C. Sincrotrone Trieste
Mackrodt, William C. University of Turin
Fortunelli, Alessandro CNR
Caminiti, Ruggero University of Rome La Sapienza
Melchionna, Simone CNR
Puzzarini, Cristina University of Bologna
Modelli, Alberto University of Bologna
Casavecchia, Piergiorgio University of Perugia
Aquilanti, Vincenzo University of Perugia
Zanasi, Riccardo Univerità Degli Studi di Salerno
Guidelli, Rolando University of Florence
Rocca, Mario University of Genoa
Santoro, Fabrizio CNR
Balucani, Nadia University of Perugia
Pedone, Alfonso University of Modena and Reggio Emilia
Magazù, Salvatore University of Messina

Tabella 3. Chimici organici nella tabella 4 dell’articolo di Plos Biology.

Cognome, Nome Sede
Prato, Maurizio University of Trieste
Braga, Dario University of Bologna
Dondoni, Alessandro University of Ferrara
Cozzi, Pier Giorgio University of Bologna
Aresta, Michele IC, Lab H124, Tecnopolis
Cacchi, Sandro University of Rome La Sapienza
Bandini, Marco University of Bologna
Arcadi, Antonio University of L’Aquila
Chatgilialoglu, Chryssostomos CNR
Bianchini, Claudio CNR
Resnati, Giuseppe Polytechnic University of Milan
Bartoli, Giuseppe University of Bologna
Chelucci, Giorgio University of Sassari
Benaglia, Maurizio University of Milan
Riva, Sergio CNR
Albini, Angelo University of Pavia
Ricci, Alfredo University of Bologna
Minisci, Francesco Polytechnic University of Milan
Casu, Benito Istituto di Ricerche Chimiche e Biochimiche G. Ronzoni, Via Giuseppe Colombo 81
Tundo, Pietro Ca’ Foscari University of Venice
Prota, Giuseppe University of Naples Federico II
Chiappe, Cinzia University of Pisa
Budzelaar, Peter H. M. University of Naples Federico II
Ballini, Roberto University of Camerino
Rossi, Renzo University of Pisa
Galli, Carlo CNR
Macchioni, Alceo University of Perugia
Catellani, Marta Dipartimento di Chimica Organica e Industriale, CIRCC
Bagno, Alessandro University of Padova
Cozzi, Franco University of Milan
Pagliaro, Mario CNR
Ugozzoli, Franco University of Parma
D’Ischia, Marco University of Naples Federico II
Albinati, Alberto University of Milan
Barbarella, Giovanna CNR
Bellina, Fabio University of Pisa
Baciocchi, Enrico CNR
Gennari, Cesare University of Milan
Lattanzi, Alessandra University of Salerno
Petrini, Marino University of Camerino
Casnati, Alessandro University of Parma
Dalpozzo, Renato University of Calabria
De Luca, Lidia University of Sassari
Metrangolo, Pierangelo Polytechnic University of Milan
D’Auria, Maurizio University of Basilicata
Tiecco, Marcello University of Perugia
Cimino, Guido CNR
Fagnoni, Maurizio University of Pavia
Mandolini, Luigi CNR
Ugo, Renato CNR
Goti, Andrea University of Florence
Ragaini, Fabio University of Milan

Tabella 4. Chimici inorganici e generali nella tabella 4 dell’articolo di Plos Biology.

Cognome, Nome Sede
Balzani, Vincenzo University of Bologna
Gatteschi, Dante University of Florence
Sessoli, Roberta University of Florence
Gavezzotti, Angelo University of Milan
Armaroli, Nicola CNR
Fabbrizzi, Luigi University of Pavia
Alessio, Enzo University of Trieste
Aime, Silvio University of Turin
Credi, Alberto CNR
Flamigni, Lucia CNR
Pettinari, Claudio CNR
Campagna, Sebastiano University of Messina
Pombeiro, Armando J. L. University of Camerino
Prodi, Luca University of Bologna
Catti, Michele University of Milan – Bicocca
Nardelli, Mario University of Parma
Di Bella, Santo University of Catania
Barigelletti, Francesco CNR
Botta, Mauro University of Eastern Piedmont
Zanello, Piero University of Siena
Lutterotti, L. University of Trento
Bernardi, Fernando University of Bologna
Cornia, Andrea University of Modena and Reggio Emilia
Falini, Giuseppe University of Bologna
Bencini, Alessandro CNR
Juris, Alberto University of Bologna
Sacconi, Luigi CNR
Pietra, Francesco Accademia Lucchese di Scienze, Lettere e Arti, Classe di Scienze
Carlucci, Lucia University of Milan
Calderazzo, Fausto University of Pisa
Carugo, Oliviero University of Pavia
Ceroni, Paola University of Bologna
Casella, Luigi University of Pavia
Bart, Jan C.J. University of Messina
Sortino, Salvatore University of Catania
Calligaris, Mario University of Trieste
Serroni, Scolastica University of Messina
Mealli, Carlo CNR
Luchinat, Claudio University of Florence
Olivucci, Massimo University of Siena
De Gioia, Luca University of Milan – Bicocca
Sironi, Angelo University of Milan
Giacovazzo, Carmelo CNR

Tabella 5. Chimici industriale nella tabella 4 dell’articolo di Plos Biology.

Cognome, Nome Sede
Muzzarelli, Riccardo A.A. Marche Polytechnic University
Reverchon, Ernesto University of Salerno
Drioli, Enrico University of Calabria
Kenny, Jose University of Perugia
Marrucci, Giuseppe University of Naples Federico II
Soave, Giorgio Eniricerche SpA
De Rosa, Claudio University of Naples Federico II
Chiellini, Emo LMPE Srl–Consorzio Interuniversitario Nazionale per la Scienza e Tecnologia dei Materiali
La Mantia, F. P. University of Palermo
Nicolais, Luigi University of Naples Federico II
Martuscelli, E. CNR
Montaudo, Giorgio University of Catania
Saracco, Guido Polytechnic University of Turin
Busico, Vincenzo University of Naples Federico II
Peterlin, Anton Istituto di Richerche su Tecnologia dei Polimeri e Reologia
Di Lorenzo, Maria Laura CNR
Camino, G. Polytechnic University of Turin
Di felice, Renzo University of Genoa
Fino, Debora Polytechnic University of Turin
Arena, Umberto University of Campania Luigi Vanvitelli
Crescenzi, Vittorio University of Rome La Sapienza
Vittoria, Vittoria University of Salerno
Corradini, Paolo University of Naples Federico II
Pegoretti, Alessandro University of Trento
Vacatello, Michele University of Naples Federico II
Santacesaria, E. Eurochem Engineering
Sangermano, Marco Polytechnic University of Turin
Astarita, Gianni University of Naples Federico II
Ferrero, Franco Polytechnic University of Turin
Morbidelli, Massimo Polytechnic University of Milan
Guido, Stefano University of Naples Federico II
Marchisio, Daniele L. Polytechnic University of Turin
Malucelli, Giulio Polytechnic University of Turin
Guerra, Gaetano University of Salerno

Un pesce su sei.

Luigi Campanella, già Presidente SCI

Un pesce su sei, nel mar Rosso, contiene microplastiche, una notizia inattesa visto che il mare in questione vanta uno status di acqua meno inquinata al mondo. La scoperta è stata fatta attraverso uno studio dei ricercatori della King Abdullah University of Science and Technology dell’Arabia Saudita che hanno raccolto 178 pesci appartenenti a 26 specie provenienti da quattro habitat del Mar Rosso. L’approfondimento è stato capace di stabilire che i pesci di quel mare consumano tanto plastica quanto quelli di altre regioni.

I piccoli frammenti, che contaminano gli oceani quando si uniscono in pezzi di plastica più grossi, sono noti per passare attraverso la catena alimentare, potenzialmente causando danni agli organi. L’esame del contenuto intestinale dei pesci “studiati” dai ricercatori ha mostrato che un pesce su sei ha ingerito piccoli pezzi di plastica, fino ad oggi in quei mari lontana dai normali livelli di inquinamento. Una squadra di ricercatori delle università Statale e Bicocca di Milano ha rivelato di avere trovato microplastiche anche su un ghiacciaio nel Parco Nazionale dello Stelvio, in parte residui di escursioni, in parte provenienti dall’atmosfera e probabilmente dal mare.

Per evitare che nel 2050 si trovino nei mari più plastche che pesci, come pronostica il WWF, forse è il caso di introdurre qualche piccola modifica alle più semplici abitudini quotidiane, comprese quelle del tempo libero. E’ quello che propongono i giovani di mezzo mondo, compresi i ragazzi di Fridays for Future che hanno manifestato a livello planetario solo qualche mese fa.

https://edition.cnn.com/2018/04/22/health/microplastics-land-and-air-pollution-intl/index.html

L’obiettivo è quello fissato da una direttiva Ue, che dal 2021 vieta l’uso di plastica monouso non degradabile per piatti, posate, cannucce, bastoncini per palloncini e cottonfioc. L’alternativa non è solo il vetro, spesso scomodo da portare via e potenzialmente pericoloso, ma anche una serie di innovazioni come i bicchieri in amido di mais. Le bioplastiche sono ormai una realtà e possono essere ricavate da polimeri naturali, dalle alghe, dai batteri e dai funghi.

Il tutto comunque merita una riflessione. Stiamo combattendo la plastica e regolamentandone l’uso, ma forse è proprio questo il responsabile dell’atteggiamento fortemente critico verso un materiale che è invece per molti aspetti meraviglioso.

Con le loro intrinseche proprietà i materiali plastici hanno trovato applicazioni ubiquitarie nella scienza delle costruzioni, in elettronica, nell’ingegneria degli autoveicoli, in molte applicazioni sanitarie, negli imballaggi, nei colori,nei rivestimenti, negli adesivi e nella produzione di energia. Ogni settore della vita è stato impattato dalla plastica tanto che senza di essa la vita di oggi sembrerebbe inimmaginabile. Dal momento dell’inizio della produzione della plastica, anni 50, con 2 milioni circa di tonn prodotte, la produzione è arrivata agli attuali 8,3 miliardi di tonn con un incremento medio annuo del 12.6%. La produzione attuale di plastica può essere suddivisa in 2 parti: 7,3 miliardi di resine ed addittivi,1 miliardo di tonn di fibre e continua a crescere. E’ fabbricata con il fine di vivere per circa 50 anni, ma i settori più rappresentati sono quelli a vita breve, usa e getta, come i contenitori per cibi e bevande, i prodotti per il tabacco, la bigiotteria. Le 6 plastiche più utilizzate e prodotte sono il polietilene, il polipropilene, il polietilentereftalato, il polivinilcloruro, il polistirene, il poliuretano.

Il prodotto in plastica che si è più sviluppato è la bottiglia per l’acqua da 330 ml. Di essa si promuove in sedi diverse il riciclo, ma con due difficoltà: i prodotti ottenuti dal riciclo sono meno riciclabili della bottiglia originaria ed inoltre la quantità di bottiglie che dovrebbero essere riciclate è talmente elevata da rendere difficile stare al passo col processo di riciclo. Di conseguenza la plastica finisce in mare e negli oceani dove, per l’azione combinata di onde e luce solare, viene degradata e frantumata a microplastica, destinata a frammentarsi ulteriormente a nanoplastica. A questi ultimi 2 livelli di granulometria essendo poi capace di entrare nel ciclo alimentare. Ingerita poi negli organi digestivi della fauna marina-come dicevo all’inizio di questo testo – ne comporta alterazioni che compromettono il volume operativo dello stomaco, non consentendo ai pesci di estrarre dal cibo tutta l’energia disponibile e necessaria, quindi abbassando la capacità di nutrirsi. Da ciò deriva anche che nano e micro plastiche si ritrovano nello zooplancton, nei frutti di mare, nei mitili. I rifiuti plastici sono anche un carrier di malattie, potendo promuovere la colonizzazione delle micro- e nanoplastiche da parte di patogeni implicati nelle malattie delle barriere coralline. Da ciò risulta che , a prescindere dalla propria indole e convinzione – ottimistica o pessimistica –la prima cosa da fare è ridurre il consumo di plastica usa e getta. Impossibile, ovviamente, passare da 100 a zero in un colpo solo, ma successivi collegati provvedimenti possono indirizzare nella retta, giusta via. In questa direzione l’ipotesi da alcuni ripresa di tassare la plastica monouso non risolve il problema dell’inquinamento degli oceani: questa direzione spingerebbe verso la plastica biodegradabile che però sempre nei mari e negli oceani finirebbe per degradarsi o verso la plastica da fonti rinnovabili. Piuttosto che la pratica comune di incenerire senza recupero di energia, le tecnologie emergenti da pirolisi offrono la speranza di estrarre combustibili dai rifiuti plastici. Come chimici potremmo premere per ottenere un grado di standardizzazione ed armonizzazione della composizione delle plastiche; la diversità di queste all’interno del mercato complica – e quindi disincentiva –i processi di riciclo. C’è poi da pensare alla sensibilizzazione dei cittadini inducendoli a rifiutare prodotti plastici monouso. Il politico sensibile può essere di aiuto in una ridotta area geografica. In alcuni Paesi è consentita , purché regolamentata , l’esportazione dei rifiuti plastici verso Paesi con sistemi di smaltimento e/o riciclo più accreditati. L’importante è non fare cambiamenti di facciata e di immagine che lasciano sostanzialmente le cose come stanno, come pure sarebbe sbagliato affidarsi al volontarismo: il rischio è che i cittadini continuino a vedere nella chimica, che consente la produzione della plastica monouso, una scienza nemica.

  1. Martin, C., Parkes, S., Zhang, Q., Zhang, X, McCabe, M.F. & Duarte, C. M. Use of unmanned aerial vehicles for efficient beach litter monitoring. Marine Pollution Bulletin 131, 662–673 (2018).| article
  2. Baalkhuyur, F.M., Bin Dohaish, E.A., Elhalwagy, M.E.A., Alikunhi, N.M., AlSuwailem, A.M., Røstad, A., Coker, D.J., Berumen, M.L. & Duarte, C.M. Microplastic in the gastrointestinal tract of fishes along the Saudi Arabian Red Sea Coast. Marine Pollution Bulletin 131, 407–415 (2018).| article

Archibald Scott Couper, un chimico dimenticato.

Roberto Poeti

La chimica del carbonio

Nella storia della Chimica Organica viene riservato un posto preminente al chimico tedesco Friedrich August Kekulé von Stradonitz (1829 – 1896). Nel 1858 scrisse un articolo dove elencava due fondamentali proprietà dell’atomo di carbonio: la valenza quattro e la capacità degli atomi di carbonio di legarsi tra loro.

Nel 1865 pubblicò un altro articolo dove definì la struttura esagonale della molecola del benzene. Queste scoperte dettero un impulso straordinario alla chimica dell’ottocento. Oggi costituiscono gli assiomi della chimica organica.

Ma c’è un altro chimico

Ma nello stesso anno 1858, a distanza di poche settimane dalla pubblicazione di Kekulè e in modo del tutto indipendente, un altro chimico scozzese Archibald Scott Couper (1831-1892) a soli ventisette anni pubblicava un articolo “Su una nuova teoria chimica “con le stesse conclusioni a cui era arrivato Kekulè. La vita di questo chimico è tanto interessante quanto tragica. Era nato in un paesino a pochi chilometri da Glasgow nel 1831. Fu l’unico figlio sopravvissuto di Archibald Couper, un proprietario di un grande stabilimento di tessitura di cotone che impiegava più di 600 operai. Di salute malferma, ebbe una buona e scrupolosa educazione a casa. Nel 1851 iniziò gli studi universitari a Glascow in latino e greco, viaggiò in Germania, poi continuò i suoi studi all’università di Edimburgo in filosofia, in logica, metafisica e filosofia morale. Fin qui non ci sono riferimenti nei suoi appunti a studi di chimica.

 

Nasce la sua passione per la chimica

Fu agevolato nei suoi studi dal padre che non lo forzò a seguire la sua stessa strada nel mondo dell’industria.

Dopo aver viaggiato nel sud della Germania e nel Nord Italia ritorna in Scozia. Nel 1855 è a Berlino e dopo un periodo trascorso a Parigi è di nuovo a Berlino dove segue corsi di chimica analitica. Non si hanno notizie sulle motivazioni del cambiamento nell’indirizzo degli studi e il suo nuovo interesse per la chimica. Con incredibile rapidità, dopo solo tre o quattro sessioni di studio di chimica, Couper aveva acquisito le conoscenze e le abilità necessarie per consentirgli di svolgere indagini sperimentali in chimica in modo indipendente. Nel 1856 va a Parigi dove trova un posto nel laboratorio di Charles-Adolphe Wurtz (1817-1884).

Charles-Adolphe Wurtz (1817-1884). Fu un influente e importante chimico francese. Convinto sostenitore della teoria atomica, dette grandi contributi allo sviluppo della chimica organica, ricordiamo la reazione di Wurtz.

Scrive il suo saggio sui composti del carbonio

Pubblica il primo articolo sulle proprietà del benzene e sintetizzerà per primo il bromo e il dibromo benzene. A questo seguirà una notevole indagine sull’acido salicilico di cui parleremo più avanti. A distanza di poco tempo consegna a Wurtz il suo saggio su una nuova teoria dei composti del carbonio, affinché lo presenti all’Accademia di Francia. Ma Wurtz esita, perdendo tempo e sarà invece il saggio di Kekulè a essere per primo presentato in Liebig‘s Annalen. Il saggio di Couper sarà presentato poco dopo da Jean Baptiste André Dumas (1800-1884) all’Accademia di Francia e il resoconto apparve in Comptes rendu’s . La priorità della scoperta viene attribuita a Kekulè. Couper non perdona a Wurtz il comportamento che ha tenuto in questa vicenda, gli rimprovera la sua leggerezza e glielo esprime con durezza. Wurtz reagisce allontanando Couper dal suo laboratorio.

La crisi e la malattia

Lo scontro con Wurtz segnerà la vita del giovane chimico. Ritornerà in Scozia ad Edimburgo alla fine del 1858, troverà un posto di assistente presso il laboratorio del Professor Lyon Playfair (1818-1898). La sua posizione accademica sembrava offrire sicurezza, ma subito dopo il suo incarico fu colpito da una grave forma di esaurimento nervoso.

Passò il resto della sua vita fino alla sua morte nel 1892 all’età di sessantuno anni, celibe, nella casa che sua madre aveva fatto costruire per lui, assistito dalla madre che gli sopravvisse, non più in grado di impegnarsi nello studio e nella ricerca, alternando brevi periodi di tranquillità a lunghi periodi di sofferenza mentale.

Dopo il suo saggio “Sur une novelle theorie chimiche “del 1858 egli non dette più nessun contributo né forse si interessò più di chimica fino alla sua morte.

Un chimico dimenticato

Con il suo allontanamento dalla attività di chimico, la sua figura cadde nell’oblio. Si persero le sue tracce.

Il suo saggio inizialmente criticato e incompreso dai chimici accademici, venne oscurato dal successo che invece incontrò il lavoro di Kekulè. Il merito di aver riscoperto e valorizzato il lavoro di Couper e scritto la sua biografia (da cui ho tratto le informazioni del mio articolo) lo dobbiamo al chimico organico Richard Anschutz (1852-1937) che vi ha scritto un bellissimo saggio “ La vita e il lavoro del chimico Archibald Scott Couper “del 1909. Quindi dopo cinquanta anni dalla pubblicazione del suo “Su una nuova teoria chimica “ il nome di Couper ottiene il posto che gli spetta nella storia della chimica. Anschutz ci racconta delle difficoltà che incontrò nel procurarsi notizie sulla biografia di Couper, e come dice “ non fui capace di trovare il suo nome in nessun dizionario di biografie di scienziati “.

Perché Anschutz si interessa di Couper

Richard Anschutz è stato un chimico organico di valore che ha iniziato a lavorare nello stesso Istituto di Chimica dell’Università di Bonn dove era a capo Kekulè. Alla morte di questi, divenuto professore ordinario, prese il posto di Kekulè.  Ma vediamo da un brano tratto dal suo libro su Couper come lo riscopre:

« Oltre l’articolo teorico, Couper pubblicò una comunicazione “Su alcuni derivati del Benzene” e, più tardi, un lavoro sperimentale molto eccellente” Ricerche sull’acido salicilico”. Ma proprio come Couper, non per colpa sua, è arrivato troppo tardi con il suo lavoro teorico, così anche con il suo lavoro sull’acido salicilico, in cui ha studiato l’azione del pentacloruro di fosforo sull’ acido salicilico, ha avuto la sfortuna che due dei più illustri chimici tedeschi, August Kekulè e Hermann Kolbe, nonché alcuni altri, hanno ripetuto i suoi esperimenti, ma non furono in grado di confermare i suoi risultati.  Qui l’apparizione di Couper in chimica volge al termine. Anche se le sue doti sembravano qualificarlo eminentemente per una brillante carriera scientifica, nessuna ulteriore sua comunicazione venne trovata in qualsiasi rivista scientifica.  Come è potuto accadere questo? Che fine ha fatto Archibald Scott  Couper?  Il mio interesse su Couper fu per prima risvegliato dal suo lavoro sull’azione del pentacloruro di fosforo sull’ acido salicilico, un argomento su cui anche io ero particolarmente impegnato [ Ndt. Anschutz ripetendo gli esperimenti sull’acido salicilico confermò i risultati che aveva raggiunto Couper, smontando le critiche   di Kekulè e Kolbe ].  La mia simpatia con Couper crebbe quando, nel corso degli   studi che erano richiesti per la preparazione di una biografia completa di Kekulè, mi è sembrato necessario approfondire l’articolo di Couper ‘ “Su una nuova teoria chimica.” Questo articolo di Couper deve, in effetti, prendere sempre posto accanto a quello di Kekulè “Sulla costituzione e le metamorfosi di composti chimici e sulla natura chimica del carbonio “.  »

Un ritratto di Couper

Tra le testimonianze dirette e indirette che riuscì a raccogliere vi fu quella di un amico di Couper con il quale trascorse molto tempo a Berlino nel periodo che iniziò i suoi studi di chimica:

«Couper era un uomo molto bello, alto e snello, di aspetto distinto, aristocratico. Il suo bel viso, con il suo colorito luminoso, era animato dalla brillantezza quasi incredibile dei suoi profondi occhi neri. Non aveva nessun aspetto di debolezza, ma tuttavia la sua salute era delicata, e ho sentito dire che sua madre era sempre ansiosa per lui. La base del suo carattere, come è spesso il caso degli scozzesi, era profondamente religiosa. Egli era molto appassionato di musica, classica, grave e vivace, e raramente perse un buon concerto, quando fu a Berlino. »

Richard Anschutz conclude così la sua memoria:

«Nella storia della chimica organica Archibald Scott Couper così duramente provato merita un posto d’onore accanto al suo più fortunato collega, Friedrich August Kekulè».

 

 

Più avanti di Kekulè

 

Nel suo articolo Couper sostiene che la valenza del carbonio può essere due e quattro. Nell’articolo che Kekulè scrive contemporaneamente    la valenza del carbonio assume solo il valore quattro. Kekulè critica con fermezza la doppia valenza del carbonio ipotizzata invece da Couper

Le prime formule di struttura

 

 Anticipando tutti i chimici del suo tempo, in particolare proprio Kekulè, nel suo saggio Archibald Couper rappresenta in termini moderni le formule di struttura di alcune molecole organiche. Egli adottava il peso atomico otto per l’ossigeno, perciò nelle sue formule il numero di atomi di ossigeno si raddoppia. La ragione per cui ha mantenuto il peso atomico dell’ossigeno uguale a otto non sono state del tutto chiarite. Kekulè al contrario dopo aver utilizzato il valore otto per il peso atomico dell’ossigeno, adotta il valore sedici, valore che utilizza nel suo saggio.

Nelle tre colonne seguenti ( riprese dal libro di Anschutz ) sono elencate tre versioni delle stesse formule: nella prima colonna quelle che sono apparse nella nota che Archibald Couper presentò all’Accademia di Francia, la colonna in mezzo rappresenta la versione delle formule   che ha adottato, poco tempo dopo la nota, nell’articolo pubblicato nel Philosophical Magazine di Edimburgo e nella terza colonna le formule come apparirebbero adottando il peso atomico 16 dell’ossigeno, dove un atomo di ossigeno sostituisce il simbolo  O ········ O con il conseguente dimezzamento degli atomi di ossigeno .

La terza colonna presenta le formule in un modo così moderno che è stupefacente, soprattutto se le confrontiamo con le rappresentazioni delle stesse sostanze nello stesso periodo.

Un confronto tra le formule di Couper e Kekulè

 

Per esempio Kekulè rappresentava l’acido glicolico riferendosi al doppio tipo acqua, secondo la Teoria dei Tipi di Gerhardt, nel modo seguente.

Le due lineette sopra l’idrogeno indicano la valenza complessiva del gruppo o radicale. La valenza è vista come proprietà di un gruppo di atomi e la rappresentazione delle sue strutture rimane ancora all’interno della teoria dei Tipi dove gruppi o blocchi di atomi assumono quasi il significato di elementi. (Con la barra sul simbolo del carbonio e ossigeno Kekulè indicava che stava usando per i due elementi i nuovi pesi atomici sedici e dodici rispettivamente)

Archibald Couper invece lo rappresentava usando per la prima volta le linee tratteggiate come connessione tra due atomi. La versione a destra equivale del tutto alla moderna formula se riportiamo, come abbiamo visto precedentemente, il peso atomico dell’ossigeno a 16, dimezzando così gli atomi di ossigeno:

L’esempio dell’acido glicolico dimostra che nonostante Kekulè parli nel suo saggio di legame tra atomi di carbonio, questa scoperta a differenza di Couper, non viene rappresentata nel linguaggio delle sue formule. Kekulè si forma nel grande solco della tradizione della chimica organica europea dove si ritiene che alle formule non corrisponde una realtà fisica. Il punto di vista di Kekulè è uno sviluppo della Teoria dei Tipi, allora in vigore, per la quale nelle formule l’attenzione è rivolta a gruppi tipici di atomi e non alle loro relazioni interne. Couper ha invece una preparazione filosofica e Anschutz sostiene che Couper è stato in grado di affrontare   il problema con la sua mente molto più libera da idee preconcette. Ma la rottura quasi completa che compie con il sapere chimico codificato del suo tempo non lo aiuterà a far accettare le sue opinioni.

Couper va ancora più avanti

La formula di Archibald Couper dell’acido cianurico, anche se l’ossigeno è legato al carbonio e non all’azoto, contiene la struttura ad anello, ben sette anni prima che Kekulè concepisse un arrangiamento ciclico per gli atomi di carbonio del benzene.

 

Il suo saggio tradotto in italiano e la nota presentata all’Accademia

E’ una storia che mi ha molto colpito sia dal lato umano che come insegnante di chimica. Abbiamo visto le sue profonde intuizioni sulle strutture delle molecole organiche, in questo senso è andato molto più avanti del suo “antagonista “Kekulè. Nel mio blog ho inserito in formato PDF la traduzione in italiano dell’articolo che scrisse Couper nel 1858. Il suo articolo venne pubblicato in Francia in Annales de chimie et de physique, ma anche in Inghilterra nel Philosophical Magazine. Le due versioni sono molto simili. Per la traduzione ho utilizzato entrambe.

Insieme al saggio completo di Couper ho inserito sempre in PDF la nota del saggio (si tratta di una sintesi del saggio) che il chimico Dumas presentò all’Accademia di Francia. Questa contiene gli elementi essenziali della teoria di Archibald Cooper, è di più facile lettura, e vi ho inserito una appendice sulle sue formule di struttura.

http://www.robertopoetichimica.it/nuova-teoria-chimica-archibald-scott-couper-1857/

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Premio Nobel per la Chimica 2019.

  Claudio Della Volpe

Quest’anno il Nobel per la Chimica va a tre studiosi di elettrochimica:

John B. Goodenough , ormai ultranovantenne, M. Stanley Whittingham e Akira Yoshino che hanno dato contributi importanti allo sviluppo delle batterie ricaricabili al litio basate sul fenomeno dell’intercalazione degli ioni litio in diversi materiali.

Nell’articoletto di Nature Electronics che riporto in figura (Nature electroNics | VOL 1 | MARCH 2018 | 204 ) Goodenough (che poi vuol dire “abbastanza buono”, cognome del tutto azzeccato) sintetizza brevemente i momenti che hanno portato alla tecnologia che oggi usiamo in miliardi di persone, quella delle batterie al litio ricaricabili.

Tuttavia in una pagina sola è difficile raccontare la storia dell’intercalazione del litio; la scoperta del fenomeno dell’intercalazione del litio nella grafite da fase gassosa fu fatta da Herold nel lontano 1955 (Bull. Soc. Chim. France, 187 (1955), p. 999); l’articolo non è reperibile in modo semplice e Goodenough dice semplicemente, riferendosi agli anni 70 del secolo scorso: Non-rechargeable batteries using a lithium anode and an organic-liquid electrolyte were known at the time, so 
the next step was to use the chemistry demonstrated in Europe of reversible lithium-ion insertion into transition-metal layered sulfide cathodes in order to create a rechargeable battery.

E si sta riferendo a fasi successive della ricerca che avevano usato come strutture da inserzione i solfuri di metalli di transizione. Mi piacerebbe sapere se queste linee di ricerca sono state valutate per le attribuzioni del premio; senza queste ricerche pionieristiche dei francesi non ci sarebbero stati passi avanti; Herold fra l’altro ci ha lavorato per decenni, come prova la lunga lista dei suoi lavori.

A Goodenough si deve lo sviluppo del Nasicon un conduttore solido dalla formula: Na1+xZr2SixP3−xO12

×2 unit cel, dark green: sites shared by Si and P l of Na3Zr2(SiO4)2(PO4) (x = 2), which is the most common NASICON material;[1] red: O, purple: Na, light green: Zr

Whittingam, supportato da Exxon Mobil (ironia della storia!!!) riuscì a creare un dispositivo dotato di un catodo di solfuro di titanio che però andava incontro ad una importante crescita dendritica e dunque incapace di essere usato in modo reversibile:

si era nel 1976 e l’anodo era costituito di litio, le dendriti facevano corto circuito.

In quel medesimo periodo Goodenough che si era trasferito nella vecchia, ma sempreverde, Europa mise a punto un catodo di cobaltite.

Fu a questo punto che il terzo ricercatore, il giapponese Yoshino chiuse il cerchio componendo la prima batteria reversibile al litio unendo un anodo di grafite ed un catodo di cobaltite, che è lo schema classico che si usa ancor oggi sia pure con altri componenti , elettroliti e solventi.

Noto di passaggio che il lavoro di Herold trova compimento in queste cose, ma dubito che qualcuno lo ricorderà.

Non è per parlare male del Nobel, ma a me appare sempre più chiaro che ci sono aspetti discutibili ed attività di lobbying in molte attribuzioni. Comunque questa è grande ricerca senza dubbio, ma forse ci sarebbe voluto più lavoro di approfondimento per ricostruire le spalle su cui questi giganti hanno lavorato a loro volta e dare riconoscimenti più ampi, come è ampia la ricerca che sta dietro a queste scoperte.

Voi direte : sei il solito criticone! OK, si sono il solito criticone e visto che ci sono noto di passaggio che dopo un 2018 che ha visto ben tre donne insignite del Nobel fra cui una fisica (Donna Strickland per la scoperta e le applicazioni del laser, dopo 55 anni (sic!) dal precedente Nobel ad una fisica) ed una chimica (Frances H. Arnold per le scoperte in tema di chimica dell’evoluzione enzimatica) siamo tornati a premi Nobel di Fisica e Chimica dominati da triplette di soli uomini.

Il mio spirito “andreottiano” (vi ricordate? “ a pensar male si fa peccato ma ci si azzecca sempre”) mi suggerisce che il 2018 era stato aperto all’insegna dello scandalo per il premio Nobel per la letteratura che non è stato assegnato quell’anno; il movimento Mee-Too era riuscito a penetrare nei più sacri e maschilisti recessi della Scienza.

I due premi Nobel dopo decenni di assenza delle donne erano legati a questa situazione specifica; una sorta di offerta sacrificale; c’era stato anche lo scandalo dello scienziato del CERN che aveva sostenuto che la Fisica non è scienza da donne; ve lo ricordate?

Passata la festa gabbato lu santu; siamo tornati al predominio maschile assoluto o le donne (e gli uomini di buona volontà) sapranno scuotere questa struttura irrigidita da lobby e maschilismo?

Mi prendo tutte le accuse che volete, fate pure ma non riesco a tacere; sono indignato!

Come dice mia figlia Daniela  non è il femminismo ad essere una cosa da donne, ma il maschilismo ad essere un problema per gli uomini (e per tutta l’umanità)! pensate solo a quanto investiamo nel preparare donne che poi teniamo accuratamente lontane dalle posizioni apicali (o perfino dal lavoro! ).

Ieri a Potenza, in una manifestazione intitolata Donne e/è Scienza, la nostra collega Luisa Torsi ha fatto vedere un grafico in cui la forbice uomo donna parte con più donne che studiano e si laureano, si incrocia a 30 anni con i maschi che crescono lentamente fra dottorandi e post-doc e poi esplode a partire dalle posizioni base dell’università verso il dominio incontrastato di associati e ordinari (o se volete di assistant e full professor) maschi; e culmina (aggiungo io) ovviamente in Nobel praticamente solo maschi; non ci credo alla balla che la fisica (e la chimica ) non sono cose da donne, come ha detto qualcuno al CERN (che ha un direttore donna!!!). Il problema vero è che le donne fanno i figli e si sentono quasi obbligate a questo ruolo dominante. Chi “partorisce” può vincere anche un Nobel? Io dico di si. E voi?

PS Un amico fisico mi segnala che dei tre Nobel per la Fisica di quest’anno Peebles (il più famoso) è anche quello che ha combinato il “pasticcio” con la funzione di correlazione. In pratica ha definito la lunghezza di correlazione dall’ampiezza della funzione di correlazione invece che dal decadimento esponenziale della stessa come si fa nel resto della fisica. Questo ha creato una confusione che ancora perdura. Lobbying.

La depurazione dei reflui di conceria. L’impianto di santa Croce sull’Arno

Mauro Icardi

Durante i tre giorni trascorsi alla Scuola “Giuseppe Del Re” di San Miniato, ho avuto l’opportunità di poter visitare il depuratore di Santa Croce sull’Arno. Ritengo indispensabile per il tipo di lavoro che svolgo, aggiornarmi costantemente e frequentemente. Nell’ambito degli addetti al settore depurativo questo depuratore è conosciuto principalmente per il tipo di reflui che vengono trattati. Ogni tipo di azienda produce reflui caratteristici dai propri cicli produttivi. Il refluo derivante dalle operazioni di concia delle pelli è un tipo di refluo che richiede trattamenti appropriati, impianti di dimensioni notevoli, e che richiede controlli analitici e gestionali accurati e continui.

Le acque reflue derivanti dalle industrie conciarie possono provenire da metodi ci concia con tannini vegetali, oppure da metodi di concia al cromo. Il secondo metodo è generalmente il più diffuso.

La concia al cromo venne introdotta verso la fine dell’Ottocento. I sali di cromo trivalente formano complessi con i gruppi carbossilici del collagene della pelle. In questo modo il processo di concia si può effettuare in tempo più rapido rispetto a quello della concia vegetale al tannino. Il processo di concia al cromo può durare da un minimo di 3-6 ore per pelli piccole e sottili, fino ad un ciclo di lavorazione di circa 20-24 ore per le pelli più resistenti e pesanti.

Le acque reflue prodotte dalle concerie si distinguono per il loro elevato contenuto di agenti inquinanti organici e inorganici. La composizione degli scarichi idrici dipende principalmente dal tipo di conciante utilizzato.

Gli scarichi idrici della concia al cromo contengono cromo trivalente Cr(III), cloruri e solfati; la concia vegetale utilizza come conciante i tannini e i suoi scarichi influenzano parametri come il COD, fenoli e solidi sospesi.

Una frazione del COD di uno scarico conciario è costituito dalla frazione lentamente o difficilmente biodegradabile. In particolare i tannini quando si utilizzi il trattamento di concia vegetale risultano essere in varia misura refrattari al trattamento biologico.

L’impianto di Santa Croce sull’Arno è interessante per varie ragioni. In primo luogo per avere superato il concetto di depurazione “a piè di fabbrica”. Cioè la costruzione di un impianto di depurazione all’interno dello stesso insediamento industriale. Nella zona di Santa Croce si è preferito invece costruire un impianto di depurazione consortile per le industrie del territorio e in parte per gli scarichi civili dei comuni del comprensorio.

In questo modo si ottengono due risultati importanti. Concentrare gli scarichi in un impianto più grande riduce di molto i problemi gestionali tipici di impianti più piccoli. Diminuisce il costo unitario di trattamento. Per la mia esperienza personale nelle attività di verifica e tariffazione di scarichi industriali, spesso i titolari di aziende si lamentavano non solamente dei costi aggiuntivi per la depurazione in loco dei reflui, ma anche per l’impegno in termini di personale da adibire alla gestione dell’impianto di depurazione interno, e alla necessità del loro addestramento professionale.

Allo stesso tempo la gestione congiunta di reflui industriali e civili serve ad equalizzare il carico inquinante destinato al trattamento biologico successivo.

Nell’impianto di Santa Croce le acque civili ed industriali seguono due percorsi diversi di trattamento, che possono però intersecarsi, in ragione dei dati analitici che il Laboratorio riscontra nelle varie fasi del processo depurativo. Il liquame civile subisce un trattamento di depurazione convenzionale costituito da grigliatura grossolana, sedimentazione primaria, ossidazione biologica e sedimentazione finale. Dopo questo trattamento il liquame può essere inviato alla fase di denitrificazione unendosi al refluo industriale. Oppure se il carico di azoto totale è basso, inviato direttamente alla chiariflocculazione insieme al refluo industriale, prima dello scarico finale. Il fango prodotto dal trattamento del liquame civile viene ricircolato in testa alla vasca di trattamento. Il fango di spurgo eccedente può essere inviato all’ispessimento insieme al fango originatosi nella fase di sedimentazione primaria, oppure inviato nella vasca di ossidazione secondaria del trattamento dei reflui industriali. Questa seconda opzione può servire a migliorare la qualità del fango di ossidazione della sezione trattamento reflui industriali, o a compensare eventuali diminuzioni di concentrazione in vasca.

Il trattamento dei liquami industriali segue una fase di grigliatura fine, necessaria per l’eventuale presenza di residui solidi originatesi nel processo conciario. Il secondo stadio è un trattamento con ossigeno liquido. Trattamento che avviene in due vasche circolari gemelle. Nella prima si ossidano i solfuri, nella seconda si può semplicemente lasciare transitare il liquame, oppure sottoporlo ad un secondo trattamento di preossidazione con ossigeno puro, prima di inviarlo alla fase di ossidazione biologica.

Questa fase è suddivisa tre diversi stadi. Una prima stadio di ossidazione biologica, una secondo stadio di denitrificazione, il terzo stadio di ossidazione biologica secondaria. Come si può vedere questo impianto ha eliminato il trattamento chimico fisico nella fase iniziale di trattamento del refluo, spostando questa fase al trattamento terziario. Una scelta tecnica coraggiosa, ma che permette una maggior modularità gestionale. Modularità confermata anche dal fatto che alcune industrie conciarie del Veneto hanno spostato la loro produzione nella zona di San Miniato. Proprio perché si sentivano maggiormente tutelate per quanto riguarda il problema della depurazione dei loro scarichi.

La scelta di utilizzare due stadi di trattamento biologico aerobico, intervallati da una fase di trattamento di denitrificazione anossica sono giustificati anche dal fatto che una conformazione impiantistica di questo genere, definita nella terminologia di settore impianto biologico ad ossidazione totale, riduce in maniera significativa la produzione di fanghi di risulta.

Il consorzio Aquarno indica nei propri documenti illustrativi una riduzione di fanghi prodotti da 180.000 a 15.000 tonnellate/anno nel periodo tra il 1995 ed il 2015.

Dopo la sedimentazione finale l’acqua di risulta passa al trattamento terziario. Questo consiste in un processo di ossidazione avanzata di tipo Fenton. Il processo FENTON è un trattamento di Ossidazione Chimica Avanzata (AOP) basato sull’utilizzo di un reattivo costituito da perossido di idrogeno (H2O2) e sali di ferro (FeSO4) in ambiente acido, che trova applicazione da diversi anni nel trattamento degli scarichi industriali con un’elevata (o molto elevata) concentrazione di COD, tensioattivi, e contenenti una varietà di componenti tossici come ad esempio benzene, toluene, PCD, ecc. Il fine è quello di produrre radicali ossidrili. Spesso definiti come “radicali spazzini” per l’alta reattività.

Se l’acqua trattata non risulta troppo carica di inquinanti, il trattamento terziario Fenton può essere sostituito semplicemente con un trattamento di chiariflocculazione con cloruro ferrico e latte di calce.

Come si può notare da questa mia sommaria descrizione dell’impianto e dei processi di trattamento, in questo depuratore la depurazione delle acque non è solo arte (come avevo scritto in passato). Diventa marcatamente un processo industriale ad alto valore di tecnologia e di impegno. Nel corso della visita non è stato possibile, per ragioni di tempo visitare il laboratorio. Ma non dubito che il carico di lavoro sia importante. In un impianto di questo genere, e di queste dimensioni i parametri analitici devono essere verificati con molta attenzione. E la gestione della linea fanghi, in particolare della vasca di ossidazione è fondamentale per una corretta gestione di processo. Per esempio a crescita dei microrganismi nitrificanti è molto lenta, pertanto la velocità del processo di nitrificazione è determinante per il corretto abbattimento dei composti azotati. I microrganismi nitrificanti sono sensibili alla presenza di sostanze tossiche, tali sostanze di conseguenza rallentano il processo (solfuri, antimuffa, antibatterici…).

Verificare la concentrazione di ossigeno nella linea fanghi ha ricadute importanti sia nel processo depurativo, che nel risparmio energetico. Nella ripartizione dei consumi energetici l’areazione dei liquami assorbe il 60% dei consumi energetici di un impianto di depurazione. Immagino che spesso i colleghi debbano controllare per l’AUR (Ammonia Uptake Rate) per tenere sotto controllo il processo. Le prove respirometriche personalmente mi affascinano molto. Ma so che sono anche piuttosto impegnative.

Per chiudere una considerazione molto pragmatica. Se è vero che è un guaio che il chimico non abbia naso, come diceva Primo Levi, il mio che è abbastanza allenato non ha percepito odori molesti, o quantomeno solo in poche zone dell’impianto e in maniera piuttosto lieve. Questo è un primo modo molto empirico, ma ugualmente valido di capire come le cose stiano procedendo correttamente.