Non tutto il male vien per nuocere

Luigi Campanella, già Presidente SCI
Aule virtuali più affollate delle tradizionali, lauree via Skype; abilitazione anticipata per i medici: tutte modalità nuove della vita universitaria in difesa dalla pandemia da coronavirus.
Oltre all’interazione diretta telematica fra docenti e discenti si utilizzano anche i MOOC, materiale interattivo scaricato dagli studenti che poi si confrontano con il corpo docente. Questo cambiamenti ha riguardato tutto il nostro Paese con gli Atenei che da Nord a Sud hanno saputo attrezzarsi.
Questa contingenza ha avuto una ricaduta importante per 1000 infermieri che hanno potuto laurearsi a favore della richiesta pressante degli ospedali di disporre di forze lavoro aggiuntive per rispondere all’emergenza.
Si sta sperimentando una nuova forma di comunità universitaria che ci fa scoprire potenzialitá mai viste prima. Il rischio è che Internet finisca per superare e sostituire la forza sociale generata dalla frequentazione fisica degli atenei con la discussione ed il confronto.
Bisogna perciò avere la capacità di integrare l’aula fisica con quella virtuale: questa è la prospettiva futura per raggiungere anche chi non può essere presente fisicamente per un qualsiasi impedimento dando all’università strumenti preziosi di socialitá. La pandemia lascia questa innovazione in ereditá: sta a noi non farla spengere.
Se saremo buoni studenti il covid19 oltre a tanti morti e tanti infettati ci avrà insegnato qualcosa.
Basta vedere anche l’abbattimento dell’inquinamento,la riappropriazione da parte degli animali della natura, la drastica diminuizione del rumore per comprendere quali trasformazioni positive stiamo vivendo in questi giorni oltre la tristezza, il dolore e la preoccupazione.
La visione spaziale della nostra terra ed in particolare del nostro Paese fornisce nelle meteomappe colori sempre più vicini al verde blu e sempre più lontani dal temuto giallo e dal temutissimo rosso. In corrispondenza l’aria della pianura padana è anomalmente trasparente, nelle nostre città sono arrivati gli animali in cerca di cibo: li vediamo passeggiare nel silenzio delle nostre strade dove fino a due mesi fa dominavano il traffico, la confusione, il frastuono.
Nel porto di Cagliari sono ricomparsi i delfini, nei parchi milanesi le lepri, nella laguna di Venezia i pesci che nuotano.
E’recente l’immagine di una famiglia di paperi a passaggio per una Firenze silenziosa e rarefatta.
Lo stesso fenomeno si registra nel resto del mondo: cervi nelle città giapponesi, tacchini nelle città californiane, i procioni sulle spiagge panamensi, perfino elefanti in città cinesi.
Avremo imparato la lezione? Le lepri, i procioni, le papere c’erano pure prima, ma noi abbiamo negato loro qualsiasi spazio al di fuori delle loro tane: vorremo riprenderci gli spazi prestati dimostrando di non avere capito la lezione?
A proposito del prima e del dopo riflettevo alcuni giorni fa alla realtà del prima a confronto di questa fase della nostra vita, pensando anche al dopo. Eravamo immersi in una realtá sempre più fluida con cambiamenti continui, provvisorietà di legami e situazioni, mancanza di certezze e di riferimenti.
Dinnanzi alla precarietà del quotidiano anche noi siamo diventati liquidi, ci siamo adattati ad ogni situazione e contingenza e riciclati in lavori diversi e spesso estemporanei che diluiscono emozioni e sentimenti.
Anche i valori e gli ideali così divengono effimeri ed inconsistenti sovrastati da una scelta verso la flessibilità e la velocità di adattamento; tutto ciò che ci lega alla nostra identità ed alle nostre radici viene considerato un ostacolo al cambiamento ed un fardello di cui liberarsi.
Questo era il prima: non posso credere, anche se mi farebbe piacere pensare che sia vero, che la pandemia abbia rimesso le cose a posto, ma di certo è stato un sano bagno nei valori della solidarietà, dell’amore per la nostra terra, della famiglia, della responsabilità sociale, del lavoro per gli altri. Speriamo anche in questo caso che il dopo non sia uguale al prima.

Ancora coronavirus ed acque di scarico.

Rinaldo Cervellati.

L’amico ed esperto Mauro Icardi ha già affrontato in dettaglio questo argomento sul blog, (https://ilblogdellasci.wordpress.com/2020/04/15/monitoraggio-del-coronavirus-delle-acque-reflue/ ed ancora https://wp.me/p2TDDv-4vU).

Ora anche negli USA arriva la notizia che il virus SARS-CoV-2, responsabile del COVID-19, è stato trovato nelle acque reflue, pertanto l’epidemiologia basata sulle acque reflue potrebbe essere un modo efficace per valutare l’estensione del contagio in una popolazione (Celia H. Arnaud, Novel coronavirus found in surprisingly high levels in sewage, Chem. & Eng. News, 20 aprile 2020).

L’epidemiologia delle acque reflue è comunemente usata per monitorare l’uso di droghe in una comunità, ma può anche fornire informazioni sulla diffusione di un’infezione quando i test vengono opportunamente impiegati. Un gruppo di ricerca, coordinato da Eric J. Alm del Massachusetts Institute of Technology e Biobot Analytics[1] hanno utilizzato la reazione a catena della polimerasi per trascrizione inversa (RT-PCR) per monitorare il virus SARS-CoV-2 nelle acque di un impianto di trattamento delle acque reflue nel Massachusetts.

Eric J. Alm

I ricercatori hanno pubblicato i loro risultati sul server di prestampa medRxiv (2020, DOI: 10.1101/2020.04.05.20051540 [1]), quindi lo studio non è stato ancora sottoposto a revisione (peer review).

Il gruppo di ricerca ha analizzato quattro campioni prelevati antecedentemente al primo caso statunitense noto di COVID-19 e tutti sono risultati negativi per il virus. Per contro, i 10 campioni prelevati tra il 18 marzo e il 25 marzo sono risultati positivi per SARS-CoV-2, a livelli superiori a quelli previsti dai ricercatori in base al numero di casi confermati. Essi hanno usato il sequenziamento diretto del DNA per verificare che i prodotti RT-PCR provenissero effettivamente dal SARS-CoV-2. Ma sono necessarie ulteriori informazioni, come la quantità di virus nelle feci di pazienti positivi nel corso della malattia, per interpretare appieno i risultati.

Kevin Thomas, un epidemiologo dell’Università del Queensland (Australia) afferma “l’analisi delle acque reflue “potrebbe essere utilizzata per stabilire se COVID-19 ha infettato una comunità e valutare il momento in cui la comunità sarà relativamente libera dal virus, l’approccio dovrebbe comunque essere usato in combinazione con test individuali”.

Kevin Thomas e il suo gruppo di ricerca.

Secondo Marianna Mathus, Amministratore Delegato di Biobot, la Compagnia sta ricevendo campioni settimanali da oltre 100 impianti di trattamento negli Stati Uniti.

[1] https://www.medrxiv.org/content/10.1101/2020.04.05.20051540v1

Al link si trova subito l’avviso: Questo articolo è una prestampa e non è stato sottoposto a revisione. Riporta nuove ricerche mediche che devono ancora essere valutate e quindi non dovrebbero essere utilizzate per la pratica clinica.

[1] Biobot Analytics è una Società di epidemiologia delle acque reflue che sta trasformando le sue infrastrutture in osservatorio di sanità pubblica.

Ciclo idrico e coronavirus: qualche informazione in più

Mauro Icardi

L’epidemia di coronavirus sta occupando le prime pagine dei giornali e dei media. Il gran flusso di informazioni a cui siamo sottoposti, gli ancora tanti interrogativi legati a questa situazione, purtroppo possono generare un diffuso senso di incertezza, se non propriamente di ansia.

L’Istituto superiore di Sanità, ha pubblicato sul proprio sito alcuni rapporti tecnici, che possono aiutare a comprendere la situazione. L’iniziativa certamente opportuna può essere un argine al consueto dilagare di inesattezze e fake news.

Flusso dei patogeni potenziali nel ciclo idrico integrato.

Un semplice schema a blocchi del ciclo idrico è questo:

1 Le acque destinate al consumo umano vengono sottoposte ad una serie di processi di trattamenti fisico-chimici per rimuovere i contaminanti, compresi i virus potenzialmente presenti in captazione. L’analisi di rischio effettuata secondo il modello “Water safety plan” esamina preventivamente gli eventi pericolosi e i pericoli in ogni fase del trattamento.

2 Dopo l’utilizzo per gli usi domestici consueti, i virus escreti con feci, urine, vomito, saliva o secrezioni respiratorie entrano nel sistema fognario.

3 I virus vengono trasportati attraverso il sistema fognario verso l’impianto di trattamento delle acque reflue, dove l’esposizione attraverso aerosol è limitata a operatori professionali adeguatamente protetti attraverso dispositivi di protezione individuale (DPI). C) I virus che entrano nell’impianto di depurazione vengono generalmente inattivati dai processi di trattamento fisici, biologici

4 I trattamenti delle acque reflue generano fanghi di depurazione che vengono smaltiti nel rispetto delle normative vigenti. L’esposizione in fase di gestione e movimentazione fanghi è limitata a operatori professionali protetti.

I virus trasmissibili per via idrica sono principalmente virus e che sono stati rilevati, monitorati e studiati in passato, e sono quelli del genere Adenovirus, Enterovirus , Virus dell’epatite (di solito di tipo A e B).

Negli ultimi decenni, l’attenzione si è rivolta anche ai virus, responsabili prevalentemente di malattie respiratorie. Questi virus, al contrario dei virus “nudi”, presentano un involucro esterno, composto da un doppio strato di fosfolipidi e glicoproteine. I due gruppi principali di virus che potrebbero rappresentare motivo di preoccupazione per il ciclo idrico integrato appartengono alle famiglie Orthomyxoviridae (virus dell’influenza) e Coronaviridae (SARS e MERS coronavirus).

Per questo tipo di virus non vi sono ad oggi evidenze di una trasmissione per via idrica. Ne è però accertata e dimostrata la presenza nelle feci, urine ed escreti dei pazienti con infezione.

La sopravvivenza di questi tipi di virus con rivestimento esterno, è significativamente inferiore rispetto ai virus non provvisti di rivestimento esterno ( i cosiddetti virus “nudi”).

Al momento non esistono ancora dati specifici sulla sopravvivenza del virus SARS-CoV-2 nelle acque, ma l’ipotesi è che il virus possa disattivarsi in tempi significativamente più rapidi rispetto ai virus enterici a tipica trasmissione idrica. Questi ultimi da sempre sono adeguatamente gestiti nell’ambito della filiera dell’intero ciclo idrico. Studi per valutare la reale sopravvivenza del virus nelle acque reflue, sono in fase di attivazione proprio in questi giorni.

In base agli studi effettuati sul SARS-CoV , responsabile dell’epidemia di SARS del 2003 ,si è visto che questi tipi di virus restavano infettivi fino a 2 giorni a temperatura ambiente (20°C) nei reflui urbani, nei reflui ospedalieri e nell’acqua di rubinetto declorata, mentre potevano persistere fino a 14 giorni in queste matrici a 4°C. Ciò porta a considerare che la temperatura possa avere un ruolo significativo sulla stabilità del virus negli ambienti idrici.

Considerazioni generali e tecniche.

I regolamenti dei servizi idrici integrati prevedono che le acque provenienti da ospedali e case di cura siano generalmente sottoposte, su indicazione delle Autorità competenti, ad adeguati trattamenti preliminari prima di confluire in fognatura per evitare il diffondersi di eventuali patogeni.

Quando il virus è collettato in impianti di depurazione centralizzati, subisce normalmente fenomeni di competitività tramite antagonismo con gli altri microrganismi presenti nel fango attivo.

Alcuni studi riportano inoltre in che misura il SARS-CoV-1 è suscettibile ai disinfettanti (cloro e biossido di cloro) che si dimostrano in grado di disattivare completamente il virus a concentrazione e in tempi inferiori (es. 10 mg/L di cloro per 10 minuti; cloro libero residuo 0,5 mg/L) a quelli richiesti per abbattere le concentrazioni dei tradizionali indicatori batterici di contaminazione fecale (Escherichia coli), utilizzati per la valutazione della qualità microbiologica delle acque secondo le normative attualmente in vigore. Quindi il trattamento di disinfezione terziario è adatto ad eliminare il virus.

Relativamente al trattamento dei fanghi per essere ritenuto efficace deve garantire una sostanziale riduzione di densità dei patogeni presenti e l’assenza di fenomeni di ricrescita microbica. La riduzione microbica conseguita dal trattamento dipende da fattori di processo quali la temperatura, disponibilità di acqua libera e il pH. Per i virus, i fattori che maggiormente influenzano la sopravvivenza sono l’esposizione al calore, il livello di disidratazione, l’antagonismo microbico, l’irraggiamento e il pH. Pertanto, per l’inattivazione del materiale virale infetto, sono particolarmente efficaci trattamenti quali la digestione termofila, la pastorizzazione, il trattamento con calce, il trattamento termico.

Su questa strada si stanno muovendo molte delle aziende di gestione del ciclo idrico. Su questo blog se ne è parlato molto.

Considerazioni conclusive.

In base alle conoscenze disponibili si può ragionevolmente supporre che il ciclo idrico sia in grado di continuare a fornire acqua di qualità, a depurare efficacemente le acque reflue, e a minimizzare i rischi di probabile diffusione del virus. Sostanzialmente utilizzando al meglio le tecnologie esistenti, e implementando i piani di sicurezza delle acque, in costante coordinamento con le autorità preposte, tra cui proprio l’istituto superiore di sanità.

Lo stesso Istituto nelle conclusioni del suo rapporto tecnico dedicato alle acque destinate al consumo umano, sintetizza alcune criticità e propone valutazioni, che a suo tempo avevo già sottolineato nei miei articoli. Dico questo non per un malinteso senso di superbia, ma semplicemente perché questo tipo di valutazioni mi nascono dall’esperienza di lavoro.

Per questa ragione voglio riportare integralmente queste conclusioni dal rapporto tecnico dell’Istituto Superiore di Sanità, evidenziando i temi che ritengo prioritari. Non solo per la gestione dell’emergenza odierna, ma anche per la gestione ordinaria del futuro. Con l’intento anche di fornire delle informazioni a chi non è del mestiere. La gestione del ciclo idrico è definita attività di pubblico servizio, non interrompibile. Fornire informazioni fa parte dei doveri di chi svolge questo lavoro.

Conclusioni

Sulla base delle evidenze attualmente disponibili in merito alle condizioni di emergenza dovute alla diffusione del virus SARS-CoV-2, acqua e servizi igienico-sanitari possono essere desunti alcuni elementi conclusivi, da aggiornare comunque sulla base dell’evoluzione dello stato delle conoscenze:

Per quanto attualmente noto, le acque destinate a consumo umano sono sicure rispetto ai rischi di trasmissione di COVID-19, sulla base delle evidenze note per virus maggiormente resistenti del SARS-CoV-2, e delle misure di controllo multibarriera (protezione delle risorse idriche captate, trattamento delle acque, disinfezione, monitoraggio e sorveglianza) validate nella filiera idro-potabile. Il virus non è mai stato ad oggi rilevato in acque destinate al consumo umano.

Nell’ambito della filiera idro-potabile esistono tuttavia alcuni rischi indirettamente correlati all’emergenza pandemica e al lockdown che potrebbero avere un impatto sulla qualità dell’acqua e la continuità dell’approvvigionamento e dovrebbero essere affrontati aggiornando i modelli di prevenzione dei piani di sicurezza dell’acqua da parte dei gestori e delle autorità di prevenzione e controllo. Alcune di queste misure di prevenzione sono applicabili anche agli altri sistemi del ciclo idrico integrato, in particolare per fognatura e depurazione. Di particolare criticità sono gli incrementi dei consumi locali che, in sinergia con la straordinaria siccità in corso che sta compromettendo la ricarica di molti acquiferi, può configurare restrizioni di approvvigionamento idrico e turnazioni di servizio in alcune aree con impatti anche sanitari, soprattutto con il perdurare del lockdown.

Virus in forma infettiva è stato rivelato nelle feci di pazienti di COVID-19. In considerazione delle evidenze epidemiologiche occorse per il SARS-CoV (2003), un rischio di trasmissione fecale-orale, può sussistere in circostanze in cui le reti di fognatura siano inadeguate e, soprattutto, in possibile connessione con sistemi a rischio di dispersione di aerosol. Rischi specifici si potrebbero ravvisare in particolare in condizioni di pompaggio e spurgo di reflui, quando si configura esposizione di soggetti diversi dagli operatori professionali, come pure in circostanze in cui le reti di acque reflue possano contaminare l’acqua potabile, ad esempio, per rotture delle tubature. Gli eventi di rotture, soprattutto in reti non in pressione, risultano particolarmente critici e devono essere rapidamente intercettati (anche grazie alla “distrettualizzazione” delle reti) e gestiti in sicurezza, anche con aumenti dei trattamenti di disinfezione, ove necessario.

Le correnti pratiche di depurazione sono efficaci nell’inattivazione del virus, dati i tempi di ritenzione che caratterizzano i trattamenti, uniti a condizioni ambientali che pregiudicano la vitalità dei virus (luce solare, livelli di pH elevati, attività biologica). La fase finale di disinfezione consente inoltre di ottimizzare le condizioni di rimozione integrale dei virus prima che le acque depurate siano rilasciate nell’ambiente. Disposizioni specifiche sono state anche elaborate per la gestione dei fanghi di depurazione nell’ambito della fase emergenziale di pandemia.

Le disposizioni e le pratiche correnti rispetto alla protezione per l’esposizione sia degli operatori dei servizi di gestione del ciclo idrico integrato che per la sorveglianza sono adeguati anche rispetto ai possibili rischi infettivi per COVID-19.

In conclusione, l’analisi di rischio di esposizione a SARS-CoV-2 attraverso l’acqua e i servizi igienici indica che sussistono allo stato attuale elevati livelli di protezione della salute.

Tuttavia, analogamente a quanto si osserva per la contaminazione dovuta a altri agenti chimici e patogeni, gli eventi pericolosi critici correlati alla possibile diffusione dell’infezione COVID-19 attraverso l’esposizione a matrici idriche (acque reflue, acque superficiali usate per la balneazione o per fini irrigui, approvvigionamenti idrici autonomi) vanno individuati nelle circostanze di mancanza o inefficienza dei servizi di depurazione che potrebbero comportare la diffusione di SARS-CoV-2 nell’ambiente.

Le autorità di sorveglianza dovranno quindi incentrare ogni attenzione sulla possibile esistenza di emissioni e scarichi illeciti di reflui da abitazioni e nuclei urbani.

La mia conclusione personale è questa: ho scritto decine di volte che occorreva vedere i problemi in un’ottica complessiva. Che era necessario avere coscienza dei problemi interconnessi nella gestione dell’acqua. Problemi ambientali e di scarsità. Problemi di approccio per quanto possibile affrontati con razionalità e criterio. Non è noto sapere quanto tempo impiegheremo ad uscire dalla fase acuta dell’emergenza. Ma mi auguro davvero che dopo questa vicenda inizieremo ad avere approcci totalmente diversi ai veri problemi che incidono sulla nostra vita, ancor più ed ancor prima che del nostro benessere. Che dovremo pensare come un benessere di vita, e non di consumismo acritico ed esasperato. Dovremo davvero ripensare alle nostre priorità. L’acqua è un bene universale, l’acqua è vita, restano slogan vuoti, se non sono accompagnati da un’azione ed uno sforzo costanti. In passato si sono migliorate le condizioni igienico sanitarie di metropoli come Londra e Parigi proprio con lo sviluppo dei moderni sistemi fognari. Abbiamo capito che il virus non ci permette nessuna distrazione, nessuna superficialità. Proprio per la sua stessa natura. Adattamento significa anche questo. Non penso che sarà facile per svariate ragioni. Alcune più antropologiche, che tecniche. Legate alla nostra intrinseca inerzia, alla scarsa capacità di pensare e pianificare oltre il “proprio particulare” di guicciardiniana memoria. Ma non possiamo più temporeggiare. Oltre a questo auspico che si dia il giusto peso e i necessari finanziamenti alle attività di ricerca. Perché la conoscenza è l’approccio più razionale che possiamo avere. E lo dico da tecnico, e non da ricercatore.

Per approfondimenti consiglio la lettura dei rapporti tecnici sul sito dell’Istituto superiore di Sanità.

https://www.epicentro.iss.it/coronavirus/sars-cov-2-rapporti-tecnici-iss

La piastra Petri e il suo ideatore

Rinaldo Cervellati

In questa emergenza coronavirus compaiono quotidianamente immagini di laboratori con ricercatori che immettono o prelevano quantità di liquidi da recipienti piatti in vetro di forma cilindrica di diametro 50 -100 mm e altezza 15 mm. Questi recipienti sono importanti strumenti di lavoro in molti campi di microbiologia e biochimica per la crescita di colture cellulari e perché permettono di osservare a occhio nudo eventuali cambiamenti nelle colture in seguito all’aggiunta di opportune sostanze. I recipienti vengono chiamati piastre (o capsule o piatti) Petri, dal nome del microbiologo che le inventò nel 1877 [1].

Julius Richard Petri nacque a Barmen (Germania) il 31 maggio 1852. Dopo aver completato gli studi superiori, dal 1871 al 1875 studiò medicina presso l’Accademia Kaiser Wilhelm Academy per Medici Militari, abilitandosi nel 1876. Continuò i suoi studi all’ospedale Charité di Berlino e rimase attivo come medico militare fino al 1882, proseguendo poi come riservista.

Julius Richard Petri

Dal 1877 al 1879 fu assegnato al Kaiserliches Gesundheitsamt (Ufficio Imperiale per la Salute) di Berlino, dove divenne assistente di Robert Koch[1]. Su suggerimento di Angelina Hesse, moglie di un altro assistente di Koch, Walther Hesse, il laboratorio Koch iniziò a coltivare batteri su piastre di agar, un gelificante naturale. Petri inventò quindi la piastra di coltura standard e sviluppò ulteriormente la tecnica della coltura in agar per purificare o clonare colonie batteriche derivate da singole cellule. Questo progresso ha permesso e permette tutt’oggi di identificare in modo rigoroso batteri responsabili delle malattie.

Set di piastre Petri

Oltre alla piastra che porta il suo nome, Petri ha sviluppato e migliorato numerosi processi e attrezzature di lavoro, tra cui un filtro a sabbia e recipienti ancora oggi utilizzati per l’invio di campioni di feci e urine.

Petri ha pubblicato molti lavori, inclusi alcuni trattati di igiene e microbiologia. Scrisse su diverse tematiche riguardanti tecniche microbiologiche, malattie infettive, analisi delle acque, descrizione e uso di strumenti analitici.

Nel 1900 si ritirò e assunse la direzione del centro medico Brehmer a Görbersdorf per tre anni. Apparentemente per motivi di salute, tornò a Berlino nel 1904.

Si spense a Zeitz il 20 dicembre 1921.

Le piastre di Petri vengono principalmente utilizzate per studi di microbiologia. Il piatto è parzialmente riempito con un liquido caldo contenente agar e una miscela di ingredienti specifici che possono includere nutrienti, sangue, sali, carboidrati, coloranti, indicatori, aminoacidi e antibiotici. Dopo raffreddamento, l’agar gelifica e una piastra è pronta per ricevere un campione di cellule sane mentre in una seconda le cellule sono inoculate con il microorganismo che si vuole studiare. Per le colture di virus è necessaria un’inoculazione in due fasi: i batteri vengono coltivati ​​per primi per fornire successivamente a questi “ospiti” l’inoculo virale.

Spesso, le piastre di Petri vengono ricoperte con un coperchio di vetro per ridurre il rischio di contaminazione causata dalla sedimentazione di particelle sospese nell’aria e per prevenire l’accumulo della condensa dell’umidità nelle colture.

Sebbene la piastra Petri faccia parte dell’attrezzatura standard di ogni laboratorio batteriologico, Julius Richard Petri non viene ricordato con la dovuta importanza dalla comunità scientifica.

Tributo a J. R. Petri

Opere consultate

https://en.wikipedia.org/wiki/Julius_Richard_Petri

https://www.deutsche-biographie.de/ppn117702536.html

https://www.microbiologiaitalia.it/guru-della-microbiologia/julius-richard-petri/

https://www.historiadelamedicina.org/petri.html

Bibliografia

[1] R.J. Petri, Eine kleine Modification des Koch’schen Plattenverfahrens (A small modification of Koch’s plate method), Centralblatt für Bakteriologie und Parasitenkunde1877, 1, 279–280.

[1] Heinrich Hermann Robert Koch (1843–1910) è stato un medico, batteriologo e microbiologo tedesco. Descrisse per la prima volta il ruolo di un agente patogeno all’insorgere di una malattia. Nel 1882 scoprì l’agente eziologico della tubercolosi e in seguito ne sviluppò l’estratto antigenico che poteva dimostrare l’avvenuta infezione in un organismo ospite, compreso l’organismo umano. Nel 1905 è stato insignito del Premio Nobel per la Medicina. Robert Koch è ritenuto, assieme Louis Pasteur, il fondatore della moderna batteriologia e microbiologia.

50° giornata della Terra.

Luigi Campanella, già Presidente SCI

Il coronavirus ha di certo cambiato la nostra vita e la sua organizzazione. Fabbriche temporaneamente chiuse, voli ridotti al minimo, costruzioni che procedono a rilento e molto altro ancora: il risultato è un declino nelle emissioni che in una ventina di giorni ha permesso di risparmiare una quantità di anidride carbonica pari a quella che lo stato di New York immette nell’atmosfera nel corso di un intero anno. Quando avremo superato la pandemia tutto tornerà come prima o sapremo fare tesoro dei migliormenti involontariamente perseguiti cercando di mantenerli? La terra, intesa ora come il suolo, ci insegna nella sua circolarità fra le stagioni come il susseguirsi del tempo può essere anche una crescita continua se si è capaci di mettere a frutto il passato. Le coltivazioni su un suolo si devono succedere secondo logiche che garantiscono l’arricchimento della terra dando al concetto di circolarità, comunemente applicato all’economia, un valore più generale.

Mi piace mettere a fuoco questo concetto in occasione proprio della giornata della terra di domani mercoledì 22 aprile.

Una giornata che deve farci riflettere nell’emergenza attuale sui valori e sul patrimonio di cui non siamo proprietari ma fortunati fruitori. Il coronavirus ha messo in ginocchio la salute di molti,anche l’ambiente può essere minacciato. La medicina giustamente guarda all’uomo ed a come proteggerlo: mi chiedo se l’ambiente trova corrispondenti valide difese al pari di quelle che virologi, infettivologi, epidemiologi, microbiologi stanno offrendo ai nostri organismi. Il virus attraverso sistemi fognari inadeguati potrebbe dai rifiuti industriali passare alle acque reflue e da quelle superficiali nel terreno: lo studio della dinamica e cinetica di questo processo in relazione alla stabilità del virus nelle diverse condizioni dovrebbe essere perseguito in una visione globalmente open della ricerca.

La giornata della terra di quest’anno è anche l’occasione per lanciare una  sfida, la Earth Challenge 2020, la più grande campagna scientifica per cittadini. L’iniziativa integra i progetti di citizen science già esistenti e dà la possibilità di crearne di nuovi. Utilizzando la tecnologia mobile ed i dati scientifici open Earth Challenge 2020 consente alle persone di tutto il mondo di monitorare e mitigare le minacce alla salute dell’ambiente nelle rispettive comunita, grazie alla app Earth Challenge 2020 che è possibile scaricare dal 1 aprile dagli  app store Android o Apple.

Il data base risultante dalle osservazioni dei cittadini verrà visualizzato su una mappa pubblica e reso disponibile open per i ricercatori di tutto il mondo. Si tratta di un altro importante contributo alla Open Science,alla cultura come patrimonio universale,alla conoscenza globalizzata. E’ importante che questo passo in avanti venga realizzato non sulla base di accordi editoriali o di convenzioni pagate, ma affidato alla società civile, prima fruitrice delle ricadute della ricerca sulla qualità della vita

SARS-COV-2. 1. Come è fatto, come agisce …..

Claudio Della Volpe

Il Coronavirus SARS-COV-2. 1.

Come è fatto, come agisce sulla cellula e quanto resiste sulle superfici

Qualche riflessione guardando la letteratura che è spesso libera, come dovrebbe essere sempre ed in continua evoluzione.

La struttura del Coronavirus

https://www.unisr.it/news/2020/3/viaggio-al-centro-del-virus-come-e-fatto-sars-cov-2

Glicoproteina S (“spike”): il virus mostra delle proiezioni sulla propria superficie, della lunghezza di circa 20 nm. Tali proiezioni sono formate dalla glicoproteina S (“spike”, dall’inglese “punta”, “spuntone”). Tre glicoproteine S unite compongono un trimero; i trimeri di questa proteina formano le strutture che, nel loro insieme, somigliano a una corona che circonda il virione. Le differenze principali di questo nuovo Coronavirus rispetto al virus della SARS sembrano essere localizzate proprio in questa proteina spike. La glicoproteina S è quella che determina la specificità del virus per le cellule epiteliali del tratto respiratorio: il modello 3D infatti suggerisce che SARS-CoV-2 sia in grado di legare il recettore ACE2 (angiotensin converting enzyme 2), espresso dalle cellule dei capillari dei polmoni e di altri organi. Ogni monomero della proteina S trimerica è di circa 180 kDa e contiene due subunità, S1 e S2, rispettivamente l’attacco mediatore e la fusione di membrana.

  • Proteina M: la proteina di membrana (M) attraversa il rivestimento (envelope) interagendo all’interno del virione con il complesso RNA-proteina
  • Dimero emagglutinina-esterasi (HE): questa proteina del rivestimento, più piccola della glicoproteina S, svolge una funzione importante durante la fase di rilascio del virus all’interno della cellula ospite
  • Proteina E: l’espressione di questa proteina aiuta la glicoproteina S (e quindi il virus) ad attaccarsi alla membrana della cellula bersaglio
  • Envelope: è il rivestimento del virus, costituito da una membrana che il virus “eredita” dalla cellula ospite dopo averla infettata (il suo materiale è complesso si veda il link appresso)
  • RNA e proteina N: il genoma dei Coronavirus è costituito da un singolo filamento di RNA a polarità positiva di grande taglia (da 27 a 32 kb nei diversi virus); non sono noti virus a RNA di taglia maggiore. L’RNA dà origine a 7 proteine virali ed è associato alla proteina N, che ne aumenta la stabilità.

https://www.cusabio.com/2019-novel-coronavirus.html

Il virus ha un diametro da 75 a 160 nanometri e il genoma del virus è un RNA lineare continuo a singolo filamento lungo attorno a 30kbasi (dato che una base pesa 100-150 Da, abbiamo più di 3 MDa) ci sono in media una sessantina di spike per ogni virione ed ogni spike pesa attorno a  600 KDa; dal solo volume il peso molecolare totale del virus è stimabile attorno a 50-60 MDa. Stiamo parlando dunque di un totale di 10-16 g che stanno mettendo in crisi tutto il pianeta umano.

Si veda anche:

https://virologyj.biomedcentral.com/articles/10.1186/s12985-019-1182-0  per la struttura dell’envelope che è costituito da specifiche associazioni di due delle proteine del virus almeno fino ai SARS conosciuti prima del SARS-COV-2, ma che potrebbe contenere residui della membrana cellulare; questa struttura è soggetta all’attacco dei disinfettanti e del sapone.

Come il coronavirus SARS-COV-2 attacca la cellula:

https://www.hopkinsmedicine.org/health/conditions-and-diseases/coronavirus/coronavirus-facts-infographic

https://virologyj.biomedcentral.com/articles/10.1186/s12985-019-1182-0

Fig. 1 Struttura di 2019-nCoV S nella conformazione di prefusione.(A) Schema della struttura primaria 2019-nCoV S colorata per dominio. I domini che sono stati esclusi dal costrutto dell’espressione ectodominio o che non è stato possibile visualizzare nella mappa finale sono di colore bianco. SS, sequenza di segnali; S2 ′, S2 ′ sito di scissione proteasi; FP, peptide di fusione; HR1, ripetizione heptad 1; CH, elica centrale; CD, dominio connettore; HR2, ripetizione heptad 2; TM, dominio transmembrana; CT, coda citoplasmatica. Le frecce indicano i siti di scissione della proteasi. (B) Viste laterali e dall’alto della struttura di prefusione della proteina 2019-nCoV S con un singolo RBD nella conformazione superiore. I due protomeri verso il basso RBD sono mostrati come densità crio-EM in bianco o grigio e il protomero verso l’alto RBD è mostrato in nastri colorati corrispondenti allo schema in (A).

https://www.nature.com/articles/nsmb1123

Il recettore cellulare principale, e forse non unico, sembra il cosiddetto ACE2; cosa è questo recettore presente sulla membrana delle cellule polmonari?

Anzitutto non è da confondere con il recettore ACE; entrambi sono coinvolti nel sistema renina-angiotensina-aldosterone che regola la pressione sanguigna, il volume plasmatico circolante (volemia) e il tono della muscolatura arteriosa attraverso diversi meccanismi. L’angiotensina I viene convertita in angiotensina II dall’enzima di conversione dell’angiotensina (ACE (dall’inglese angiotensin-converting enzyme) presente nei capillari polmonari. L’angiotensina II è un potente peptide vasocostrittore che provoca un restringimento dei vasi sanguigni, con conseguente aumento della pressione sanguigna. Il recettore ACE2 è un enzima attaccato alla superficie esterna (membrane cellulari) delle cellule dei polmoni, delle arterie, del cuore, dei reni e dell’intestino che invece abbassa la pressione sanguigna catalizzando la scissione dell’angiotensina II (un peptide vasocostrittore) in angiotensina (un vasodilatatore). ACE2 funge anche da punto di ingresso nelle cellule di alcuni coronavirus. La versione umana dell’enzima viene spesso definita come hACE2.

https://link.springer.com/article/10.1007/s00134-020-05985-9

https://it.wikipedia.org/wiki/Sistema_renina-angiotensina-aldosterone

https://www.nature.com/articles/s41467-020-15562-9

Dunque l’attacco del SARS-COV-2 blocca un recettore basico nel controllo di uno dei punti chiave dell’organismo e dato che il nostro organismo è un sistema non una macchina, è ricco di meccanismi di retroazione NON di causa-effetto, esattamente come avviene nella biosfera, e dunque piccole cause hanno grandi effetti.

In una maggioranza dei pazienti (80%) il sistema immunitario si scatena rapidamente in modo specifico bloccando l’invasore e riducendo velocemente gli effetti; mentre in una minoranza di pazienti (20%), con più malattie o con problemi congeniti  l’organismo non è in grado di reagire bene in modo specifico e la situazione evolve verso effetti drammatici; solo in ritardo l’organismo è in grado di produrre una risposta efficace e questa risposta invece di seguire le strade dell’apparato immunitario specifico segue quelle più primitive dell’infiammazione cosiddetta adattativa; queste strade infiammatorie aspecifiche sono molto pericolose, in quanto la risposta è potente ma difficilmente controllabile e l’organismo va in crisi (la cosiddetta “tempesta delle citochine”) i polmoni si riempiono di liquido e si rischia la morte in una elevata percentuale di casi, a causa della risposta dell’organismo.

Dal grafico si vede che la concentrazione del virus diventa alta in ritardo nei pazienti “severi”; questo potrebbe essere un segno diagnostico della crisi in atto.

Recentemente è stata anche scoperta una seconda strada di attacco del virus: è il recettore Dpp4, una serratura molecolare che il virus usa per invaderle. E’ su tutti i tipi di cellule umane ed è lo stesso su cui agiscono molti farmaci anti-diabete; ciò indica che gli stessi farmaci potrebbero essere usati contro Covid-19, almeno nei casi più lievi. Questa notizia è troppo recente per commentarla adeguatamente (https://www.diabetesresearchclinicalpractice.com/article/S0168-8227(20)30375-2/fulltext).

La riproduzione del virus: una polimerasi specifica:

https://science.sciencemag.org/content/early/2020/04/09/science.abb7498

La struttura della polimerasi del virus nsp-12 a livello atomico è stata pubblicata il 10 aprile su Science, incorporando la zona di attacco del farmaco remdesivir che sembra stia dando buoni risultati.

Quanto sopravvive il coronavirus  sulle superfici esterne?

https://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMc2004973

Attenzione alla interpretazione del grafico: esso vi dice come varia la concentrazione del virus sui vari materiali nel tempo; su ogni materiale diverso dalla cellula il virus si degrada; dunque è vero che rimane sulla plastica fino a 80 ore MA la sua concentrazione nel frattempo è diminuita di 1000 volte; dunque nessuna tragedia.

La scala dei tempi è molto più stretta nel caso dell’aria, dunque attenti ai paragoni. La scala verticale è logaritmica, si tratta di un decadimento esponenziale.

Intervista alla prof. Carolyn Machamer, della JHU, una biologa cellulare specializzata nei coronavirus.( trad. C. Della Volpe)

https://hub.jhu.edu/2020/03/20/sars-cov-2-survive-on-surfaces/

Quanto può sopravvivere il virus che causa COVID-19 sulle superfici?

Di Samuel Volkin

Secondo un recente studio pubblicato sul New England Journal of Medicine, SARS-CoV-2, il virus che causa COVID-19, può vivere nell’aria e sulle superfici tra diverse ore e diversi giorni. Lo studio ha scoperto che il virus è praticabile fino a 72 ore su plastica, 48 ore su acciaio inossidabile, 24 ore su cartone e 4 ore su rame. È anche rilevabile nell’aria per tre ore.
Carolyn Machamer, professore di biologia cellulare il cui laboratorio presso la Johns Hopkins School of Medicine ha studiato per anni la biologia di base dei coronavirus, si è unito a Samuel Volkin, candidato MPH / MBA di Johns Hopkins, per una breve discussione di questi risultati e del loro significato nel proteggere dalla diffusione del virus. La conversazione è stata modificata per lunghezza e chiarezza.
Volkin: Secondo questo rapporto, sembra che il virus COVID-19 viva potenzialmente sulla superficie da giorni. Quanto dovremmo preoccuparci del nostro rischio di essere infettati semplicemente toccando qualcosa con cui una persona infetta era in contatto giorni fa?
Machamer: Ciò che sta ricevendo molta stampa e che viene presentato fuori dal contesto è che il virus può durare sulla plastica per 72 ore, il che sembra davvero spaventoso. Ma ciò che è più importante è la quantità di virus che rimane. È inferiore allo 0,1% del materiale virale iniziale. Infezione è teoricamente possibile ma improbabile ai livelli rimanenti dopo alcuni giorni. Le persone hanno bisogno di saperlo.

Cosa hai bisogno di sapere
Centro informazioni COVID-19
Risorse e aggiornamenti per la comunità Johns Hopkins, tra cui guida di viaggio, informazioni sulle operazioni universitarie e suggerimenti per prevenire la diffusione della malattia
Mentre lo studio del New England Journal of Medicine ha scoperto che il virus COVID può essere rilevato nell’aria per 3 ore, in natura, le goccioline respiratorie affondano a terra più velocemente degli aerosol prodotti in questo studio. Gli aerosol sperimentali utilizzati nei laboratori sono più piccoli di quelli che escono da una tosse o da uno starnuto, quindi rimangono nell’aria a livello del viso più a lungo di quanto sarebbero le particelle più pesanti in natura.
Qual è il modo migliore in cui posso proteggermi, sapendo che il virus che causa COVID-19 vive sulle superfici?
È più probabile catturare l’infezione attraverso l’aria se ci si trova accanto a qualcuno infetto piuttosto che al di fuori di una superficie. La pulizia delle superfici con disinfettante o sapone è molto efficace perché una volta che lo strato superficiale oleoso del virus è disattivato, non è possibile che il virus infetti una cellula ospite. Tuttavia, non ci può essere una sovrabbondanza di cautela. Niente di simile è mai successo prima.
Le linee guida del CDC su come proteggersi includono:
• Pulire e disinfettare le superfici con cui molte persone entrano in contatto. Questi includono tavoli, maniglie delle porte, interruttori della luce, controsoffitti, maniglie, scrivanie, telefoni, tastiere, servizi igienici, rubinetti e lavandini. Evitare di toccare le superfici ad alto contatto in pubblico.
• Lavati spesso le mani con acqua e sapone per almeno 20 secondi immediatamente quando torni a casa da un luogo pubblico come la banca o il negozio di alimentari.
• Quando sei in uno spazio pubblico, metti una distanza di sei piedi tra te e gli altri.
• Soprattutto, rimanere a casa se si è malati e contattare il medico.
Si è ipotizzato che una volta che la stagione estiva arriverà e il tempo si riscalderà, il virus non sopravviverà, ma non sappiamo ancora se sia vero. Il tempo o la temperatura interna influiscono sulla sopravvivenza del virus COVID-19 sulle superfici?

Johns Hopkins risponde a COVID-19
Copertura di come la pandemia COVID-19 sta influenzando le operazioni presso la JHU e in che modo gli esperti e gli scienziati Hopkins stanno rispondendo allo scoppio
Non ci sono prove in un modo o nell’altro. La vitalità del virus nell’esposizione al caldo o al freddo non è stata studiata. Ma sottolinea che lo studio del New England Journal of Medicine è stato condotto a temperatura ambiente, 21-23 gradi Celsius.
In che modo il virus che causa COVID-19 si confronta con altri coronavirus e perché stiamo vedendo tanti altri casi?
SARS-CoV-2 si comporta come un tipico coronavirus respiratorio nei meccanismi di base di infezione e replicazione. Ma diverse mutazioni gli consentono di legarsi più stretto al suo recettore ospite e aumentare la sua trasmissibilità, che si pensa lo renda più contagioso.
Lo studio del New England Journal of Medicine suggerisce che la stabilità della SARS-CoV-2 è molto simile a quella della SARS-CoV1, il virus che ha causato l’epidemia globale di SARS 2002-2003. Ma i ricercatori ritengono che le persone possano trasportare alte cariche virali di SARS-CoV-2 nel tratto respiratorio superiore senza riconoscere alcun sintomo, consentendo loro di liberarsi e trasmettere il virus mentre sono asintomatici

(Continua)

Monitoraggio del coronavirus dalle acque reflue.

Mauro Icardi

Il settore del trattamento delle acque reflue, è da sempre molto attento alla gestione del rischio biologico.

Gli addetti al settore sono sottoposti ad una attenta sorveglianza sanitaria perché già nel 1976 la rivista “Lancet” pubblicò un articolo riguardante la “Sewage worker’s syndrome”  (in Italia tradotta mio parere discutibilmente  come la malattia del fognaiolo)  Si pose molta attenzione alla possibilità degli addetti di contrarre malattie indotte dal contatto accidentale con acque reflue, o aerosol batterici provenienti da alcune fasi di trattamento.  I lavoratori di un impianto di trattamento delle acque reflue di Göteborg, in Svezia, soffrivano occasionalmente  di attacchi acuti di freddo, febbre e malessere. Un’indagine clinica e di laboratorio vene condotta  su 30 dei lavoratori insieme a 16 soggetti di controllo.

Circa la metà dei lavoratori aveva occasionalmente attacchi di febbre qualche ora dopo il lavoro. Nel gruppo di controllo non vennero segnalati  casi di febbre.   Le quantità di immunoglobuline sieriche erano più elevate nel gruppo esposto, anche l’emocromo era più alto e gli anticorpi sviluppati contro Escherichia coli  erano significativamente aumentati.   Noi che ci occupiamo di questo particolare tipo di lavoro, tra le varie precauzioni che dobbiamo adottare abbiamo l’obbligo della doccia a fine di ogni turno di lavoro, oltre all’utilizzo di mascherine nelle zone a rischio biologico. Abitudine che ora diventerà  per le note e tristi ragioni, un patrimonio comune. Non saremo più i soli a doverla indossare.

Ma come scritto da un articolo pubblicato sulla rivista “Nature” il 3 Aprile,  (e avevamo scritto qualcosa anche sul blog ): https://ilblogdellasci.wordpress.com/2018/05/11/i-controlli-sulle-acque-reflue-come-monitoraggio-sanitario/    il monitoraggio delle acque reflue potrebbe servire anche  per stimare il numero totale di infezioni in una comunità, visto che al momento non tutte le persone riescono ad essere sottoposte ai tamponi di verifica, e soprattutto esiste il grosso problema delle persone che pur contraendo la sars covid 19, non sviluppano sintomi, e possono diventare  involontariamente propagatori dell’epidemia.

Più di una dozzina di gruppi di ricerca in tutto il mondo hanno iniziato ad analizzare le acque reflue per verificare la presenza e la resistenza del virus in questa particolare matrice.  Finora i ricercatori hanno trovato tracce del virus nei Paesi Bassi, negli Stati Uniti e in Svezia . Anche l’impianto di depurazione di Varese ha già iniziato a fornire campioni medi di ingresso impianto all’Istituto Mario Negri di Milano, per le stesse finalità.  Soprattutto su impianti di medie-grandi potenzialità questa operazione potrebbe  fornire stime migliori di quanto sia diffuso il virus. Gli studi hanno anche dimostrato che il virus SARS-CoV-2 può comparire nelle feci entro tre giorni dall’infezione, cioè molto prima del tempo necessario alle persone per sviluppare sintomi abbastanza gravi, tali da attivarne il ricovero  in ospedale – fino a due settimane – e ottenere una diagnosi precisa e confermata. Il monitoraggio delle particelle virali nelle acque reflue potrebbe dare ai funzionari della sanità pubblica un vantaggio nel decidere se introdurre, o reintrodurre  misure come l’isolamento e il distanziamento sociale. Stabiliti i giusti protocolli di analisi, per esempio scoprire quanto RNA virale è escreto nelle feci, ed estrapolare il numero di persone infette in una popolazione da concentrazioni di RNA virale in campioni di acque reflue, occorrerà stabilire delle priorità, e destinare le risorse. E’ intuitivo che se i reagenti per la determinazione del virus cominciassero a scarseggiare, la loro fornitura dovrà essere destinata agli ospedali e alle strutture sanitarie.

Per quanto riguarda la rappresentatività del campione, questo sarà un compito più semplice ed affidato ai gestori. I normali autocampionatori refrigerati presenti negli impianti possono essere programmati adeguatamente, in funzione delle variazioni di portata influente.

Per quanto riguarda invece le acque scaricate al termine del trattamento sono sottoposte ad un fase di disinfezione. O con reagenti chimici (acido peracetico, ipoclorito di sodio, raggi uv). Questo va ribadito, per evitare l’insorgere di timori, comprensibili ma da affrontare con razionalità. Non posso escludere, ma questa è solo una mia opinione personale, che in futuro i limiti della carica batterica all’uscita degli impianti di depurazione, possano essere rivisti.  Il coronavirus ci sta insegnando molte cose. Saranno ovviamente gli organi competenti  (OMS, ISS) a doverlo eventualmente stabilire.

L’epidemia di coronavirus può essere affrontata anche con questo tipo di approccio. E questo è un esempio di quella collaborazione tra vari soggetti, di cui ho spesso scritto su questo blog. Ci aspetta un futuro nel quale, quando l’emergenza sarà passata, o almeno circoscritta dovremo fare riflessioni molto profonde. E mi auguro che non ci siano più remore, o intralci a destinare risorse  alla ricerca. E allo stesso modo a capire la necessità di completare in maniera decisa il progetto di unificazione a livello provinciale della gestione idrica. Con tutte le puntualizzazioni che ho già più volte ribadito. Acqua come bene comune. Ma con approcci razionali, trasparenti, ma mi auguro non demagogici.

https://www.nature.com/articles/d41586-020-00973-x

I ricercatori dovranno anche assicurarsi che stiano esaminando un campione rappresentativo di ciò che viene escreto dalla popolazione.
Ed è importante che la sorveglianza delle acque reflue, se possibile, non sottragga risorse ai test destinati ai singoli individui.

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L’intelligenza artificiale e gli antibiotici.

Rinaldo Cervellati

L’intelligenza artificiale identifica molecole che uccidono i batteri, ma sarebbero buoni antibiotici?

Questo è il titolo della notizia data da Sam Lemonick il 26 febbraio per il numero di Chemistry & engineering news del 4 marzo scorso. In realtà i ricercatori dell’articolo riportato da Lemonick hanno utilizzato la tecnica dell’apprendimento automatico (machine learning, ML), una branca dell’intelligenza artificiale che si occupa della messa a punto di algoritmi e modelli statistici che i sistemi informatici elaborano per eseguire un compito specifico senza utilizzare istruzioni esplicite, basandosi invece su schemi e inferenze.

L’interrogativo è chiarito nel sottotitolo: “Gli esperti lodano l’approccio rimanendo scettici sul fatto che le molecole identificate possano trovare applicazioni cliniche”.

Come ormai noto, i farmaci antibiotici in circolazione, anche a causa del loro abuso, hanno prodotto ceppi batterici antibiotico resistenti minacciando di compromettere la nostra capacità di combattere le infezioni fatali, stimolando la ricerca di nuovi farmaci.

Il chimico computazionale Regina Barzilay e il bioingegnere James J. Collins, entrambi del Massachusetts Institute of Technology (MIT), e collaboratori, hanno progettato un metodo di apprendimento automatico per trovare nuovi antibiotici. Combinando questo metodo con la sperimentazione in vitro su colture cellulari e in vivo su piccoli modelli animali, i ricercatori affermano di aver identificato diverse molecole che potrebbero essere efficaci antibiotici [1].

Regina Barzilay  James J. Collins

 Hanno progettato i loro algoritmi per riconoscere le caratteristiche strutturali di diverse molecole – non solo antibiotici – e per prevedere se una data struttura potesse inibire la crescita del batterio Escherichia coli. Inizialmente hanno lasciato il loro modello libero di cercare nel Drug Repurposing Hub, un database di circa 6.000 molecole note per essere utilizzate contro varie malattie. Ciò ha portato a identificare un composto con bassa tossicità e elevata attività antimicrobica contro E. coli, diverso dagli antibiotici noti, che è stato verificato in laboratorio come inibitore della crescita di E. coli. Questa molecola, chiamata SU3327, è un inibitore dell’enzima c-Jun chinasi N-terminale, bersaglio per il diabete e altre patologie. Il gruppo ha ribattezzato la molecola halicin in riferimento al computer HAL del famoso film “2001: Odissea nello spazio” (1968, di Stanley Kubrick e Arthur C. Clarke).

Uno studio inedito del 2017 aveva già identificato l’attività antibiotica di questa molecola, sotto valutazione dalla Food and Drug Administration statunitense, ma Jonathan M. Stokes del MIT, coautore del nuovo studio, afferma che il gruppo non era a conoscenza di questa precedente ricerca fino al 2 marzo di quest’anno[1].

Nel nuovo studio, i successivi test di laboratorio hanno dimostrato che la molecola può eliminare una serie di ceppi batterici resistenti. I ricercatori pensano che uccida i batteri interrompendo il movimento dei protoni attraverso la membrana cellulare, bloccando la capacità del betterio di muoversi o immagazzinare energia. Nei topi, halicin ha sanato le ferite cutanee infettate con Acinetobacter baumannii e le infezioni intestinali dal Clostridium difficile.

Il gruppo ha anche usato il suo algoritmo di apprendimento automatico per cercare molecole con caratteristiche antibiotiche fra i più di 100 milioni di molecole del database ZINC15, trovandone 8 diverse dagli usuali antibiotici, ma potenzialmente attive, fra cui ZINC000100032716, ma su queste non sono stati effettuati test di laboratorio.

Günter Klambauer, direttore del laboratorio di scoperta di farmaci con l’intelligenza artificiale (computer-aided drug design) presso l’Università Johannes Kepler a Linz (Austria), afferma che questi risultati mostrano “quello che si può ottenere quando lavorano insieme professionisti esperti e ricercatori sull’apprendimento automatico“. Ha però criticato il gruppo del MIT per aver indirizzato i propri algoritmi soltanto su un paio di migliaia di molecole del database e solo su alcuni effetti biologici. Secondo Klambauer il modello avrebbe potuto essere più efficiente con una programmazione più ampia che tenesse conto di molteplici effetti.

Anche da parte di esperti di antibiotici sono arrivati elogi per il metodo usato ma non vi è stata molta impressione per halicin. Diversi hanno affermato che i risultati non suggeriscono che il composto sia il tipo di antibiotico necessario in terapia. Il gruppo nitroaromatico nella molecola assomiglia alle strutture di noti antibiotici ad ampio spettro, suggerendo che il modo in cui i ricercatori hanno programmato l’algoritmo era troppo limitato e non ha permesso di trovare strutture veramente nuove. Richard E. Lee, un ricercatore sugli antibiotici presso il St. Jude Children’s Research Hospital (USA) afferma: “Abbiamo bisogno di nuovi chemiotipi antibatterici che potrebbero essere difficili da trovare attraverso questo approccio”. Shahriar Mobashery, biochimico dell’Università di Notre Dame (USA), sostiene che i gruppi nitroaromatici possono essere tossici per i pazienti umani, così come il meccanismo d’azione associato alla membrana che i ricercatori descrivono. Tuttavia Mobashery ha affermato che il punto di forza del lavoro sta nella metodologia.

James Collins, co-responsabile della ricerca replica che se è giusto sottolineare le somiglianze delle loro molecole con gli antibiotici esistenti, va sottolineato che uno dei principali vantaggi nell’utilizzo dell’apprendimento automatico è la sua velocità nella ricerca di molecole simili agli antibiotici. “Il nostro modello ha impiegato circa 4 giorni per valutare oltre 100 milioni di molecole”, afferma.

Richard Lee ha anche detto che probabilmente halicin non è un farmaco praticabile. Sostiene che c’è necessità di antibiotici efficaci contro le infezioni sistemiche, non per quelle della pelle o dell’intestino. Tuttavia, replica Collins, è necessario un trattamento topico efficace per A. baumannii.

John H. Rex, capo dello staff medico presso la Compagnia di Biotecnologie anglo-austriaca F2G ha fatto eco a questa critica. Rex, già redattore della rivista Antimicrobial Agents and Chemotherapy, afferma che il lavoro non ha soddisfatto gli standard per l’annuncio di nuovi farmaci antibiotici. Oltre alle sue preoccupazioni circa la loro efficacia contro i batteri più pericolosi, Rex ha affermato che i test del gruppo sulla tossicità di halicin non sono stati sufficienti. Dice che i ricercatori avrebbero dovuto testare la sua tossicità contro le cellule di mammifero, il che potrebbe fornire un quadro più chiaro del fatto che l’halicin potrebbe risultare tossico nel flusso sanguigno umano.

Comunque Rex plaude a che l’articolo sia stato pubblicato. Afferma che il lavoro “potrebbe aprire un nuovo spazio chimico per individuare antibiotici efficaci, tuttavia il gruppo non ha trovato un candidato soddisfacente.

Lynn Silver, esperta di antibiotici che ha lavorato presso Merck & Co. per vent’anni dice: “È abbastanza facile uccidere i batteri, anche quelli difficili, con agenti tossici – e abbastanza facile trovarli’, ma afferma che trovare i farmaci è molto più difficile: “Anche antibatterici ben studiati falliscono negli studi clinici a causa della loro tossicità”.

James Collins afferma che il gruppo sta cercando di stabilire collaborazioni per continuare la valutazione preclinica di halicin e delle altre molecole. Regina Barzilay dice che hanno anche in programma di migliorare il loro modello nella speranza di prevedere il meccanismo antibatterico delle molecole oltre alla loro attività, cosa che sarebbe utilissima per trovare farmaci più mirati. E stanno aggiungendo un componente al modello che dovrebbe consentirgli di progettare molecole completamente nuove, piuttosto che trovare possibili antibiotici da database di composti esistenti.

Bibliografia

[1] J.M. Stokes et al., A Deep Learning Approach to Antibiotic Discovery., Cell, 2020, 180, 688–702; DOI: 10.1016/j.cell.2020.01.021

[1] Il lavoro è stato pubblicato su Cell il 20 febbraio 2020. Molti dettagli sono apparsi lo stesso giorno sul quotidiano inglese The Guardian col titolo Powerful antibiotic discovered using machine learning for first time.

Un provvidenziale ultimo avviso

Vincenzo Balzani

pubblicato nel Blog universitario  parliamoneOra 2020

Più che aver paura del corona virus, oggi dobbiamo avere paura che cessata l’emergenza sanitaria si torni alla situazione di prima

In una famosa fotografia, scattata dall’astronauta della NASA William Anders il 24 dicembre 1968 durante la missione Apollo 8, si ammira lo straordinario spettacolo del sorgere della Terra visto dalla Luna. Contemplando la scena che stava fotografando, Anders disse: «We came all this way to explore the Moon, and the most important thing is that we discovered the Earth». Da questa e altre simili foto della Terra prese da lontano ci si rende conto di quale sia la nostra situazione: viaggiamo nell’infinità dell’universo su un’astronave. Un’astronave che non potrà mai “atterrare” da nessuna parte, non potrà mai attraccare a nessun porto per caricare risorse o scaricare rifiuti. Le risorse su cui possono contare i quasi otto miliardi di passeggeri sono i materiali che costituiscono l’astronave e la luce del Sole.

Da qualche mese sull’astronave Terra è in circolazione un virus pericoloso e molto contagioso, il Covid-19. In attesa di combatterlo con un vaccino, ci difendiamo alla meglio con l’odiosa arma del distanziamento sociale. Secondo gli scienziati il virus è passato da animali selvatici all’uomo a causa di uno o più dei seguenti errori nel nostro rapporto con la  Natura: esagerato uso delle risorse, degradazione dell’ambiente, cambiamento climatico, crescente consumo di prodotti animali, esagerata  antropizzazione del suolo, perdita di biodiversità e ricerca di cibo selvatico da parte delle popolazioni più povere. I virus sono in qualche modo “profughi” della distruzione ambientale causata dalla nostra aggressività. Stavano bene nelle foreste e nei corpi di alcuni animali, gli abbiamo offerto l’occasione di moltiplicarsi.

Molti fra i cittadini dei ricchi paesi dell’Occidente sono preoccupati per la crisi sanitaria, ma sembra non si siano mai accorti delle crisi ecologica e sociale. Sono terrorizzati da qualche decina di migliaia di morti causati dal virus nel mondo, ma forse non sanno che a causa dall’inquinamento atmosferico ogni anno muoiono circa un milione di persone in Cina, 650.000 nell’Unione Europea e 80.000 nella sola Italia.

Già da parecchi anni gli scienziati ammoniscono che non stiamo custodendo il pianeta e i sociologi avvertono che le enormi disuguaglianze economiche e sociali stanno diventando insostenibili. Il vigente modello di sviluppo, il consumismo, basato sull’usa e getta, ha instaurato una cultura dello scarto che porta al degrado ambientale e si estende alla vita delle persone. Nell’enciclica Laudato si’ qualche anno fa papa Francesco aveva scritto «Non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale che va affrontata con una visione unitaria dei problemi  ecologici ed economici». E nella benedizione Urbi et orbi impartita il 18 marzo nella spettrale Piazza San Pietro deserta il papa ha aggiunto: “Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sani in un mondo malato”.

Stiamo vivendo, dunque, uno dei peggiori periodi della nostra storia, attanagliati da una crisi che ha tre aspetti fra loro intrecciati: ecologico, sociale e sanitario. Ma non dobbiamo perderci d’animo: la storia stessa insegna che ogni crisi offre l’opportunità di un cambiamento verso una situazione migliore. Poiché l’astronave Terra è l’unico luogo dove possiamo vivere, non possiamo farci sfuggire questa occasione. Dobbiamo vedere nel Covid-19 un provvidenziale ultimo avviso. Più che aver paura del virus, oggi dobbiamo avere paura che cessata l’emergenza sanitaria si torni alla insostenibile situazione di prima. Tutti dobbiamo adoperarci perché ciò non accada.

Perché il cambiamento avvenga nella direzione giusta, per prima cosa dobbiamo far capire a politici e economisti che una crescita illimitata è impossibile. Non possiamo pretendere che il pianeta Terra si adatti alla nostra megalomania; dobbiamo essere noi ad adattarci alla sua realtà. L’unico obiettivo che forse possiamo raggiungere, non senza difficoltà, è quello della sostenibilità: cioè vivere lasciando un pianeta vivibile anche per le prossime generazioni.

Perché ciò accada dovremo utilizzare in modo più saggio le limitate risorse dell’astronave Terra e sfruttare il più possibile l’abbondante energia che ci viene dal Sole. Dovremo diminuire l’estrazione di materiali dalla Terra (92 miliardi di tonnellate all’anno, pari a 35 kg al giorno per ciascuno degli abitanti del pianeta) e abbandonare l’uso dei combustibili fossili per abbattere l’inquinamento atmosferico e ancor più le emissioni di CO2 (37 miliardi di ton all’anno), il gas serra che provoca il cambiamento climatico.

Dovremo sostituire i motori a combustione con motori elettrici alimentati dall’energia del Sole. La scarsità delle risorse non ci permetterà più di possedere le “macchine” che utilizziamo (ad esempio, l’automobile); dovremo accontentarci di usare “macchine” condivise. Dovremo capire bene cosa ci serve e cosa non ci serve. Se ci avessimo pensato prima, ad esempio, non avremmo speso 14 miliardi per gli F-35 (aerei da guerra che, per fortuna, non useremo mai), ma avremmo investito questo denaro nella sanità e nell’istruzione.

Più in generale, dovremo sostituire il verbo consumare col verbo risparmiare. Per ridurre i consumi, studi scientifici dimostrano che non serve molto “agire sulle cose”, cioè aumentare il rendimento dei processi di produzione e l’efficienza dei vari tipi di macchine che usiamo; bisogna “agire sulle persone”, sollecitarle cioè a praticare stili di vita ispirati alla sobrietà.

C’è ancora parecchio da fare, ma sappiamo bene quale è la strada per raggiungere la sostenibilità ecologica. Siamo invece molto lontani dall’obiettivo della sostenibilità sociale che richiede, anzitutto, una ridistribuzione della ricchezza. Non può esserci sostenibilità sociale in un mondo dove i duemila più ricchi posseggono più di 4,6 miliardi di persone e neppure un paese come l’Italia dove l’1% più ricco possiede quanto il 70% della popolazione. Non può esserci sostenibilità sociale se, come scrive papa Francesco nell’enciclica Laudato si’: “… non ci accorgiamo più che alcuni si trascinano in una miseria degradante, mentre altri non sanno nemmeno che farsene di ciò che possiedono”.

Dobbiamo fare in modo che la pandemia del Covid-19, dalla quale stiamo faticosamente uscendo, porti in primo piano il problema della sostenibilità. Sarà necessario utilizzare con cura le risorse del pianeta e l’energia del Sole e anche sviluppare la scienza e la tecnologia nelle direzioni opportune. Ma sarà ancor più importante sfruttare le nostre preziose fonti di energia spirituale: saggezza, creatività, responsabilità, collaborazione, amicizia, sobrietà e solidarietà. Quando avremo fatto tutto questo, ricorderemo questa pandemia come una salutare lezione impartitaci dalla Natura.

Disinfettanti per le mani contro il coronavirus.

Rinaldo Cervellati

Sui disinfettanti per le mani e sulla loro efficacia ha scritto Laura Howes su Chemistry & Engineering news del 23 marzo scorso (What is hand sanitizer, and does it keep your hands germ-free? C&EN news). Qui ne riporto una traduzione adattata.

Nei primissimi mesi del 2020, con la diffusione del nuovo coronavirus, SARS-CoV-2, le vendite di disinfettanti per le mani hanno iniziato a crescere. L’11 marzo, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha ufficialmente dichiarato l’epidemia una pandemia globale. Le Organizzazioni Sanitarie di tutto il globo hanno raccomandato alle persone di astenersi dal toccarsi il viso e di pulirsi le mani dopo aver toccato le superfici pubbliche come maniglie, corrimano, ecc.

Il primo caso statunitense di COVID-19, la malattia causata da SARS-CoV-2, è stato rilevato il 20 gennaio scorso. Secondo la società di ricerche di mercato Nielsen, le vendite di disinfettanti per le mani negli Stati Uniti sono cresciute del 73% a fine febbraio.

Sulle porte dei negozi in tutto il pianeta sono comparsi avvisi per avvertire che i disinfettanti per le mani erano esauriti. Di conseguenza le grandi ditte, come ad esempio il gigante chimico BASF, ma anche studenti di chimica di diverse università, stanno cercando di produrre nuovi disinfettanti.

Ma la popolarità dei disinfettanti per le mani è giustificata? Anche se la maggior parte dei funzionari sanitari afferma che il sapone e l’acqua sono il modo migliore per pulire le mani da eventuali contaminazioni, quando questo non è possibile, gli esperti affermano che i disinfettanti per le mani sono il presidio migliore. Per ottenere il massimo beneficio da questi, le istituzioni sanitarie raccomandano di utilizzare un prodotto che contenga almeno il 60% di alcol, coprire tutta la superficie delle mani e strofinarle insieme fino ad asciugarle.

Ancor prima che gli scienziati sapessero che esistevano i germi, i medici stabilirono il legame tra lavaggio delle mani e salute. Il riformatore medico americano Oliver Wendell Holmes[1] e l’ungherese, Ignaz Philipp Semmelweis (detto “Salvatore delle madri”)[2], collegarono la scarsa igiene delle mani con un aumento dei tassi di infezione postpartum nel 1840, quasi 20 anni prima che il famoso biologo francese Louis Pasteur pubblicasse le sue prime scoperte sulla teoria dei batteri.

Nel 1966, mentre era ancora una studentessa di infermieristica, Lupe Hernandez (1941-2017) brevettò, per gli ospedali, un gel disinfettante per le mani contenente alcol.

Lupe Hernandez

Nel 1988, l’azienda Gojo[3] ha introdotto Purell®, il primo disinfettante in gel contenente alcol.

Sebbene alcuni dei disinfettanti per le mani venduti non contengano alcol, esso è l’ingrediente principale nella maggior parte dei prodotti che attualmente vengono letteralmente strappati dagli scaffali di negozi e supermercati. Questo perché l’alcol è un disinfettante molto efficace e sicuro da applicare sulla pelle.

La caratteristica dell’alcol è di rompere i rivestimenti esterni di batteri e virus.

Il coronavirus SARS-CoV-2 è noto come un “virus avvolto”. Alcuni virus si proteggono solo con una gabbia costituita da proteine. Ma quando i virus avvolti lasciano le cellule che hanno infettato, si avvolgono in una membrana composta di pareti a base lipidica delle cellule e di alcune delle loro stesse proteine. Secondo il chimico Pall Thordarson dell’Università del Nuovo Galles del Sud (Australia), i doppi strati lipidici che circondano virus avvolti, come SARS-CoV-2, sono tenuti insieme da una combinazione di legami a idrogeno e interazioni idrofobiche. Come i lipidi che proteggono questi microrganismi, gli alcoli hanno una regione polare e una non polare, quindi afferma Thordarson: “l’etanolo (alcol etilico) e altri alcoli interrompono queste combinazioni di legami, dissolvendo efficacemente le membrane lipidiche”. Tuttavia, aggiunge, è necessaria una concentrazione abbastanza elevata di alcol per rompere velocemente il rivestimento protettivo degli organismi, motivo per cui l’americano Center for Disease Control (CDC) consiglia di utilizzare disinfettanti per le mani con almeno il 60% di alcol.

Pall Thordarson

Tuttavia strofinare alte concentrazioni di alcol sulla pelle non è piacevole. L’alcool può rendere rapidamente la pelle secca perché distrugge anche il suo strato protettivo untuoso. Ecco perché i disinfettanti per le mani contengono normalmente anche un agente idratante che contrasta la secchezza.

L’OMS offre due semplici formulazioni per produrre in proprio liquidi disinfettanti per le mani in aree remote o con risorse limitate, in cui i lavoratori non hanno accesso a lavandini o altre strutture per la pulizia delle mani. Una di queste formulazioni utilizza l’80% di etanolo e l’altra il 75% di alcol isopropilico. Entrambe le ricette contengono una piccola quantità di perossido di idrogeno per prevenire la crescita di batteri nel disinfettante e un po’ di glicerolo per aiutare a idratare la pelle e prevenire eventuali dermatiti. Altri composti idratanti che si possono trovare nei disinfettanti liquidi per mani includono glicole polietilenico o glicole propilenico. Quando un disinfettante per le mani a base alcolica viene strofinato sulla pelle, l’etanolo evapora, lasciando dietro di sé i composti lenitivi.

Nelle cliniche, liquidi disinfettanti per le mani come quelli che si possono fare con le ricette dell’OMS vengono facilmente trasferiti nelle mani di pazienti, medici, infermieri e visitatori da distributori a parete.

Per i consumatori, i gel disinfettanti in flacone sono molto più comodi da trasportare e utilizzare anche in viaggio perché è semplice spremere il gel senza versarlo ovunque. I gel rallentano anche l’evaporazione dell’alcool, garantendo che si abbia il tempo di coprire le mani e lavorare contro i microrganismi che potrebbero essere presenti.

Le persone che provano a produrre in proprio disinfettanti per le mani a base di gel dovrebbero sapere che i classici agenti gelificanti come la gelatina o l’agar non formano un gel stabile alle alte concentrazioni di alcol necessarie per uccidere virus e batteri, perché i gruppi alcolici polari interrompono i legami intermolecolari. I produttori aggirano questo ostacolo usando polimeri acrilici ad alto peso molecolare. I legami crociati covalenti aiutano a creare un gel viscoso resistente all’alcol.

Mentre la maggior parte dei disinfettanti per le mani contengono alcol etilico o isopropilico, sono anche in vendita disinfettanti per le mani senza alcool. Questi di solito contengono composti antimicrobici come il benzalconio cloruro che forniscono una protezione duratura contro i batteri. Ma i prodotti senza alcool non sono raccomandati dalle Istituzioni Sanitarie per combattere il nuovo coronavirus SARS-CoV-2, in quanto non è ancora stabilito che possano essere usati con successo contro esso.

Secondo Rachel McCloy, esperta di scienze comportamentali all’Università di Reading, UK, l’acquisto massiccio di disinfettanti, dovuto al panico, consente alle persone di avere una sensazione di controllo, ma quando le persone hanno paura, spesso non prendono decisioni razionali o proporzionate ai rischi. “È fondamentale ascoltare gli esperti di salute pubblica sulle azioni più efficaci da intraprendere in qualsiasi momento”, afferma McCloy. E l’opzione migliore è ancora lavarsi le mani.

Rachel McCloy

Acqua e sapone sono ancora l’opzione migliore per l’igiene delle mani, sottolinea Thordarson. Le molecole di sapone non solo interrompono le interazioni non covalenti che tengono insieme virus e pareti cellulari batteriche ma possono anche circoscrivere ed eliminare i batteri dalla pelle. I disinfettanti per le mani non possono rimuovere i microbi dalla pelle e non sono efficaci contro tutti i microrganismi. Ad esempio, i norovirus non hanno un rivestimento di membrana lipidica che può essere spezzato dall’alcol e le spore del Clostridium difficile hanno un rivestimento duro di cheratina che può proteggerli per anni. Inoltre, l’alcool non funziona in modo efficace su mani sporche o unte.

Infine, sostiene Thordarson: “I prodotti a base di alcol funzionano”, ma niente batte il sapone”.

Credit: Flashpop/Getty

[1] Oliver Wendell Holmes (1809-1894), statunitense, è stato medico, insegnante poeta e scrittore, vissuto a Boston.

[2] Ignaz Philipp Semmelweis (1818-1865) è stato un medico e scienziato ungherese, noto come uno dei primi pionieri delle procedure antisettiche.

[3] La GOJO Industries, Inc., è un’azienda privata di prodotti per l’igiene delle mani e la cura della pelle fondata nel 1946, in Ohio, USA.