La svolta del 1872: Kekulè teorizza la “delocalizzazione”

Roberto Poeti

Kekulè nel 1865 pubblicò il suo articolo fondamentale “Sulla costituzione delle sostanze aromatiche”, nel quale sono contenute per la prima volta i principi su cui si fonda la struttura del nucleo del benzene. La teoria guadagnò prima lentamente poi in un crescendo rapido l’attenzione e il consenso di molta parte della comunità dei chimici. Vennero sintetizzate centinaia di derivati del benzene e studiate in generale le sostanze aromatiche. Accanto alle adesioni nacquero anche le critiche che si risolsero nella produzione di una serie di strutture del benzene alternative a quella concepita da Kekulè. I postulati su cui si fondava la teoria erano i seguenti (da ”Sulla costituzione del benzene” nella rivista Berichte der Deutschen Chemischen Gesellschaft 1869)

1) Tutte le sostanze aromatiche hanno in comune un nucleo che è costituito da sei atomi di carbonio.

2) Questi sei atomi di carbonio sono legati tra loro in modo che ancora rimangono sei legami da completare.

3) I carboni possono stabilire relazioni con questi legami con altri elementi, che a loro volta possono introdurne altri nel composto, così vengono create le sostanze aromatiche.

4) I numerosi casi di isomeria tra i derivati del benzene si spiegano con la diversa posizione relativa degli atomi che si legano al nucleo dei carboni.

5) Si può pensare al tipo di legame tra i sei atomi di carbonio nel nucleo esavalente del benzene, cioè la struttura di questo nucleo, supponendo che i sei atomi di carbonio siano combinati alternativamente con uno e due legami per formare una catena chiusa a forma di anello.

Il punto su cui si focalizzarono maggiormente le critiche era il quinto. L’alternanza del legame semplice e doppio tra gli atomi di carbonio presupponeva un numero di isomeri diverso rispetto a quelli trovati sperimentalmente. Le formule proposte in alternativa si ponevano l’obbiettivo di eliminare i doppi legami, conservando in generale la geometria esagonale.

Sia nel primo articolo, sia nei successivi lavori di Kekulè, pubblicati in diverse riviste scientifiche, che avevano come oggetto il benzene e le sostanze aromatiche, non compare mai in modo esplicito un esagono regolare con i carboni ai vertici e la struttura cicloesatrienica fino all’anno 1869, ben quattro anni dopo la pubblicazione della sua teoria. In quell’anno Kekulè rompe il lungo silenzio con un breve articolo” Sulla costituzione del benzene” nella rivista Berichte der Deutschen Chemischen Gesellschaft dove riassume lo stato dell’arte sulla costituzione del nucleo benzenico. Ritiene che il quinto punto della sua teoria sia quello più problematico:

«I primi quattro punti sono stati a lungo accettati da quasi tutti i chimici; al momento della loro formulazione, hanno seguito direttamente i fatti noti all’epoca e trovarono ulteriore sostegno in tutte le osservazioni fatte da allora. Il quinto punto è più ipotetico degli altri; sembra difficilmente in grado di essere confermato dall’esperimento; è stato oggetto di discussione per molto tempo. Non ho alcun bisogno di assicurare che io stesso non ho mai considerato l’ipotesi dimostrata, e che sono molto consapevole che in un gruppo esavalente composto da sei atomi di carbonio, gli atomi possono essere legati anche in altri modi»

Nel presentare e commentare brevemente le strutture che ritiene più probabili, ammette che:

«Innanzi tutto, confesso che anch’io sono stato particolarmente attratto per molto tempo dalla struttura numero 3 e che in seguito, anche se da un altro punto di vista rispetto a Ladenburg, ho trovato molte cose interessante nella numero 5. Ma devo spiegare che, per il momento, la struttura 1 mi sembra ancora la più probabile»

Alla luce di quanto afferma sui dubbi che ha nutrito sul suo nucleo esagonale a legami semplici e doppi alternati, si comprende come la struttura cicloesatrienica non sia mai comparsa nei suoi lavori precedenti, un fatto che apparirebbe altrimenti inspiegabile. Questa immagine che è divenuta un’icona della chimica appare invece, nello stesso periodo che consideriamo, 1865-1869, negli articoli dei suoi assistenti, collaboratori o sostenitori della sua teoria. Il tratto saliente con cui Kekulè si esprime nell’articolo del 1869 è un atteggiamento prudente, quasi modesto.

Kekulè presentò un altro articolo nel 1872 “Considerazioni teoriche e note storiche sulla costituzione del benzene” in Annalen der Chemie und Pharmacie nel quale metteva nuovamente a confronto ma in modo circostanziato il suo modello di benzene con quelli presentati da altri chimici e alla fine, dopo aver introdotto una sorta di “delocalizzazione” del doppio legame, scioglieva ogni riserva e affermava la preminenza della sua proposta di struttura.

L’articolo del 1872 è per chiarezza espositiva, sintesi e larghezza di vedute un saggio scientifico molto bello. La prudenza e la modestia dell’articolo del 1869 sono sostituite da un pacato ma fermo convincimento. Kekulè confuta in modo argomentativo e incalzante le proposte alternative. Non espongo qui le ragioni che porta a sostegno della sua struttura, accompagnate da puntuali critiche alle strutture alternative, perché si può leggere il suo articolo completo che ho tradotto dal tedesco al seguente indirizzo:

https://www.robertopoetichimica.it/11324/

La novità assoluta contenuta nell’articolo è l’introduzione di un concetto del tutto nuovo che sintetizzo così: “delocalizzazione del legame chimico”. Il tentativo di Kekulè è superare il problema della presenza di legami semplici e alternati nella struttura cicloesatrienica del benzene. Leonello Paoloni e Roald Hoffmann (premio Nobel nel 1981) spendono poche righe sul tentativo che fa Kekulè. Qualche commento in più gli dedica Colin Archibald Russell in History of Valency. Nel suo Corso di Storia delle Scienze Sperimentali del 2011-2012 il prof. Luigi Cerruti dà invece rilievo al tentativo di Kekulè:

«La formula proposta con i doppi legami ‘fissi’ poneva dei problemi, in particolare lasciava prevedere una diversa reattività per i composti orto, a seconda che fra i due atomi con l’idrogeno sostituito ci fosse un legame singolo o un legame doppio. Kekulé risolse in modo magistrale il problema [N.d.A. la sottolineatura è mia], proponendo un modello dinamico per la molecola del benzene, in cui gli atomi di carbonio formano un doppio legame in una certa unità di tempo quando hanno una maggiore frequenza d’urto, per poi subito dopo, nella successiva unità di tempo, formare un legame semplice quando la frequenza d’urto diminuisce…»

Anche a me sembra che il tentativo di Kekulè meriti più attenzione. Vediamo, tradotto dal tedesco, la parte del suo articolo che è centrale nella sua ipotesi:

«Nei sistemi che chiamiamo Molecola, gli atomi devono essere considerati in costante movimento. Questa visione è stata espressa molte volte da fisici e chimici ed è già stata discussa ripetutamente nella prima parte del mio trattato. Per quanto ne so, nessuno ha ancora commentato la forma dei movimenti atomici intramolecolari. In ogni caso, la chimica dovrà ora esigere che tale ipotesi meccanica tenga conto della legge del concatenamento degli atomi che essa ha riconosciuto. Pertanto non è permesso un movimento planetario degli atomi; in ogni caso, il movimento deve essere tale che tutti gli atomi del sistema rimangano nella stessa disposizione relativa, cioè ritornino sempre in una posizione di equilibrio centrale. Se tra le numerose ipotesi che potremmo formulare, si seleziona quella che tiene più conto dei requisiti chimici e segue più da vicino l’idea che la fisica di oggi si è formata sul tipo di movimento della molecola, allora il seguente presupposto può essere considerato il più probabile. I singoli atomi del sistema rimbalzano uno sull’altro in un movimento sostanzialmente rettilineo per allontanarsi l’uno dall’altro come un corpo elastico. Ciò che è noto in chimica per valenza (o atomicità) sta ora acquisendo un significato più meccanico: la valenza è il numero relativo di urti che un atomo subisce nell’unità di tempo da parte di altri atomi. Nello stesso tempo in cui gli atomi monovalenti di una molecola biatomica si scontrano una volta, alla stessa temperatura, gli atomi bivalenti di una molecola biatomica allo stesso modo si scontrano due volte. Nelle stesse condizioni, nell’unità di tempo, per una molecola composta da due atomi monovalenti e un atomo bivalente, il numero di collisioni per l’atomo bivalente è 2, per ciascuno degli atomi monovalenti è 1. Due atomi di carbonio tetravalenti si urtano quando sono legati da un unico legame in un certo intervallo di tempo, nel momento in cui tre idrogeni monovalenti si muovono   nella loro traiettoria verso ciascun carbonio nello stesso intervallo di tempo. Gli atomi di carbonio che sono legati da un doppio legame si urtano due volte nello stesso intervallo di tempo, mentre sono urtati due volte dagli altri atomi, sempre nello stesso intervallo di tempo. Se uno applica questa visione al benzene, la formula del benzene che propongo appare come espressione della seguente idea: ogni atomo di carbonio si scontra tre volte nell’unità di tempo con altri carboni, vale a dire con altri due atomi di carbonio contemporaneamente, una volta con uno e due volte con l’altro. Nello stesso tempo urta anche l’idrogeno, che copre il suo percorso una volta nello stesso tempo. Se ora si rappresenta il benzene usando la nota formula esagonale e prendiamo in considerazione uno qualsiasi dei sei atomi di carbonio, ad esempio quello etichettato 1:

gli urti che sperimenta nella prima unità di tempo possono essere espressi da:

  • 2,6, h,2,

dove h significa idrogeno.

Nella seconda unità di tempo, lo stesso atomo di carbonio, che viene da 2, si muove verso il carbonio 6. I suoi urti nella seconda unità di tempo sono:

  • 2,6, h,6,

Mentre gli urti della prima unità di tempo sono espressi dalla formula precedente, gli urti della seconda unità di tempo sono espressi dalla formula seguente:

 

Lo stesso atomo di carbonio è quindi nella prima unità di tempo legato con doppio legame con uno dei due atomi di carbonio adiacenti, mentre nella seconda unità di tempo il legame è doppio con l’altro atomo di carbonio. La media più semplice di tutte le collisioni di un atomo di carbonio è la somma delle collisioni delle prime due unità temporali, che poi si ripetono periodicamente:

                                                               2, 6, h, 2, 6, 2, h, 6,

e quindi si vede che ogni atomo di carbonio urta con gli altri due atomi di carbonio adiacenti lo stesso numero di volte, vale a dire che ha la stessa relazione con i carboni adiacenti. La solita formula del benzene esprime naturalmente solo le collisioni che si verificano in una unità di tempo, vale a dire una fase, e quindi si è portati a pensare che i derivati del benzene 1,2 e 1,6 debbano necessariamente essere diversi. Se l’idea appena espressa è considerata corretta, ne consegue che questa differenza è solo apparente, ma non reale. Per quanto verosimile possa sembrare la formula del benzene, da me inizialmente proposta, dopo tutte queste considerazioni, non si può ignorare che una soluzione finale alla questione della costituzione interna del benzene difficilmente può essere ottenuta se non per via sperimentale. Ad un esame superficiale potrebbe sembrare che una questione del genere non sia affatto accessibile all’esperimento. Uno sguardo più attento mostra, tuttavia, che la soluzione non è impossibile».

In genere nei libri di testo viene sottovalutata o presentata in modo non corretto la sua proposta. Si afferma che egli immagina il benzene come due strutture distinte ma in equilibrio chimico che si convertono rapidamente in una forma e nell’altra. L’idea di un equilibrio chimico attribuita a Kekulè appare impropria, fuori contesto storico. Il benzene di Kekulè è una sola molecola, nella quale la valenza, intesa come legame tra due atomi, si modifica nel tempo, oscillando tra valenza semplice e doppia. Poiché la valenza è intesa come frequenza di collisioni tra due atomi, ciò che si ridistribuisce sono le collisioni tra coppie di atomi adiacenti. La soluzione che propone Kekulè fa venire alla mente il modello proposto dalla teoria della risonanza. La sua proposta si fonda su basi scientifiche non corrette, ma è geniale la sua soluzione se pensiamo che ciò di cui dispone Kekulè è il solo concetto di atomo, ancora malfermo nella comunità scientifica, e di una visione della struttura molecolare, ancora dibattuta nella stessa comunità. Egli utilizza in modo coraggioso e originale il modello cinetico mutuato dai fisici e lo adatta alle condizioni della chimica. Se gli elettroni sono al di là da venire, tuttavia tenta una interpretazione del legame chimico e del significato di valenza. Il risultato è un legame non localizzato.

Nella tabella ho elencato le corrispondenti caratteristiche tra il modello di legame di Kekulè e come viene interpretato oggi.Kekulè precorre il suo tempo, mettendo in discussione una concezione del rapporto reciproco tra atomi che è testimoniata dalla posizione critica espressa da Ladenburg nel suo articolo “Sulla costituzione del benzene“ nello stesso anno, 1872, in Berichte der Deutchen Chemischen Gesellschaft zu Berlin:«È un modo essenzialmente nuovo di vedere le cose che Kekulé introduce. Kekulé consente di applicare due formule allo stesso composto, anche se solo in un caso speciale in cui vi è una grande somiglianza tra le due formule… Ma poi la questione della costituzione di un corpo assume un aspetto completamente nuovo: la visione della stabilità del rapporto reciproco degli atomi, un dogma a nostro avviso, viene abbandonata».Bibliografia

  • A.Kekulè Bulletin de la Société Chimique de Paris, 1865, vol.3, 98
  • A.Kekulè Bulletin de l’Accademie Royale des Sciences, Ser.2: t.19, 1865, 551
  • A.Kekulè Berichte der Deutschen Chemischen Gesellschaft,1869, Volume 2, 362
  • A.Kekulè Annalen der Chemie und Pharmacie,1866, Vol. CXXXVII, 129
  • A.Kekulè ZEITSCHRIFT FÜR CHEMIE,1867, Vol.10,214
  • A.Kekulè Lehrbuch der Organischen Chemie, Vol.2, 493
  • A.Kekulè Chemie der Benzolderivate oder der aromatischen Substanzen,1967, Volume 1, 180, 252
  • Leonello Paoloni “Stereochemical Models of Benzene, 1869-1875”, Bulletin for the History of Chemistry, number 12, 1992
  • Leonello Paoloni “I contesti della scoperta della struttura molecolare. Un caso esemplare: la rappresentazione del benzene 1865-1932”. La Chimica nella Scuola, 2007
  • Roald Hoffmann, “Le molte forme di aromaticità “, American Scientist, 2015

11.Luigi Cerruti, Corso di storia delle scienza sperimentali, Università di Torino, 2011-2012

  • Colin Archibald Russell, “The History of Valence”, Humanities Press, 1971

Elementi della Tavola periodica. Selenio, Se. seconda parte

Rinaldo Cervellati

la prima parte di questo post è publicata qui

Ruolo ed evoluzione in biologia

Sebbene sia tossico a dosi elevate, il selenio è un micronutriente essenziale per gli animali, uomo compreso. Nelle piante, si presenta come un minerale estraneo, a volte in proporzioni tossiche nel foraggio in quanto alcune piante possono accumularlo proprio come difesa contro il consumo da parte di animali; altre piante, come le fabacee, richiedono selenio per la loro crescita il che indica la presenza di selenio nel suolo (Fig. 5).

  Figura 5. Accumulo di selenio in una pianta

Il selenio è un componente degli aminoacidi selenocisteina e selenometionina. Nell’uomo, il selenio è un oligoelemento nutriente che funziona come cofattore per la riduzione degli enzimi antiossidanti, come la glutatione perossidasi, e alcune forme di tioredossina reduttasi, presenti anche negli animali e in alcune piante.

La famiglia delle glutatione perossidasi (GSH-Px) catalizza alcune reazioni che rimuovono le specie reattive dell’ossigeno come il perossido di idrogeno e gli idroperossidi organici.

La ghiandola tiroidea e ogni cellula che utilizza l’ormone tiroideo usano il selenio, che è un cofattore per i tre dei quattro tipi noti di deiodinasi, che attivano e disattivano vari ormoni tiroidei e i loro metaboliti.

Il selenio può inibire la malattia di Hashimoto, in cui le cellule tiroidee del corpo vengono attaccate come se fossero estranee.

L’aumento del selenio nella dieta riduce gli effetti della tossicità del mercurio, sebbene sia efficace solo a dosi basse o modeste di mercurio. Prove scientifiche suggeriscono che i meccanismi molecolari della tossicità del mercurio includono l’inibizione irreversibile dei selenoenzimi necessari per prevenire e invertire il danno ossidativo nel cervello e nei tessuti endocrini.

Evoluzione biologica

Il selenio è contenuto in diverse famiglie di selenoproteine ​​procariotiche nei batteri, e negli eucarioti come selenocisteina, dove proteggono le cellule batteriche ed eucariotiche dai danni ossidativi. Le famiglie di selenoproteine ​​di GSH-Px e le deiodinasi delle cellule eucariotiche sembrano avere un’origine filogenetica batterica. La forma contenente selenocisteina si presenta in specie diverse come alghe verdi, diatomee, ricci di mare, pesce e polli. Un altro enzima, tioredossina reduttasi, contenente selenio, presente in alcune piante e negli animali, genera tioredossina ridotta, un ditiolo che funge da fonte di elettroni per le perossidasi e anche l’importante riduzione dell’enzima ribonucleotide reduttasi, precursori del RNA e del DNA.

Gli elementi in traccia coinvolti nelle attività degli enzimi GSH-Px e superossido dismutasi, ovvero selenio, vanadio, magnesio, rame e zinco, potrebbero essere carenti in alcune aree terrestri. Gli organismi marini mantenevano e talvolta espandevano i loro selenoproteomi, mentre quelli di alcuni organismi terrestri erano mancanti o sensibilmente ridotti. Questi risultati suggeriscono che, ad eccezione dei vertebrati, la vita acquatica favorisce l’uso del selenio, mentre gli habitat terrestri portano a un uso ridotto di questo oligoelemento. I pesci marini e le ghiandole tiroidee dei vertebrati hanno la più alta concentrazione di selenio e iodio. Da circa 500 milioni di anni fa, le piante d’acqua dolce e terrestre hanno lentamente ottimizzato la produzione di “nuovi” antiossidanti endogeni come l’acido ascorbico (vitamina C), i polifenoli (inclusi i flavonoidi), i tocoferoli, ecc.

Gli isoenzimi della deiodinasi costituiscono un’altra famiglia di selenoproteine ​​eucariotiche con funzione enzimatica identificata. Le deiodinasi sono in grado di estrarre elettroni dagli ioduri e gli ioduri dalle iodotironine. Sono pertanto coinvolti nella regolazione dell’ormone tiroideo, partecipando alla protezione dei tirociti dai danni causati dall’H2O2 prodotto dalla biosintesi dell’ormone tiroideo.

Alcune specie di piante sono considerate indicatori di alto contenuto di selenio nel terreno perché per prosperare ne richiedono alti livelli. Le principali piante indicatrici di selenio sono le specie di Astragalus (incluse le fabacee).

Fonti nutrizionali di selenio

Il selenio nella dieta proviene principalmente da carne, pesci, noci, cereali, funghi, frutta e vegetali (Fig. 6).

Figura 6. Alimenti contenenti selenio

L’apporto dietetico raccomandato negli Stati Uniti per adolescenti e adulti è di 55 µg/giorno. Il selenio come integratore alimentare è disponibile in molte forme, inclusi integratori multivitaminici minerali, che in genere contengono 55 o 70 µg/porzione. Gli integratori specifici al selenio contengono in genere 100 o 200 µg/porzione (Fig. 7).

Figura 7. Capsule e compresse di integratori al selenio

Si ritiene che il contenuto di selenio nel corpo umano sia compreso tra 13 e 20 milligrammi.

Tossicologia

Sebbene il selenio sia un oligoelemento essenziale, diviene ovviamente tossico se assunto in eccesso. Il superamento del livello di assunzione di 400 microgrammi al giorno può portare alla selenosi. Questo livello si basa principalmente su uno studio del 1986 su cinque pazienti cinesi che hanno mostrato segni evidenti di selenosi e un successivo controllo medico sulle stesse cinque persone nel 1992.

Segni e sintomi di selenosi includono odore di aglio nell’alito, disturbi gastrointestinali, perdita di capelli, distensione delle unghie, affaticamento, irritabilità e danni neurologici. In casi estremi di selenosi si possono riscontrare cirrosi epatica, edema polmonare o morte.

Il selenio elementare e la maggior parte dei seleniuri metallici hanno tossicità relativamente basse a causa della bassa biodisponibilità. Al contrario, selenati e seleniti hanno un modo d’azione ossidante simile a quello del triossido di arsenico e sono molto tossici. La dose tossica cronica di selenito per l’uomo è di circa 2400-3000 microgrammi di selenio al giorno. Il seleniuro di idrogeno è un gas estremamente tossico e corrosivo. Anche i composti organici, come dimetilselenuro, selenometionina, selenocisteina e metilselenocisteina, tutti con elevata biodisponibilità, sono tossici a dosi elevate.

L’avvelenamento da selenio dei sistemi idrici può verificarsi ogni volta che nuovi deflussi agricoli attraversano terreni normalmente asciutti e non coltivati. L’inquinamento da selenio delle vie navigabili si verifica anche quando il selenio viene lisciviato dalle ceneri del carbone, dalle miniere e dalla fusione dei metalli, dalla lavorazione del petrolio greggio e dalle discariche. Si è scoperto che i conseguenti alti livelli di selenio nei corsi d’acqua causano disturbi congeniti nelle specie ovipare, inclusi uccelli acquatici e pesci.

Nei pesci e altri animali selvatici, il selenio è necessario per la vita, ma tossico a dosi elevate. Per il salmone, la concentrazione ottimale di selenio è di circa 1 microgrammo di selenio per grammo di peso corporeo intero. Molto al di sotto di quel livello, i giovani salmoni muoiono per carenza; molto più in alto, muoiono per eccesso.

L’amministrazione per la sicurezza e la salute sul lavoro USA ha fissato il limite di esposizione consentito per il selenio sul posto di lavoro a 0,2 mg/m3 in un giorno lavorativo di 8 ore. A livelli di 1 mg/m3, il selenio è immediatamente pericoloso per salute e la vita.

La carenza di selenio può verificarsi in pazienti con funzionalità intestinale gravemente compromessa, in quelli sottoposti a nutrizione parenterale totale e in quelli di età avanzata (oltre 90 anni). La carenza di selenio, definita da bassi (<60% del normale) livelli di attività del selenoenzima nei tessuti cerebrali e endocrini, si verifica solo quando un basso livello di selenio è collegato a uno stress aggiuntivo, come elevata esposizione al mercurio o aumento dello stress ossidativo da carenza di vitamina E.

Riciclaggio

Il selenio utilizzato in metallurgia e nell’industria del vetro viene usualmente recuperato da ditte specializzate come Umicore e Vital Materials.

Nel 2014 un gruppo di ricercatori svedesi ha messo a punto un metodo per recuperare il selenio dal diseleniuro di rame, indio e gallio (CIGS) dalle celle fotovoltaiche esauste dei pannelli solari [1].

Il processo consiste anzitutto nell’ossidazione del materiale a elevata temperatura. Durante questa fase si forma diossido di selenio gassoso che viene separato dagli altri elementi, che rimangono allo stato solido. Per raffreddamento, il diossido di selenio sublima e viene raccolto sotto forma di cristalli. È stato osservato che dopo un’ora a 800 ° C tutto il selenio si separa dal materiale CIGS. Sono quindi stati testati due diversi metodi per la riduzione del diossido di selenio a selenio metallico. Nel primo metodo è stato utilizzato un composto organico come agente riducente in una reazione di Riley[1]. Nel secondo metodo è stata utilizzata anidride solforosa (biossido di zolfo). Entrambi i metodi hanno prodotto selenio di elevata purezza. Gli autori affermano che il procedimento di separazione del selenio messo a punto può diventare un sistema di riciclaggio per la completa separazione e recupero degli elementi da CIGS a elevata purezza.

Per il recupero del selenio dalle acque reflue è possibile usare prodotti chimici che trasformano il selenio disciolto in selenio solido, ma uno svantaggio è che il metodo non è selettivo: le sostanze presenti nel precipitato delle acque reflue si trasformano in una miscela di molti composti diversi. S.P.W. Hageman e collaboratori, della Wageningen University & Research, hanno proposto un metodo più sottile e selettivo che consiste nell’utilizzare i microrganismi [2]. Le acque reflue contengono selenio disciolto in due principali forme ossidate: selenato e selenito. I microrganismi possono convertire la prima forma direttamente, seppur lentamente, in selenio che precipita sotto forma di particelle di dimensioni nanometriche amorfe. A causa delle loro dimensioni, queste particelle sono piuttosto difficili da recuperare, ma Hageman e coll. hanno scoperto che le condizioni di reazione, come temperatura e pH, influenzavano la dimensione delle particelle di selenio precipitate. Aumentando la temperatura a 50 °C e mantenendo un pH elevato, intorno a 8 o 9, si formano cristalli di selenio relativamente grandi. Queste particelle di selenio più grandi e cristalline possono essere recuperate più facilmente e rendono economicamente fattibile la separazione.

Durante gli esperimenti, i ricercatori hanno trovato un processo ancora migliore per il recupero del selenio. Il selenato è molto stabile e non facile da trasformare. L’altra forma, selenito, è altamente reattiva e può essere più facilmente convertita in selenio. Gli scienziati sono riusciti a scoprire le condizioni specifiche del reattore in cui quasi tutto il selenato viene trasformato in selenito: ciò si è verificato a una temperatura di 30 ° C e pH neutro. I microrganismi presenti nei fanghi convertono successivamente il selenito in solfuro e selenio solido. Il selenio così recuperato ha una struttura cristallina, con particelle visibili e relativamente grandi, dell’ordine dei micrometri.

Secondo Hageman, questa via indiretta attraverso il selenito per recuperare il selenio, è più promettente della conversione microbiologica diretta dal selenato al selenio. La temperatura richiesta è più bassa, risparmiando energia, mentre il solfuro viene continuamente riciclato durante la reazione. Hageman afferma che il passo finale sarà testare il metodo in un contesto industriale[2].

Ciclo biogeochimico

Esiste una stretta relazione fra i livelli essenziali, benefici e quelli tossici di selenio per gli organismi, che variano notevolmente con la speciazione dell’elemento, così come col tipo dei viventi. Pertanto, sono cruciali per monitorare la sua speciazione in fase solida e in soluzione, i livelli di esposizione e i percorsi verso gli organismi viventi.

Diviene quindi indispensabile valutare il ciclo biogeochimico del selenio che alla fine influenza lo stato dell’elemento nell’uomo.

Sulla base della letteratura pertinente disponibile, un gruppo internazionale di ricercatori ha recentemente pubblicato una dettagliata review che traccia un collegamento plausibile tra: (1) livelli di selenio, fonti, speciazione, biodisponibilità ed effetto delle proprietà chimiche del suolo sulla biodisponibilità /speciazione del selenio nel suolo; (ii) ruolo dei diversi trasportatori di proteine ​​nel trasferimento di Se-suolo-radice-parti aeree; e (3) speciazione, metabolismo, fitotossicità e disintossicazione del Se all’interno delle piante [3].

In figura 8 è riportato lo schema di ciclo biogeochimico, tratta dal rif. [3]

Figura 8. Ciclo biogeochimico del selenio [3]

La review delinea anche l’accumulo di selenio in parti di piante commestibili da terreni contenenti livelli diversi dell’elemento e delucida disturbi o rischi associati alla salute dovuti al consumo di alimenti carenti o ricchi in Se.

Opere consultate

CRC, Handbook of Chemistry and Physics, 85th, 4-28

https://en.wikipedia.org/wiki/Selenium

Bibliografia

[1] Anna M.K. Gustafsson et al., Recycling of high purity selenium from CIGS solar cell waste materials.,Waste Management, 2014, 34, 1775-1782.

[2] S.P.W. Hageman et al., Efficient selenium recovery from waste streams, https://www.wur.nl/en/newsarticle/Efficient-selenium-recovery-from-waste-streams-.htm

[3] N. Natasha et al., A critical review of selenium biogeochemical behavior in soil-plant system with an inference to human health., Environmental Pollution, 2018, 234, 915-934.

[1] La reazione di Riley consiste nell’ossidazione di un gruppo metilico o metilenico attivato da un doppio legame adiacente, carbonile, aromatico, ecc. usando biossido di selenio come ossidante, riducendosi infine a metallo.

[2] Continuo a pensare che usare microorganismi potrebbe alla lunga rivelarsi pericoloso (NdR)

Spillover, antropocene e mascherine.

Claudio Della Volpe

La grande paura del contagio rende tutti noi poco capaci di riflettere sui tempi lunghi e sulle cause lontane dei fenomeni che stiamo vivendo.

E invece dobbiamo sforzarci di riflettere proprio su questo; non si tratta di un “cigno nero” un fenomeno non prevedibile e misterioso. Al contrario!
Questa pandemia era stata prevista ampiamente; ho letto in questi giorni un libro scritto da un grande giornalista scientifico, David Quammen: Spillover, (grazie a Oca Sapiens del suggerimento) che scriveva nel 2012 proprio che un coronavirus era uno dei più probabili candidati al “Big One” un salto di specie in grado di infettare l’intera umanità con una infezione potenzialmente dannosa.

L’avevo citato in un post precedente , ma non l’avevo ancora letto tutto; l’ho fatto e vi dico che vale la pena che tutti noi lo leggiamo; è la storia dei numerosi spillover, ossia salti di specie, che hanno caratterizzato buona parte dell’Antropocene, del periodo che non sappiamo bene quando inizia ma che ci vede protagonisti.

Qui sotto vedete quel che ragionevolmente è accaduto per la SARS-COV-2.covid1

I virus, in particolare quelli a RNA, ma non solo, sono una entità che abbiamo scoperto da poco più di cento anni; infatti fu solo nel 1892 che Dmitri Iosifovich Ivanovski, un botanico russo ne ipotizzò l’esistenza (il virus del mosaico del tabacco). Ma si rintracciano fin quasi all’origine della vita.

I virus si riproducono con fantastica velocità sfruttando i meccanismi delle cellule batteriche ed animali; nel fare questo, come i batteri, sono in grado di mutare velocemente; nella maggior parte dei casi le mutazioni, ossia gli errori che sopravvivono al controllo enzimatico, non sono granchè utili, ma a volte lo sono. Si stabilisce una storia dunque di mutazioni e reciproci adattamenti fra i virus e le cellule, le cui leggi non sono banali affatto.

Noi uomini siamo un ottimo terreno di coltura virale, devono solo stare attenti a non ammazzarci troppo velocemente; se lo facessero non riuscirebbero a diffondersi bene; un esempio è la rabbia, una zoonosi che uccide il 100% degli infettati umani se non curata in tempo; malattia pericolosa ma di poco successo come pandemia. (ovvio non ci sono progetti virali è solo casualità).

covid2David Quammen, Spillover Adelphi, 11.90 o ebook 5.90

Siamo l’unico animale vertebrato che è stato in grado, sulle terre emerse, di raggiungere il numero strabiliante di quasi 8 miliardi di esemplari; la nostra biomassa è ormai (insieme a quella dei nostri animali) la più appetibile sorgente di cellule da riproduzione virale.

Il nostro outbreak, ossia la nostra esplosiva crescita che in poche decine di mila anni ci ha portati dai mille individui all’epoca dell’esplosione catastrofica di Toba ad 8 miliardi, ci ha anche reso un ottimo terreno di coltura per i virus.

Come abbiamo scritto altrove la massa nostra e dei nostri animali copre il 98% (il novantotto per cento) della massa dei vertebrati terrestri; da quando ci siamo noi Sapiens Sapiens (sapienti al quadrato, ma saggi affatto, la sapienza non è saggezza!) la biomassa terrestre complessiva si è dimezzata.

Se fossimo un insetto sarebbe una invasione, una piaga biblica, ma dato che siamo “i padroni del creato” nessuno o quasi si lamenta.

Ora attenzione non è che gli spillover non ci siano stati in passato; ce ne sono stati sicuro anche preistorici, ce ne sono stati che ci hanno lasciato ricordini che sono ancora in corso (molte importanti malattie moderne come il morbillo ci sono venute per salto di specie dagli animali e casomai alcune si sono adattate a noi, senza conservare alcun serbatoio di riserva, il vaiolo che abbiamo appena eliminato proprio e solo per questo); ogni tanto qualche virus o batterio fa il salto e se gli offriamo le condizioni opportune il salto riesce e diventa epidemia o pandemia.

Negli ultimi 100 anni per esempio il salto è avvenuto per il virus dell’immunodeficienza degli scimpanze (SID) che si è trasformato in uno dei virus dell’AIDS, l’HIV-1, questo salto è avvenuto nel 1908, ma solo grazie ai mutamenti del nostro modo di vivere si è poi trasformato in una pandemia globale ed inarrestabile, risalendo da una sconosciuta valle africana verso Leopoldville e poi aiutata dalle pratiche scorrette delle prime vaccinazioni (che venivano fatte senza sterilizzare gli aghi) fino ad esplodere in Centro Africa e di lì al resto del mondo.

Quammen elenca tutti gli ultimi casi importanti in un crescendo formidabile; e nell’elenco non ci sono solo paesi lontani come il centro Africa e le residue foreste dell’Asia, ma anche i moderni capannoni per l’allevamento delle capre in Olanda (Brabante) (il caso della C. Burnetii, la febbre Q, 2007, un particolare batterio) o gli allevamenti di cavalli in Australia (virus Hendra, dai pipistrelli ai cavalli e agli uomini).

Noi uomini invadiamo senza sosta ogni lembo di Natura incontaminata, per esempio entriamo a centinaia nelle caverne occupate dai grandi pipistrelli  africani, sapete il turismo è una “necessità” e la conseguenza di un contatto con feci contaminate sono febbri incurabili; oppure raccogliamo senza alcun tipo di controllo igienico la linfa delle palme di cui sono ghiotti sempre alcuni giganteschi pipistrelli o altri animali, o ancora alleviamo in uno strato di deiezioni le caprette anche nei paesi più “moderni” e la conseguenza è un infezione batterica che dalla placenta secca delle caprette si trasmette per via aerea in zone tecnologicamente avanzate d’Europa.

Oh! perché i pipistrelli?  i pipistrelli sono mammiferi come noi, chirotteri antichi che volano anche per decine di chilometri, ricercati come cibo se abbastanza grandi; sono il secondo più numeroso gruppo di specie nell’ambito dei mammiferi dopo i roditori; dunque non è che ci sia alcuna maledizione se sono un comune e ottimo serbatoio di lancio per i virus verso altri mammiferi.

Ora non sempre la situazione è così drammatica come il SARS-COV-2, ma che i virus ad RNA (singolo filamento, dotati della maggiore velocità di mutazione) fossero i candidati perfetti ad uno spillover tragico era nelle cose; dopo tutto questa è la terza ondata di SARS, mica la prima.

Concludendo il libro merita e apre la mente.

SARS-CoV-2  è il settimo coronavirus capace di infettare esseri umani; SARS-CoV, MERS- CoV and SARS-CoV-2 possono causare malattie severe, mentre HKU1, NL63, OC43 and 229E sono associate con sintomi lievi.

Ma la storia del coronavirus ha altri addentellati interessanti.

Le scelte iperefficienti di un modo di produrre in cui tutto è merce diventano tombe: le mascherine le fanno solo alcuni paesi, (sapete è il just in time) dunque adesso ci servono ma non le abbiamo, le fanno altrove non più qua; oppure la maledetta sanità pubblica, così costosa che molti paesi ne fanno a meno proprio; è così “efficiente” la sanità privata con i suoi posti letto ridotti al minimo indispensabile per ridurre i costi di quegli scialacquatori di medici ed infermieri e dei troppi vecchiotti che si ammalano. Lei è assicurato signore? No e allora mi spiace i tamponi costano, sa e se no il PIL non cresce e il deficit pubblico cresce. E adesso siamo senza terapie di urgenza.

Non basta.

Le mascherine, i guanti, le sovrascarpe, le tute sono tutte di plastica (odiata plastica!) e per giunta usa-e-getta e per noi tutti reduci da una stagione di lotta all’usa e getta sembra questa un vendetta di Montezuma della plastica!

L’usa e getta non è sostenibile, lo abbiamo scritto e ripetuto, ma In tempi di emergenza come questi l’usa e getta è indispensabile; pensare di riciclare le mascherine disinfettandole in forno o in alcool è una pia illusione; in forno il trattamento superficiale che rende così efficace il tessuto-non tessuto del filtro si danneggia irreparabilmente, perché l’adsorbimento non è una questione meccanica ma di forze di adesione di cui abbiamo parlato di recente. Ci ho lavorato parecchio sulle superfici dei materiali e vi assicuro che se andate sopra la Tg del polimero (di solito PET o PBT) il suo trattamento superficiale va a farsi friggere.

E’ vero che alcuni filtri (ma sono i meno performanti) sono basati su un meccanismo “elettretico”, ossia su un materiale polimerico in cui sono “congelati” al momento della produzione dei blocchi dipolari che rendono la superficie del materiale una sorta di condensatore; in questo caso il materiale è fatto di PES-BaTiO3, dove il titanato di bario ha una elevatissima costante dielettrica o di stearato. Ma anche qui occorre capire che “ripulire” il filtro non è banale e probabilmente non si può fare adeguatamente anche se la carenza di mascherine stimola l’ingegno (e le fregature).

La vendetta dell’usa e getta dicevo; ma è come per altri settori; non ci sono soluzioni tecniche e basta che conservino un modo di produrre insensato.covid3

https://www.nature.com/articles/s41591-020-0820-9.pdf   

Faccio un parallelo: dobbiamo passare alle rinnovabili certo, alla mobilità elettrica, è ovvio; ma non possiamo conservare i livelli di spreco attuali; un miliardo o più di auto elettriche PRIVATE è solo poco meno devastante che un miliardo di auto fossili PRIVATE, altera altri cicli degli elementi finora quasi intatti.

Così come pensare che dato che abbiamo la tecnologia degli antibiotici o degli antivirali, possiamo non preoccuparci: non ci salvaguardano dagli spillover o dalle malattie infettive resistenti.

La tecnologia da sola non può vincere; la Scienza lo può, ma solo nel senso che essa riconosce alla Natura che siamo una sua costola, non i suoi dominatori, che non si tratta di “vincere” ma di adattarsi.

L’arma del sapone, uno dei primi prodotti di sintesi di massa rivela in queste circostanze tutto il suo enorme potenziale igienico di civiltà; sapone comune ottenuto dalle nostre nonne dal grasso di maiale e dalla lisciva delle ceneri del legno; ovvio che poi sono venuti decine di altri prodotti chimici di sintesi o meno che sono potentissimi disinfettanti: alcol etilico, ipoclorito di sodio, sali di alchilammonio, acqua ossigenata (robe che i chemofobi odiano, ma senza di essi oggi non si vive).

Senza l’apporto della Chimica la medicina è oggi ridotta all’osso: distanziamento sociale stare da soli, violare la nostra natura profonda di esseri sociali, che diventa l’unica arma disponibile in attesa di un vaccino. Si capisce allora la ricerca spasmodica di una nuova pallottola magica, un antivirale che consenta di controllare le conseguenze più drammatiche del virus.

Questa pallottola arriverà certamente nelle prossime settimane grazie al lavoro combinato (e sottolineo combinato) di chimici, fisici, biologi e medici.

Ma ricordiamo che la questione base è quella che possiamo esprimere come “one health”; la salute dell’uomo dipende dal vivere in ambienti sani, che siano in equilibrio, un uomo in reciproco adattamento con gli ambienti naturali e che dunque si minimizzino gli effetti dell’evoluzione virale, dei salti di specie, l’opposto dell’attuale continua aggressione ad ogni foresta, ogni lembo di natura, ogni selvatico, sulla terra e sul mare. L’opposto anche della continua crescita di velocità in ogni contatto, ritrovare la lentezza che è tipica dell’adattamento; i tempi umani e i tempi biologici devono ritrovarsi. Ricordiamo l’ammonimento di Enzo Tiezzi.

Mentre con lo schiudersi del nuovo millennio la scienza celebra i fasti di risultati fino a ieri semplicemente inimmaginabili, è nello stesso tempo davanti agli occhi di tutti una crisi radicale nel nostro rapporto con la natura. C’è il rischio concreto di un abbassamento della qualità della vita, di una distruzione irreversibile di fondamentali risorse naturali, di una crescita economica e tecnologica che produce disoccupazione e disadattamento»(Tempi storici e tempi biologici, Donzelli editore, 1987!!! lo trovate solo usato; guardate questa è quasi preveggenza, certo è saggezza)

La Natura non è estranea a noi che pensiamo di dominarla, noi siamo parte della Natura stessa e dobbiamo comprenderla e salvaguardarla NON assoggettarla a meccanismi economici insensati: crescere SEMPRE, la crescita infinita di popolazione e ricchezze è IMPOSSIBILE in un mondo finito, la nostra piccola astronave Terra, come l’hanno chiamata Vincenzo Balzani e Nicola Armaroli.

Le nostre discariche atmosferiche di gas da combustione sono sature e ci hanno portato al global warming; abbiamo violato ogni ciclo presesistente (carbonio, azoto, fosforo, zolfo) e, per rimediare, ci avviamo a fare lo stesso con gli altri elementi della tavola periodica (le tecnologie rinnovabili usano molti elementi mai usati prima, dunque il riciclo spinto è indispensabile, ma è sufficiente?); ma anche la Natura violata ed “affettata” delle grandi foreste tropicali ai margini di enormi città da milioni di uomini, per il fatto stesso di avere dimensioni ridotte diventa un appoggio, una interfaccia per ogni salto di specie virale o batterico: ricordate che i virus non rimarranno rispettosamente confinati nel “loro” fazzoletto di foresta.  A questo danno una mano

-la caccia ai residui animali selvatici (il 2%) che spesso nei paesi poveri è l’unico modo di procurarsi proteine o soldi vendendo peni di prede vietate a qualche ricco impotente,

-l’allevamento intensivo condotto in modo inumano dappertutto, il consumo di carne che deve crescere ogni anno e che ingloba sempre nuove specie, sulla terra e nel mare;

-il commercio dei wet market, i negozi della tradizione asiatica dove animali, piante e persone si ammassano in modo insensato, scambiandosi ogni tipo di tessuti, fluidi e (ovviamente) virus e batteri.

– la distruzione del tessuto forestale che secondo le associazioni ambientaliste viaggia a centinaia o migliaia di metri quadri al secondo

Ci sono limiti da non superare. Ma la nostra hubris non ha tema. Noi siamo i dominatori del mondo, crescete e moltiplicatevi.  OK, andava bene 5-6000 anni fa ma al momento non c’è più spazio.

Ovviamente sono importanti e vanno bene le tecnologie delle rinnovabili e del riciclo, ma, ATTENZIONE, non sono un toccasana; lo sono sempre e SOLO se condite e accompagnate dal rispetto; servono se riconoscono il nostro far parte di una rete naturale di cui siamo uno dei nodi non l’unico né il dominante. Non sono garanzia di crescita ulteriore. Servono solo se sono lo strumento di una vita più SOBRIA!

La Natura è l’unica a sapere il fatto suo e l’intelligenza dopo tutto non è che UNA delle strategie naturali e invece di esser un punto di arrivo potrebbe non essere quella vincente (specie se condita di mercato), potrebbe essere un vicolo cieco

 

da leggere:

https://ilmanifesto.it/david-quammen-questo-virus-e-piu-pericoloso-di-ebola-e-sars/

Elementi della Tavola Periodica. Selenio, Se. Parte prima.

Rinaldo CervellatiIl selenio (ingl. Selenium), simbolo Se, è l’elemento n. 34 della tavola periodica, collocato al 16° Gruppo, 5° Periodo, dopo lo zolfo e prima del tellurio. Fa dunque parte della famiglia dei calcogeni, la sua abbondanza nella crosta terrestre è stimata in 0,05 ppm, almeno dieci volte quella del tellurio, di cui abbiamo parlato in un precedente post. Va subito ricordato che è un micronutriente, necessario per il corretto funzionamento delle funzioni cellulari in tutti gli organismi viventi, compreso l’uomo e gli altri animali. Il pubblico probabilmente ricorderà la pubblicità di una varietà di patata a pasta gialla “fonte” di selenio.

Il Selenio fu scoperto nel 1817 dal famoso chimico Jöns Jacob Berzelius[1] e da Johan Gottlieb Gahn[2]. Entrambi possedevano un impianto chimico vicino a Gripsholm, in Svezia, che produceva acido solforico con il processo delle camere al piombo[3]. La pirite della miniera di Falun (Svezia) aveva formato un precipitato rosso nelle camere di piombo che si presumeva fosse un composto di arsenico, quindi l’uso di questa pirite per la produzione dell’acido fu interrotto. Berzelius e Gahn osservarono che il precipitato rosso emanava un odore di rafano quando veniva bruciato. Questo odore non era tipico dell’arsenico, ma un simile odore era noto emanare dai composti del tellurio. In una prima lettera al collega Alexander Marcet, Berzelius affermava che si trattava di un composto di tellurio. Tuttavia, la mancanza di composti del tellurio nei minerali della miniera di Falun alla fine condusse Berzelius a rianalizzare il precipitato rosso, e nel 1818 scrisse una seconda lettera a Marcet descrivendo un nuovo elemento simile allo zolfo e al tellurio. A causa della sua somiglianza con il tellurio, così chiamato dal nome latino per la Terra, Berzelius nominò il nuovo elemento selenio, dal greco σελήνη (selene) che significa Luna.

Il selenio si trova raramente nella sua forma nativa (cioè elementare), è un minerale raro, che di solito non forma cristalli, ma quando si trova in forma cristallina ha abito romboedrico o aciculare (fig. 1).

Figura 1. Selenio nativo su arenaria

Il selenio si presenta naturalmente in una serie di forme inorganiche, tra cui selenito, selenato e seleniuro, ma questi minerali sono rari. Si trova più comunemente come impurezza, sostituendo una piccola parte dello zolfo nei solfuri di molti metalli, in particolare piriti.

L’isolamento del selenio è spesso complicato dalla presenza di altri composti ed elementi.

Proprietà fisiche

Il selenio può presentarsi in diverse forme allotropiche che si trasformano le une nella altre variando la temperatura, anche secondo la velocità della variazione. Se preparato tramite reazioni chimiche, il selenio si presenta solitamente come una polvere amorfa, rosso mattone. Se fuso rapidamente, passa alla forma vitrea nera. La struttura del selenio nero è irregolare e complessa ed è costituita da anelli polimerici con un massimo di 1000 atomi per anello (Fig. 2). Il Se nero è un solido fragile e brillante, leggermente solubile in solfuro di carbonio CS2. Riscaldato a 180 oC, si converte in selenio grigio; la temperatura di trasformazione è ridotta dalla presenza di alogeni e ammine.

Figura 2. Campioni di selenio nero e rosso

Le forme rosse α, β e γ si formano da soluzioni di selenio nero, variando la velocità di evaporazione del solvente (solitamente CS2). Hanno tutte simmetrie cristalline monocline contenenti anelli Se8, come nello zolfo. L’impacchettamento è più denso nella forma α. Altri allotropi di selenio possono contenere anelli Se6 o Se7.

La forma più stabile e densa di selenio è grigia e ha un reticolo cristallino esagonale costituito da catene polimeriche elicoidali. Il Se grigio si forma per lieve riscaldamento di altri allotropi, o per lento raffreddamento del Se fuso o dalla condensazione del vapore di Se appena sotto il punto di fusione (Fig. 3).

Figura 3. Selenio grigio e sua struttura cristallina

Mentre altre forme di Se sono isolanti, il Se grigio è un semiconduttore che mostra una fotoconduttività apprezzabile. A differenza degli altri allotropi, è insolubile in CS2. Resiste all’ossidazione in aria e non è attaccato dagli acidi non ossidanti. Con forti agenti riducenti forma poliseleniuri.

Grazie al suo uso come fotoconduttore nei rivelatori di raggi X a schermo piatto, le proprietà ottiche dei film sottili di selenio amorfo (α-Se) sono state oggetto di intense ricerche.

Il selenio ha sette isotopi naturali. Cinque di questi, 74Se, 76Se, 77Se, 78Se, 80Se, sono stabili, 80Se è il più abbondante (49,6% di abbondanza naturale). Anche il radionuclide primordiale di lunga durata 82Se è presente in natura, con un’emivita di 9,2×1019 anni. Il radioisotopo 79Se si presenta in minuscole quantità nei minerali di uranio come prodotto della fissione nucleare. Il selenio ha anche numerosi isotopi sintetici instabili.

Proprietà chimiche

Il selenio forma due ossidi: biossido di selenio (SeO2) e triossido di selenio (SeO3). Il biossido di selenio si forma dalla reazione del selenio elementare con l’ossigeno:

Se8 + 😯2 → 8SeO2

È un solido polimerico (Fig. 4) che forma molecole monomeriche SeO2 in fase gassosa.

Figura 4. Struttura di SeO2 polimerico

Si dissolve in acqua per formare acido selenioso, H2SeO3. L’acido selenioso può anche essere prodotto direttamente ossidando il selenio elementare con acido nitrico.

A differenza dello zolfo, che forma un triossido stabile, il triossido di selenio è termodinamicamente instabile e si decompone in biossido al di sopra di 185 °C

Il triossido di selenio viene prodotto in laboratorio per reazione fra selenato di potassio anidro (K2SeO4) e triossido di zolfo (SO3).

Il disolfuro di selenio, SeS2, è costituito da anelli a 8 membri. Il disolfuro di selenio è stato usato negli shampoo come agente antiforfora, come inibitore nella chimica dei polimeri, come colorante per vetro e agente riducente nei fuochi d’artificio.

Composti con gli alogeni

Gli ioduri di selenio non sono ben noti. L’unico cloruro stabile è il selenio (I) cloruro; è noto anche il bromuro corrispondente. Il dicloruro di selenio è un reagente importante nella preparazione di composti di selenio. Il selenio reagisce con il fluoro per formare esafluoruro di selenio:

Se8 + 24F2 → 8SeF6

Rispetto al composto analogo dello zolfo (SF6), l’esafluoruro di selenio (SeF6) è più reattivo ed è un irritante polmonare tossico.

Analogamente al comportamento degli altri calcogeni, il selenio forma seleniuro di idrogeno, H2Se. È un gas di odore fortemente sgradevole, tossico e incolore. È più acido dell’acido solfidrico H2S. Lo ione Se2- forma una varietà di composti, inclusi i minerali dai quali il selenio si ottiene commercialmente. Essi includono: seleniuro di mercurio (HgSe), di piombo (PbSe), di zinco (ZnSe) e il diseleniuro di rame indio e gallio (Cu (Ga, In) Se2). Questi materiali sono semiconduttori.

Composti organoselenici

Il selenio, specialmente nello stato di ossidazione II, forma legami stabili con il carbonio, che sono strutturalmente analoghi ai corrispondenti composti organosolfurici. Particolarmente comuni sono i seleniuri (R2Se, analoghi dei tioeteri), i diseleniuri (R2Se2, analoghi dei disolfuri) e i selenoli (RSeH, analoghi dei tioli). Rappresentanti di seleniuri, diseleniuri e selenoli sono ad esempio selenometionina, difenildiseleniuro e benzeneselenolo. Il solfossido nella chimica dello zolfo è rappresentato nella chimica del selenio dai selenossidi (RSe (O)R), che sono intermedi nella sintesi organica.

Estrazione e produzione

Il selenio è comunemente prodotto dal seleniuro contenuto in molti minerali solforati, come solfuri di rame, nichel o piombo. La raffinazione elettrolitica di questi metalli produce selenio come sottoprodotto, spesso ottenuto dal fango anodico delle raffinerie di rame. Il selenio può essere raffinato da questi fanghi con una serie di metodi. Dalla sua invenzione, la produzione di rame per estrazione con solvente ed elettro-estrazione produce una quota crescente della fornitura mondiale di rame. Ciò modifica la disponibilità di selenio perché solo una parte relativamente piccola del selenio nel minerale viene lisciviata con il rame.

La produzione industriale di selenio di solito comporta l’estrazione di biossido di selenio dai residui ottenuti durante la purificazione del rame. La produzione dal residuo inizia quindi con un trattamento con carbonato di sodio per formare biossido di selenio, che viene miscelato con acqua e acidificato per formare acido selenico. Nell’acido selenico viene infine fatto gorgogliare biossido di zolfo che lo riduce a selenio elementare.

Nel 2011 sono state prodotte circa 2.000 tonnellate di selenio in tutto il mondo, principalmente in Germania (650 tonnellate), Giappone (630), Belgio (200) e Russia (140) e le riserve totali sono state stimate in 93.000 tonnellate. Questi dati escludono però i due grandi produttori: Stati Uniti e Cina. Nel 2010 il consumo nei vari settori applicativi è stato il seguente: metallurgia 30%, produzione di vetro 30%, agricoltura 10%, prodotti chimici e pigmenti 10%, ed elettronica 10%. La Cina è il principale consumatore di selenio, con 1.500–2.000 tonnellate /anno.

Applicazioni

Il selenio è usato nell’industria metallurgica poiché l’aggiunta di biossido di selenio riduce la potenza necessaria per far funzionare le celle elettrolitiche, in particolare per l’elettrodeposizione del manganese. È stato usato anche nei diodi raddrizzatori fino agli anni settanta, quando fu sostituito dal silicio in molte applicazioni, diodi per alta tensione compresi.

Per via delle sue proprietà fotovoltaiche e fotoconduttive è largamente impiegato in elettronica, nelle fotocellule e nelle celle fotovoltaiche.

Il selenio è impiegato per decolorare il vetro, poiché neutralizza il colore verde che viene provocato dalle impurità di ferro. Può anche essere usato per dare una colorazione rossa a vetri e smalti.

Il selenio è usato per migliorare la resistenza all’abrasione della gomma vulcanizzata. È usato anche nell’industria della riproduzione per fotocopia.

Un altro impiego è nella fotografia; è commercializzato da numerose marche di prodotti fotografici, fra cui la Kodak. Nella fotografia artistica è usato per estendere il campo di tonalità delle stampe in bianco e nero e per aumentare l’intensità dei toni; può anche essere usato per aumentare la permanenza delle immagini.

Opere consultate

CRC, Handbook of Chemistry and Physics, 85th, 4-28

https://en.wikipedia.org/wiki/Selenium

[1] Jöns Jacob Berzelius (1779-1848), chimico sperimentale e teorico svedese, è stato la massima autorità in campo chimico per tutta la prima metà del XIX secolo.

[2] Johan Gottlieb Gahn (1745 – 1818), chimico e metallurgista svedese, scoprì il manganese nel 1774.

[3] Il processo alle camere di piombo era un metodo industriale utilizzato per produrre acido solforico in grandi quantità. È stato ampiamente soppiantato dal processo di contatto fra SO2 e O2 in presenza di opportuni catalizzatori.

22 Marzo 2020: giornata mondiale dell’acqua ai tempi del coronavirus

Mauro Icardi

(con osservazione finale di Lugi Campanella)

La giornata mondiale dell’acqua quest’anno si celebra in un pianeta in apprensione. Spaventato dall’avanzare dell’epidemia di coronavirus. La celebrazione potrebbe passare in secondo piano, e la cosa non credo debba stupire o indignare più di tanto. La situazione di pandemia che l’OMS ha dichiarato è qualcosa che quasi nessuno di noi aveva immaginato, o che pensava di dover realmente affrontare.

Mi viene immediatamente in mente una prima riflessione, legata sia al virus che all’importanza dell’acqua: la raccomandazione che ci viene ripetuta incessantemente, cioè di lavarci spesso le mani. Questo è il primo collegamento sui cui rifletto. Lavarci le mani e aprire il rubinetto dell’acqua. Gesto abitudinario ed usuale, a cui probabilmente non facevamo più nemmeno troppa attenzione. Certamente qualcuno più attento avrà installato erogatori che permettono il minor consumo di acqua, avrà chiuso il rubinetto mentre si spazzolava i denti. Ma adesso questi gesti ordinari assumono un altro valore. Perché dietro a questi gesti ci sono le persone che continuano a garantirci questo servizio essenziale. Servizio di gestione delle reti e degli impianti idrici, fognari e di depurazione. Mi sembra giusto e doveroso ricordarlo. Senza enfasi o retorica. E ricordare che secondo il rapporto “Progress and drinking water” di OMS e Unicef del 2019, nel mondo, una persona su tre non ha accesso all’acqua potabile sicura. Secondo il Rapporto, circa 2,2 miliardi di persone a livello mondiale non dispongono di servizi per l’acqua potabile, 4,2 miliardi non dispongono di servizi igienici sicuri. Per 3 miliardi di persone, inoltre, non è possibile neppure lavarsi le mani disponendo di acqua e sapone in casa.

Altra riflessione che mi viene in mente è relativa alla definizione di “oro blu” legata all’acqua, e mediata dalla definizione di “oro nero” che era stata coniata per il petrolio. Sono almeno vent’anni che questa definizione è entrata nel nostro lessico. Quindi sottintende qualcosa di prezioso per definizione. E ciò che è prezioso diventa, per un modo ormai radicato di pensare, qualcosa che debba essere mercificato. E sappiamo che questa cosa già accade. In Italia molte persone si sono impegnate per ottenere un referendum che stabilisse che l’acqua non si dovesse mercificare. Che fosse e restasse un diritto pubblico universale, così come stabilito dall’ONU già nel 2010. Ognuno potrà valutare da sé se questo obbiettivo sia stato o no raggiunto. Io su questo tema ho potuto anche vedere molta confusione. L’acqua è diventata per molti un concetto astratto. Che potrei riassumere con un frase non mia, ma del Professor Roberto Canziani del politecnico di Milano, con cui a suo tempo ho collaborato per una sperimentazione sugli impianti MBR. Cioè che “Acqua pubblica non vuol dire acqua gratis, perché altrimenti dovremmo ancora andare a prenderla con il secchio e portarla fino a casa”. E’ una frase sulla quale si può essere d’accordo o meno. Certamente pone il problema degli investimenti da destinare al ciclo idrico, ed alla loro corretta gestione. Investimenti che devono comprendere anche la ricerca. Ci sono molti temi da affrontare, e qui se ne è scritto: inquinanti emergenti e resistenza antibiotica tra i più urgenti. Quanto meno serve a farci capire che l’acqua arriva e se ne va dalle nostre case, tramite le strutture e gli impianti che servono alla sua corretta gestione. Concetto che sembra ancora ignoto a molti.

Su quello che sono i beni comuni credo che già in questi giorni molti stiano facendo delle riflessioni. A partire dalla questione, oggi sotto gli occhi di tutti ,di un altro settore fondamentale e primario, cioè la sanità. L’acqua segue a ruota. Credo che sia un dovere per tutti riflettere a fondo sui beni comuni. Uscire da quelle affermazioni banali che, o per interesse proprio, o per dissonanza cognitiva o percettiva ci portano a considerare tutto il pubblico come qualcosa di inefficiente se non clientelare o parassitario. A pensare che solo la privatizzazione sia sinonimo di efficienza, trasparenza e professionalità. Lo stiamo vedendo anche per l’epidemia in corso. Forse dobbiamo ritornare cittadini, e ricordarci che come mi venne insegnato da mia madre lo Stato non è (o non dovrebbe esserci) estraneo. Lo stato mi diceva, siamo noi.

Esiste a mio parere una dissonanza idrica. Profonda e radicata, quella che ci fa svuotare i supermercati di confezioni di bottiglie d’acqua, che ci induce a considerare a priori che sia negativo bere l’acqua del proprio rubinetto di casa. Un atteggiamento di questo tipo merita un altra riflessione, profonda e doverosa.

Supportata certamente da studio e informazione. Senza superficialità . In tanti anni di lavoro ne ho sentita davvero troppa.

In Italia abbiamo anche permesso che in passato le organizzazioni criminali, come la mafia si sostituissero alle istituzioni fornendo acqua con le autobotti nei momenti di crisi idrica. In Italia dobbiamo tenere a mente un numero: 42. Questo numero non è la risposta che il supercomputer pensiero profondo ,(deep thought) del ciclo di libri “Guida galattica per autostoppisti” fornisce agli uomini che gli domandano cosa ci sia nella vita e nell’universo. Quei libri sono di fantascienza umoristica. In Italia 42% è ancora la quantità di acqua mediamente dispersa nelle reti idriche. Dato rimasto praticamente costante, e in questo caso l’umorismo sarebbe fuori luogo.

Lo sostengo su questo blog praticamente da sempre. Serve l’educazione idrica. Serve la rivalutazione della conoscenza. Della ricerca. I tempi del coronavirus ci hanno fatto capire, e ci stanno mostrando che il futuro, che non si può predire, ma solamente in qualche modo prefigurare, sarà decisamente molto diverso. Ne stiamo facendo esperienza tutti noi, ogni giorno. Il cambio di approccio e di paradigma è vitale.

Mi permetto l’ennesima citazione . Che viene da Primo Levi e anche dai Talmud.

Se non ora, quando?

https://www.who.int/water_sanitation_health/publications/jmp-report-2019/en/

https://www.worldwatercouncil.org/en

http://waterweb.org/

https://pubs.rsc.org/en/journals/journalissues/ew#!recentarticles&adv

https://www.snpambiente.it/category/temi/acqua/

 

Un commento di Luigi Campanella sulla Giornata dell’acqua

Aumentare l’accesso all’acqua pulita e la disponibilità di servizi sanitari nel mondo è un Obiettivo di Sviluppo Sostenibile fissato dall’ONU.

Acqua pulita e igiene sono essenziali per la sopravvivenza e per la produttività economica delle comunità.

In Africa il diritto all’acqua è ancora in gran parte non garantito.

In tutto il continente, escluso il Nord Africa, meno del 25% della popolazione ha eccesso all’acqua potabile, contro una media globale di oltre il 70%.

Nelle aree rurali 339 milioni di persone non hanno accesso ad acqua pulita e sicura.

In 60 anni e oltre di lavoro in Africa abbiamo imparato molto di più di quel che abbiamo insegnato. Gran parte di ciò che abbiamo appreso lo dobbiamo alle donne.

Le donne sono il volano dello sviluppo, sociale, culturale ed economico. Dal 2010 ad oggi, l’Africa Sub-sahariana ha perso in media 95 miliardi di dollari ogni anno, solo per non aver offerto le medesime opportunità e tutele a donne e uomini.

Il parallelismo che suggerisco in questo post del blog tra donne e acqua, richiama alla mente due immagini su tutte: la vita e la forza. Le donne, infatti, sono coloro che hanno il dono di custodire e dare la vita; l’acqua è il bene primario per eccellenza, senza il quale nessuno di noi potrebbe vivere. Che dire invece della forza, quella dei fiumi, degli oceani, quella di una goccia perpetua in grado di scavare la roccia? Eccole le donne.

 

Qualità dell’aria interna.

Luigi Campanella, già Presidente SCI

Come si valuta la qualità dell’aria negli ambienti interni (indoor,confinati di vita e di lavoro non industriali, in particolare adibitI a dimora, svago, trasporto, lavoro :uffici pubblici e privati, abitazioni, strutture comunitarie,locali destinati ad attività ricreative e sociali, auto, treno,  aereo, nave)?
L’aria negli ambienti indoor  negli ultimi decenni, è andata incontro ad un progressivo cambiamento sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo, con un aumento di sostanze inquinanti e dei relativi livelli in aria. La particolare attenzione che merita il problema deriva dal fatto che l’esposizione ad agenti chimici  con effetti subacuti e cronici, e quindi la dose inalata, non dipende solo dai livelli  riscontrabili nell’armosfera di un certo ambiente, ma anche dal tempo che gli individui trascorrono in quel particolare ambiente.

Da questo punto di vista una recente statistica europea ha evidenziato che la popolazione trascorre in media il 95-97% del suo tempo negli ambienti  interni e  che il 90% dell’inalato è assunto in ambienti interni. Al contrario di quanto avviene in ambito industriale l’inquinamento indoor viene spesso sottovalutato per fattori di natura squisitamente culturale,psicologica o storica. .Un caso poi di particolare rilievo è rappresentato dall’ambiente ospedaliero, dove la possibilità di contrarre varie malattie, anche di tipo professionale, obbliga ad un’attenzione ancora maggiore, rappresentando i frequentatori una fascia debole di utenza.

https://www.insic.it/salute-e-sicurezza/Notizie/Qualita-aria-indoor-dati-Societa-Italiana-Medicina-Ambiental/6955516a-5cc8-436e-b7de-e1c45c095a10

Le sostanze in grado di alterare la qualità dell’aria indoor possono essere classificate come  agenti fisici, chimici, biologici, provenienti in parte dall’esterno, ma molti prodotti da fonti interne. Di queste le principali sono rappresentate da occupanti (uomo, animali), polvere (ricettacolo per  eccellenza di microrganismi), strutture, materiali edili, arredi, prodotti per la manutenzione  e pulizia(detersivi,insetticidi), l’utilizzo degli spazi ed il tipo di attività che vi si svolge (nei laboratori reazioni chimiche, test biologici, riscaldamento di sostanze volatili), impianti (condizionatori, umidificatori, impianti idraulici).

In particolare fra gli agenti chimico-fisici è da considerare il radon, un isotopo della serie dell’uranio 222 che deriva da rocce acide come graniti, tufi e suoli acidi, ma anche per estensione da acque sotterranee e materiali da costruzione e che contribuisce in modo determinante alla dose totale di radiazioni ionizzanti. Gli agenti biologici presenti negli spazi confinati sono rappesentati da particolato organico  aerodisperso (bioaereosol), costituito da microrganismi (virus,batteri, muffe, lieviti, funghi, protozoi, alghe), da insetti (acari, aracnidi) e da materiale biologico da essi derivato o da materiale organico di origine vegetale (polline)
A oggi non esistono in Italia valori di riferimento per la valutazione della qualità dell’aria in interni, a differenza di altri Paesi come Austria, Portogallo, Francia, Germania, Canadà Cina, Corea, Giappone. Questi valori nazionali possono essere considerati per la caratterizzazione del rischio in caso di contaminanti non indagati dall’OMS. Esistono però alcuni riferimenti normativi e metodologie che possono essere applicati. Le norme tecniche sono le Iso 16000 e le  Uni En Iso 16000 riferite a campionamento attivo e passivo, conservazione e preparazione del campione, misurazioni, monitoraggio, differenti composti: dalla CO2 agli NOx, dai VOC alla formaldeide ed altri composti carbonilici,dai PCB alle diossine, dalle ammine ai furani. I valori guida sono quelli raccomandati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità per benzene, CO, formaldeide, naftalene, biossido di azoto, benzopirene, radon, tricloroetilene, tetracloroetilene, PM10 e PM2,5  con i relativi tempi di riferimento. Le pericolosità sono espresse per ogni agente chimico considerato come rischio unitario, ovvero il rischio probabilistico di sviluppare una patologia in una popolazione esposta in modo continuativo ad una  concentrazione unitaria.


Il progetto europeo Officair è il più importante e recente studio internazionale in materia. Si è svolto nell’ambito di un network di 8 Paesi (Grecia, Italia, Francia, Portogallo, Olanda, Ungheria,  Spagna, Finlandia) con un approccio integrato per la valutazione della qualità dell’aria e dell’eventuale rischio per la salute. La struttura del progetto è stata caratterizzata da 3 livelli di studio, con gradiente di approfondimento e dettaglio incrementale (in Italia dai 21 siti di osservazione della prima fase ai 4 della seconda ai 2 della terza), da un monitoraggio multiparametrico per tempi prestabiliti e da una parallela sorveglianza sanitaria, anche ampliata a parametri respirometrici e cardiologici, a marcatori di stress ossidativo ed infiammazione nell’esalato condensato. Alcuni interessanti conclusioni sono le seguenti
-peggioramento dello stato di salute associato al numero di occupanti, alla mancanza di finestre apribili, alla presenza di moquette, alle attività di pulizia giornaliera o periodica
-sono stati per la prima volta misurate concentrazioni indoor di alcuni prodotti di ossidazione dei terpeni costituiti da VOC irritanti per le prime vie aree, per i quali nel caso di uso di detergenti ad elevato contenuto terpenico, l’indicatore più fedele sembra essere il d-limonene
-l’indipendenza per quanto riguarda le particelle ultrafini derivanti anche da reazioni di ozonolisi dalla concentrazione di VOC alla loro formazione potenzialmente correlate
-la mediana su 5 gg delle concentrazioni di terpeni, di formaldeide, di ozono, acroleina, pinene e limonene è risultata di assoluta sicurezza
-le concentrazioni medie di benzene, etilbenzene e xileni sono risultate in discesa rispetto a rilevamenti in studi precedenti
-le concentrazioni che più preoccupano perchè superiori in molti casi ai valori raccomandati dall’OMS sono quelle del PM2,5
Circa il monitoraggio c’è da osservare che negli ultimi tempi è emersa una crescente domanda di strumenti portatili in linea con quanto detto più sopra circa la richiesta di conoscenza sulla qualità dell’aria che respiriamo anche in casa.In particolare il mercato offre nuove opportunità  di monitoraggio di CO, CO2, umidità relativa, temperatura, VOC, di sonde multiparametriche applicabili a magazzini ed uffici, ma anche ad ambienti domestici ed industriali leggeri.

Elementi della tavola periodica. Tellurio, Te

Rinaldo Cervellati

Il tellurio (ingl. Tellurium), simbolo Te, è l’elemento n. 52 della tavola periodica, collocato al 16° Gruppo, 5° Periodo, dopo lo zolfo e il selenio e prima del radioattivo polonio.

La IUPAC lo classifica un semimetallo[1], cioè un elemento con proprietà intermedie fra metalli e non metalli. I semimetalli sono collocati su una diagonale della tavola che suddivide gli elementi in base alle proprietà acido-base dei loro ossidi. La sua abbondanza nella crosta terrestre è valutata fra 0,001 e 0,005 ppm, paragonabile a quella del platino. Si ritiene che questa rarità nella crosta terrestre sia dovuta in parte alla formazione di un idruro volatile, che avrebbe causato la perdita di tellurio nello spazio come gas durante la formazione calda della Terra, e in parte alla bassa affinità per l’ossigeno, che lo induce a legarsi preferenzialmente ad altri calcogeni[2] in minerali densi che si troverebbero nel nucleo.

Il tellurio si trova occasionalmente nella sua forma nativa (elementare), ma più spesso nei minerali calaverite e krennerite (due diverse forme polimorfe di tellururo d’oro, AuTe2), nella petzite e nella silvanite, (tellururi di argento e oro di composizione diversa).

Calaverite                                           Krennerite

Per curiosità, la città di Telluride, in Colorado, è stata chiamata così nella speranza di trovarvi nei suoi dintorni tellururo d’oro (che non si è mai trovato, anche se è stato riscontrato un minerale di metallo dorato).

Sebbene il tellurio si trovi più spesso combinato con oro che in forma elementare, si trova ancora più spesso in telluridi di metalli più comuni (ad esempio la melonite, tellururo di nichel NiTe2).

Melonite

Contrariamente al selenio, il tellurio di solito non sostituisce lo zolfo nei minerali a causa della grande differenza nei raggi ionici. Pertanto, molti comuni minerali solforati contengono notevoli quantità di selenio e solo tracce di tellurio.

Il tellurio (tellus, latino, che significa “terra”) fu scoperto nel XVIII secolo in un minerale d’oro proveniente dalle miniere di Kleinschlatten (oggi Zlatna), vicino alla città di Alba Iulia, in Romania (a quei tempi facente parte dell’impero austro-ungarico). Il minerale era noto come “minerale d’oro a foglia bianca di Faczebaja”, nome tedesco di Fața Băii nella contea di Alba, oggi in Romania, o anche “antimonalischer Goldkies” (pirite d’oro antimonico). Nel 1782 Franz-Joseph Müller von Reichenstein[3], che al tempo era il principale ispettore austriaco delle miniere in Transilvania, concluse che il minerale non conteneva antimonio ma era solfuro di bismuto. L’anno seguente riferì che si era sbagliato, il minerale conteneva infatti principalmente oro e un metallo sconosciuto molto simile all’antimonio. Dopo un’indagine approfondita durata tre anni, che richiese più di cinquanta test analitici, Müller determinò il peso specifico del metallo, notando che quando riscaldato il nuovo metallo emetteva un fumo bianco con un odore simile a quello dei ravanelli e che conferiva un colore rosso all’acido solforico, inoltre quando questa soluzione veniva diluita con acqua si formava un precipitato nero. Tuttavia non fu in grado di identificare il metallo, e gli attribuì il nome di aurum paradoxium (oro paradosso) o metallum problematicum (metallo problematico), perché non presentava le proprietà dell’antimonio.

Franz-Joseph Müller von Reichenstein

Nel 1789, uno scienziato ungherese, Pál Kitaibel[4], scoprì l’elemento indipendentemente, in un minerale scoperto a Deutsch-Pilsen (oggi Nagybörzsöny in Ungheria) che era stato considerato molibdenite argentifera, ma in seguito diede il merito a Müller.

Nel 1798 il nome tellurium gli fu dato da Martin Heinrich Klaproth[5], che in precedenza lo aveva isolato dal minerale calaverite. Klaproth accreditò comunque Müller per la scoperta.

Proprietà fisiche

Il tellurio possiede due forme allotropiche, cristallina e amorfa. Nella prima è bianco-argenteo con lucentezza metallica.

Tellurio cristalli in un flaconcino

È un semimetallo fragile e facilmente polverizzabile. In forma amorfa si presenta come polvere marrone-nera preparabile precipitandola da una soluzione di acido telluroso o tellurico (Te(OH)6). Il tellurio è un semiconduttore che mostra una maggiore conduttività elettrica in determinate direzioni secondo l’allineamento atomico; la conduttività aumenta leggermente quando esposto alla luce (fotoconduttività). Allo stato fuso, il tellurio è corrosivo per rame, ferro e acciaio inossidabile. Fra i calcogeni, il tellurio ha i punti di fusione e di ebollizione più alti, rispettivamente 449,51 e 987,85 oC.

Il tellurio presente in natura ha otto isotopi. Sei di questi isotopi sono stabili, gli altri due, 128Te e 130Te, si sono rivelati leggermente radioattivi, con emivite estremamente lunghe, rispettivamente 2,2 ×1024 e 7,9×1020 anni. L’emivita di 128Te è la più lunga conosciuta fra tutti i radionuclidi. Gli isotopi stabili costituiscono solo il 33,2% del tellurio naturale.

Sono noti ben 31 radioisotopi artificiali di tellurio, con masse atomiche che vanno da 104 a 142, con emivite di 19 giorni o meno.

Proprietà chimiche

Il tellurio presenta gli stati di ossidazione −2, +2, +4 e +6, essendo +4 il più comune.

Nello stato −2 forma tellururi, composti binari con molti metalli come ad es. il tellururo di zinco, ZnTe, prodotto riscaldando il tellurio con lo zinco. ZnTe si decompone reagendo con acido cloridrico sviluppando tellururo di idrogeno (H2Te), analogamente agli idruri degli altri calcogeni, H2O, H2S e H2Se, tuttavia, al contrario di questi H2Te è altamente instabile.

Allo stato di ossidazione +2 forma dialogenuri con gli alogeni, TeCl2, TeBr2 e TeI2, che però non sono stati ottenuti in forma pura perché si decompongono per dare ioni che formare tetraalotellurati ben caratterizzati:

TeX2 + 2X → TeX42−, dove X = Cl, Br, I.

Questi anioni hanno geometrie planari quadrate. Esistono anche specie anioniche polinucleari.

Il fluoro forma due alogenuri con tellurio: Te2F4 a valenza mista e TeF6 con numero di ossidazione +6. Nello stato di ossidazione +6, si riscontrano gruppi strutturali –OTeF5 in alcuni composti, come ad es. HOTeF5 e B(OTeF5)3. Gli altri alogeni non formano alogenuri con tellurio nello stato di ossidazione +6, ma solo tetraalidi (TeCl4, TeBr4 e TeI4) nello stato +4.

Nello stato di ossidazione +4, sono noti anioni clorotellurati, come TeCl62− e Te2Cl102-.

Il monossido di tellurio fu riportato per la prima volta nel 1883 come un solido amorfo nero formatosi dalla decomposizione termica di TeSO3 nel vuoto, sproporzionandosi poi in diossido di tellurio, TeO2 e tellurio elementare per riscaldamento. L’esistenza di TeO, tuttavia, fu messa in dubbio e contestata, sebbene il composto fosse noto in fase vapore.

Il diossido di tellurio TeO2 si forma riscaldando il tellurio nell’aria, dove brucia con una fiamma blu.

Diossido di tellurio in polvere

Gli ossidi di tellurio e gli ossidi idrati formano una serie di acidi, incluso l’acido tellurico (H2TeO3), acido ortotellurico (Te(OH)6) e acido metatellurico ((H2TeO4)n). Le due forme di acido tellurico formano sali ben caratterizzati.

Quando il tellurio viene trattato con acido solforico concentrato, il risultato è una soluzione rossa contenente lo ione Te2+4, chiamato zintl.

Composti organotellurici

Il tellurio non forma facilmente telluroli, contenenti il gruppo funzionale –TeH analogo a quello di alcoli e tioli. Al gruppo funzionale –TeH è attribuito il prefisso tellanyl-. Come H2Te, queste specie sono instabili. I telluroeteri (R–Te–R) sono invece più stabili.

Estrazione e produzione

La principale fonte di tellurio proviene dai fanghi anodici della raffinazione elettrolitica del rame ottenuto dalla weissite, un minerale metallico costituito principalmente da rame e tellurio[6], oltre a impurezze di oro e argento.

I fanghi dell’anodo contengono seleniuri e tellururi di diversi metalli in composti con formula M2Se o M2Te (M = Cu, Ag, Au). Alla temperatura di 500°C i fanghi anodici vengono arrostiti con carbonato di sodio in presenza di aria. Gli ioni metallici sono ridotti a metalli, mentre il tellurio è convertito in tellurito di sodio:

M2Te + O2 + Na2CO3 → Na2TeO3 + 2M + CO2

Il tellurito viene lisciviato dalla miscela con acqua ed è presente in soluzione come ione idrotellurito HTeO3. L’idrotellurito è convertito in diossido di tellurio, TeO2, insolubile, mediante acido solforico:

HTeO3 + OH + H2SO4 → TeO2 + SO42− + 2H2O

Il metallo viene infine ottenuto dal diossido mediante elettrolisi o per riduzione facendolo reagire con anidride solforosa in acido solforico.

I principali produttori di tellurio sono: Stati Uniti (40%), Perù (30%), Giappone (20%) e Canada (10%).

Produzione mondiale di tellurio (2006)

Principali applicazioni

Piccole quantità di tellurio sono impiegate nell’industria metallurgica, in particolare del ferro, acciaio inossidabile, rame e leghe di piombo. L’aggiunta di tellurio all’acciaio e al rame produce una lega più lavorabile. Questa lega serve inoltre a favorire il raffreddamento negli spettrometri di emissione ad arco (Arc (Spark) Emission Spectrometers), dove la presenza di grafite elettricamente conduttiva tende a interferire con i risultati spettroscopici. Nelle leghe al piombo, il tellurio migliora resistenza e durata e diminuisce l’azione corrosiva dell’acido solforico.

Oggi il principale uso del tellurio è nell’industria dei semiconduttori e dell’elettronica, utilizzato nei pannelli solari (PV) al tellururo di cadmio (CdTe). I test di laboratorio del National Renewable Energy Laboratory (USA) hanno mostrato una maggior efficienza dei generatori di energia elettrica alimentati da questi pannelli. Ne è seguita una massiccia produzione commerciale di pannelli solari al CdTe, che ha fatto aumentare significativamente la domanda di tellurio.

Schiera di pannelli solari al CdTe

Sostituendo parte del cadmio in CdTe con lo zinco, producendo (Cd, Zn)Te, si ottiene un rilevatore di raggi X allo stato solido, che fornisce un’alternativa agli usuali dosimetri monouso.

Il materiale semiconduttore sensibile agli infrarossi è una lega di tellurio con cadmio e mercurio (tellururo di cadmio mercurio).

Il monossido (subossido) di tellurio, composto transiente, è utilizzato nello strato multicomponente di dischi ottici riscrivibili, tra cui CD-RW (ReWritable Compact Disc), DVD-RW (ReWritable Digital Video Disc) e ReWritable Blu-ray Disc.

Il diossido di tellurio è utilizzato nei modulatori acusto-ottici (AOTF e AOBS) per la microscopia confocale.

Il tellurio è utilizzato nei nuovi chip di memoria a cambiamento di fase sviluppati da Intel. Il tellururo di bismuto (Bi2Te3) e il tellururo di piombo sono usati negli elementi di funzionamento dei dispositivi termoelettrici. Il tellururo di piombo è utilizzato anche nei rivelatori del lontano infrarosso.

Ruolo biologico

Il tellurio non ha alcuna funzione biologica nota, sebbene i funghi possano incorporarlo al posto dello zolfo e del selenio in amminoacidi come la telluro-cisteina e la telluro-metionina. Gli organismi hanno mostrato una tolleranza molto variabile nei confronti dei composti del tellurio. Molti batteri, come lo Pseudomonas aeruginosa, assorbono la tellurite e la riducono in tellurio elementare, che si accumula e provoca una riduzione caratteristica e spesso drammatica delle cellule. Nel lievito questa riduzione è mediata dal percorso di assimilazione dei solfati. L’accumulo di tellurio sembra spiegare gran parte degli effetti tossici. Molti organismi metabolizzano anche il tellurio in parte per formare dimetil tellururo. A concentrazioni molto basse il dimetil tellururo è stato osservato anche in sorgenti calde.

Tossicologia e precauzioni

Il tellurio e i suoi composti sono considerati moderatamente tossici e devono essere maneggiati con cura, sebbene l’avvelenamento acuto sia raro. L’avvelenamento da tellurio è particolarmente difficile da trattare poiché molti agenti chelanti utilizzati nel trattamento dell’avvelenamento da altri metalli aumentano la tossicità del tellurio. Non sembra che il tellurio sia cancerogeno.

Gli esseri umani esposti a un minimo di 0,01 mg/m3 nell’aria emanano un cattivo odore simile all’aglio noto come “alito di tellurio”. Ciò è causato dal metabolismo che converte il tellurio da qualsiasi stato di ossidazione a dimetil tellururo, (CH3)2Te, composto volatile con un odore agliaceo. Anche se le vie metaboliche del tellurio non sono note, si presume generalmente che assomiglino a quelle del più ampiamente studiato selenio, perché i prodotti metabolici metilati finali dei due elementi sono simili.

Le persone possono essere esposte al tellurio sul posto di lavoro per inalazione, ingestione, contatto con la pelle e con gli occhi. L’Amministrazione per la sicurezza e la salute sul lavoro USA ha stabilito il limite di esposizione ammissibile del tellurio sul luogo di lavoro a 0,1 mg /m3 in un giorno lavorativo di otto ore.

Riciclaggio

Il tellurio degli scarti dei prodotti dell’industria metallurgica viene recuperato dai fanghi anodici che si ottengono da questi residui. Più importante è il recupero di cadmio e tellurio dai pannelli fotovoltaici esausti, generatori termoelettrici e dispositivi elettronici. Soprattutto è fondamentale il recupero del tellurio, causa la sua scarsità e la richiesta in aumento.

Nel 2006, V. Fthenakis e collaboratori, del Brookhaven National Laboratory e della Columbia University, NY (USA) hanno proposto un metodo idrometallurgico per recuperare questi metalli dai PV [1]. Il procedimento consiste in una iniziale frantumazione dei pannelli in frammenti, in seguito sottoposti a un trattamento idrometallurgico coinvolgente lisciviazione, separazione per scambio ionico, precipitazione ed elettroraffinazione. Soluzioni di acido solforico a bassa concentrazione si sono dimostrate efficaci nella separazione totale di cadmio e tellurio dalla matrice di vetro. Sono poi state usate colonne a scambio ionico in serie per separare rame e tellurio dal cadmio in soluzione. Successivamente Cd e Te sono stati isolati dalle corrispondenti soluzioni per elettroraffinazione e precipitazione reattiva rispettivamente. L’elettroraffinazione ha prodotto lastrine di cadmio di purezza 99%. La precipitazione del tellurio in forma metallica è stata ottenuta utilizzando vari agenti riducenti.

Più recentemente, nel 2014, W.D. Bonificio e D.R. Clarke, Università di Cambridge, MA (USA), notando che gli attuali metodi di riciclaggio sono poco efficienti e impiegano prodotti chimici tossici, hanno proposto un’alternativa batterica per il recupero del tellurio da scarti fotovoltaici (tellururo di cadmio, CdTe) e termoelettrici (tellururo di bismuto, Bi2Te3) [2]. Essi hanno mostrato che il ceppo EPR3 del batterio Pseudoalteromonas sp. può convertire i composti del tellurio da un’ampia varietà in ​​tellurio metallico o specie gassose di tellurio. Sperimentalmente, i due ricercatori hanno ottenuto questo risultato incubando le fonti di tellurio con il ceppo EPR3 sia in mezzi liquidi che solidi. Secondo Bonificio e Clarke il loro studio approfondisce la conoscenza dei processi batterici e ha implicazioni importanti per il riciclaggio sostenibile del tellurio[7].

Ciclo biogeochimico

È probabile che il ciclo biogeochimico di questo raro elemento sia simile o accompagni quello del selenio, presente in quantità dieci volte maggiore nella crosta terrestre, di cui parleremo in un prossimo post.

Opere consultate

CRC, Handbook of Chemistry and Physics, 85th, 4-31

https://en.wikipedia.org/wiki/Tellurium

Bibliografia

[1] V. Fthenakis et al. Recycling of CdTe photovoltaic modules: recovery of cadmium and tellurium., 2006 https://www.bnl.gov/pv/files/pdf/abs_192.pdf

[2] W.D. Bonificio, D.R. Clarke, Bacterial recovery and recycling of tellurium from tellurium-containing compounds by Pseudoalteromonas sp.EPR3., Journal of Applied Microbiology, 2014, 117, 1293-1304.

[1] Un tempo era in uso il termine metalloide, oggi considerato obsoleto dalla IUPAC.

[2] Gli elementi del Gruppo 16 della tavola periodica sono chiamati calcogeni. È costituito dagli elementi ossigeno (O), zolfo (S), selenio (Se), tellurio (Te) e dal radioattivo polonio (Po). Questo gruppo è anche noto come la famiglia dell’ossigeno. Tuttavia di norma, l’ossigeno viene escluso del termine “calcogeno”, a causa del suo comportamento chimico molto diverso da zolfo, selenio, tellurio e polonio. La parola “calcogeno” deriva dalla combinazione della parola greca khalkόs che significa principalmente rame (il termine usato anche per bronzo e ottone), e dalla latinizzata genēs, che significa nato o prodotto

[3]Franz-Joseph Müller von Reichenstein (1740/1742 – 1825/1826) è stato un mineralogista e ingegnere minerario austriaco. Müller ricoprì diversi incarichi nell’amministrazione imperiale asburgica delle miniere e del conio in Transilvania e in Tirolo. Durante il suo periodo in Transilvania scoprì il tellurio nel 1878.

[4] Pál Kitaibel (1757 – 1817) è stato un botanico e chimico ungherese. Nel 1794 divenne professore e insegnò queste materie a Pest. Oltre a studiare la flora e l’idrografia dell’Ungheria, nel 1789 scoprì l’elemento tellurio, ma in seguito diede il merito a Franz-Joseph Müller von Reichenstein che lo aveva scoperto nel 1783.

[5] Martin Heinrich Klaproth (1743-1817) è stato un farmacista e chimico tedesco. Dopo il lavoro nella sua importante farmacia si trasferì all’università. Klaproth è stato un importante sistematizzatore della chimica analitica, inventore indipendente dell’analisi gravimetrica. Fu una figura di spicco nel comprendere la composizione dei minerali e caratterizzare gli elementi. Klaproth scoprì l’uranio (1789) e lo zirconio (1789). Fu anche coinvolto nella scoperta o nella riscoperta di titanio (1792), stronzio (1793), cerio (1803) e cromo (1797), e confermò le precedenti scoperte di tellurio (1798) e berillio (1798).

[6] http://www.handbookofmineralogy.com/pdfs/weissite.pdf

[7] NdR. Personalmente starei molto attento con i batteri, potrebbero mutarsi in una specie divoratrice dei manufatti contenenti composti di tellurio…

La penna a sfera e il suo inventore, Laszlo Biro

Rinaldo Cervellati

La penna a sfera, comunemente nota come penna biro, o semplicemente “biro”, è una penna che eroga inchiostro (di solito in forma di pasta) da una punta metallica a forma sferica. Il metallo comunemente usato è acciaio, ottone o carburo di tungsteno. Il modello è stato concepito e sviluppato come un’alternativa più pulita e affidabile alle “cannette” a pennino tuffato nei calamai e alle penne stilografiche, ed è ora lo strumento di scrittura più utilizzato al mondo: ne vengono fabbricati e venduti circa 14 milioni al giorno. L’inchiostro di questa penna di solito penetra attraverso la carta più facilmente rispetto ad altri tipi di penne. Di conseguenza, la biro ha influenzato anche la progettazione grafica dando luogo a un genere di opere d’arte.

Esempio di opera realizzata con penne biro

La penna prodotta dalla Bic ha un posto permanente nella collezione del Museum of Modern Art di New York.

Il concetto di utilizzare una “punta a sfera” all’interno di uno strumento di scrittura come metodo per applicare l’inchiostro sulla carta esisteva fin dalla fine del XIX secolo. In queste invenzioni, l’inchiostro veniva inserito in un tubo sottile la cui estremità era bloccata da una pallina, trattenuta in modo tale da non poter scivolare nel tubo o cadere dalla penna.

Il primo brevetto per una penna a sfera fu rilasciato il 30 ottobre 1888 a John J. Loud[1], che stava tentando di realizzare uno strumento in grado di scrivere su superfici ruvide, come legno, carta da pacchi grossa e altri articoli, che le penne stilografiche non potevano fare. La penna di Loud aveva una piccola sfera d’acciaio rotante, trattenuta da un morsetto. Sebbene potesse essere usata per marcare superfici ruvide come la pelle si rivelò troppo dura per scrivere lettere. Senza fattibilità commerciale, il suo potenziale non fu sfruttato e il brevetto alla fine scadde.

La produzione di penne a sfera economiche e affidabili come quelle odierne sono nate dalla sperimentazione, dalla chimica moderna e dalla capacità di fabbricazione di precisione dell’inizio del XX secolo. I brevetti depositati in tutto il mondo durante i primi sviluppi sono testimoni di tentativi falliti di rendere le penne commercialmente valide e ampiamente disponibili. Le prime penne a sfera non distribuivano uniformemente l’inchiostro; traboccamento e intasamento sono stati tra gli ostacoli che gli inventori hanno dovuto affrontare per sviluppare penne a sfera affidabili. Se la presa sulla sfera era troppo stretta o l’inchiostro troppo spesso, non avrebbe raggiunto la carta. Se la presa era troppo lenta o l’inchiostro fosse troppo sottile, la penna avrebbe avuto perdite o l’inchiostro avrebbe macchiato.

László Bíró, giornalista ungherese, frustrato dalla quantità di tempo che sprecava riempiendo penne stilografiche e ripulendo le pagine macchiate, notò che gli inchiostri utilizzati nella stampa dei giornali si asciugavano rapidamente, lasciando la carta asciutta e senza sbavature. Decise di creare una penna usando un analogo tipo di inchiostro. Bíró chiese l’aiuto di suo fratello György, un chimico, a sviluppare formule di inchiostro viscoso per nuovi modelli di penna a sfera.

L’innovazione di Bíró accoppiò con successo un inchiostro di viscosità giusta con una sferetta metallica e meccanismo a bussola che agivano in modo coordinato per evitare che l’inchiostro si asciugasse all’interno del serbatoio consentendo un flusso controllato. Bíró presentò la sua invenzione alla Fiera Internazionale di Budapest nel 1931 e depositò un brevetto a Parigi nel 1938.

László Bíró

Ma, qual è stata la vita di László Bíró ?

Nacque il 29 settembre 1899 a Budapest, figlio di Mózes Mátyás Schweiger e di Janka, nata Ullmann, entrambi di origine ebraica. Il suo nome di famiglia è in realtà László József Schweiger, successivamente ispanizzato in Ladislao José Biro. Dopo aver intrapreso gli studi medici, il giovane László si interessò di ipnosi, una tecnica che al tempo godeva di grande popolarità, con successo anche economico. László abbandonò gli studi e si dedicò ai lavori più disparati: negli anni venti e trenta fu pilota di automobili, doganiere, agente di borsa, pittore di quadri surrealisti e collaboratore del settimanale Avanti. Nel tempo libero, invece, Bíró si dilettava a progettare e creare congegni insieme al fratello György. Dal sodalizio tra i due fratelli nacquero diverse invenzioni, ad esempio un vetro resistente ad alte temperature, un prototipo di lavatrice, una serratura anti-scassinamento e un cambio meccanico automatico per auto, quest’ultimo venduto nel 1932 alla General Motors.

Nel 1940, i fratelli Bíró e tutta la famiglia fuggirono dalla Francia occupata per evitare le persecuzioni naziste e si rifugiarono prima in Spagna e poi in Argentina, dove László ottenne la cittadinanza e vi restò per tutta la vita. In Argentina, insieme a Juan Jorge Meyne, formarono la “Bíró Pens of Argentina”, producendo un nuovo modello di penna a sfera e depositando il brevetto nel 1943. La loro penna fu venduta in Argentina come “Birome” (acronimo dei nomi Bíró e Meyne).

Pubblicità della Birome

I costi di produzione erano però piuttosto elevati e la penna a sfera risultava essere un prodotto d’élite. Le pionieristiche intuizioni di Bíró, infatti, non furono seguite da un successo industriale e commerciale. Il nuovo modello fu concesso in licenza all’inglese Henry Martin, che produsse penne a sfera chiamandole “biro” per gli equipaggi della RAF. Le penne a sfera risultavano infatti più versatili delle penne stilografiche, specialmente ad alta quota, dove queste ultime erano soggette a perdite di inchiostro.

Disilluso dallo scarso successo del suo prodotto in Argentina, László Bíró vendette il brevetto a Marcel Bich[2], un industriale piemontese naturalizzato francese. Bich ideò un modello di penna pratico ed economico, utilizzando materiali meno costosi e facilitando il passaggio dell’inchiostro dal tubo alla sfera, riuscendo a produrre una penna abbattendo i costi del 90% e avviando la sua produzione in serie. Togliendo la “h” finale del suo nome, a partire dal dicembre 1950 la Société Bic commercializzò la prima penna a sfera in Europa (la penna, chiamata BIC Crystal, costava cinquanta centesimi di franco). Alla fine degli anni cinquanta, Bic deteneva il 70% del mercato europeo. Negli USA la penna di Bíró non era stata brevettata e diverse industrie (Parker, Sheaffer e Waterman) cominciarono a far concorrenza alla penna europea, ma la Société Bic acquistò il 60% delle penne Waterman nel 1958 arrivando al 100% nel 1960. La penna Bic fu quindi commercializzata in tutto il mondo, con uno sfolgorante successo.

Penne a sfera Bic nei 4 colori principali

Bíró, a causa della sua incapacità di gestione imprenditoriale, a differenza di Bich non si arricchì con i guadagni della sua invenzione, e da quel momento in poi condusse una vita modesta. Continuò a dipingere e a progettare nuove invenzioni. Lavorò dapprima per un’altra azienda argentina produttrice di penne a sfera, fondata da un vecchio fornitore della “Bíró Pens of Argentina”, e poi al servizio del governo argentino per conto del quale studiò l’uranio arricchito. Si spense, infine, a Buenos Aires il 24 ottobre 1985. In Argentina si festeggia la «giornata degli inventori» il 29 settembre, giorno della nascita di Biro, gli è stato inoltre dedicato un asteroide (Il 327512) Biro, scoperto nel 2006.

L’inchiostro della penna a sfera è normalmente una pasta contenente circa il 25-40% di colorante. I coloranti sono sospesi in un solvente organico. I solventi più comuni sono l’alcol benzilico o il fenossietanolo, che si mescolano ai coloranti per ottenere una pasta liscia che asciuga rapidamente. I coloranti utilizzati nelle penne a sfera blu e nere sono coloranti a base di triarilmetano e coloranti acidi derivati da composti diazoici o ftalocianina. I coloranti comuni con inchiostro blu (e nero) sono il blu di Prussia, il blu di Victoria, il viola di metile, il viola di cristallo e il blu di ftalocianina. Il colorante eosina è comunemente usato per l’inchiostro rosso.

BIC continua a dominare il mercato anche nel 21° secolo. Parker, Sheaffer e Waterman hanno un piccolo mercato esclusivo di stilografiche e costose penne a sfera. La versione moderna molto popolare della penna di Laszlo Biro, la BIC Crystal, ha un fatturato giornaliero di 14 milioni di pezzi in tutto il mondo. Biro è ancora il nome generico per la penna a sfera usata nella maggior parte del mondo.

Opere consultate

https://en.wikipedia.org/wiki/Ballpoint_pen

https://en.wikipedia.org/wiki/L%C3%A1szl%C3%B3_B%C3%ADr%C3%B3

https://it.wikipedia.org/wiki/L%C3%A1szl%C3%B3_B%C3%ADr%C3%B3

La storia di Ladislao José Biro, inventore della penna a sfera

https://www.ilpost.it/2016/09/29/ladislao-jose-biro/

Inventor Laszlo Biro and the Battle of the Ballpoint Pens

https://www.thoughtco.com/ballpoint-pens-laszlo-biro-4078959

[1] John Jacob Loud (1844 – 1916), statunitense, è stato un inventore noto per aver progettato il primo tipo di penna a sfera.

[2] Marcel Bich (1914 – 1994) è stato un imprenditore italiano nato a Torino, naturalizzato francese nel 1930. La sua capacità imprenditoriale spaziò dalla penna a sfera ad accendini, rasoi, calze e collant, windsurf e barche a vela.

I miei primi trent’anni di depurazione

Mauro Icardi

Marzo 2020. Festeggio il traguardo di trent’anni di attività nel settore della depurazione e più ampiamente nel settore della gestione del ciclo idrico. Il bilancio dell’attività di lavoro è ampiamente positivo. Trent’anni significano un discreto bagaglio di conoscenze ed esperienze. Come ho sempre scritto sulle pagine di questo blog, ritengo indispensabile l’attività di formazione continua. Questo perché praticamente in quasi tutti i settori lavorativi le tecnologie cambiano e si modificano. La tecnica consolidata di trattamento delle acque reflue, cioè la depurazione biologica a fanghi attivi è ormai utilizzata dal 1914, quando gli ingegneri inglesi Edward Arden e William T. Locket presentarono questo tipo di tecnologia alla Società inglese di chimica industriale.

Gli inglesi insieme ai francesi ,furono i pionieri di questa tecnica, che permise di risolvere gravi problemi di salute pubblica in città in crescita tumultuosa come Londra e Parigi. La depurazione delle acque moderna è un settore che coinvolge diverse categorie di tecnici e ricercatori. Biologi, Chimici Industriali, Ingegneri sanitari e ambientali. La tecnologia di depurazione a fanghi attivi che è un invenzione sconosciuta ai più, adesso necessita dell’ausilio di altre tecniche che possano essere utilizzate a supporto. Questo perché le nostre acque, sia superficiali che residuali, sono ogni anno di più minacciate da nuove molecole, da nuovi inquinanti che hanno diminuito la funzionalità degli impianti di depurazione esistenti. Il problema non è recentissimo, basti pensare ad esempio alla questione dei tensioattivi, che risale agli anni 70. Il massiccio uso di detersivi sintetici, in sostituzione dei normali saponi che funzionavano meno bene quando venivano utilizzati in acque con grado di durezza particolarmente elevata, riempì i corsi dei principali fiumi italiani di coltri di schiume.

Quando si iniziarono a produrre detergenti totalmente sintetici dopo la seconda guerra mondiale si utilizzò il propilene come materia prima per produrli. Il propilene era un sottoprodotto abbondante e quindi economico dell’industria petrolifera. La reazione di solfonazione del propilene per produrre olefine come materia prima per i detergenti non funzionava però troppo bene (il gruppo solfonato è uno dei solubilizzanti utilizzati nella formulazione dei tensioattivi anionici) .  Produceva una miscela di olefine di difficile utilizzo. Quindi si pensò di utilizzare il benzene come materia prima e di solfonare l’anello benzenico. Le molecole aromatiche come il benzene fanno parte di quel gruppo di molecole chiamate “recalcitranti” alla degradazione da parte dei microrganismi, che non riescono a servirsene come fonte di carbonio per il loro metabolismo. Quando il problema delle schiume allarmò sia le autorità, che la pubblica opinione venne imposto per legge che i tensioattivi fossero resi biodegradabili. In realtà la dicitura fu biodegradabile all’80%, e negli anni 70 ricordo che negli spot di Carosello ne sentivo spesso parlare.

Nella formulazione dei tensioattivi i gruppi aromatici vennero sostituiti, in tutto o parzialmente da gruppi alifatici lineari più “appetibili” per i microrganismi. Negli stessi anni in Italia venne promulgata la legge 319/76 detta “Legge Merli” che ancora oggi viene ricordata, per l’impatto che ebbe a livello sociale, essendo la prima legge ad imporre dei limiti allo scarico per le attività produttive che recapitavano i reflui di depurazione in fognatura pubblica, sia per gli impianti di depurazione centralizzati che si cominciarono a costruire in maniera diffusa, anche se alcuni erano già stati realizzati anche molti anni prima.

Questa legge ebbe però il merito di iniziare un percorso ancora in essere, nel quale si punta a dare regole unitarie, ad imporre limiti via via più restrittivi e regole condivise anche a livello europeo. I nuovi inquinanti che da diversi anni sono venuti alla ribalta (metaboliti di farmaci e droghe, molecole come i PFAS di nulla biodegradabilità), impongono riflessioni e sforzi che non possono né essere procrastinati, né sottovalutati. Questo non è l’unico problema da affrontare. Esiste un problema di modifica del regime delle precipitazioni in Italia come nell’intero pianeta, a causa del riscaldamento globale, (non uso il termine cambiamento climatico, perché potrebbe indurre qualcuno a pensare che non vi sia una responsabilità diretta legata allo smodato uso dei combustibili fossili.) La comunità scientifica è concorde sul fatto che il nostro modo di stare sul pianeta vada nella direzione opposta a quello che le leggi fisiche ci impongono. L’acqua è distribuita in maniera ineguale. Depurarla richiede tecniche nuove e quindi investimenti che devono essere coordinati. L’acqua è un bene comune, su questo sono completamente d’accordo. Fatta questa affermazione di principio, ritengo che dobbiamo educare ed educarci ad averne cura e rispetto. La demagogia, le fake news sono un altro problema sottovalutato. Il web è pieno di soggetti che vendono soluzioni miracolistiche come il Dottor Dulcamara dell’Elisir d’Amore di Donizetti. Dopo trent’anni di “militanza chimica” nel settore (il riferimento ovvio è a Primo Levi, il chimico militante per eccellenza), provo ancora un gran senso di fastidio quando leggo pubblicità di sedicenti prodotti miracolosi, per la depurazione dell’acqua. In questo caso dell’acqua di rubinetto. Acque alcaline, ionizzate ed altre amabili sciocchezze. Per conoscere l’acqua cominciamo a studiare la sua molecola. Ripassiamo la chimica. Poi potremo dedicarci ad altri concetti. Microbiologia, principi basilari di idraulica.

A partire da quest’anno l’impianto dove lavoro subirà un profondo intervento di ristrutturazione. Saranno modificati gli areatori della vasca di ossidazione, sarà dotato di tecnologie a membrana, di un trattamento terziario più efficiente. Il laboratorio dove opero sta iniziando la fase di accreditamento. Provo ovviamente una certa soddisfazione. Come cittadino, ancor prima che come addetto a questo servizio. Non posso però non ricordare che i tempi per arrivare a questo risultato sono stati piuttosto lunghi. Ci è voluto un decennio per costituire il gestore unico a livello provinciale. E la critica alla politica è a mio parere doverosa. Per spronare sia la classe politica stessa, che noi cittadini che in fondo ne siamo lo specchio, a mutare atteggiamento. Le polemiche e i litigi da cortile non portano nessun risultato utile e pratico. Di acqua sento parlare da decenni. Non sempre in maniera corretta. Credo sia il momento di avere un atteggiamento decisamente diverso. Non ci dobbiamo preoccupare solo del ciclo idrico. Abbiamo diverse sfide a livello ambientale e di gestione del territorio e dell’ambiente che si devono necessariamente approcciare in maniera molto concreta.

I miei primi trent’anni da chimico della depurazione li ho raggiunti. Non posso che guardare al futuro. C’è ancora molto lavoro da fare. E molta divulgazione, studio e ricerca necessari. Indispensabili.

Sintetizzata la struttura a più alta aromaticità

Rinaldo Cervellati

La notizia è stata riportata da Mark Peplov nel numero del 28 gennaio di Chemical & Engineering News on line (Porphyrin wheel sets record as largest aromatic ring).

La struttura è stata realizzata da un gruppo internazionale di ricercatori coordinati dal prof. Harry L. Anderson nel Dipartimento di Chimica dell’Università di Oxford, UK [1], ed è costituita da un nano anello di circonferenza 16 nm contenente 12 unità di complessi zinco-porfirinici tenuti in posizione da 6 coppie di molecole. Il tutto assomiglia a una ruota di bicicletta (figura 1).

Figura 1

Nel suo stato di ossidazione +6, la molecola ha 162 elettroni π e mostra chiari segni di aromaticità, come hanno mostrato i segnali NMR degli atomi di idrogeno e fluoro presenti sui “raggi” della struttura.

Come noto, le molecole aromatiche come il benzene contengono elettroni π delocalizzati in orbitali a forma di ciambella sopra e sotto l’anello di atomi di carbonio. Questa delocalizzazione produce aromaticità quando l’anello ha 4n+2 elettroni π (regola di Hückel) che stabilizzano la molecola.

Una delle caratteristiche distintive dell’aromaticità è che un campo magnetico esterno può far circolare gli elettroni delocalizzati, creando una corrente ad anello che genera il proprio campo magnetico in miniatura. All’interno di un anello benzenico, questo campo indotto punta nella direzione opposta al campo magnetico esterno; fuori dall’anello, punta nella stessa direzione. In una molecola anti-aromatica, che possiede 4n elettroni π, la corrente dell’anello scorre nella direzione opposta e la magnetizzazione indotta viene invertita.

Il risultato è che i ricercatori possono usare la spettroscopia di risonanza magnetica nucleare (NMR) per valutare l’aromaticità di una molecola perché la magnetizzazione indotta sposta i segnali di determinati nuclei nel suo spettro NMR.

In precedenza, il più grande anello noto per essere aromatico conteneva 62 elettroni π [2]. Poiché si riteneva probabile che molecole più grandi si attorcigliassero in modo da arrestare la delocalizzazione elettronica, Harry L. Anderson e il suo gruppo hanno voluto esplorare se anche anelli più grandi potessero mostrare aromaticità.

Harry L. Anderson

Hanno quindi realizzato una serie di anelli molecolari contenenti complessi zinco-porfirine collegati tra loro da alchini e usato molecole modello per assemblare ogni anello in un cerchio, proprio come il mozzo e i raggi di una ruota di bicicletta. Poi hanno rimosso gli elettroni dalle strutture fino ad arrivare al numero giusto per farle diventare aromatiche o anti-aromatiche[1].

Rainer Herges, un esperto in aromaticità dell’Università di Kiel, ha detto: “Sono sorpreso che a queste dimensioni funzioni ancora, centosessantadue elettroni π sono tanti”.

Il gruppo di Anderson è riuscito anche a trasformare l’anello a 12 gruppi porfirinici in una struttura costituita da due anelli a 6 gruppi collegati fra loro in forma di otto (figura 2).

Figura 2 (dal rif. [1])

I ricercatori hanno pensato che in questa struttura il campo magnetico dovrebbe indurre una corrente in senso orario in un anello e una corrente in senso antiorario nell’altro, annullandosi. Lo spettro NMR ha mostrato che in questa molecola non c’era davvero corrente globale interna, suggerendo che l’aromaticità può essere attivata o disattivata regolarmente cambiando la geometria della molecola.

Il gruppo di Anderson sta già cercando di realizzare anelli aromatici ancora più grandi che potrebbero mostrare insoliti effetti quantistici, causati dall’interferenza tra le funzioni d’onda degli elettroni delocalizzati. A livello micrometrico queste strutture potrebbero trovare applicazioni come componenti nei computer quantistici.

Ma Anderson e i suoi colleghi non sono i soli a spostare in avanti i confini dell’aromaticità. Nello stesso 20 gennaio, Nature Chemistry ha pubblicato un articolo di Jishan Wu e collaboratori, dell’Università Nazionale di Singapore, che riporta un composto simile a una gabbia, mostrando che l’aromaticità non si limita agli anelli [3]. La molecola contiene tre catene di unità tiofeniche inserite tra due carboni testa di ponte, formando tre anelli molecolari collegati (figura 3).

Figura 3 (dal rif. [3])

Il suo stato di ossidazione +6 è aromatico, e il gruppo di Wu ritiene che ciò sia dovuto al fatto che ciascuno dei tre cicli di tiofeni è aromatico, con 34 π-elettroni in ogni singolo circuito.

Entrambe le ricerche dimostrano che le correnti indotte negli anelli aromatici si attivano su una scala di dimensioni molto più grandi di quella di un semplice anello benzenico, ma più piccole di un microscopico anello metallico.

Rainer Herges dichiara: “Si sta estendendo l’aromaticità in questa scala mesoscopica, e sono abbastanza sicuro che si troveranno effetti e applicazioni interessanti.”

Bibliografia

[1] M. Rickhaus et al., Global aromaticity at the nanoscale., Nature Chemistry, 2020, DOI: 10.1038/ s41557-019-0398-3

[2] T. Yoneda et al., [62]Tetradecaphyrin Chemistry A European Journal, 2016, 22, 14518-14522.and Its Mono and Bis ZnII Complexes.,

[3] Yong Ni et al., 3D global aromaticity in a fully conjugated diradicaloid cage at different oxidation states. Nature Chemistry, 2020, DOI: 10.1038/s41557-019-0399-2

[1]L’antiaromaticità è caratteristica di una molecola ciclica con un sistema di elettroni π che ha un’energia maggiore a causa della presenza di elettroni delocalizzati 4n (π o coppia solitaria) in essa. A differenza dei composti aromatici, che seguono la regola di Hückel e sono altamente stabili, i composti antiaromatici sono instabili e molto reattivi. Il termine fu proposto nel 1967 dal chimico statunitense Ronald C.D. Breslow (1931-2017) per indicare “una situazione in cui una delocalizzazione ciclica degli elettroni è destabilizzante”. Un sistema può passare da aromatico ad antiaromatico o viceversa acquistando o perdendo elettroni tramite ad esempio un processo redox.