Scienza, dissenso ed opinione.

Luigi Campanella, già Presidente SCI

La covid 19 ci ha fatto vivere momenti veramente drammatici, ancora non del tutto superati, ma -come é stato più volte rilevato da più parti – ci ha anche insegnato qualcosa: che si può vivere senza inquinare, che abbiamo rubato troppo alla natura, che l’ambiente migliore ci fa apprezzare di più il fantastico mondo in cui viviamo, che la solidarietà ed il rispetto per gli altri sono basi irrinunciabili del vivere civile, che la messa a comune delle conoscenze consente di ridurre i danni di situazioni drammatiche come quelle attuali. La domanda che mi pongo è ora questa: la covid19 ha cambiato il rapporto del cittadino con la scienza? La salute, l’alimentazione, la sicurezza, la stessa economia sono valori che il cittadino percepisce bene, la scienza lo è parimenti?

Il metodo scientifico è metodo, non contenuto dei risultati delle applicazioni del metodo stesso: questo vuol dire che se il metodo è rispettato i risultati e/o la loro interpretazione possono essere diversi da fonti diverse. Parto da questa affermazione perchè è strettamente legata alla domanda: in genere quando il metodo produce conclusioni diverse da parte di scienziati diversi la scienza per il cittadino cessa di essere un oracolo?

All’inizio della pandemia la paura e l’emergenza hanno stimolato nel cittadini un atteggiamento di grande fiducia nella scienza, una sorta di convinzione della infallibilitá della scienza che ci avrebbe salvato e delle sue capacita a risolvere anche le situazioni più difficili. Quando la paura si è attutita, quando lo spazio concesso alla scienza dai massmedia é cresciuto come mai con.epidemiologi e virologi continuamente presenti sugli schermi-TV e soprattutto quando sono emerse differenze fra le loro comunicazioni questa fiducia é sembrata incrinarsi.

Si é cioè riprodotta nella contingenza la situazione che contraddistingue il rapporto fra scienza e cittadino nella vita di tutti giorni: la scienza è diffusore di verità o soltanto di opinioni?

Viene dimenticato nell’accezione comune che il dissenso fra scienziati non è manifestazione patologica, ma fisiologica del lavoro scientifico, capace anzi di alimentare il pensiero scientifico e stimolare la ricerca di nuove conoscenze.

Ma questo atteggiamento critico rispetto al crollo di una certezza è la palese dimostrazione di un analfabetismo scientifico di cui si soffre e questo ci riporta al tema vecchio, ma irrisolto, relativo al rapporto nella formazione dei giovani fra cultura umanistica e cultura scientifica che non può trovare una giustificazione nel rapporto fra grandi artisti.e grandi scienziati per il nostro Paese. La scuola e l’universitá devono contrastare questo analfabetismo che comporta pregiudizi e sedimentazioni che frenano la comprensione.di cosa realmente significhi metodo scientifico, integrazione fra conoscenza induttiva e conoscenza deduttiva,  fra teoria ed esperienza, ma anche integralità delle conoscenze per divenire cultura e per superare la fase della semplice primitiva informazione, impalpabile ed evanescente.

In assenza di questa formazione passare da un estremo all’altro nei confronti della scienza e degli scienziati diviene comprensibile. Da parte degli scienziati si contribuisce a questo vizio perseguendo atteggiamenti di colonizzazione di alcuni settori da parte di alcune discipline nella logica di una disarticolazione culturale che contribuisce a mantenere quello stato di analfabetismo

Mescolare i detersivi per la casa è molto pericoloso

Rinaldo Cervellati

Sono purtroppo più frequenti di quanto si possa pensare gli incidenti domestici, anche gravi, dovuti all’incauto mescolamento di detersivi per la pulizia della casa, in particolare di bagni e cucina. Io stesso, da poco laureato, fui testimone di una disavventura di un’amica, per giunta studentessa di chimica, che per pulire la vasca o il lavandino usò insieme varechina e acido muriatico, rimanendo intossicata dai vapori del cloro sviluppatisi dalla miscela. Fortunatamente l’intervento immediato del suo ragazzo le evitò un guaio molto serio, se la cavò con un breve ricovero al reparto medicina del lavoro dell’Ospedale Sant’Orsola di Bologna.

Ancora più attenzione deve essere fatta nell’attuale emergenza da COVID-19, poiché fra le importanti raccomandazioni vi è quella di mantenere puliti e igienizzati gli ambienti domestici.

Set di detergenti domestici

Mi è quindi sembrato molto opportuno l’articolo di David Bradley, apparso sulla newsletter settimanale di Chemistry World[1]: Why is mixing cleaning chemicals such a bad idea, del 27 aprile 2020. Ne riporto qui un adattamento in italiano.

Vediamo anzitutto quali sono i principali “principi attivi” contenuti nei comuni detersivi per la casa, spesso in soluzione con altri componenti.

Candeggina (varechina)

Esistono molti prodotti per la pulizia chiamati “candeggina”. In generale contengono una soluzione acquosa di ipoclorito di sodio (NaOCl) a varie concentrazioni, con in aggiunta tensioattivi, antischiuma e fragranze. L’ipoclorito di sodio è corrosivo e può danneggiare pelle e occhi ed essere letale se ingerito.

Ammoniaca

L’ammoniaca (NH3) viene utilizzata in soluzione acquosa con concentrazioni dal 5% al 10%. È ampiamente usata per pulire vetro, porcellana e acciaio inossidabile, nonché per rimuovere i depositi di grasso dai forni. È corrosiva e tossica.

Idrossido di sodio (soda caustica)

L’idrossido di sodio solido (NaOH) e le sue soluzioni acquose sono ampiamente usate per eliminare i depositi di grasso negli scarichi e nei forni. La soda caustica è corrosiva e può danneggiare pelle e occhi se ne viene a contatto. Anche i fumi della reazione con i grassi sono pericolosi se vengono inalati.

Acido cloridrico (acido muriatico) e altri acidi (nitrico, fosforico)

Oggi l’acido cloridrico in soluzione (acido muriatico) è meno usato di un tempo nei detergenti domestici ma è contenuto in quelli commerciali. Inoltre, le soluzioni di due o più acidi vengono anche vendute come spray per la pulizia del bagno per evitare la necessità di un lungo risciacquo. Sono corrosivi e tossici.

Nelle etichette dei detergenti sono normalmente indicati i componenti e di solito sono evidenziati i rischi di incaute miscelazioni. Pertanto, come prima norma, sarebbe importante leggere le informazioni sull’etichetta sull’uso corretto di questi prodotti. Tuttavia, come riportato all’inizio, non sono infrequenti gli incidenti dovuti a incauta miscelazione.

Con un poco di chimica vediamo insieme cosa può accadere.

Parte del problema è che la miscelazione spesso genera molto gas e calore, che possono rompere o bruciare contenitori sigillati. Esiste anche il problema della decomposizione che si verifica spontaneamente durante l’uso normale e prima di qualsiasi miscelazione deliberata o involontaria di detergenti. Tale decomposizione può generare specie come l’acido ipocloroso (HOCl) che può alimentare ulteriori reazioni con altri prodotti per la pulizia.

La decomposizione della candeggina dipende dalle condizioni di conservazione e dall’uso; si decompone alla luce del sole, al riscaldamento, al contatto con i metalli, oltre a produrre piccole quantità di acido cloridrico:

NaOCl + H2O → NaOH + HOCl

2HOCl → 2HCl + O2

L’acido cloridrico può a sua volta reagire con l’ipoclorito per formare piccole quantità di cloro gas:

NaOCl + 2HCl → Cl2 + NaCl + H2O

E’ quindi evidente che se si mescola candeggina e acido muriatico si sviluppa cloro gassoso con le conseguenze descritte per tutto l’apparato respiratorio. Pertanto: mai mescolare questi prodotti.

Anche la miscelazione dell’ipoclorito con ammoniaca genera acido ipocloroso e quindi acido cloridrico. Questo reagirà quindi con più ipoclorito per rilasciare cloro gassoso, già pericoloso di per sé ma che può reagire ulteriormente con l’ammoniaca formando clorammine corrosive e tossiche (R2NCl). L’odore caratteristico delle piscine è il risultato dell’ipoclorito che reagisce con i composti azotati presenti nel sudore e nelle urine formando clorammine organiche volatili.

In ambiente domestico la reazione più probabile è:

NH3 + NaOCl → NH2Cl + NaOH

Se l’ammoniaca è particolarmente concentrata, ciò può portare alla formazione di idrazina (N2H4), i cui vapori tossici sono esplosivi all’aria e possono causare ustioni e lesioni oculari. Fortunatamente, questa reazione ha poche probabilità di verificarsi nell’ambiente casalingo perché richiede una concentrazione elevata di ammoniaca e un’alta temperatura (> 100 °C).

Se la candeggina viene miscelata con prodotti contenenti alcol etilico (C2H5OH) si corre il rischio di formare cloroformio (CHCl3), un potente anestetico. La reazione è molto complicata, ma può essere semplificata così:

C2H5OH + 4NaOCl + 2NaCl + H2O → 2CHCl3 + 6NaOH

La miscelazione di un acido con candeggina genera pure un forte agente ossidante, che reagirà ulteriormente con l’ipoclorito per formare una miscela gassosa contenente cloro

Si potrebbe supporre che mescolando una soluzione di idrossido di sodio (soda caustica) con acido cloridrico avvenga l’usuale reazione che produce sale e acqua. Ma in forma concentrata, la miscelazione rapida genera molto calore e fumi, che potrebbero contenere cloro o gas contenenti cloro a seconda dell’acido.

Quindi, cosa fare se si mescolano accidentalmente prodotti per la pulizia?

I primi segni potrebbero essere un sibilo, un gorgogliamento, la formazione di vapori o emanazione di calore. Se il volume della miscela è piccolo, il consiglio è di diluire immediatamente la miscela aggiungendo una quantità abbondante di acqua. Si dovrebbe anche assicurare una maggiore ventilazione se possibile oppure abbandonare il posto per evitare di respirare i vapori. Attendere quindi che i segni visibili di qualsiasi reazione scompaiano, indossare guanti e smaltire i rifiuti in un opportuno scarico. Se c’è qualche segno che la reazione è ancora in corso, aggiungere più acqua ma mai tentare di “neutralizzare” la miscela con altri prodotti chimici.

Tuttavia, se i prodotti per la pulizia reagiscono a volumi elevati e in luoghi di difficile accesso, ad esempio nelle profondità dei tubi del lavandino, i consigli potrebbero essere leggermente diversi. Il consiglio di base è di evacuare l’area e, se è sicuro farlo, aprire prima le finestre per ventilare.

In caso di inalazione di vapori, se i sintomi sono lievi si dovrebbero placare dopo pochi minuti all’aria aperta, per sintomi gravi, come quelli che ebbe la mia amica, va subito effettuata una chiamata di emergenza al pronto soccorso.

[1] Chemistry World è la rivista ufficiale della britannica Royal Society of Chemistry, un tempo nota come Chemistry in Britain.

Disinfezione e Covid.

Luigi Campanella, già Presidente SCI

La disinfezione, a maggior ragione nell’attuale emergenza che coinvolge non solo gli operatori professionali, ma tutti i cittadini, va vista ormai come un’attività integrata che deve coinvolgere la quotidianitá.

Tutto quello che si tocca può infettarci,  perchè le mani sono un veicolo per trasferire germi dalle superfici che ci circondano a noi e da noi a chi ci sta intorno: tavoli, scrivanie, sedie, maniglie, interruttori, telefono, tablet, dispositivi touch screen, tastiere, lavandini, wc.

E’ importante inoltre la disinfezione di luoghi di aggregazione come negozi, palestre, scuole, comunità. Per ridurre la possibilità di infezione e contaminazione microbica in un mondo sempre più affollato di persone e di oggetti, è quindi necessario riesaminare la nostra quotidianità.

 I luoghi nei quali l’utilizzo di prodotti disinfettanti risulta ormai fondamentale sono molteplici, in primis ospedali, case di cura, resort per anziani, ma anche palestre, centri benessere, circoli sportivi. Bisogna prestare la massima attenzione a quegli oggetti che sono utilizzati e toccati più volte al giorno, agli oggetti neonatali che vengono portati alla bocca dai bambini ed anche ai servizi igienici. Per quanto riguarda covid19 risultano particolarmente efficaci i formulati alcolici e le soluzioni di sodio ipoclorito, che possono risultare attive anche ai fini della protezione ambientale e che nelle formulazioni più recenti ed innovative hanno perduto qualsiasi possibilità di  nuocere agli utilizzatori e le sgradevoli caratteristiche organolettiche. I prodotti vengono registrati come presidi medico chirurgici o dispositivi medici a seconda del campo di impiego dal Ministero della Salute a differenza dei comuni detergenti ed igienizzanti. La registrazione viene accordata dopo la valutazione di congrua documentazione che dimostri l’efficacia del prodotto su microorganismi specifici,  la sua stabilità nel tempo, il tipo di pericolo per l’uomo. I test sono regolati da norme internazionali e devono comprovare l’efficacia del prodotto alle condizioni d’uso nei confronti di microorganismi patogeni, di batteri, di virus,  di funghi, di muffe. Circa il metodo di somministrazione del prodotto sanificante la sanificazione a volume ultrabasso (cosiddetta ULV)  mediante nebulizzazione è tra le più applicate, soprattutto nel caso di derivati del cloro o dell’acqua ossigenata, disinfettanti  dichiarati dall’OMS, in grado di distruggere il virus del covid.

https://www.radiobombo.com/news/86897/trani/coronavirus-sanificazione-del-comune-di-trani-e-dell-infopoint-turistico

La nebulizzazione ULV viene effettuata con particolari erogatori che nebulizzano la miscela in particelle micrometriche che possono essere irrorate da distanze fino ed oltre 10m, saturando e disinfettando quindi completamente l’ambiente considerato. Durante la sanificazione e per le successive ore gli ambienti devono essere lasciati ad esclusiva disposizione degli operatori. Oggi la sanificazione d’emergenza si può condurre agendo con miscele che rilasciano nel tempo acido peracetico oppure con ozono prodotto dalle scariche elettriche su ossigeno. Questa soluzione è. particolarmente sostenuta, come é ovvio, dalla SIOOT (Societá Italiana di Ossigeno ed Ozono Terapia).  In passato venivano impiegati comuni ossidanti, dal cloro alla clorammina, dallo iodio al permanganato, all’acqua ossigenata o alternativamente soluzioni acquose di formaldeide, fenolo, alcool etilico.

https://www.iss.it/detergenti-disinfettanti-e-disinfestanti

Alcuni dei sanificanti agiscono combinandosi con le sostanze proteiche dei batteri modificandoli o alterandoli. Le proprietá richieste che vengono  talora sacrificate sono la stabilità e l’innocuità, il mancato potere corrosivo nei confronti dei materiali comuni. Anche mezzi fisici sono stati applicati come il calore secco, l’aria calda, il vapore acqueo, anche sotto pressione, aggiunto di formaldeide o carbonato sodico. Una soluzione ulteriore è fornita dalle malte, vernici ed asfalti fotocatalitici, utilizzati anche per la Galleria di Roma che li ha resi famosi: si tratta di materiali nei quali il materiale di base è additivato con diossido di titanio ed un attivatore elettronico capaci di produrre sotto l’azione della luce UV del sole (ma anche di luce artificiale opportuna) radicali liberi a partire dalle molecole di ossigeno ed acqua presenti in ambiente. I radicali liberi prodotti provvedono con la loro elevata reattività a distruggere composti chimici tossici e microorganismi. Nel caso di sanificazioni ambientali non in condizioni di emergenza si può intervenire facendo circolare con continuità sotto aspirazione l’atmosfera dei locali da bonificare attraverso filtri ossidanti.

Proposte recenti sono tornate su un vecchio tema che parte da esperienze datate parecchie decine di anni fa relative all’azione antibatterica, antimicrobica, anti virale della radiazione UV con riferimento alla scelta della lunghezza d’onda selettiva nei confronti del microorganismo da abbattere. La selettivitá è richiesta tenuto conto dell’azione nociva per l’uomo di alcuni intervalli di lunghezza d’onda nel campo spettrale dell’ulltravioletto.

Un aspetto di certo correlato alla esigenza di sanificazione ambientale è quello dell’igiene personale a partire dalla super-raccomandazione per il lavaggio ripetuto delle mani. Il lavaggio con acqua si è già rivelato da guardare con prudenza ed attenzione visto che dalla comparsa del virus e dalle sollecitazioni a lavarsi le mani il consumo di acqua, una risorsa non solo preziosa, ma in certi casi purtroppo non disponibile, è cresciuto di circa il 40%.

Una delle massime funzioni della pelle è fare da barriera e protezione del nostro organismo dall’ambiente esterno. Lo strato più esterno della pelle, l’epidermide, è normalmente abitata e colonizzata da microorganismi, soprattutto batteri, ma anche funghi e virus che formano la flora batterica, comunemente distinta in residente e transitoria. Mentre la prima difficilmente porta ad infezioni, anzi grazie alla sua presenza ostacola la crescita di batteri patogeni, entrando con essi in competizione, la seconda deriva da contatti con persone e cose infettate da germi patogeni. La frequenza di tali contagi è maggiore di quanto si possa credere: in Italia si attestano circa 500.000 casi di infezioni ospedaliere da contatto con altri malati, medici, personale paramedico o direttamente da oggetti contaminati. Le mani di una persona ospitano in media 300 specie diverse di microorganismi con una densità di popolazione che va da 40.000 a 500.000 batteri per centimetro quadrato. Per ovvie ragioni le mani, anche a prescindere dal covid 19, sono quindi da considerare importanti veicoli di trasmissione di germi da una persona all’altra.

I principali fattori che influenzano la trasmissione di infezioni sono la carica di microorganismi  patogeni e le caratteristiche delle superfici contaminate, in particolare il loro livello di umiditá che al crescere facilita il passaggio dalla superficie alle mani di un maggior numero di batteri, fino a 1000 volte di più. Alla ricerca di sostituti dell’acqua per il lavaggio delle mani potenzialmente contaminate sono state proposti come soluzioni l’alcool, i tensioattivi cationici, i gel disinfettanti a composizione variabile a seconda della marca, la clorexidina (un bis-biguanide), alcuni tensioattivi anionici e neutri a forte azione detergente: tutti prodotti testati in situazioni diverse,  in particolare per la disinfezione di ospedali, case di cura, scuole, asili, caserme.

Un’ultima nota riguarda i dispenser che contengono i prodotti disinfettanti e che non vengono mai considerati, sbagliando, come fonti di contaminazione. Questi dispositivi sono toccati da mani sporche, venendosi cosi a creare le condizioni ideali per il trasferimento di microorganismi. Ciò dovrebbe spingere verso  l’adozione di dispenser no touch, evitando il contatto fra mani e distributore.

Una nuova frontiera per i vaccini anti-COVID-19?

 Rinaldo Cervellati

I laboratori biochimici di mezzo mondo stanno scommettendo che i primi vaccini per la COVID-19 potrebbero essere realizzati con virus geneticamente modificati. I virus ingegnerizzati, chiamati vettori adenovirali, sono progettati per trasportare nei nostri corpi un gene da SARS-CoV-2 (il coronavirus che causa la malattia), dove le nostre cellule lo riconosceranno producendo le proteine ​​di superficie (spike protein) del coronavirus.

Figura 1. (sopra) Sezione trasversale del virus SARS-CoV-2. (sotto) Struttura 3D della proteina di superficie.

Come per tutti i vaccini, l’idea è di indurre il nostro corpo a pensare che sia stato infettato. Le proteine ​​di superficie autoprodotte addestrerebbero i nostri corpi a rilevare l’infezione da SARS-CoV-2. La tecnica è nota da oltre 3 decenni, ma causa la pandemia da COVID-19 sta per essere messa alla prova per un vaccino.

Appena la sequenza genetica di SARS-CoV-2 è stata identificata e resa nota a gennaio, tre gruppi hanno iniziato a lavorare in modo indipendente sui vaccini vettoriali adenovirali per COVID-19: CanSino Biologics[1], l’Università di Oxford e Johnson & Johnson (J&J)[2]. Tutti e tre i gruppi annoverano veterani nello studio sui vaccini e i loro programmi anti-COVID-19 hanno attirato l’attenzione globale per la loro portata e velocità.

Molti scienziati ritengono che sarà necessario un vaccino per fermare la diffusione del coronavirus e porre fine alla pandemia, che finora ha causato centinaia di migliaia di vittime. Negli ultimi 4 mesi, oltre 100 gruppi hanno aderito alla corsa per sviluppare vaccini anti-COVID-19. I loro sforzi coprono una gamma di tecnologie, inclusi virus inattivi convenzionali e nuove tecnologie non provate come i vaccini RNA messaggero (mRNA).

Al contrario, i vaccini vettoriali adenovirali[3] hanno la particolarità di essere efficaci in primo luogo sugli umani.

La sperimentazione sull’uomo del vaccino vettoriale adenovirale della CanSino è iniziata in Cina nel marzo scorso. Nello stesso mese, il governo degli Stati Uniti ha stanziato oltre 500 milioni di dollari per supportare J&J al fine di preparare fino a un miliardo di dosi del suo vaccino, che dovrebbe iniziare i test clinici nel prossimo settembre. L’Università di Oxford, nel frattempo, sta adottando l’approccio più ambizioso: alla fine di aprile ha avviato una sperimentazione su 1.100 persone per dimostrare la sicurezza del suo vaccino cercando nel contempo prove del suo funzionamento. L’obiettivo è completare questo studio in appena un mese e quindi iniziare una fase III di sperimentazione su 5.000 persone in giugno. Se avesse successo, il programma di Oxford scavalcherebbe tutti gli altri vaccini anti-COVID-19 in fase di sviluppo.

“Hanno la cronologia più rapida di qualsiasi gruppo”, afferma Thomas G. Evans, direttore scientifico di Vaccitech, una società fondata nel 2016 per commercializzare la tecnologia vettoriale adenovirale di Oxford.

Thomas G. Evans

Ad aprile, Vaccitech[4] e la grande azienda farmaceutica AstraZeneca[5] hanno annunciato un accordo per sviluppare e commercializzare il vaccino. “È probabile che Oxford abbia i primi dati al mondo sull’efficacia di un vaccino anti-COVID-19, probabilmente già in agosto, il che significa che la distribuzione potrebbe iniziare in autunno”, sostiene Evans.

Alcuni scienziati affermano che i vaccini vettoriali adenovirali, e in particolare il vaccino di Oxford, potrebbe essere la migliore possibilità per tornare alla completa normalità.

“Da quello che ho potuto costatare, i vaccini vettoriali adenovirali sono probabilmente la piattaforma più promettente”, afferma Hildegund Ertl, che studia questi vaccini presso il Wistar Institute di Filadelfia.

Rispetto ad alcune delle più recenti tecnologie sperimentali – come il vaccino mRNA di Moderna[6], che è stata la prima a effettuare studi clinici sull’uomo negli Stati Uniti – i vettori adenovirali sono considerati un approccio più promettente. J&J definisce la sua piattaforma vettoriale adenovirale una tecnologia “comprovata”. Mentre i vettori adenovirali sono stati testati in più soggetti rispetto ai vaccini mRNA, la tecnologia è oggi utilizzata in un solo vaccino commerciale contro la rabbia, utilizzato per immunizzare gli animali selvatici. Finora, tuttavia, nessun vaccino vettoriale adenovirale ha dimostrato di poter prevenire questa malattia negli umani.

C’è un altro potenziale problema. Proprio come i corpi umani sviluppano risposte immunitarie alla maggior parte delle infezioni virali reali, i nostri corpi sviluppano anche l’immunità ai vettori adenovirali. Per esempio, dopo una seconda vaccinazione, il corpo umano potrebbe scatenare un attacco di anticorpi contro il vaccino stesso. E poiché i vettori adenovirali sono basati su virus naturali cui alcune persone potrebbero essere già state esposte, i vaccini potrebbero non funzionare per tutti.

Anche se vaccini basati su vettori adenovirali potrebbero prendere le luci della ribalta nella lotta alla pandemia da coronavirus, essi hanno un passato fallimentare in un altro campo, quello della terapia genica.

Quando gli scienziati iniziarono a costruire vettori adenovirali negli anni ’80, la maggior parte lavorò con un particolare tipo di adenovirus, chiamato Ad5, quello che provoca nell’uomo il comune raffreddore. I ricercatori eliminarono da Ad5 i geni necessari per replicarsi e li inserirono in linee cellulari geneticamente modificate. Ciò ha assicurato che i virus modificati potevano essere coltivati ​​solo in queste cellule speciali in laboratorio. Molti scienziati speravano di usare l’Ad5 per fornire un gene umano in grado di correggere rare mutazioni genetiche, un approccio chiamato appunto terapia genica. Questi sforzi si arrestarono nel 1999 quando un adolescente con una rara malattia genetica del fegato morì dopo trattamento con terapia genica basata su Ad5, progettata in un laboratorio dell’Università della Pennsylvania. La grande dose di virus modificati provocò al paziente un’infiammazione diffusa in tutto il corpo, mandando in tilt il suo sistema immunitario. In seguito a questo grave insuccesso, gli scienziati smisero per lo più di utilizzare i vettori adenovirali per la terapia genica, in cui la dose deve essere elevata per raggiungere tutte le cellule del corpo.

Tuttavia gli esperti di vaccini considerarono l’infiammazione indotta dall’adenovirus come una risorsa. Come ebbe a dire Luk Vandenberghe, un virologo della Harvard Medical School:  “una terapia genica fallita può fornire un buon vaccino”. Una vantaggio interessante è infatti che,  causa gli effetti infiammatori degli adenovirus, nei vaccini a base di questi non deve essere aggiunto nulla.  Al contrario, nei vaccini convenzionali devono essere aggiunti adiuvanti, cioè molecole che indirizzino il sistema immunitario sulla proteina virale, tramite un processo infiammatorio, talvolta anche con sintomi febbrili. Nel caso dei vettori antivirali, sono gli adenovirus stessi che guidano l’infiammazione, tenuta sotto controllo somministrando i vaccini a basse dosi.

E tutti i vaccini genetici – vaccini DNA, vaccini mRNA e vaccini vettoriali adenovirali – imitano un’infezione virale naturale costringendo i nostri corpi a produrre proteine ​​virali all’interno delle nostre cellule. Ciò stimola le cellule T[7] del nostro sistema immunitario ad attaccare queste cellule vaccinate e, nel processo, apprendono a cercare e distruggere le cellule infettate da un’eventuale futura infezione del virus reale.

I vaccini tradizionali, ottenuti da virus indeboliti o proteine ​​virali, stimolano le cellule B a produrre anticorpi contro il virus. Questi anticorpi si attaccano ai virus invasori e impediscono loro di entrare nelle nostre cellule.

Il problema è che una volta che il virus si infiltra nelle nostre cellule, gli anticorpi di un vaccino tradizionale sono inutili. È a quel punto che le cellule T devono entrare in azione. I vettori di adenovirus “sono i migliori di tutti i vaccini per indurre una risposta delle cellule T”, afferma H. Ertl del Wistar Institute[8].

Ecco il motivo per cui alcuni ricercatori di vaccini si rivolsero ai vettori adenovirali nei primi anni 2000 per affrontare malattie come l’AIDS, la malaria e la tubercolosi. Tuttavia un vaccino a base di Ad5 si rivelò inefficace contro il virus dell’HIV mettendo a rischio un sottogruppo di soggetti con preesistente immunità all’Ad5. La ricerca sugli adenovirus cessò per 5 anni. Nel 2009, il National Institute for Health, decise di procedere con una versione modificata della sperimentazione di un vaccino contro l’HIV, a condizione che i partecipanti non avessero l’immunità preesistente all’Ad5. I risultati dello studio su 2.500 persone mostrarono che il vaccino era sicuro, ma ancora non funzionava. Questo studio di caso frenò ancora l’entusiasmo per Ad5, senza però eliminarlo del tutto.

La società CanSino ha sviluppato un vaccino a base di Ad5 per l’Ebola durante l’epidemia del 2014 e uno studio di Fase II ha mostrato che il vaccino ha indotto una risposta anticorpale 4 settimane dopo il trattamento.

Nel 2017, la Cina ha approvato il vaccino, ma solo per l’uso di emergenza e lo stoccaggio nazionale. Ciò lo ha reso il primo, e ancora unico, vaccino vettoriale adenovirale approvato per gli umani, con ’ avvertimento che i livelli di anticorpi sono diminuiti drasticamente entro 6 mesi dalla vaccinazione. La maggior parte dei partecipanti aveva un’immunità preesistente all’Ad5, che secondo alcuni scienziati potrebbe aver ridotto la capacità del vaccino di indurre una risposta immunitaria più duratura.

L’esperienza Ebola dell’azienda le ha permesso di passare rapidamente a un vaccino anti-COVID-19 usando Ad5. Il 16 marzo CanSino è diventata la prima azienda a iniziare una sperimentazione clinica di questo vaccino. Lo studio sulla sicurezza di Fase I su 108 persone è stato completato, sebbene i risultati non siano ancora stati comunicati. È in corso uno studio di fase II su 500 persone.

Alcuni scienziati hanno messo in dubbio le possibilità di successo di CanSino, ma i veterani del settore affermano che l’immunità preesistente all’Ad5 può essere superata con una dose più elevata del vaccino, che richiederà un monitoraggio più rigoroso degli effetti collaterali.

Il già nominato Evans sottolinea che “I cinesi hanno una possibilità migliore in questo studio rispetto a chiunque altro perché hanno una grande esperienza, un enorme impianto di produzione, e il sostegno finanziario e di manodopera del governo cinese. Ignorando CanSino si commetterebbe un grosso errore”.

CanSino Biologics ha iniziato una sperimentazione clinica del suo vaccino COVID-19 basato su Ad5 il 16 marzo. Credit CanSino Biologics

Anche diverse aziende più piccole stanno sviluppando vaccini contro COVID-19 basati su Ad5. Uno di questi è ImmunityBio, che utilizza i vettori Ad5 con ulteriori modifiche geniche. L’amministratore delegato Patrick Soon-Shiong afferma che la modifica riduce drasticamente le risposte immunitarie tossiche del corpo al virus e consente persino di dosare il vettore più volte. L’azienda ha testato il vettore su circa 200 persone in diversi piccoli studi clinici.

Altre società, tra cui Altimmune, Stabilitech BioPharma e Vaxart, ritengono di poter eludere l’immunità preesistente ad Ad5 nel flusso sanguigno somministrando i loro vaccini come spray o pillole nasali anziché con iniezioni. Le formulazioni sperimentali potrebbero anche essere più facili da fabbricare, conservare, distribuire e utilizzare.

Alternative ad Ad5

Anche prima del fallimento sull’HIV, alcuni scienziati ritenevano che l’immunità preesistente all’Ad5 sarebbe stato un problema, quindi hanno cercato in natura gli adenovirus meno comuni cui sarebbero state esposte meno persone. La società di vaccini olandese Crucell Holland e Dan Barouch[9], presso il Beth Israel Deaconess Medical Center e la Harvard Medical School, hanno utilizzato uno dei virus naturali più promettenti, chiamato Ad26, per creare un nuovo vettore adenovirale.

J&J, che ha acquisito Crucell nel 2011, ha continuato a sviluppare più vaccini basati su Ad26 per virus come HIV, virus respiratorio sinciziale (RSV), virus Zika e virus Ebola.

Da allora J&J ha somministrato migliaia di dosi del suo vaccino sperimentale contro l’ebola a persone nella Repubblica Democratica del Congo e in Ruanda. Il vaccino è in fase di revisione da parte delle agenzie del farmaco in Europa, il che significa che potrebbe diventare il primo vaccino vettoriale adenovirale commerciale che ha mostrato di prevenire una malattia nell’uomo.

A gennaio, Barouch ha iniziato a lavorare con J&J su un vaccino anti-COVID-19 basato su Ad26. Sebbene J&J non avvierà studi del suo vaccino sull’uomo fino al prossimo autunno, ha un vantaggio nella capacità di produzione. Oltre ai propri impianti di produzione, ha reclutato Emergent BioSolutions e Catalent[10] per contribuire a produrre fino a 1 miliardo di dosi del vaccino.

Ma il vaccino di J&J ha potenziali svantaggi. I vaccini contro Ebola, HIV e RSV dell’azienda utilizzano tutti un vaccino a base di Ad26 più un richiamo a un altro vaccino. Questa combinazione rende difficile fare confronti con il vaccino anti-COVID-19, che utilizza solo Ad26. E Barouch ha scoperto che circa la metà degli adulti in alcuni paesi dell’Africa sub-sahariana e del Sud-est asiatico hanno un’immunità preesistente all’Ad26, il che significa che il vaccino potrebbe non funzionare bene per queste persone.

Alcuni laboratori hanno cercato di evitare del tutto il problema dell’immunità preesistente usando adenovirus che normalmente non infettano l’uomo ma infettano i nostri parenti più stretti, le scimmie. All’inizio degli anni 2000, James M. Wilson[11] e il suo gruppo della Pennsylvania State University iniziarono a cercare adenovirus di scimpanzé, che i ricercatori isolarono dalle feci dell’animale. Poco dopo Wilson iniziò la collaborazione con Ertl, del Wistar Institute (v. nota 8), per studiare gli adenovirus di scimpanzé come nuovo vettore adenovirale.

Anche Stefano Colloca, già ricercatore della Merck a Roma, co-fondatore dell’impresa italiana Okairos, che ha sconfitto l’ebola sui macachi, si concentrò sullo sviluppo di vettori adenovirali di scimpanzé che assomigliavano molto all’Ad5 umano, instaurando una collaborazione con il Jenner Institute di Oxford. Il gruppo di Oxford ha utilizzato uno dei vettori derivati ​​dallo scimpanzé di Okairos per sviluppare un vaccino contro la malaria, che è diventato il primo vettore derivato da scimpanzé a essere testato sull’uomo.

Nel 2012, il gruppo di Oxford ha sviluppato il vettore chiamato ChAdOx1, basato su un adenovirus scoperto proprio nelle feci di scimpanzé. Nel 2016, il team di Oxford insieme all’affiliata compagnia Vaccitech (v. nota 4) ha sviluppato vaccini sperimentali per una serie di malattie, tra cui AIDS, malaria, tubercolosi e la sindrome respiratoria del medio oriente, causata dal coronavirus MERS-CoV[12].

Nel 2018 è stato condotto un piccolo studio sulla sicurezza del vaccino MERS. I risultati, pubblicati ad aprile, hanno mostrato che la maggior parte delle 24 persone coinvolte nello studio di caso avevano ancora cellule T che colpivano il virus MERS 12 mesi dopo una singola iniezione del vaccino. Avevano anche livelli elevati di anticorpi un anno dopo. Ma solo circa la metà delle persone che hanno ricevuto la dose più alta del vaccino aveva anticorpi che hanno neutralizzato il virus MERS negli esperimenti di laboratorio.

Il lavoro sul MERS ha permesso al gruppo di Oxford di muoversi rapidamente per un vaccino anti-COVID-19, che essenzialmente scambia le istruzioni genetiche per la proteina di superficie del virus SARS-CoV-2. Per migliorare il processo di produzione del suo vaccino, Oxford ha richiesto l’aiuto di MilliporeSigma, che fornirà attrezzature a più produttori a contratto che potrebbero sviluppare collettivamente decine di milioni di dosi del vaccino.

Ricercatori dell’Università di Oxford e di MilliporeSigma al lavoro per migliorare il vaccino vettoriale adenovirale di scimpanzé per COVID-19. Credit Millipore Sigma

Nel luglio 2019, Okairos, trasformatasi in una società chiamata ReiThera[13], di cui Stefano Colloca[14] è responsabile dello sviluppo tecnologico, ha in programma di avviare una sperimentazione clinica del proprio vaccino anti-COVID-19, basato su un adenovirus scoperto nelle feci di gorilla.

Stefano Colloca

Il più grande svantaggio dei vaccini vettoriali adenovirali da grandi scimmie potrebbe essere la loro mancanza di test precedenti sull’uomo. Prima della pandemia da coronavirus, il vettore ChAdOx1 di Oxford era stato somministrato solo a circa 320 persone e il nuovo vettore derivato da gorilla di ReiThera non era mai stato testato sull’uomo.

Sebbene l’immunità preesistente possa limitare l’efficacia dei vaccini basati su Ad5 e Ad26, almeno i genetisti hanno un’idea migliore sulla sicurezza dei loro vettori.

Tuttavia, mentre la maggior parte degli studiosi sul vaccino concorda sul fatto che i vaccini vettoriali adenovirali sono molto efficaci per stimolare l’immunità delle cellule T, non sono d’accordo su quanto sarà importante per prevenire la COVID-19. La maggior parte della ricerca si è concentrata sulla risposta anticorpale del sistema immunitario al virus. I vaccini vettoriali adenovirali possono indurre risposte anticorpali, ma di solito non sono così efficaci come quelli provocati da vaccini più tradizionali.

Gli scienziati seguiranno da vicino gli studi sui vaccini vettoriali adenovirali nei prossimi mesi per vedere come si confrontano con i vaccini mRNA e DNA per la COVID-19. Se i risultati preliminari saranno promettenti e tutto procederà alla perfezione, un numero limitato di vaccini potrebbe essere disponibile per gruppi selezionati – come gli operatori sanitari – già in autunno. Molte aziende sperano che un numero maggiore di vaccini sarà disponibile per tutto il 2021.

*Adattato e ampliato da: Ryan Cross, Adenoviral vectors are the new COVID-19 vaccine front-runners. Can they overcome their checkered past?, C&EN news, May 12, 2020

[1] CanSino Biologics Inc. (Tianjin, Cina) è una società biofarmaceutica innovativa dedicata all’esplorazione delle migliori soluzioni per la prevenzione delle malattie attraverso la ricerca e lo sviluppo all’avanguardia, la produzione avanzata e la commercializzazione di prodotti vaccinali innovativi per uso umano in tutto il mondo.

[2] Johnson & Johnson è una multinazionale americana fondata nel 1886 che sviluppa farmaci, dispositivi medici, prodotti per automedicazione e igiene personale. Molto nota per i suoi prodotti destinati all’igiene della prima infanzia.

[3] I vettori virali sono supramolecole comunemente usate dai biologi molecolari per trasportare materiale genetico nelle cellule. Questo processo può essere eseguito in coltura cellulare (in vitro) o all’interno di un organismo vivente (in vivo).  Gli adenovirus (Adenoviridi) sono una famiglia di virus di dimensioni medie il cui genoma è costituito da DNA lineare a doppio filamento, e i cui membri presentano simmetria icosaedrica e sono privi di rivestimento lipidico (analogamente al SARS-CoV-2).

[4] Vaccitech è un’azienda commerciale spin-out sviluppata dal Jenner Institute dell’Università di Oxford, uno dei più prestigiosi centri di ricerca al mondo sui vaccini.

[5] AstraZeneca è un’azienda globale biofarmaceutica britannica operante nella ricerca scientifica, nello sviluppo e nella commercializzazione di farmaci con obbligo di prescrizione medica per patologie cardiovascolari, metaboliche, respiratorie, infiammatorie, autoimmuni, oncologiche, infezioni e disturbi del sistema nervoso centrale.

[6] Moderna Inc. è una società di biotecnologia con sede a Cambridge (Massachusetts, USA) specializzata nella scoperta e nello sviluppo di farmaci basati sull’RNA messaggero

[7] Le cellule T sono un tipo di linfociti, che si sviluppano nella ghiandola del timo (da cui il nome) e svolgono un ruolo centrale nella risposta immunitaria. Sono distinti dagli altri linfociti, quali i linfociti B, per la presenza di uno specifico recettore presente sulla loro superficie chiamato recettore delle cellule T (T cell receptor, TCR).

[8] Il Wistar Institute è un istituto di ricerca indipendente senza scopo di lucro nella scienza biomedica, con una competenza specifica in oncologia, immunologia, malattie infettive e ricerca sui vaccini. Situato nell’University City di Filadelfia.

[9] Dan Barouch è un medico, immunologo e virologo americano. È noto per il suo lavoro sulla patogenesi e l’immunologia delle infezioni virali e lo sviluppo di strategie vaccinali per le malattie infettive globali.

[10] Entrambe multinazionali per la produzione e la distribuzione di prodotti farmaceutici.

[11] James M. Wilson, professore di Medicina alla Penn Stat University è ricercatore biomedico con esperienza nella terapia genica.

[12] La sindrome respiratoria mediorientale (dall’inglese Middle East Respiratory Syndrome) è una patologia causata dal coronavirus MERS-CoV.

[13] ReiThera è un consorzio europeo costituito con la tedesca Leukocare di Monaco e Univercells di Bruxelles, dedicato allo sviluppo e alla produzione di prodotti biofarmaceutici basati su tecnologie geniche per terapie avanzate, al fine di prevenire e curare diverse malattie gravi o potenzialmente letali.

[14] Stefano Colloca ha decenni di esperienza nella ricerca e sviluppo dei virus genetici, con pubblicazioni su Nature Medicine ed England Journal of Medicine, e inventore, in collaborazione con il National Institute of Health americano, del brevetto del vaccino contro Ebola, quando l’azienda si chiamava Okairos.

Elementi della tavola periodica. Boro, B.

Rinaldo Cervellati

Il boro (ingl. Boron), simbolo B, è l’elemento n. 5 della tavola periodica, primo del 13° Gruppo. La sua abbondanza nella crosta terrestre è valutata in 10 ppm. Non si trova libero in natura, è contenuto in particolare nel minerale borace e nei soffioni boraciferi[1], famosi quelli di Lardarello, in Toscana.

Figura 1. Varietà di borace (alto), soffione boracifero a Sasso Pisano (basso)

Il minerale borace fu usato in Cina per la fabbricazione degli smalti dal 300 d.C., e alcuni campioni grezzi di borace raggiunsero l’Occidente, dove l’alchimista persiano-arabo Jābir ibn Hayyān lo menzionò attorno al 700 d.C. Marco Polo riportò alcuni smalti in Italia nel 13° secolo. Agricola[2], nel XVI secolo, riporta l’uso del borace come fondente nella metallurgia. Nel 1777 l’acido borico fu riconosciuto nelle sorgenti calde (soffioni) e divenne noto come sal sedativum, con usi principalmente medici. Il minerale sassolite, meno comune del borace, si trova a Sasso Pisano.

Figura 2. Sassolite

La sassolite fu la principale fonte di acido borico in Europa dal 1827 al 1872, quando fonti americane la sostituirono. I composti di boro sono stati usati relativamente poco fino alla fine del 1800, quando la società Pacific Borax Company li rese popolari, producendoli in quantità a basso costo.

Il boro non è stato riconosciuto come elemento fino a quando non fu isolato da Sir Humphry Davy[3], Joseph Louis Gay-Lussac[4] e Louis Jacques Thénard[5]. Nel 1808 Davy osservò che la corrente elettrica inviata attraverso una soluzione di borati produceva un precipitato marrone su uno degli elettrodi. Nei suoi successivi esperimenti, usò il potassio per ridurre l’acido borico invece dell’elettrolisi. Produsse abbastanza boro da confermare il nuovo elemento che chiamò boracio.  Gay-Lussac e Thénard usarono il ferro per ridurre l’acido borico ad alta temperatura. Ossidando il boro con aria, dimostrarono che l’acido borico è un prodotto di ossidazione del boro. Il famoso chimico Jöns Jacob Berzelius identificò il boro come elemento nel 1824.

Proprietà fisiche

Il boro elementare è un non-metallo che si trova in piccole quantità nei meteoriti. Industrialmente il boro purissimo viene prodotto con difficoltà a causa della contaminazione da carbonio o altri elementi. Esistono due principali allotropi di boro: il boro amorfo è una polvere marrone; il boro cristallino è argenteo virante al nero, estremamente duro (circa 9,5 sulla scala di Mohs) e cattivo conduttore elettrico a temperatura ambiente.

Figura 3. Boro elementare: amorfo (alto), cristallino (basso)

L’uso principale del boro elementare è in filamenti, con applicazioni simili alle fibre di carbonio in alcuni materiali ad alta resistenza.

Il boro infatti è simile al carbonio nella capacità di formare reti molecolari con legami covalenti. Anche il boro amorfo (nominalmente disordinato) contiene minuscoli cristalli icosaedrici che, tuttavia, sono legati casualmente tra loro senza un ordine regolare.

Il boro cristallino ha un punto di fusione superiore a 2000 ° C. Possiede diverse forme polimorfe: α- e β-romboedrica, γ- e β-tetragonale. La compressione del boro sopra 160 GPa produce una fase del boro con una struttura ancora sconosciuta, superconduttrice a temperature molto basse, 6–12 K. Nel 2014 sono state descritte le molecole di borosfene (B40, simile al fullerene) e borofene (con struttura simile a quella del grafene).

Figura 4. Struttura del borofene

Proprietà chimiche

Il boro elementare è poco studiato perché è estremamente difficile da preparare al giusto stato di purezza. La maggior parte degli studi sul boro elementare utilizza campioni che contengono piccole quantità di carbonio. Il comportamento chimico ricorda quello del silicio più dell’alluminio, che è l’elemento successivo del 13° Gruppo. Il boro cristallino è chimicamente inerte e resistente all’attacco di acido fluoridrico o cloridrico anche bollenti. Se diviso finemente, viene attaccato lentamente dall’acqua ossigenata concentrata calda, dall’acido nitrico concentrato caldo, dall’acido solforico caldo.

Il boro non reagisce con l’aria a temperatura ambiente, ma a temperature più elevate brucia per formare triossido di boro, B2O3. Il tasso di ossidazione dipende dalla cristallinità, dalla dimensione delle particelle, dalla purezza e dalla temperatura.

Nei composti più usuali, il boro ha stato di ossidazione III. Questi composti includono ossidi, solfuri, nitruri e alogenuri.

I trialogenuri hanno struttura trigonale planare. Questi composti sono acidi di Lewis poiché formano facilmente addotti con donatori di coppie di elettroni, chiamate basi di Lewis. Ad esempio, lo ione fluoruro (F) e il trifluoruro di boro (BF3) si combinano per dare l’anione tetrafluoroborato, BF4. Gli alogenuri reagiscono con l’acqua per formare acido borico, H3BO3.

Più di cento minerali di boro contengono l’elemento nello stato di ossidazione +3. Questi minerali assomigliano in qualche modo ai silicati, sebbene l’atomo di boro si trovi non solo nella configurazione tetraedrica con quelli dell’ossigeno, ma anche in quella trigonale planare. A differenza dei silicati, i minerali di boro non contengono mai il boro con un numero di coordinazione maggiore di quattro. Un esempio tipico è dato dagli anioni tetraborato nel comune minerale borace (figura 5).

Figura 5. Struttura dell’anione tetraborato (atomi di boro in rosa, di ossigeno in rosso)

La carica negativa formale del boro nel borace tetraedrico è bilanciata da cationi metallici, come il sodio (Na+).

Con l’idrogeno forma composti chiamati borani, con formula generica BxHy, che non esistono in natura. Molti borani si ossidano facilmente a contatto con l’aria, alcuni in modo violento. Il capostipite, chiamato borano, ha formula BH3, ma si forma solo allo stato gassoso, dimerizzando per formare diborano, B2H6. I borani superiori sono tutti costituiti da ammassi poliedrici, alcuni dei quali esistono come isomeri.

I composti del boro con l’azoto, chiamati nitruri di boro, sono notevoli per la varietà di strutture che esibiscono, analoghe a quelle degli allotropi del carbonio, come grafite, diamante e nanotubi. La struttura a forma di diamante, chiamata nitruro di boro cubico (nome commerciale Borazon) è utilizzato come abrasivo poiché ha una durezza paragonabile al diamante (le due sostanze sono in grado di produrre graffi l’una sull’altra).

Sono noti numerosi composti organoboranici, in gran parte utilizzati nella sintesi organica. Molti sono prodotti a partire dal diborano, B2H6. Questi composti hanno generalmente geometria tetraedrica o trigonale planare, ne sono esempi il tetrafenilborato, B(C6H5)4 e il trifenilborano, B(C6H5)3. Tuttavia, più atomi di boro che reagiscono tra loro hanno la tendenza a formare nuove strutture dodecaedriche e icosaedriche composte completamente di atomi di boro, o con un numero variabile di eteroatomi di carbonio.

Un composto importante è il carburo di boro, formalmente B4C, un prodotto ceramico molto duro a struttura complessa con proprietà semiconduttrici.

Figura 6. Struttura complessa del carburo di boro

Il boro ha due isotopi naturali stabili, 11B (80,1%) e 10B (19,9%). Esistono 13 isotopi artificiali di boro.

L’isotopo stabile 10B ha un’elevata sezione di cattura neutronica e viene quindi usato nei reattori nucleari. L’industria nucleare arricchisce il boro naturale a quasi 10B puro. Il sottoprodotto meno prezioso, il boro impoverito, è quasi tutto 11B.

Produzione

Le fonti economicamente importanti di boro sono le varietà di borace colemanite (borato idrato di calcio), kernite, tincal (due varietà di borato idrato di sodio) e ulexite (borato idrato di sodio e calcio). Insieme costituiscono il 90% del minerale estratto contenente boro. I maggiori depositi mondiali di borace conosciuti, molti ancora non sfruttati, si trovano nella Turchia centrale e occidentale. Le riserve globali accertate per l’estrazione mineraria superano il miliardo di tonnellate, contro una produzione annua di circa quattro milioni di tonnellate.

La Turchia e gli Stati Uniti sono i maggiori produttori di boro. La Turchia produce circa la metà della domanda annuale globale, tramite Eti Maden İşletmeleri, una società di estrazione mineraria e chimica di proprietà statale turca focalizzata sui prodotti al boro. Nel 2012 deteneva una quota del 47% della produzione globale di minerali di boro, davanti al suo principale concorrente, il gruppo Rio Tinto (dal nome della miniera situata vicino alla città chiamata Boron, in California) che detiene quasi un quarto (23%) della produzione globale di boro.

Applicazioni

La maggior parte del minerale estratto è destinata al raffinamento in acido borico e sodio tetraborato pentaidrato. Quest’ultimo è utilizzato per la produzione di vetro e ceramica. Il principale uso su scala industriale globale dei composti di boro è nella produzione di fibre di vetro per isolanti. Il boro è aggiunto al vetro sotto forma di tetraborato o ossido di boro, per influenzare la resistenza delle fibre di vetro. Un altro 10% della produzione globale di boro è per il vetro al borosilicato utilizzato nella vetreria ad alta resistenza. Circa il 15% del boro globale è utilizzato nella ceramica al boro, compresi i materiali super duri. L’agricoltura consuma l’11% della produzione mondiale e circa il 6% è utilizzato nell’industria di sbiancanti e detergenti.

Le fibre di boro (filamenti di boro) sono materiali leggeri e ad alta resistenza che vengono utilizzati principalmente in strutture aerospaziali, nonché per attrezzi sportivi di produzione limitata come mazze da golf e canne da pesca. Le fibre sono prodotte mediante deposizione chimica di vapori di boro su filamenti di tungsteno.

La vetroresina è un polimero rinforzato con fibre di plastica e di vetro. Tutti i manufatti in vetroresina contengono silice o silicati, con quantità variabili di ossidi di calcio, magnesio e talvolta boro. Il boro è presente come borosilicato, borace o ossido di boro e viene aggiunto per aumentare la resistenza del vetro o come agente per ridurre la temperatura di fusione della silice.

Il vetro al borosilicato, composto in generale da 12-15% B2O3, 80% SiO2 e 2% Al2O3, ha un basso coefficiente di espansione termica, e viene utilizzato nella produzione di vetreria scientifica. I marchi Duran di Schott AG e Pyrex di Owens-Corning sono i due principali marchi di questo vetro, utilizzato anche per pentole e oggetti da forno, principalmente per l’alta resistenza agli shock termici.

In metallurgia, il boro è aggiunto agli acciai a livello di alcune parti per milione per aumentare la temprabilità.

Il borace raffinato è utilizzato in vari prodotti per la pulizia della biancheria e della casa. Il perborato di sodio funge da fonte di ossigeno attivo in molti detergenti per bucato e prodotti per la pulizia.

Il boro è un drogante utile per semiconduttori come silicio, germanio e carburo di silicio. Il metodo tradizionale per introdurre il boro nei semiconduttori è attraverso la sua diffusione atomica ad alte temperature.

Il boro è un componente dei magneti al neodimio, che sono tra i più potenti tipi di magneti permanenti. Questi magneti si trovano in una varietà di dispositivi elettromeccanici ed elettronici, come i sistemi di imaging medica a risonanza magnetica.  Anche i lettori di HDD (hard disk), CD (compact disc) e DVD (digital versatile disk) per computer utilizzano magneti al neodimio per fornire un’intensa potenza rotante in un contenitore straordinariamente compatto. Nei telefoni cellulari i magneti “Neo” forniscono il campo magnetico che consente a piccoli altoparlanti di fornire una potenza audio apprezzabile.

L’acido borico ha proprietà antisettiche, antimicotiche e antivirali e per questi motivi viene usato come depuratore nel trattamento delle acque nelle piscine.  Soluzioni di acido borico a bassa concentrazione sono state usate come antisettici oculari.

Ruolo biologico

Il boro è un nutriente essenziale per le piante, necessario principalmente per mantenere l’integrità delle pareti cellulari. Tuttavia elevate concentrazioni, superiori a 1,0 ppm nel suolo, comportano necrosi marginale e delle punte delle foglie e diminuzione complessiva di crescita. Quasi tutte le piante, anche quelle più tolleranti al boro, mostrano alcuni sintomi di tossicità quando il contenuto di boro nel suolo è superiore a 1,8 ppm. Quando questo contenuto supera 2,0 ppm, alcune piante potrebbero non sopravvivere.

Si pensa che il boro abbia diversi ruoli essenziali negli animali, compreso l’uomo, ma l’esatto ruolo fisiologico è ancora poco compreso. Uno studio sull’uomo pubblicato nel 1987 riferiva di donne in postmenopausa inizialmente carenti di boro e poi trattate con 3 mg/die. L’integrazione ha ridotto notevolmente l’escrezione urinaria di calcio ed elevato le concentrazioni di 17 beta-estradiolo e testosterone nel siero.

L’Institute of Medicine degli USA non ha confermato che il boro sia un nutriente essenziale per l’uomo, quindi non è stata stabilita né una dose giornaliera raccomandata (RDA) né un’assunzione adeguata. L’assunzione nella dieta degli adulti è stimata tra 0,9 e 1,4 mg/die, con circa il 90% assorbito. Ciò che è assorbito viene escreto principalmente nelle urine. Il livello di assunzione superiore tollerabile per gli adulti è di 20 mg/die.

Esistono diversi noti antibiotici naturali contenenti boro. Il primo trovato fu la boromicina, isolata dagli streptomyces.

La distrofia endoteliale congenita di tipo 2, una rara forma di distrofia corneale, è collegata alle mutazioni del gene SLC4A11 che codifica un trasportatore che regola la concentrazione intracellulare di boro.

Riciclaggio

In rete si possono trovare vari studi su processi efficienti per il recupero del boro e composti da materiali di scarto o obsoleti. Per esempio Hong-Yo Shim e collaboratori hanno recentemente proposto un processo per recuperare il boro dalle sostanze chimiche contenute nel sistema di accensione di vecchi motori a propulsione [1]. Il sistema è composto da ossidanti, composti di boro e leganti. Per estrarre i composti del boro sono stati impiegati un solvente organico e/o trattamenti acquosi, seguiti da un processo di sinterizzazione. I risultati hanno mostrato che complessivamente, è stato raggiunto un recupero di boro del 79,7%. Il livello di purezza del boro recuperato è stato del 94%, sufficiente per soddisfare le specifiche richieste dai sistemi di accensione dei motori a propulsione.

Particolare attenzione è stata posta al recupero degli scarti delle miniere per il riutilizzo dei composti di boro nell’industria della ceramica, specialmente in Turchia, il maggior produttore dell’elemento e composti. Haluk Celik ha studiato un possibile riutilizzo dei rifiuti di borace (BW, Boron Waste) dell’unità di dissoluzione della miniera di Kirka,Turchia [2].  Questi BW sono stati impiegati in diverse quantità come sostituzione parziale del marmo al fine di ottenere una composizione ottimale del rivestimento ceramico. Sono state preparate una serie di formulazioni di piastrelle con il 2, 4, 6 e 9% in peso di incorporo del rifiuto boraceo opportunamente pressato. I risultati complessivi hanno indicato una prospettiva di utilizzo dei BW come materia prima fino al 4% in peso per la produzione del rivestimento ceramico.

Un altro composto del boro, il carburo di boro, ha visto un crescente consumo come abrasivo. Di conseguenza sono prodotte grandi quantità di rifiuti di carburo di boro, che possono e devono essere recuperati e riutilizzati. Shuaibo Gao e collaboratori hanno sviluppato un processo economico e rispettoso dell’ambiente per riutilizzare questi rifiuti nell’industria ceramica [3]. Il processo consiste nell’aggiunta di una certa quantità di polvere di alluminio agli scarti per sinterizzare una ceramica composita B4C/Al. Dopo ottimizzazione con idrossipropilmetilcellulosa allo 0,4%, il prodotto sinterizzato ha mostrato prestazioni soddisfacenti: buona porosità densità e resistenza alla compressione e alla flessione.

Una dettagliata review sul riciclaggio del boro e composti è stata recentemente pubblicata da Hakan Caglar e Oguzhan Y. Bayraktar [4].

Ciclo biogeochimico

Un primo studio sul ciclo biogeochimico globale del boro fu pubblicato da Haewon Park e William H. Schlesinger nel 2002. Successivamente, nel 2016, lo stesso Schlesinger, insieme a Avner Vengosh, della Duke University (USA), hanno revisionato la ricerca in base a dati più recenti [5].

In questo lavoro rivisto e aggiornato del ciclo biogeochimico del boro sulla superficie terrestre, i flussi più grandi sono associati all’iniezione di aerosol di sale marino nell’atmosfera (1,44 Tg B/ anno), alla produzione e combustione di combustibili fossili (1,2 Tg B/anno), alla deposizione atmosferica (3,48 Tg B/a), all’estrazione di minerali di boro (1,1 Tg B/a) e al trasporto di materia disciolta e sospesa nei fiumi (0,80 Tg B/anno). Le nuove stime mostrano che la mobilità antropogenica di boro dalla crosta continentale supera i processi naturali, determinando flussi sostanziali verso l’oceano e l’idrosfera. La componente antropogenica contribuisce all’81% del flusso nei fiumi.

In figura 7 è riportato lo schema del ciclo biogeochimico tratto dal rif. [5].

Figura 7. Il ciclo globale del boro. Sono enfatizzati i flussi principali, omettendo quelli biologici negli ecosistemi terrestri e marini. I valori di flusso sono in Tg B/anno (= 1012 gB/anno)

I due scienziati concludono che l’aumento della CO2 atmosferica dall’ultimo periodo glaciale (~ 200 ppm) al tempo preindustriale moderno (280 ppm) è associato con una diminuzione dell’isotopo11B dal 21,3‰ al 20,7‰. Di conseguenza, essi prevedono che i futuri cambiamenti climatici e l’acidificazione degli oceani modificheranno la distribuzione delle specie di boro nell’oceano facendo diminuire il 11B dai carbonati coprecipitati in condizioni di pH inferiore.

Opere consultate

CRC, Handbook of Chemistry and Physics, 85th, 4-6

https://en.wikipedia.org/wiki/Boron

Bibliografia

[1] Yong-Ho Shim et al., Boron Recycling from Obsolete Propulsion Engine., Waste Biomass Valor2019, doi.org/10.1007/s12649-019-00918-0

[2] H. Celik, Recycling of Boron Waste to Develop Ceramic Wall Tile in Turkey., Transactions of the Indian Ceramic Society, 2015, 74, 108-116.

[3] S. Gao e al., An economic and environment friendly way of recycling boroncarbide waste to prepare B4C/Al composite ceramic., International Journal of Applied Ceramic Technology, 2018, DOI: 10.1111/ijac.13129

[4] H. Caglar, O. Y. Bayraktar, Reuse of Concrete and Boron Waste from Recycling Point of View: Literature Review., International Journal of Scientific and Technological Research, 2018, 4, 103-108.

[5] W.H. Schlesinger, A. Vengosh, Global boron cycle in the Anthropocene., Global Biogeochemical Cycles, 2016, 30, 219-230. DOI: 10.1002/2015GB005266

[1] I soffioni boraciferi sono emissioni violente e continue di vapore acqueo, acido borico e ammoniaca ad alta pressione e temperatura, che fuoriescono da spaccature del suolo o perforazioni artificiali. Sono strutture legate al vulcanismo secondario che si sviluppano durante la fase di stasi tra un’eruzione e la successiva oppure durante le ultime fasi di vita del vulcano.

[2] Georg Bauer, latinizzato Agricola (1494 – 1555). Filologo, medico e metallurgista tedesco, studiò a Bologna e Padova, si dedicò allo studio dei minerali e della loro utilizzazione. È considerato il fondatore della moderna metallurgia. Fra le sue numerose opere, scritte in latino, il De re metallica, dove tratta diffusamente della metallurgia.

[3] Sir Humphry Davy (1778 – 1829) è stato un chimico e inventore della Cornovaglia, ricordato per aver isolato, usando l’elettricità, una serie di elementi: potassio e sodio nel 1807, calcio, stronzio, bario, magnesio e boro l’anno successivo, oltre ad aver scoperto la natura elementare di cloro e iodio.

[4] Joseph Louis Gay-Lussac (1778-9 – 1850) chimico e fisico francese. È noto soprattutto per la sua scoperta che l’acqua è composta da due parti di idrogeno e una parte di ossigeno, per due leggi relative ai gas e per il suo lavoro sulle miscele di acqua e alcol, che ha portato alla scala Gay- Lussac per la misura del grado alcolico.

[5] Louis Jacques Thénard (1777 – 1857) è stato un chimico francese. Collaboratore di Louis Joseph Gay-Lussac, scoprì l’acqua ossigenata (H2O2) nel 1818, il boro e fornì una prima classificazione degli elementi metallici.

L’ antropocene è senz’altro molto urbano.

Luigi Campanella, già Presidente SCI

Le cittá sono divenute la realtà predominante capaci di produrre l’80% della materia di provenienza domestica e di instaurare una rete commerciale mondiale. Le citta possono essere definite come un complesso di progresso ed innovazione, di cultura e benessere, ma anche di stratificazione sociale e di accentramento della popolazione (50% del totale in corrispondenza del 3 % dello.spazio occupato) che di certo ostacola un utilizzo più razionale degli spazi.

Le previsioni sono per un ulteriore aggravamento della situazione : nel 2050 più dei 2/3 della popolazione mondiale vivrà nelle città, cioè 2.5 miliardi in più di abitanti attratti dalla promessa di benessere e prosperità.

Questo sviluppo impetuoso e non controllato ha comportato la necessità di muoversi in regime di emergenza trascurando aspetti vitali, a partire da un’economia basata sulle risorse fossili. Le  città sono affamate di energia e consumano molto producendo quantità insostenibili di rifiuti, circa 2 miliardi di tonnellate l’anno. Questa economia lineare produce circa 4 milioni di morti l’anno  a causa dell’inquinamento ed il 70% delle emissioni di CO2.

Questi dati hanno però un’altra faccia: le cittá rappresentano un territorio di sfida per il cambiamento sul quale competono anche oggi associazioni, cittadini, reti sociali globalmente diffusi, rimediando alla difficoltà di coesione e collegamento al livello ufficiale dei Paesi.

Da questo punto di vista le città del Nord Europa si sono dimostrate particolarmente attive meritandosi riconoscimenti e premi.

Oslo aspira ad essere “carbon neutral” (cioè capace di farsi carico dei propri impatti ambientali e di rendere le proprie attività non impattanti sul clima) nel 2050, ma a quella data Copenhagen lo dovrebbe essere già da 25 anni e Stoccolma e Reykjavik da 10. Purtroppo il resto del mondo si muove a ben altra velocità.

Il 90 % dei 2.5 miliardi di cittadini urbani attesi nel 2050 saranno localizzati in Africa ed Asia: si tratta di Paesi ad impronta ecologica molto inferiore ad 1, con accesso non affidabile al cibo, scarsità di acqua e di elettricità, problemi sanitari e di ingiustizia sociale. Il problema però non deve essere limitato alla riduzione delle emissioni, nel senso che la vivibilità delle città dovrebbe essere una condizione irrinunciabile, intendendo con ciò la compatibilità fra l’urbanizzazione e la disponibilità di spazio: esattamente il contrario di quanto avviene nell’emisfero meridionale con aggregazioni costipate ed insediamenti selvaggi.

Diventa così difficile, quasi impossibile, dotare le comunità di infrastrutture e servizi rendendole più vulnerabili ai cambiamenti climatici. Degli obbiettivi delle citta nordiche, presenza di traffico veicolare limitato alla  trazione  elettrica, sistemi di smaltimento dei rifiuti centralizzati, verde verticale, nelle città del Sud neanche si parla allontanando i benché minimi traguardi di resilienza ai cambiamenti climatici.  Nei pochi casi in cui vengono programmate città nuove lo sono in funzione di interessi economici e di investimento dei detentori dei capitali in resort di prestigio che di certo non saranno accessibili alla popolazione povera di quei Paesi.

Ho parlato di emisfero meridionale come di un sistema omogeneo: in effetti non è cosi. Si tratta di un insieme di Paesi incredibilmente diversi nei quali molte delle sfide sono simili, ma in contesti diversi. Per affrontarle è necessaria la cooperazione fra i Paesi del Sud del mondo, ma anche il trasferimento delle conoscenze dal Nord al Sud. Le città saranno la guida di questo processo verso un futuro sostenibile, ma la battaglia sarà vinta o persa nelle città che si espandono nel Sud del mondo e non nei centri super-connessi delle centri del Nord.

Non è una guerra

 Salvatore Coluccia

Non è una guerra. Pochi resistono a questa tentazione iperbolica. In guerra, e noi siamo generazioni fortunate in questa parte del mondo, puoi essere ucciso da altri uomini e tu stesso puoi trovarti nella necessità di farlo. Qui è diverso, e non basta evocare il “nemico invisibile” per chiamarla guerra. Per quanto possa apparire inessenziale e leziosamente nominalistico, si deve riconoscere che è cosa diversa, altrimenti si rischia di deviare l’attenzione dalla ricerca delle cause e dalla costruzione di percorsi utili a ridurre i danni e, persino, attivare processi virtuosi.

È una epidemia, anzi, per la sua estensione, una pandemia scatenata da un virus che ha fatto un salto di specie passando da animali selvatici all’uomo. Ciò è avvenuto infinite volte. Quasi tutte le epidemie derivano da questi processi da sempre presenti in natura, da prima che apparisse l’uomo, trasferimenti di virus e batteri tra le specie esistenti nelle varie fasi di sviluppo e diversificazione delle forme di vita.

Tutto questo è noto ed è stato descritto molto bene da tanti scienziati e anche da alcuni giornalisti, e non saprei dire di più. E’ confortante la attenzione crescente alle informazioni scientifiche, fatto, finora, purtroppo inconsueto nel nostro Paese.

Voglio soffermarmi solo su alcuni aspetti, che rendono più comprensibile il presente e fanno pensare che il futuro potrebbe essere diverso.

Gli eventi epidemici sono prevedibili, e sono stati previsti, come segnalato infinite volte dai virologi. Non si può prevedere quando e dove, ma si sa che di queste epidemie in questi ultimi decenni ne sono scoppiate molte, con cadenze che tendono a ravvicinarsi. Alcune con sintomi e letalità spaventose, ma non sempre, fortunatamente, con grande capacità di trasmissione.

Proprio per questo l’Organizzazione Mondiale della Sanità e tutte le agenzie nazionali hanno, con regolarità, emesso delle linee guida per indicare alle autorità (Governi in primo luogo) preposte alla salute pubblica come attrezzarsi, indicando quali scorte di presidi sanitari predisporre, i comportamenti sociali e individuali da adottare, l’organizzazione delle strutture sanitarie ospedaliere e territoriali.

Tutto questo non eviterebbe le epidemie, ma ne ridurrebbe l’impatto garantendo reazioni tempestive.

Tutte le raccomandazioni sono state disattese in tutti i Paesi (con pochissime eccezioni), anche in Italia, e ciò si è aggiunto a un progressivo pluridecennale de-finanziamento del sistema della Sanità Pubblica, che tuttavia ancora in queste circostanze si è dimostrato l’unico presidio possibile in emergenze di queste dimensioni.

Così come non credo alla guerra, non credo agli eroi. I nostri operatori ospedalieri e territoriali sono stati “semplicemente” straordinari, così come lo sono stati in tutti questi anni di tagli dissennati, evitando il collasso del sistema e garantendo, nonostante tutto, un diritto universale quale è la Salute.https://sbilanciamoci.info/gli-investimenti-pubblici-nella-sanita-italiana-2000-2017/

Ma se questo è quanto è avvenuto, come può essere il futuro?

Fra i tanti, due aspetti meritano attenzione.

Il primo è un effetto purtroppo certo di questa pandemia: l’aumento delle diseguaglianze. Aumenteranno i disoccupati, i poveri, le differenze a scuola penalizzando chi non ha accesso alle tecnologie digitali e ha nella scuola anche un luogo, magari l’unico, di sicurezza e assistenza.

Il secondo è l’enorme quantità di risorse finanziarie che ora vengono messe in campo per garantire una adeguata capacità di spesa delle famiglie e una possibile ripresa di attività produttive. In altri paesi pare che siano ancora maggiori, ma comunque qui in Italia sono certamente grandi.

Sembra quasi che si stia o si intenda ora riversare nei vari settori e in vari modi quanto negli anni passati era stato sottratto alla Sanità, alla Scuola, alla Sicurezza Sociale, alle Opere Pubbliche per infrastrutture materiali (trasporti, strade, edilizia scolastica e ospedaliera, ecc.) e immateriali (accesso alle reti digitali), protezione del Territorio e Ambiente. Forse finalmente possiamo farci un’idea concreta di quanto ci sono costati quei presunti “risparmi” che, in realtà, altro non erano che alcuni tra gli strumenti di redistribuzione di ricchezza e di sua concentrazione in fasce sempre più ristrette di popolazione. Ricordiamolo, l’Italia è tra i Paesi in cui il divario tra ricchi e poveri è tra i più drammatici ed è crescente.

Non si può fare un corto circuito tra questi due temi, diseguaglianze e destinazione delle risorse? Certamente si può, e già si comincia forzatamente a farlo. L’assunzione di decine di migliaia di medici e infermieri, gli annunciati concorsi per insegnanti nelle scuole sono ottimi segnali. Permetteranno di immettere giovani appena formati e stabilizzare dipendenti che da anni sono in situazioni di demotivante precarietà. E’ questa la strada giusta.

Scuola, Formazione, Università e Ricerca

Salute

Ambiente e Territorio

Infrastrutture Materiali e Digitali

non sono solo Beni Comuni e di Valore Universale, sono anche le grandi occasioni di creazione di posti lavoro, le sole che potranno stabilmente accrescere l’occupazione e contemporaneamente dare concrete motivazioni per una coesione sociale che si è progressivamente smarrita a causa della precarietà delle condizioni di vita, colpevolmente aggravate da scellerate e divisive politiche del lavoro.

Queste sono scelte che si può decidere di adottare.

Ma sono appunto scelte, e come tali non includono tutto. Includono giustizia, solidarietà, parsimonia, sviluppo sostenibile.

Escludono avidità, ma includono un possibile Futuro, quasi certamente l’unico Futuro possibile.

Disinfezione finale di acque reflue: nuove problematiche e nuovi approcci.

Mauro Icardi

L’amico e collega di redazione Rinaldo Cervellati mi ha inviato un interessante articolo pubblicato su Chemical & Engineering News.  L’articolo tratta della disinfezione finale dei reflui degli impianti di depurazione, ed è estremamente interessante sotto molti punti di vista.

https://cen.acs.org/environment/water/peracetic-acid-changing-wastewater-treatment/98/i15

Per prima cosa occorre ricordare che  l’acqua depurata, destinata ad essere recapitata in un corpo idrico, dovrebbe non solo rispettare i limiti imposti per normativa, ma anche non peggiorare lo stato ecologico dello stesso. Come ho già avuto modo di far notare in passato, la situazione di molte acque superficiali sta diventando critica. La portata dei fiumi, anche di quelli più importanti  si sta riducendo, per effetto della marcata variazione del regime delle precipitazioni atmosferiche. Questo comporta spesso il verificarsi di situazioni di asciutta prolungata. In alcuni casi ancora abbastanza rari, il corpo idrico risulta alimentato solo dagli scarichi di impianti di depurazione. E’ questa è una situazione decisamente anomala, e purtroppo poco conosciuta, se non dagli addetti al settore.

Altro problema è quello di utilizzare una tecnica che permetta di ottenere una disinfezione ottimale, a costi ragionevoli, e che non produca sottoprodotti di disinfezione tossici per l’habitat acquatico.

Terzo problema è quello che ci assilla oggi. Una disinfezione efficiente è anche un modo per contenere il diffondersi dell’epidemia di coronavirus.  O per meglio dire, impianti di depurazione e di potabilizzazione efficienti sono indispensabili per mantenere un livello adeguato di igiene, e impedire il diffondersi di malattie virali e batteriche legate all’indisponibilità di acqua di qualità.

Per quanto riguarda la depurazione dei reflui ,la sezione di disinfezione assicura l’eliminazione dei microrganismi batterici e virali potenzialmente patogeni, che sono transitati indenni  dalle precedenti fasi di trattamento.  Occorre precisare che alcuni tipi di microrganismi come i virus possono già subire una parziale diminuzione di infettività dovuta alla competizione a cui sono sottoposti dagli altri microrganismi colonizzanti il fango biologico. Anche l’effetto della luce solare contribuisce inertizzarli. Ma la disinfezione finale è assolutamente indispensabile.Posso assicurare che la gestione di una sezione di disinfezione finale richiede la necessità di adottare un protocollo attento e rigoroso di controlli.

Leggendo l’articolo che  parla della gestione dell’impianto di trattamento delle acque reflue, mi ha colpito subito il fatto che per decenni  la città di Memphis,  non abbia disinfettato le sue acque reflue.

O per meglio dire smise di disinfettare le acque reflue per il timore che il cloro residuo potesse danneggiare la vita acquatica e per  problemi legati alla suo dosaggio e gestione. Si affidò invece alla decantazione, alla filtrazione e alla digestione anaerobica per ridurre la carica batterica.

Questa preoccupazione è abbastanza comune tra gli addetti al settore della depurazione.  L’uso dell’ipoclorito di sodio si è diffuso capillarmente negli anni per ragioni principalmente dovute alla convenienza economica.  L’ipoclorito di sodio ha una storia lunga. Intorno al 1785 il francese Berthollet  produsse  agenti di candeggianti liquidi basati sull’ipoclorito di sodio.

Nell’utilizzo come agente disinfettante per la depurazione delle acque reflue esso ha sempre avuto buona efficacia.  Ma può diventare problematico se per qualunque ragione viene a contatto con una concentrazione di sostanza organica troppo elevata. Detto in parole più semplici, se viene dosato su acqua non sufficientemente  depurata, oppure se nella vasca di disinfezione avvengono trascinamenti di fango o solidi sospesi. Non solo l’efficacia di disinfezione cala drasticamente, ma si sviluppano come sottoprodotti di disinfezione le clorammine.  Queste si formano per reazione tra l’ammoniaca presente nei reflui, ed il cloro sviluppato dall’ipoclorito dosato.   Queste ultime sono anch’esse dei potenziali composti ad azione disinfettante, ma tendono a permanere nell’acqua più a lungo. E se sono scaricate troppo presto sono tossiche per la fauna acquatica, potendo anche provocare morie di pesci.  Normalmente i tempi di ritenzione idraulica di una sezione di disinfezione finale si aggirano su valori di circa 30 minuti. In questo lasso di tempo l’ipoclorito diminuisce la carica batterica reagendo con essa, e contestualmente  riduce il valore di cloro libero residuo al di sotto di 0,2 mg/L. (Limite di normativa in Italia). Questo tempo di ritenzione è del tutto insufficiente per le clorammine.

La rimozione delle clorammine, eventualmente formatesi come sottoprodotti indesiderati della sezione di disinfezione, si può ottenere  tramite passaggio su filtri a carbone attivo.

Per queste ragioni i colleghi di Memphis, ma anche molti altri in Italia, hanno cominciato a valutare ed utilizzare acido peracetico.  L’acido peracetico (C2H4O3) è una miscela di acido acetico (CH3COOH) e perossido di idrogeno (H2O2) in soluzione acquosa.  L’acido peracetico può essere applicato per la disattivazione di una grande varietà di microorganismi patogeni. Inoltre disattiva i virus e le spore. L’attività dell’acido peracetico è molto meno influenzata  dai composti organici che possono essere presenti nell’acqua.

 L’acido peracetico è più efficace quando il livello di pH è più vicino alla neutralità, che a valori leggermente basici. Normalmente l’acqua reflua in uscita ha valori di pH leggermente superiori a 7. Ma l’efficacia di disinfezione non ne  risente significativamente. Quindi l’acido peracetico può essere una valida alternativa all’utilizzo di ipoclorito o cloro gassoso.  Non è noto che crei sottoprodotti di disinfezione nocivi. E poiché l’acido peracetico si decompone rapidamente in acido acetico, ossigeno e acqua, non è necessario rimuoverlo o neutralizzarlo prima che l’acqua venga scaricata nei corsi d’acqua.

Negli Stati Uniti il maggior ricorso all’utilizzo di acido peracetico ne sta riducendo il costo, rendendolo maggiormente concorrenziale rispetto all’ipoclorito di sodio.

Per mia esperienza personale, suffragata anche da quanto letto nell’articolo di Chemical & Engineerinng, non esistono soluzioni precostituite ed ottimali su quale tipo di prodotto usare per la disinfezione. Le valutazioni adatte si ottengono con un controllo accurato e continuo delle condizioni impiantistiche e di processo. Nonché della conoscenza accurata della composizione chimica dell’acqua da depurare. Tutte queste condizioni possono variare nel tempo. E di conseguenza le scelte di gestione del processo di trattamento possono e devono  essere modificate se necessario.

Sempre restando in ottica di disinfezione è in uso da tempo anche la disinfezione con lampade UV.

Anche questo tipo di tecnica ha, come ovvio, i suoi vantaggi e svantaggi: costi maggiori come installazione che possono essere ammortizzati nel corso degli anni. Ma anche in questo caso è fondamentale che siano tenute sotto controllo le sezioni a monte. In particolare quella di sedimentazione secondaria per evitare trascinamenti di fango che producendo biofilm sulle lampade ne compromettano l’efficacia di funzionamento . Anche reflui fortemente colorati (tipicamente quelli da industrie tessili) possono ridurre l’efficacia delle lampade , impedendo la piena trasmissione della luce UV.

La probabile tendenza a ridurre i limiti allo scarico sia della carica batterica, che di alcuni parametri chimici, o di quelli non ancora oggetto di normazione rendono indispensabile la possibilità di progettare impianti molto modulari, e di modificare quelli esistenti in tal senso.

Negli Stati Uniti si è valutata  l’efficacia di disinfezione che si può ottenere combinando una disinfezione con acido peracetico e lampade UV ((Environ. Sci. Technol. Lett. 2018, DOI: 10.1021/acs.estlett.8b00249).

Gli UV disinfettano danneggiando il DNA e l’RNA di microbi e virus.  La luce UV stimola anche l’acido peracetico per produrre ulteriori specie reattive dell’ossigeno. Questo ne aumenta l’efficacia permettendo l’ossidazione degli inquinanti che l’acido peracetico non può normalmente ossidare, come i prodotti farmaceutici. Ma c’è bisogno di più lavoro per capire la cinetica, la reattività e la selettività di questi sistemi.

Oggi che siamo alle prese con il coronavirus, è sempre più necessario uno sforzo coordinato. Che parte dalla ricerca, ed arriva fino alla gestione degli impianti di trattamento delle acque. Non credo sia fuori luogo arrivare a considerare un impianto di trattamento delle acque, come un’estensione del sistema sanitario.  La ricerca già da tempo sta confrontandosi con i gestori, per trovare soluzioni ai molti problemi emergenti. Non esiste solo il coronavirus.  La resistenza antibiotica rischia di diventare un problema enorme. E quindi non rimane che accostarsi a tutte queste problematiche con coraggio e con una visione complessiva. Destinare le risorse economiche adeguatamente, sapendo che ci possono garantire acqua di qualità e anche un buono stato di salute. Non posso dire che sarà una cosa semplice. Ho potuto sperimentarlo personalmente. Spesso il dialogo tra politica, tecnici e ricerca è un dialogo tra sordi. Lo vediamo anche in questi giorni, convulsi e densi di ansietà. Non credo però che sia molto saggio  pensare di non muovere un primo passo, che notoriamente è sempre quello più faticoso , verso un modo del tutto nuovo di considerare i nostri beni comuni.  E l’approccio anche mentale che ognuno di noi ha verso di essi.

https://cen.acs.org/environment/water/peracetic-acid-changing-wastewater-treatment/98/i15?utm_source=NonMember&utm_medium=Newsletter&utm_campaign=CEN

Recensione. “Chimica al femminile” di Rinaldo Cervellati

Margherita Venturi

Recensione. Chimica al femminile, Rinaldo Cervellati, ed. Aracne, 2019 p.308 euro 21 (il solo pdf euro 12)

Conosco Rinaldo Cervellati praticamente da sempre e, praticamente da sempre, apprezzo il suo rigore nella ricerca scientifica e la sua sensibilità nei rapporti umani. Ebbene questo è il Rinaldo autore di “Chimica al femminile”: appare evidente il suo rigore nella ricerca delle fonti, dei dati riportati e del contesto storico e traspare ovunque il suo coinvolgimento emotivo quando descrive la vita delle scienziate. Non sembra quasi un libro scritto da un uomo e questo, detto da una donna, è un gran complimento.

Il mondo della scienza, e in particolare della chimica, è un mondo popolato fondamentalmente da uomini, o meglio è così che deve apparire, vuoi per retaggi storici, vuoi per pregiudizi che stentano a morire.

Ai miei studenti universitari, maschi e femmine più o meno in numero uguale e frequentanti una laurea magistrale in chimica, da alcuni anni racconto la seguente storiella. Un bambino è in macchina con il padre; avviene un tremendo incidente e il padre muore, mentre il bambino, in condizioni disperate, viene portato all’ospedale; deve essere operato d’urgenza, ma il chirurgo di turno, dopo aver guardato il bambino, con angoscia dice: non lo posso operare, è mio figlio! Alla fine della storia domando: come è possibile? Ricevo le risposte più fantasiose, maliziose e stravaganti (il padre non è morto; l’uomo morto non è il vero padre del bambino) e ben difficilmente la risposta più banale: il chirurgo è la madre del bambino. Il motivo deriva dal fatto che lo stereotipo è quello di un chirurgo necessariamente uomo e anche le donne ne sono convinte, come dimostra l’eterogeneità del mio pubblico di studenti, fra l’altro già grandi e con una buona preparazione scientifica alle spalle.

Un altro esempio eclatante, sempre riferito alla mia esperienza personale, riguarda la Tavola Periodica parlando della quale spesso chiedo: chi ha contribuito a popolarla? Chi ha scoperto gli elementi ordinati in questo documento? Ci sono donne scienziate che hanno lavorato in quest’ambito? Oltre al nome di Marie Curie, a cui a volte si aggiunge quello di Marguerite Perey, non viene fuori null’altro. E non potrebbe essere diversamente, perché le tante donne che hanno contribuito a far crescere la Tavola Periodica non sono state riconosciute, o peggio sono state volutamente dimenticate.

Il libro di Rinaldo è un omaggio proprio alle scienziate dimenticate e a quelle che hanno subito gravi torti. Sono in totale 41 storie, una più bella e triste dell’altra, anche se in ciascuna emergono la determinazione e la forza di volontà che caratterizzano il sesso femminile (immeritatamente chiamato sesso debole, ma forse questa è un’invenzione degli uomini). Nonostante avessi già avuto modo di leggere alcune delle monografie che ritroviamo nel libro, proprio in questo blog nella serie “Scienziate che avrebbero dovuto vincere il premio Nobel”, a cura di Rinaldo, il piacere della lettura è rimasto intatto e il coinvolgimento è stato sempre molto forte.

Come dicevo, si tratta di una carrellata di “eroine” della chimica e ogni storia ha suscitato in me sentimenti diversi.

Per esempio, ammirazione e tenerezza è ciò che ho provato per Julia (Yulija) Vsevolodovna Lermontova; ammirazione per i primati che è riuscita a raggiungere (è stata la prima donna russa e la terza donna europea ad aver ottenuto il dottorato), ma anche per i suoi interessi di ricerca: siamo nella seconda metà del 1800, le donne non sono ben accette, eppure lei si dedica ad una chimica “pesante”, ancora oggi appannaggio quasi esclusivo degli uomini, come la sintesi di idrocarburi, la composizione del petrolio caucasico e le tecnologie per migliorare la fertilità del suolo. La tenerezza, invece, l’ho provata leggendo che i genitori, benché non capissero la sua scelta di dedicarsi alle scienze, non la ostacolarono e permisero a Julia di aver accesso alla letteratura specializzata e di compiere esperimenti in casa (mi ha ricordato l’atteggiamento dei miei genitori e un pezzo della mia infanzia quando facevo i primi esperimenti in casa usando il Piccolo Chimico).

E poi, ancora, ammirazione e stima sono stati i sentimenti che ho provato per Ida Noddak, che lavorando assieme a Walter Noddack (direttore dell’istituto e suo futuro marito), riempì la casella 75 della Tavola Periodica con l’elemento renio. Ammirazione per i molti ostacoli che Ida dovette superare, sia dal punto di vista accademico (sempre all’ombra del marito), che da quello economico (in Germania le donne sposate non potevano aver uno stipendio); stima per la determinazione con cui osò criticare Fermi, quando nel 1934 annunciò di aver ottenuto l’elemento 93, bombardando con neutroni l’uranio. Ida suggerì che si trattasse della rottura del nucleo dell’uranio, ma la comunità dei fisici la stroncò, giudicando questa ipotesi inaccettabile e addirittura ridicola (tanto ridicola e inaccettabile da rivelarsi cinque anni dopo assolutamente vera) e, molto probabilmente, fu proprio per questa sfrontatezza che la Noddak, nonostante fosse stata candidata la Premio Nobel quattro volte, non lo ebbe.

Ammirazione e rabbia sono, invece, le sensazioni contrastanti che ha suscitato in me la storia di Lise Meitner; l’ammirazione è dovuta, oltre ai traguardi raggiunti (è stata la seconda donna in Austria ad ottenere il dottorato in Fisica e la prima donna in Germania a ricoprire la cattedra di Fisica), alla grande fermezza con cui ha portato avanti la sua ricerca; a Berlino, appena arrivata, dovette lavorare, spesso senza stipendio, in una carpenteria adattata a laboratorio per misure di radioattività, dal momento che le donne non potevano frequentare gli istituti universitari; poi dovette esiliare in Svezia a causa delle leggi razziali, ma anche qui proseguì instancabile i suoi studi sul processo di fissione dell’uranio, stabilendone le basi teoriche e continuò, seppure da lontano, la collaborazione con Otto Hahn, cominciata ai tempi di Berlino. Lise ebbe sempre un grande affetto e stima per Hahn; la cosa, però, non fu reciproca, perché quando Hahn ebbe il premio Nobel “per la sua scoperta della fissione dei nuclei atomici pesanti” non ebbe neanche il buon gusto di citare l’importante contributo della Meitner a questa scoperta. La rabbia che provo è per i veri motivi che hanno portato all’esclusione della Meitner dal premio (emersi quando i documenti a lungo secretati dei lavori del Comitato Nobel divennero pubblici): pregiudizi disciplinari, ottusità politica, ignoranza e fretta. La Meitner, quindi, fu esclusa perché era donna e perché era ebrea; sugli ultimi due punti preferisco non esprimermi (la rabbia raggiunge le stelle).

La storia di Clara Immerwahr, moglie di Fritz Haber, e quella di Rosalind Franklin mi hanno invece lasciato in bocca un’amara tristezza, perché sono le due “eroine” di questo libro più fragili, vittime di uomini egoisti e ambiziosi.

Clara è stata sopraffatta dal marito che, interrompendo la sua carriera scientifica, l’ha relegata al ruolo di collaboratrice silenziosa; il silenzio, infatti, ha accompagnato tutta la breve vita di Clara che, non avendo il coraggio di dire al marito che la sua ricerca sui gas nervini era una “perversione degli ideali della scienza”, ha preferito suicidarsi.

Anche Rosalind ha avuto una vita breve e, come Clara, non è riuscita ad imporsi e a dichiarare pubblicamente il grande sopruso subito. I suoi dati cristallografici sono stati, infatti, usurpati da tre colleghi, Watson, Crick e Wilkins, che li hanno usati per risalire alla struttura a doppia elica del DNA. Certamente una scoperta importantissima da Premio Nobel e, infatti, i tre colleghi hanno avuto il premio e sono diventati famosi; peccato che si siano dimenticati di citare il lavoro fondamentale di Rosalind. Solo di recente questa triste storia è stata resa nota, quando Rosalind era morta: non solo non ha condiviso il Nobel, ma non ha neanche avuto il piacere di ricevere il giusto tributo dalla comunità scientifica; un grande e incolmabile debito che la scienza avrà sempre nei confronti di questa ricercatrice.

E potrei andare avanti, ma è giusto che scopriate da soli le tante storie raccontate da Rinaldo.

Concludo dicendo che questo libro dovrebbe essere letto fondamentalmente dagli “uomini” per metterli di fronte ad una realtà che può apparire scomoda, ma che bisogna conoscere: chi ignora la storia rischia sempre di ripeterla, ha detto giustamente il nostro autore.

Però, poiché mi piace essere giusta, aggiungo una considerazione; in ambito accademico le cose stanno leggermente migliorando e le donne cominciano ad avere un timido riconoscimento del loro valore (io sono una delle fortunate perché ho lavorato in “un’isola veramente felice”, dove la discriminazione di sesso non è mai esistita). Quindi ci sono anche uomini “illuminati”; ce ne sono stati in passato, ad esempio Mendeleeev si è adoperato per aprire l’istruzione alle donne, e ce ne sono oggi, ad esempio Roald Hoffman, premio Nobel per la Chimica nel 1981 ha detto: amo troppo la scienza per privarla dell’intelligenza delle donne.

Complessi di attinidi per il trattamento e smaltimento di scorie nucleari?

Rinaldo Cervellati.

Come noto, l’Italia interruppe l’utilizzo dell’energia nucleare per la trasformazione in energia elettrica con il referendum del 1987, ribadito nel 2011, dopo un dibattito sull’eventuale reintroduzione di impianti elettronucleari [1].

Tuttavia la “corsa al nucleare” non si è mai fermata in altre nazioni come riportato in una indagine del 2011, secondo la quale le centrali nucleari attive nel pianeta sono 442, di cui 148 in Europa [2].

La stessa indagine ci informa che il primato mondiale per numero di reattori nucleari in funzione spetta agli Stati Uniti con 104, seguiti da Francia (58), Giappone (54) e Federazione Russa (32). A distanza si trovano Corea (21), India (20), Gran Bretagna (19), Canada (18), Germania (17), Ucraina (15), Cina (13), Svezia (10). Al di sotto si trovano: Spagna (9), Belgio (7), Repubblica Ceca e Taiwan (6 ciascuno) e Svizzera (5). Chiudono l’elenco Finlandia, Ungheria e Slovacchia (4 reattori ciascuno), Argentina, Brasile, Bulgaria, Messico, Pakistan, Romania e Sudafrica (2). Ai reattori già attivi ne vanno aggiunti 65 in fase di costruzione. La terza generazione è al nastro di partenza in Europa, con una centrale in Finlandia e una in Francia, e inoltre in Cina, Giappone e Corea.

Preoccupante è il dato che i reattori attivi hanno un’età media compresa fra 24 e 31 anni. Dei 442 attivi, 33 stanno funzionando da 27 anni e 32 da 26 [2].

Accanto ai problemi sulla sicurezza degli impianti, non solo quella intrinseca, ma anche quella estrinseca, per esempio terremoti o altri estremi eventi atmosferici, c’è l’altrettanto grave problema del trattamento del combustibile nucleare esausto, le tristemente note “scorie nucleari”.

A questo proposito, Sam Lemonik, sul numero del 9 aprile scorso (aggiornato il 14) di Chemistry & Engineering news, riporta la notizia che i legami chimici in alcuni complessi degli elementi del gruppo degli attinidi[1] potrebbero migliorare la gestione delle scorie nucleari (New bonds predicted in actinide complexes – Phi and delta orbital interactions could improve nuclear waste management., C&EN news, 98, 14).

Una delle maggiori sfide nella gestione delle scorie nucleari consiste nella separazione degli elementi pesanti che si formano durante la reazione di fissione.

La scienziata e chimico teorico Ping Yang[2], insieme ai suoi colleghi del Los Alamos National Laboratory, hanno stabilito che i legami delta e phi nei metallocicli degli attinidi possono modificare la forza dei legami metallo-ligando in un modo che potrebbe consentire ai chimici di separare gli elementi attinidi da altri metalli pesanti [3].

Ping Yang

I legami delta e phi sono legami covalenti che coinvolgono rispettivamente quattro e sei lobi orbitali[3]. È noto che si verificano tra metalli e ligandi, ma tutti gli esempi precedenti sembravano molto diversi. Questi coinvolgono entrambi i lobi degli orbitali p del ligando sovrapponendosi alla forma a ventaglio degli orbitali f del metallo, oppure si sovrappongono da un lobo all’altro.

Negli ultimi anni, altri ricercatori hanno sintetizzato complessi  metallociclici di torio e uranio che collocano gli atomi di metallo e ligando sullo stesso piano, consentendo alle estremità degli orbitali del metallo di incontrare i lati degli orbitali del ligando (end to side), oppure per gli orbitali atomici f e p di incontrarsi fianco a fianco (side to side), in accordo con i calcoli del gruppo di Yang.

Per comprendere l’effetto di questo nuovo tipo di legame sulle proprietà di tali composti, Yang e collaboratori hanno simulato gli stessi complessi metallociclici con gli elementi attinidi protattinio, nettunio e uranio (figura 1).

Figura 1. I metallocicli consentono interazioni orbitali delta e phi end-to-side (sinistra) e side-to-side (destra) Credit: Morgan Kelley and Ivan Popov

Poiché i raggi atomici degli attinidi diventano più piccoli spostandosi da sinistra a destra attraverso il gruppo(v. nota 1), le lunghezze dei legami metallo-ligando nei complessi degli attinidi diminuiscono in genere con l’aumentare del numero atomico. Ma i ricercatori hanno scoperto che queste nuove interazioni delta e phi invertono questa tendenza. Ad esempio, in un complesso ciclopropenico, la distanza tra il protattinio e l’atomo di carbonio più vicino è 2,26 Å, ma sostituendo il plutonio la distanza aumenta a 2,34 Å.

Yang spiega che i legami più o meno lunghi indicano interazioni metallo-ligando più forti o più deboli nei diversi complessi. Ritiene che la messa a punto di questi nuovi legami delta e phi potrebbe aiutare i chimici a legare preferenzialmente determinati elementi, obiettivo che lei e il suo gruppo perseguono da molto tempo in vista di gestire la separazione dei metalli nelle scorie nucleari. Sottolinea inoltre che, poiché i legami phi e delta sembrano essere possibili solo con gli orbitali 5f e non nei 4f a causa delle dimensioni più grandi dei 5f, si potrebbero separare gli attinidi dai  lantanidi, che possono essere contenuti nel materiale nucleare. “Se utilizziamo questa chimica in modo intelligente, potremmo progettare alcuni ligandi per migliorare la separazione nella gestione delle scorie”, afferma Yang.

Rebecca Abergel, scienziata nucleare dell’Università della California a Berkeley e del Lawrence Berkeley National Laboratory, afferma che la ricerca potrebbe aiutare in “aree problematiche di vecchia data tra cui separazione, ricondizionamento e gestione delle scorie”.

Rebecca Abergel

Il suo collega LBNL, Stefan Minasian, afferma che i chimici potrebbero persino usare queste interazioni per creare legami attinide-attinide, che finora esistono solo in teoria.

Yang dice che non vede l’ora di vedere i chimici sperimentali sintetizzare i composti con i nuovi legami delta e phi.

Tuttavia, a nostro avviso il problema delle scorie nucleari accumulatesi nei decenni (e stoccate chissà dove…) sarà praticamente impossibile da risolvere.

Bibliografia

[1] https://it.wikipedia.org/wiki/Energia_nucleare_in_Italia

[2]https://www.ansa.it/scienza/notizie/rubriche/energia/2011/04/13/visualizza_new.html_902468013.html

[3] M.P. Kelley et al., δ and φ back-donation in AnIV metallacycles., Nature Communications, 2020, DOI: 10.1038 / s41467-020-15197-w

[1] Fra gli attinidi vi sono gli elementi transuranici con numero atomico da 93 (nettunio, simbolo Np) a 103 (laurenzio, simbolo Lr). Appartengono agli attinidi anche il capostipite attinio (Ac) e torio (Th), praseodimio (Pa) e uranio (U).

[2] Ping Yang è stata nominata vicedirettore del G.T. Seaborg Institute for Transactinium Science, al Los Alamos National Laboratory.

[3] I legami delta (legami δ) sono legami chimici covalenti, in cui quattro lobi di un orbitale atomico coinvolto si sovrappongono a quattro lobi dell’altro orbitale atomico. Questa sovrapposizione porta alla formazione di un orbitale molecolare con due piani nodali che contengono l’asse internucleare e coinvolge entrambi gli atomi. La notazione δ fu introdotta da Robert Mulliken nel 1931. Il primo composto identificato come avente un legame δ fu ottaclorodirenato di potassio (III) K2 [Re2Cl8] nel 1965 da Frank Albert Cotton (1930-2007). I legami phi (legami φ) sono legami chimici covalenti, in cui sei lobi di un orbitale atomico coinvolto si sovrappongono a sei lobi dell’altro orbitale atomico. Questa sovrapposizione porta alla formazione di un orbitale molecolare con tre piani nodali che contengono l’asse internucleare e coinvolge entrambi gli atomi. Fino al 2020, nessuna molecola era nota per avere sicuramente legami phi.