Recensione.“Salviamo il pianeta” di Fabio Olmi

Margherita Venturi

 

Recensione. “Salviamo il pianeta” di Fabio Olmi, PM edizioni, 164p, 15,2 euro, 2020

Salviamo il pianeta è l’ultima fatica dell’amico e collega Fabio Olmi. Il libro ha una splendida prefazione di Vincenzo Balzani e scrivere qualcosa in più o di nuovo su questa opera è veramente difficile, per cui aggiungo solo alcune considerazioni personali.

Il libro mi è arrivato direttamente da Fabio e, aprendolo, nella prima pagina ho trovato una dedica scritta di pugno dall’autore con la sua bellissima calligrafia “A Margherita con un grosso abbraccio, Fabio”. Questo mi ha fatto sentire ancora più in sintonia con l’autore, se mai ce ne fosse stato bisogno, perché con lui da sempre condivido non solo l’amore per la Chimica, ma anche l’interesse per le tematiche ambientali; non a caso quindi mi ha regalato il suo libro!

Infatti, le tematiche ambientali e il problema della sostenibilità, considerato in tutte le sue sfaccettature, sono il fulcro di questo libro. Nulla di nuovo uno potrebbe dire, cosa sicuramente vera, ma nuovo e originale è il modo con cui Fabio li ha affrontati: si tratta di interviste “virtuali” a scienziati autori di dieci libri pubblicati fra il 1972 e il 2019; cinque di questi libri tracciano la nascita e lo sviluppo delle idee ecologiste, mentre gli altri cinque, i più recenti, presentano la situazione odierna e i tanti problemi da risolvere.

Mi ha affascinato in modo particolare l’attualità dei cinque libri “più vecchi” e questo mi ha permesso di fare due considerazioni.

La prima è che i grandi scienziati e i grandi libri “non muoiono” mai perché sanno vedere ben oltre il loro tempo. A questo proposito basta pensare a Giacomo Ciamician che, nella sua conferenza La fotochimica dell’avvenire tenuta a New York nel lontano 1912, sostiene con grande lungimiranza la necessità di abbandonare i combustibili fossili (lui ovviamente parla di carbone) per passare all’energia solare.

La seconda considerazione è invece più triste e critica: se le preoccupazioni che si ritrovano in quei libri degli anni settanta e ottanta del secolo scorso sono ancora di grande attualità, vuol dire che le parole degli scienziati, autori di quei libri, non sono state ascoltate (vedi appunto Ciamician) e molto c’è ancora da fare per risolvere i problemi ambientali, cosa che appare molto chiaramente dalle interviste agli autori dei libri più recenti.

Volutamente non dico nulla su quali libri sono stati selezionati e presentati (cosa che Fabio illustra bene nell’introduzione alla sua opera) per stuzzicare la curiosità dei potenziali lettori; dico solo che in queste interviste virtuali Fabio non si sottrae dall’esporre il suo parere personale sempre rigoroso, preciso e corredato da informazioni scientificamente affidabili. Ottimi sono anche i box disseminati in tutto il libro che approfondiscono temi scottanti, quali, ad esempio, la biodegradabilità della plastica, l’impiego delle biomasse a scopo energetico, e chiariscono concetti difficili, come le caratteristiche e il funzionamento di un termovalorizzatore, la cattura della CO2 e tanti altri.

È un libro che si legge benissimo ed è adatto al cittadino curioso, sensibile ai problemi relativi all’ambiente, ma per la rigorosità scientifica, è anche una guida perfetta per gli insegnanti che desiderano, o meglio che ben presto dovranno, trattare con i loro studenti le tematiche legate all’educazione ambientale. Fabio, da ottimo docente quale è stato, sottolinea: … molti dei temi propri dei curricula di chimica, biologia e fisica possono essere sviluppati affrontando argomenti di interesse ambientale in chiave interdisciplinare, tenendo però presente la necessità di trattare questi argomenti dopo che sono stati sviluppati i concetti di base delle tre discipline. Quindi, sottolinea, cosa sulla quale sono totalmente d’accordo, che l’educazione ambientale deve essere insegnata da docenti di estrazione scientifica, anche se l’interazione con docenti di altre aree del sapere è fondamentale. Fabio aggiunge inoltre che: Con questo non voglio dire che non si debba affrontare anche a livelli scolari più bassi la situazione ambientale, ma sembra opportuno limitarsi a questi livelli a trattare soggetti adeguati con modalità opportune (ad esempio il problema dei rifiuti, del riutilizzo circolare e del loro smaltimento finale). Ulteriore aspetto didattico interessante è che il saggio termina con dei suggerimenti di lettura: si tratta di tre testi adatti per i vari livelli scolastici. A questo proposto ringrazio Fabio per aver ricordato fra essi “Energia, risorse, ambiente” che Vincenzo Balzani ed io abbiamo scritto proprio per sensibilizzare i giovani verso i problemi ambientali.

Concludo dicendo che il libro di Fabio è uscito durante il lockdown dovuto alla pandemia COVID-19 e periodo più adatto non si poteva trovare. Infatti, molti scienziati attribuiscono al degrado del nostro pianeta, argomento centrale di questo saggio, il motivo della diffusione del virus. Lui stava bene nelle foreste e negli animali selvatici, ma noi gli abbiamo fatto attorno terra bruciata: l’eccessiva antropizzazione del suolo, il cambio climatico, l’accumulo dei rifiuti, l’inquinamento di ogni comparto del pianeta, la perdita di biodiversità e chi più ne ha più ne metta hanno creato la giusta condizione affinché il virus potesse fare il salto animale-uomo e si moltiplicasse.

Quindi, la lezione che si può trarre dalla diffusione del COVID-19 è salviamo il pianeta, come dice Fabio, per salvare l’umanità, aggiungo io. A tutti quelli che sono ancora scettici al grido di allarme degli scienziati, e ora anche di molti giovani con in testa Greta Thunberg, dico che salvare il pianeta non è un atto di altruismo nei confronti della nostra madre Terra è, al contrario, un atto di egoismo perché solo così l’umanità potrà sopravvivere.

Elementi della tavola periodica. Vanadio, V. Seconda parte

Rinaldo Cervellati

Applicazioni

Metallurgia

Circa l’85% del vanadio prodotto viene utilizzato come ferrovanadio o come additivo per acciaio.

Figura 9. Campioni di ferrovanadio

Il notevole aumento della resistenza dell’acciaio contenente piccole quantità di vanadio fu scoperto all’inizio del XX secolo. Il vanadio forma nitruri e carburi stabili, determinando un aumento significativo della resistenza dell’acciaio. Da quel momento in poi, l’acciaio al vanadio è stato utilizzato per applicazioni in assali, telai di biciclette, alberi a gomiti, ingranaggi e altri componenti metallici. Esistono due gruppi di leghe di acciaio al vanadio. Le leghe di acciaio al carbonio ad alto contenuto di vanadio contengono dallo 0,15% allo 0,25% di vanadio e gli acciai per utensili ad alta precisione (HSS) hanno un contenuto di vanadio dall’1% al 5%.  L’acciaio HSS è utilizzato per la produzione di strumenti chirurgici.

Figura 10. Set di utensili di acciaio al vanadio

Il vanadio stabilizza la forma beta del titanio e aumenta la resistenza e la stabilità della temperatura del titanio. Miscelato con alluminio in leghe di titanio, viene utilizzato nei motori a reazione, ad alta velocità e anche negli impianti dentali.

Diverse leghe di vanadio mostrano un comportamento superconduttore. Il primo superconduttore, scoperto nel 1952, era un composto di vanadio e silicio, V3Si.  Il nastro di vanadio-gallio, V3Ga, è utilizzato nei magneti superconduttori.

Industria chimica

I composti del vanadio sono ampiamente utilizzati come catalizzatori. Il pentossido di vanadio V2O5, viene utilizzato come catalizzatore nella produzione di acido solforico mediante il processo di contatto. In questo processo l’anidride solforosa (diossido di zolfo, SO2) viene ossidata a triossido (SO3, anidride solforica):

V2O5 + SO2 → 2VO2 + SO3

Il catalizzatore viene rigenerato dall’ossidazione con aria:

4VO2 + O2 → 2V2O5

Ossidazioni simili sono utilizzate nella produzione di anidride maleica:

C4H10 + 3,5O2 → C4H2O3 + 4H2O

L’anidride ftalica e molti altri composti organici sono prodotti in modo simile. Questi processi di “chimica verde” convertono materie prime economiche in intermedi altamente funzionalizzati e versatili.

Il vanadio è un componente importante dei catalizzatori formati da ossidi misti di metalli, utilizzati nell’ossidazione del propano e del propilene in acroleina, acido acrilico o nell’ossidazione del propilene in acrilonitrile.

Industria del vetro e ceramica

Il diossido di vanadio VO2, è utilizzato nella produzione di rivestimenti in vetro, che bloccano le radiazioni infrarosse (e non la luce visibile) a una data temperatura. L’ossido di vanadio può essere usato per indurre centri di colore nel corindone per creare gioielli simil-alessandrite, sebbene l’alessandrite naturale sia un crisoberillo. Il pentossido di vanadio è usato in ceramica.

Figura 11. Anello con cristallo di alessandrite sintetica

Altri usi

La batteria redox al vanadio, un tipo di batteria a flusso, è una cella elettrochimica costituita da ioni acquosi di vanadio in diversi stati di ossidazione. Le batterie di questo tipo furono proposte per la prima volta negli anni ’30 e sviluppate commercialmente dagli anni ’80 in poi e sono utilizzate nei gruppi di continuità nelle reti elettriche.

L’ossido di litio e vanadio è stato proposto per l’uso come anodo ad alta densità di energia per batterie agli ioni di litio, con potenza 745 Wh/L se accoppiato con un catodo di ossido di litio e cobalto. I fosfati di vanadio sono stati proposti come catodo nella batteria al litio vanadio fosfato, un altro tipo di batteria agli ioni di litio.

Ruolo biologico

Il vanadio è più importante negli ambienti marini che terrestri. Numerose specie di alghe marine producono l’enzima vanadiobromoperossidasi, nonché gli strettamente correlati cloroperossidasi e iodoperossidasi. La bromoperossidasi produce circa 1-2 milioni di tonnellate di bromoformio (CHBr3) e 56.000 tonnellate di bromometano all’anno. La maggior parte dei composti di organobromo presenti in natura sono prodotti da questo enzima, che catalizza la seguente reazione:

R-H + Br + H2O2 → R-Br + H2O + OH (R-H, substrato idrocarburico)

Un enzima vanadionitrogenasi è utilizzato da alcuni microrganismi (ad es. l’azobacter) che fissano l’azoto. In questo enzima, il vanadio sostituisce il molibdeno o il ferro più comuni nelle nitrogenasi.

Il vanadio è essenziale per ascidiani e tunicati[1], dove è immagazzinato nei vacuoli altamente acidificati di alcuni tipi di cellule del sangue, chiamati “vanadociti”. Le vanabine (proteine ​​leganti il ​​vanadio) sono state identificate nel citoplasma di tali cellule. La concentrazione di vanadio nel sangue degli ascidiani è fino a dieci milioni di volte superiore rispetto all’acqua di mare circostante, che normalmente contiene da 1 a 2 µg/l. La funzione di questo sistema di accumulare vanadio e delle proteine ​​contenenti vanadio è ancora sconosciuta, ma i vanadociti vengono successivamente depositati appena sotto la superficie esterna della tunica dove possono scoraggiare la predazione.

Figura 12. Un tunicato dal meraviglioso colore blu

Nell’ambiente terrestre il vanadio si trova nei funghi: l’amanita muscaria e le specie correlate di macrofunghi accumulano vanadio fino a 500 mg/kg di peso secco. Il vanadio è presente nel complesso di coordinazione dell’amavadina nei corpi fruttiferi fungini. L’importanza biologica dell’accumulazione non è nota, sono state suggerite funzioni enzimatiche tossiche.

Nei mammiferi le carenze di vanadio provocano una riduzione della crescita nei ratti. L’Institute of Medicine degli Stati Uniti non ha confermato il vanadio come nutriente essenziale per l’uomo, quindi non è stato stabilito né un apporto dietetico raccomandato né un apporto adeguato. L’assunzione dietetica è stimata tra 6 e 18 µg/giorno, con assorbimento inferiore al 5%. Il livello tollerabile di assunzione superiore di vanadio nella dieta, oltre il quale possono verificarsi effetti avversi, è stato fissato a 1,8 mg/giorno.

Il vanadil solfato come integratore alimentare è stato studiato come mezzo per aumentare la sensibilità all’insulina o migliorare in altro modo il controllo glicemico nelle persone diabetiche. Tuttavia non ci sono prove rigorose che l’integrazione orale migliori il controllo glicemico nel diabete di tipo 2.

Tossicologia

Tutti i composti di vanadio devono essere considerati tossici. È stato riportato che il composto di vanadio (IV) VOSO4 è almeno 5 volte più tossico del trivalente V2O3. L’Amministrazione per la sicurezza e la salute sul lavoro USA ha fissato un limite di esposizione di 0,05 mg/m3 per la polvere di pentossido di vanadio e 0,1 mg/m3 per i fumi di pentossido di vanadio nell’aria del luogo di lavoro per una giornata lavorativa di 8 ore con 40 ore settimanali. 35 mg/m3 di vanadio sono considerati immediatamente pericolosi per la salute e la vita.

I composti del vanadio sono scarsamente assorbiti attraverso il sistema gastrointestinale. L’inalazione di vanadio e composti di vanadio provoca principalmente effetti avversi sull’apparato respiratorio.  I dati quantitativi sono, tuttavia, insufficienti per stabilire una dose di riferimento per inalazione subcronica o cronica. Altri effetti sono stati riportati dopo esposizioni orali o per inalazione su parametri ematici, fegato, e altri organi nei ratti.

In uno studio è stato riportato che il pentossido di vanadio è cancerogeno nei ratti maschi e nei topi maschi e femmine per inalazione, tuttavia la cancerogenicità del vanadio non è stata stabilita dall’Agenzia per la protezione ambientale degli Stati Uniti.

Riciclaggio

Il riciclaggio dei rifiuti di lavorazione delle leghe contenenti vanadio metallico dell’industria metallurgica e di oggetti scartati da privati perché diventati obsoleti, viene generalmente effettuato da ditte specializzate, come ad es. la tedesca RS-Recycling GmbH. Queste società si basano essenzialmente su un brevetto americano del 1981, oggi disponibile [3]. Il testo descrive un processo per il recupero di cromo, vanadio, molibdeno e tungsteno da risorse secondarie come rottami di lega comprendenti questi metalli (detti refrattari) insieme a metalli  di base come cobalto, nichel, ferro e rame. I rottami sono calcinati con carbonato di sodio in aria per convertire i metalli refrattari in ioni molibdato, vanadato, tungstato e cromato (MoO42–, VO42–, WO42– e CrO42–) e i metalli di base in ossidi insolubili in acqua. Una lisciviazione del materiale calcinato produce una soluzione densa, ricca nei metalli refrattari che viene trattata con CO, CHOO, CH3OH o HCHO per ridurre il Cr6+ a Cr3+, separandolo poi dai sali di vanadio, molibdeno e tungsteno.

Questi sali sono quindi sottoposti a una nuova calcinazione. Come risultato si ottiene un solido misto comprendente CaO.nV2O5, CaMoO4 e CaWO4. Il solido viene trattato con acqua satura di CO2 o acido formico per dissolvere selettivamente i sali di vanadio che vengono successivamente recuperati mediante precipitazione o estrazione. Il processo ha i vantaggi di poter trattare un’ampia varietà di diverse leghe, non coinvolge pirometallurgia ad alta energia, il consumo dei reagenti è ridotto al minimo e non sono prodotti effluenti acquosi. Uno schema del progetto è riportato in figura 13.

Figura 13. Schema del riciclaggio da leghe proposto in [3].

Un’altra fonte per il riciclaggio sono i catalizzatori. A causa di un significativo impatto ambientale dei rifiuti di catalizzatori esauriti, è indispensabile recuperare i metalli in essi contenuti.

Recentemente è stato proposto un metodo per il recupero del pentossido di vanadio dai catalizzatori esausti [4]. Il metodo utilizza un composto organico del fosforo chiamato Cyanex 272[2]. Lo schema del recupero è mostrato in figura 14.

Figura 14. Schema recupero vanadio da catalizzatori esausti [4].

L’autore afferma che la procedura proposta fornisce vanadio a elevata purezza con una resa quasi quantitativa (~ 99%), ovviamente privo di metalli strettamente simili.

Ciclo biogeochimico

Una dettagliata analisi dei dati a disposizione ha permesso a W. Schlesinger e collaboratori di fornire un riepilogo quantitativo del ciclo biogeochimico globale del vanadio (V), inclusi entrambi i flussi naturali e antropici [5]. In figura 15 è riportato uno schema del ciclo.

Figura 15. Diagramma del ciclo biogeochimico del vanadio [5].

In particolare gli autori concludono che  le emissioni umane di vanadio nell’atmosfera superano le emissioni di fondo di un fattore di 1,7 e, presumibilmente, è stata modificata la deposizione di V dall’atmosfera di una quantità simile. L’eccessivo quantitativo di vanadio nell’aria e nell’acqua ha potenziali conseguenze per la salute umana, sebbene ancora scarsamente documentate.

Opere consultate

Handbook of Chemistry and Physics, 85th Edition, p. 4-34

https://en.wikipedia.org/wiki/Vanadium

Bibliografia

[3] J. Menhashi et al., Vanadium Recovery from Scrap Alloys, US Patent 4,298,582, Nov 3, 1981.

https://patentimages.storage.googleapis.com/5c/c0/76/6c35f9cbbf9c1f/US4298582.pdf

[4] A. S. Painuly, Separation and recovery of vanadium from spent vanadium pentaoxide catalyst by Cyanex 272., Environmental Systems Research, 2015, 4, DOI: 10.1186/s40068-015-0032-3

[5] W. H. Schlesinger et al., Global biogeochemical cycle of vanadium., Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS), 2017, DOI: 10.1073/pnas.1715500114

[1] I Tunicati (lat. scient. TunicataUrochordata) sono animali esclusivamente marini appartenenti al tipo dei Cordati, sottotipo Urocordati o Tunicati propriamente detti.  L’appartenenza di questi animali al tipo dei Cordati è giustificata dalla presenza nelle loro larve della “corda dorsale” quale organo assile di sostegno, che però difficilmente si rinviene allo stato adulto.

[2] Chimicamente il Cyanex 272 è il composto bis(2, 4, 4-trimethylpentyl)phosphinic acid.

Elementi della Tavola periodica. Vanadio, V. Prima parte.

Rinaldo Cervellati

Il vanadio (V) è l’elemento n. 23 della tavola periodica, primo del 5o gruppo, 4° periodo, a fianco di titanio (a sinistra) e cromo (a destra). La sua abbondanza nella crosta terrestre, relativamente alta, è stimata in 120 ppm. È un metallo di transizione color grigio argento, duro e malleabile. Si trova raramente libero in natura, ma una volta estratto dai suoi minerali la formazione all’aria di uno strato di ossido stabilizza il metallo libero da un’ulteriore ossidazione.

Figura 1. Vanadio metallico nativo

Il vanadio è contenuto in circa 65 minerali e nei depositi di combustibili fossili.

Fu scoperto nel 1801 dal mineralogista spagnolo Andrés Manuel del Río (1764-1849). Del Río estrasse l’elemento da un campione di un minerale messicano detto “piombo marrone”, in seguito chiamato vanadinite. Scoprì che i suoi sali esibivano una grande varietà di colori e, di conseguenza, chiamò l’elemento panchromium (dal greco: παγχρώμιο “tutti i colori”).

Figura 2. Andrés Manuel del Río (a sinistra); vanadinite (“piombo marrone”, a destra)

Più tardi, del Río ribattezzò l’elemento eritronio (dal greco: ερυθρός “rosso”) perché la maggior parte dei sali diventava rossa a causa del riscaldamento. Nel 1805, il chimico francese Hippolyte Victor Collet-Descotils (1773-1815), sostenuto dal barone Alexander von Humboldt (1769-1859), amico di del Río, dichiarò erroneamente che il nuovo elemento era un campione impuro di cromo. Del Río accettò la dichiarazione di Collet-Descotils e rinunciò alla scoperta.

Nel 1831 il chimico svedese Nils Gabriel Sefström (1787-1845) riscoprì l’elemento in un nuovo ossido che trovò mentre lavorava con i minerali di ferro. Più tardi, quell’anno, Friedrich Wöhler (1800-1882) confermò i primi lavori di del Río. Sefström scelse un nome che iniziasse con V, che non era stato ancora assegnato a nessun elemento. Chiamò l’elemento vanadio, dalla vecchia lingua germano-scandinava Vanadí (un altro nome per la dea scandinava Freyja, i cui attributi includono bellezza e fertilità), a causa dei suoi molti composti chimici meravigliosamente colorati.  Nel 1831, il geologo George William Featherstonhaugh (1780-1866) suggerì che il vanadio avrebbe dovuto essere ribattezzato “rionium” (dal cognome del Río), ma questo suggerimento non fu seguito[1].

L’isolamento del metallo vanadio si dimostrò difficile.  Nel 1831 Berzelius riferì di aver ottenuto il metallo, ma il chimico britannico Henry Enfield Roscoe (1833-1915) mostrò che Berzelius aveva prodotto il nitruro di vanadio (VN). Alla fine Roscoe isolò il metallo nel 1867 mediante riduzione del cloruro di vanadio (II), VCl2, con idrogeno. Nel 1927 il vanadio puro fu prodotto riducendo il pentossido di vanadio con calcio.

Il primo uso industriale su larga scala fu nel telaio in lega d’acciaio della Ford Model T (1905 ca), figura 3, ispirata alle auto da corsa francesi. L’acciaio al vanadio permise di ridurre il peso aumentando la resistenza alla trazione.

Figura 3. Auto Ford modello T del 1910

Nel 1911, il chimico tedesco Martin Henze (1873-1956) scoprì il vanadio nelle proteine ​​dell’emovanadina che si trova nelle cellule del sangue dell’Ascidiacea[2].

Proprietà fisiche

Il vanadio è un metallo medio-duro, duttile, grigio-blu acciaio. È elettricamente conduttivo e termoisolante. È più duro (7 nella scala di Mohs) della maggior parte dei metalli e degli acciai. Ha una buona resistenza alla corrosione ed è stabile negli alcali e negli acidi solforico e cloridrico. Si ossida in aria a circa 660 °C, sebbene si formi uno strato di passivazione dell’ossido anche a temperatura ambiente.

Il vanadio presente in natura è composto di un isotopo stabile, 51V, e un isotopo radioattivo, 50V. Quest’ultimo ha un’emivita lunghissima, 1,5×1017 anni, e un’abbondanza naturale dello 0,25%. L’isotopo 51V ha uno spin nucleare di 7⁄2, utile per la spettroscopia NMR. Sono stati caratterizzati ventiquattro radioisotopi artificiali, con un numero di massa compreso tra 40 e 65. I più stabili sono 49V con un’emivita di 330 giorni e 48V con un’emivita di 16  giorni.

Proprietà chimiche e principali composti

La chimica del vanadio è particolarmente interessante perché possiede quattro stati di ossidazione adiacenti: da +2 (II) a +5 (V). In soluzione acquosa, il vanadio forma complessi ionici aquo metallici variamente colorati: lilla [V(H2O)6]2+, verde [V(H2O)6]3+, blu [VO(H2O)5]2+, e giallo [VO(H2O)5]3+, in cui lo stato di ossidazione dipende dal pH (figura 4).

Figura 4. Colori degli acquocomplessi del vanadio a vari stati di ossidazione

L’ammonio vanadato (V), NH4VO3, in soluzione può essere successivamente ridotto con zinco elementare per ottenere i diversi colori del vanadio in questi quattro stati di ossidazione.

I composti di vanadio (II) sono agenti riducenti e i composti di vanadio (V) sono agenti ossidanti. I composti del vanadio (IV) spesso esistono come derivati ​​dello ione vanadile, VO2+.

Stati di ossidazione più bassi si trovano in composti come V(CO)6, [V(CO)6] e derivati ​​sostituiti.

Il pentossido di vanadio è un catalizzatore commercialmente importante per la produzione di acido solforico, una reazione che sfrutta la capacità degli ossidi di vanadio di subire reazioni redox.

La batteria redox al vanadio utilizza tutti e quattro gli stati di ossidazione: un elettrodo sfrutta la coppia +5/+4 e l’altro utilizza la coppia +3/+2. La conversione di questi stati di ossidazione è illustrata dalla riduzione di una soluzione fortemente acida di un composto di vanadio(V) con polvere di zinco o amalgama. La soluzione iniziale di colore giallo dello ione pervanadile [VO2 (H2O)4]+ è sostituita dal colore blu di [VO(H2O)5]2+, seguito da quello verde di [V(H2O)6]3+ e quindi dal colore viola di [V(H2O)6]2+.

Ossianioni

Simile per dimensioni e carica al fosforo (V), la chimica del vanadio (V) è pure simile a quella del fosforo (V).

In soluzione acquosa, il vanadio (V) forma una vasta famiglia di ossianioni come stabilito dalla spettroscopia NMR di 51V. Sono state identificate almeno 11 specie, a seconda del pH e della concentrazione.  Lo ione ortovanadato tetraedrico, VO43−, è la principale specie presente a pH 12–14, ed è utilizzato nella cristallografia proteica per studiare la biochimica del fosfato.

A valori di pH inferiori, si formano il monomero [HVO4]2− e il dimero [V2O7]4−, con il monomero predominante alla concentrazione di vanadio inferiore a 10−2 M. La formazione dello ione divanadato è analoga alla formazione dello ione bicromato. Le strutture di molti composti vanadato sono state determinate mediante cristallografia a raggi X. L’acido vanadico, H3VO4 esiste solo a concentrazioni molto basse.

Il vanadio (V) forma vari complessi perossidi, in particolare nel sito attivo degli enzimi bromoperossidasi contenenti vanadio (figura 5).

Figura 5. Sito attivo della vanadiobromoperossidasi

La specie VO(O)2(H2O)4+ è stabile in soluzioni acide. In soluzioni alcaline, sono note specie con 2, 3 e 4 gruppi perossido; l’ultimo forma sali viola di formula M3V(O2)4.nH2O (M = Li, Na, ecc.), in cui il vanadio ha una struttura dodecaedrica.

Alogenuri

Sono noti dodici alogenuri binari, composti con la formula VXn (n = 2… 5). VI4, VCl5, VBr5 e VI5 non esistono o sono estremamente instabili. In combinazione con altri reagenti, VCl4 è utilizzato come catalizzatore per la polimerizzazione dei dieni. Come tutti gli alogenuri binari, quelli del vanadio sono acidi di Lewis, specialmente quelli di V (IV) e V (V). Molti degli alogenuri formano complessi ottaedrici con formula VXnL6−n (X = alogenuro; L = altro ligando).

Sono noti molti ossaluri di vanadio (formula VOmXn).  L’ossitricloruro e l’ossitrifluoruro (VOCl3 e VOF3) sono i più ampiamente studiati. Simili all’analogo composto del fosforo, POCl3, sono volatili, adottano strutture tetraedriche in fase gassosa e sono acidi di Lewis.

Composti di coordinazione

I complessi di vanadio (II) e (III) sono relativamente inerti e riducenti. Quelli di V (IV) e V (V) sono ossidanti. Lo ione vanadio è piuttosto grande e alcuni complessi raggiungono numeri di coordinazione maggiori di 6, come nel caso di [V(CN)7]4−. La chimica di coordinazione di V4+ è dominata dallo ione vanadile, VO2+, che lega fortemente altri quattro ligandi e uno debolmente (quello trans al centro vanadilico). Un esempio è il vanadil acetilacetonato (V(O)(O2C5H7)2). In questo complesso, il vanadio è pentacoordinato con struttura piramidale quadrata (figura 6), il che significa che un sesto ligando, come ad es. la piridina, si può attaccare, sebbene la costante di associazione di questo processo sia piccola.

Figura 6. Struttura del vanadil acetilacetonato

Molti complessi vanadilici pentacoordinati hanno geometria bipiramidale trigonale, come VOCl2(NMe3)2. La chimica di coordinazione di V5+ è dominata dai complessi di coordinazione di diossovanadio relativamente stabili, spesso formati dall’ossidazione aerea dei precursori del vanadio (IV) che indicano la stabilità dello stato di ossidazione +5 e la facilità di interconversione tra gli stati +4 e +5.

Composti organometallici

La chimica organometallica del vanadio è ben studiata, sebbene abbia principalmente solo un interesse accademico. Il dicloruro di vanadocene è un reagente di partenza versatile con applicazioni in chimica organica. Il vanadio carbonile, V(CO)6, è un raro esempio di un metallo carbonile paramagnetico. La sua riduzione forma V(CO)6 (isoelettronico con Cr(CO)6), che può essere ulteriormente ridotto con sodio in ammoniaca liquida per produrre V(CO)53− (isoelettronico con Fe(CO)5).

Disponibilità e produzione

Il vanadio è il 20° elemento più abbondante nella crosta terrestre. All’inizio del XX secolo fu scoperto un grande deposito di minerale di vanadio (patrónite), la miniera di Minas Ragra, in Perù. Per diversi anni questo deposito di patrónite (principalmente solfuro, VS4) è stato una fonte economicamente significativa per il minerale di vanadio (figura 7). Nel 1920 circa i due terzi della produzione mondiale furono forniti da questa miniera.

Figura 7. Campione di patrónite

Con la produzione di uranio negli anni ’10 e ’20 dalla carnotite (K2(UO2)2(VO4)2·3H2O), figura 8, il vanadio divenne disponibile come prodotto secondario della produzione di uranio.

Figura 8. Campione di carnotite

La vanadinite (Pb5(VO4)3Cl) e altri minerali contenenti vanadio vengono estratti solo in casi eccezionali. Con la crescente domanda, gran parte della produzione mondiale di vanadio proviene ora dalla titanomagnetite. Quando questo minerale è utilizzato per produrre ferro, la maggior parte del vanadio va nelle scorie e viene estratto da queste.

Il vanadio viene estratto principalmente in Sudafrica, Cina nord-occidentale e Russia orientale. Nel 2013 questi tre paesi hanno estratto oltre il 97% delle 79.000 tonnellate prodotte [1].

Il vanadio è anche presente nella bauxite e nei depositi di petrolio greggio, carbone, scisti bituminosi e sabbie bituminose. Nel petrolio greggio sono state riportate concentrazioni fino a 1200 ppm. Quando questi prodotti petroliferi vengono bruciati, tracce di vanadio possono causare corrosione nei motori e nelle caldaie. È stato stimato che ogni anno siano rilasciate nell’atmosfera 110.000 tonnellate di vanadio bruciando combustibili fossili [2]. Questo dato è impressionante se confrontato con quello riportato in [1]: 30.000 tonnellate annue in più di quelle utilizzate sono rilasciate nell’atmosfera!

Lo ione vanadile è abbondante nell’acqua di mare, con una concentrazione media 30 nM (1,5 mg /m3). Alcune sorgenti di acqua minerale contengono questo ione in alte concentrazioni, ad es. le sorgenti vicino al Monte Fuji ne contengono fino a 54 μg per litro.

Il vanadio metallico viene ottenuto mediante un processo a più fasi che inizia con la torrefazione del minerale tritato con NaCl o Na2CO3 a circa 850 °C per fornire metavanadato di sodio (NaVO3). Un estratto acquoso di questo solido è acidificato per produrre una “torta rossa”, un sale polivanadato che viene ridotto con calcio metallico. In alternativa alla produzione su piccola scala, il pentossido di vanadio viene ridotto con idrogeno o magnesio. Vengono utilizzati anche molti altri metodi, nei quali il vanadio viene prodotto come sottoprodotto di altri processi. La purificazione è possibile con il processo della barra di cristallo sviluppato da Anton Eduard van Arkel e Jan Hendrik de Boer nel 1925. Comprende la formazione dello ioduro del metallo, ad es. lo ioduro di vanadio (III), e successiva decomposizione per produrre metallo puro:

2VI3 ⇌ 2V + 3I2

La maggior parte del vanadio è usata in una lega d’acciaio chiamata ferrovanadio, prodotto direttamente riducendo una miscela di ossido di vanadio, ossidi di ferro e ferro in una fornace elettrica. Il vanadio finisce in ghisa prodotta dalla magnetite contenente vanadio. Secondo il minerale utilizzato, le scorie contengono fino al 25% di vanadio.

(continua)

Opere consultate

Handbook of Chemistry and Physics, 85th Edition, p. 4-34

https://en.wikipedia.org/wiki/Vanadium

Bibliografia

[1] M. J. Magyar, Mineral Commodity Summaries 2015: Vanadium, United States Geological Survey; D.E. Polyak, Vanadium Statistics and Information, US National Minerals Information Center.

[2] M. Anke, Vanadium – An element both essential and toxic to plants, animals and humans?, Anal. Real Acad. Nac. Farm., 2004, 70, 961-999.

[1] Tuttavia Andrés Manuel del Río è considerato lo scopritore del vanadio.

[2] Ascidiacea è una classe degli organismi Tunicati, animali marini, sessili, microfagi filtratori, dal corpo a forma di otre.

Elementi della Tavola Periodica. Antimonio, Sb. 2 parte

Rinaldo Cervellati

Composti principali

L’antimonio possiede due stati di ossidazione: +3 (III) e +5 (V) essendo più stabile il secondo.

Ossidi e idrossidi

Il triossido di antimonio si forma quando l’antimonio viene bruciato all’aria. In fase gassosa, la molecola del composto è il dimero (Sb2O3)2, che polimerizza al momento della condensazione. Il pentossido di antimonio (Sb2O5) può essere formato solo per ossidazione con acido nitrico concentrato. L’antimonio forma anche un ossido a valenza mista, tetrossido di antimonio (Sb2O4), dove l’elemento presenta entrambi gli stati di ossidazione (III) e (V).  A differenza degli ossidi di fosforo e arsenico, questi ossidi sono anfoteri, non formano ossiacidi ben definiti e reagiscono con gli acidi formando sali di antimonio.

L’idrossido di antimonio (o acido antimonioso) Sb(OH)3 non è noto, ma l’antimonito di sodio ([Na3SbO3]4) si forma per fusione di ossido di sodio e Sb4O6, sono noti anche antimoniti di metalli di transizione. L’acido antimonico esiste solo come idrato HSb(OH)6, formando sali come l’anione antimonato Sb(OH)6-. Quando una soluzione contenente questo anione viene disidratata, il precipitato contiene ossidi misti.

Solfuri e alogenuri

Molti minerali di antimonio sono solfuri: stibnite (Sb2S3), pirargirite (Ag3SbS3), zinkenite, jamesonite e boulangerite.  Il pentasolfuro di antimonio non è stechiometrico e presenta antimonio nello stato di ossidazione +3 e legami S-S. Sono noti diversi tioantimonidi, come [Sb6S10]2-e [Sb8S13]2-.

L’antimonio forma due serie di alogenuri: SbX3 e SbX5. I trialidi SbF3, SbCl3, SbBr3 e SbI3 sono tutti composti molecolari con geometria piramidale trigonale.

Il trifluoruro SbF3 è preparato per reazione fra Sb2O3 e HF:

Sb2O3 + 6HF → 2SbF3 + 3H2O

è un acido di Lewis e accetta rapidamente ioni fluoruro per formare gli anioni complessi SbF4 e SbF52−.

SbF3 fuso è un debole conduttore elettrico. Il tricloruro SbCl3 è preparato dissolvendo Sb2S3 in acido cloridrico:

Sb2S3 + 6HCl → 2SbCl3 + 3H2S.

I pentalidi SbF5 e SbCl5 hanno una geometria molecolare bipiramidale trigonale in fase gassosa (figura 5), ma in fase liquida SbF5 è polimerico, mentre SbCl5 è monomerico. SbF5 è un potente acido di Lewis usato per produrre il superacido fluoroantimonico (H2SbF7).

Figura 5. Struttura di SbF5 in fase gas

Gli ossalidi sono più comuni per l’antimonio che per l’arsenico e il fosforo. Il triossido di antimonio si dissolve in acido concentrato per formare composti ossoantimonilici come SbOCl e (SbO)2SO4.

Antimonidi, idruri e composti di organo antimonio

 I composti in questa classe sono generalmente descritti come derivati ​​di Sb3−. L’antimonio forma antimonidi con metalli, come l’indio antimonide (InSb) e l’argento antimonide (Ag3Sb). Gli antimonidi di metalli alcalini e zinco, come Na3Sb e Zn3Sb2, sono più reattivi. Il trattamento di questi antimonidi con acido produce la stibina gassosa (idruro d antimonio) molto instabile, SbH3:

Sb3-+ 3H+→ SbH3

La stibina può anche essere prodotta trattando Sb3+con reagenti idruro come boroidruro di sodio.  SbH3 si decompone spontaneamente a temperatura ambiente.

I composti organoantimonici sono in genere preparati mediante alchilazione di alogenuri di antimonio con reagenti di Grignard. È nota una grande varietà di composti con entrambi Sb(III) e Sb(V), inclusi derivati ​​cloro-organici misti, anioni e cationi. Esempi includono Sb(C6H5)3 (trifenilstibina), Sb2(C6H5)4 (con un legame Sb-Sb) e ciclico [Sb(C6H5)]n. I composti organoantimonici pentacoordinati sono comuni, ad esempio Sb(C6H5)5 e numerosi alogenuri correlati.

Applicazioni

Circa il 60% dell’antimonio (e composti) viene consumato in ritardanti di fiamma, il 20% viene utilizzato in leghe per batterie, cuscinetti a strisciamento e saldature.

L’antimonio è utilizzato principalmente come triossido per materiali ignifughi, sempre in combinazione con ritardanti di fiamma alogenati, tranne che nei polimeri contenenti alogeni. L’effetto ritardante di fiamma del triossido di antimonio è dovuto alla formazione di composti alogenati di antimonio, che reagiscono con atomi di idrogeno, e probabilmente anche con atomi di ossigeno e radicali OH, inibendo così il fuoco. I mercati di questi ritardanti di fiamma includono abbigliamento per bambini, giocattoli, aerei e coprisedili per automobili. Sono inoltre aggiunti alle resine di poliestere in compositi in fibra di vetro per articoli come i cofani dei motori degli aerei leggeri.

L’antimonio forma una lega molto utile col piombo, aumentando la sua durezza e resistenza meccanica. Per la maggior parte delle applicazioni che coinvolgono il piombo, vengono utilizzate quantità variabili di antimonio come metallo legante. Nelle batterie al piombo acido, questa aggiunta migliora la resistenza della piastra e le caratteristiche di carica. Per le barche a vela, le chiglie di piombo sono usate come contrappesi; per migliorare la durezza e la resistenza alla trazione della chiglia di piombo, l’antimonio è miscelato con il piombo al 2% − 5% in volume. L’antimonio è usato nelle leghe antifrizione, in proiettili e pallini di piombo, guaine per cavi elettrici, macchine da stampa linotype, saldatura (alcune saldature “senza piombo” contengono il 5% di Sb), e in leghe indurenti a basso contenuto di stagno nella fabbricazione di canne d’organo.

Il peltro antico, usato per suppellettili, monili e altri oggetti, secondo la qualità e l’uso previsto, poteva contenere fino al 15% di piombo in lega con antimonio e altri metalli. Oggi il piombo è stato bandito per la tossicità e il peltro moderno è una lega composta principalmente di stagno (min. 90%), con l’aggiunta di altri metalli (rame, bismuto e antimonio).

I solfuri di antimonio aiutano a stabilizzare il coefficiente di attrito nei materiali delle pastiglie dei freni automobilistici.

Altre tre applicazioni utilizzano quasi tutto il resto dell’offerta mondiale. La prima è come stabilizzatore e catalizzatore per la produzione di polietilentereftalato, Un’altra è come agente chiarificante per rimuovere bolle microscopiche nel vetro, principalmente per schermi TV: ioni antimonio interagiscono con l’ossigeno, sopprimendo la tendenza di quest’ultimo a formare bolle.  Una terza applicazione è nei pigmenti.

L’antimonio viene sempre più utilizzato nei semiconduttori come drogante, nei wafer di silicio di tipo n per diodi, rivelatori a infrarossi e dispositivi ad effetto Hall. Negli anni ’50, gli emettitori e i collettori di transistor di giunzione in lega n-p-n furono drogati con minuscole perle di una lega di piombo-antimonio. L’antimonide di indio è usato come materiale per rivelatori a infrarossi di media lunghezza d’onda.

L’antimonio ha oggi pochi usi in biologia e medicina. I trattamenti contenenti antimonio, noti come antimoniali, sono usati come emetici. I composti di antimonio sono impiegati come farmaci antiprotozoari. L’antimonio e i suoi composti sono utilizzati in numerosi preparati veterinari, come l’antiomalina e il tiomalato di antimonio al litio, come balsamo per la pelle nei ruminanti. L’antimonio ha un effetto nutriente o condizionante sui tessuti cheratinizzati degli animali.

I farmaci a base di antimonio, come l’antimoniato di meglumina, sono anche considerati i farmaci di scelta per il trattamento della leishmaniosi negli animali domestici. Sfortunatamente, oltre ad avere bassi indici terapeutici, hanno una penetrazione minima del midollo osseo, dove risiedono alcuni degli amastigoti di Leishmania e curare la malattia – specialmente la forma viscerale – è molto difficile.

Tossicologia e precauzioni

L’antimonio e molti dei suoi composti sono considerati tossici. Clinicamente l’avvelenamento da antimonio è molto simile a quello da arsenico. A piccole dosi provoca mal di testa e vertigini, a dosi più alte provoca attacchi di vomito violenti e frequenti portando alla morte nell’arco di pochi giorni.

L’Organizzazione Mondiale della Salute ha proposto un limite per il contenuto di antimonio nell’acqua potabile di 20 μg/L e un’ingestione tollerabile giornaliera (TDI) di 6 μg per Kg di peso corporeo [1].  Il valore IDLH (immediatamente pericoloso per la vita e la salute) per l’antimonio è di 50 mg/m3 come media su giornata lavorativa di otto ore [2].

Riciclaggio

Nel 2014 la Commissione europea nel suo rapporto sulle materie prime essenziali, ha identificato l’antimonio come l’elemento con il più grande divario previsto fra domanda e offerta nel periodo 2015-2020. Ciò ha suscitato sforzi per trovare fonti secondarie di antimonio attraverso il riciclaggio di prodotti fuori uso o recuperandolo da scarti di processi industriali. Si ottengono preziosi residui mediante lavorazione di oro, rame e minerali di piombo con alto contenuto di antimonio. La maggior parte di questi residui è attualmente scartata o immagazzinata, causando preoccupazioni ambientali.

È quindi evidente la necessità di passare a un’economia più circolare, dove i rifiuti sono considerati una risorsa e gli schemi di valorizzazione diventano la norma, soprattutto per elementi piuttosto rari come l’antimonio. David Dupont et al.[3] hanno riportato una panoramica critica sugli attuali tentativi di recupero dell’antimonio da fonti secondarie. La review discute anche la possibilità di protocolli di valorizzazione dei rifiuti che garantiscano un ciclo di vita più sostenibile per l’antimonio.

Ciclo biogeochimico

Recentemente un gruppo di ricerca cinese, della School of Environment, Università di Pechino, ha pubblicato una recensione riportando le attuali conoscenze sui processi biogeochimici (inclusi emissione, distribuzione, speciazione, processi redox, metabolismo e tossicità) che innescano la mobilitazione e la trasformazione di antimonio dalle fonti di inquinamento nell’ambiente circostante. Fenomeni naturali come agenti atmosferici, attività biologica e attività vulcanica, insieme a input antropogenici, sono responsabili dell’emissione di antimonio nell’ambiente. Le emissioni dell’elemento e dei suoi composti possono essere assorbite e subire reazioni di ossido-riduzione su materiali organici o inorganici ambientali, esercitando effetti tossici nell’ecosistema. La recensione si basa su un’accurata e sistematica analisi degli ultimi articoli del 2010-2017 e sui risultati delle ricerche effettuate dal gruppo, e illustra gli esiti e gli effetti ecologici dell’antimonio nell’ambiente [4].

Figura 6. Ciclo biogeochimico di Sb, tratta dal rif. [4].

Più recentemente, un gruppo internazionale di ricercatori ha tracciato un legame plausibile fra i livelli di esposizione all’antimonio, la sua speciazione chimica e l’accumulo nel suolo, l’assorbimento/ripartizione nelle piante, la citotossicità/disintossicazione all’interno delle piante chiarendo il ruolo biogeochimico in questo ambiente [5]. Tuttavia, come sostengono gli autori, sono disponibili dati limitati sul comportamento biogeochimico di Sb nel sistema suolo-pianta, rispetto a quelli di altri metalli pesanti. La contaminazione ambientale da parte dell’antimonio rappresenta una grande minaccia per gli organismi viventi su scala globale, causa bioaccumulo nella catena alimentare, soprattutto a causa del suo assorbimento e accumulo in parti di piante commestibili. Il consumo di vegetali contenenti Sb (cereali, verdure, legumi ecc.) è la fonte principale dell’esposizione nell’uomo. Poiché l’antimonio non ha alcun ruolo biologico identificato, ma un potenziale genotossico e cancerogeno, l’articolo riporta il monitoraggio del suo comportamento biogeochimico nel sistema suolo-pianta e la sua influenza in termini di possibile bioaccumulo nella catena alimentare fino all’esposizione umana.

Figura 7. Ciclo biogeochimico schematico di Sb, tratto da [5].

Opere consultate

CRC, Handbook of Chemistry and Physics, 85th, p. 4-4

https://en.wikipedia.org/wiki/Antimony

https://it.wikipedia.org/wiki/Antimonio

Bibliografia

[1] Guidelines for Drinking-water Quality, WHO, 2011 p. 314 (disponibile in pdf)

[2] NIOSH Pocket Guide to Chemical Hazards, #0036 (NIOSH: The National Institute for Occupational Safety and Health)

[3] D. Dupont et al., Antimony Recovery from End-of-Life Products and Industrial Process Residues: A Critical Review., J. Sustain. Metall., 2016, 2, 79–103.

[4] Mengchang He et al., Antimony speciation in the environment: Recent advances in understanding the biogeochemical processes and ecological effects., Journal of Environmental Sciences, 2019, 75, 14-39.

[5] Natasha Tahir, M. Shahid et al., Biogeochemistry of antimony in soil-plant system: Ecotoxicology and human health., Applied Geochemistry, 2019, 106, 45-59.

Noi, Bacone e la tecnologia.

Luigi Campanella, gIà Presidente SCI

Le discipline giocano un grande ruolo nel disseminare e promuovere la conoscenza. Sono nate per garantire originalitá agli scienziati che sono esistiti, esistono ed esisteranno. I ricercatori tentano di ottenere risultati originali con il desiderio più o meno nascosto di essere iniziatori di idee. C’è una battaglia per trovare ad un progetto scientifico un suo ruolo originale che venga riconosciuto: questo porta a dragare e scavare aree sempre più piccole, discpline satellite, tematiche.

Le discipline però sono come i frattali, le loro regioni di frontiera sono zone dove gli scambi sono molto più ampi di quello che avviene per le zone interne. Questo comporta la coesistenza di una visione riduzionistica e di una olistica della Scienza.

La complessità di quest’ultima è esplorata ricorrendo alle nuove tecnologie: big data, intelligenza artificiale, filosofia, scienza sistemica. Di conseguenza queste non possono mantenere le due posizioni coesistenti e devono sposare una visione culturale di tipo olistico: gli strumenti per studiare il corpo umano possono trovare applicazione nel campo dei Beni Culturali e viceversa e rinunciare a progressi per ignoranza o peggio per preconcetta indisponibilità intellettuale.

Come diceva Bacone “una nuova tecnologia aggiusta sempre qualcosa, ma ne ne danneggia qualche altra”.

Per prevenire il possibile danno non basta una visione riduzionistica, ne è richiesta una olistica. Il tempo del lockdown ha avvicinato tutti alle nuove tecnologie, a  volte anche non democraticamente essendo ad alcuni precluse opportunità accessibili ad altri. Il movimento è stato tanto rapido e generale da portare alla formazione di due correnti, quella che esalta la tecnologia e quella che la demonizza.

Certo alcune situazioni senza tecnologia non possono essere affrontate con successo, ma certo anche rinunciare alla vita sociale in favore del contatto telematico priva di valori etici e sostanzialmente ci isola all’interno di spazi fisicamente e culturalmente ridotti.

La visione olistica della tecnologia trova conferma anche nel fatto che il successo di essa non è  correlata al fatto che funziona bene – diamo questo per scontato – ma alla sua capacità di intercettare la nostra vita  da più punti possibili di attacco : un’aspettativa soddisfatta, un cambiamento nelle nostre abitudini, un bisogno scoperto che non sapevamo di avere.

Anche sul fronte degli oppositori di recente sono apparse delle crepe: è certo che la privacy era più protetta quando un solo telefono serviva tutti a casa? E’certo che con pochi centri di informazione fossimo preservati dalle fake news?

Idealizzare il rapporto con le tecnologie del passato deriva dalla nostalgia per il tempo che fu e dalle tensioni nel rapporto con la tecnologia, non certo dal confronto non proponibile fra le opportunità di oggi e quelle di ieri.  Un problema è che a fronte di una presenza costante nella nostra vita di tutti i giorni la tecnologia non viene insegnata. A scuola è poco presente, nei media mai vista neutralmente, ma –  come già dicevo – alternativamente esaltata o demonizzata.

Se si pensa che quasi 6 miliardi di persone hanno accesso alla telefonia cellulare non si può negare che la tecnologia è capace di cambiare la nostra vita distruggendo usi del passato e creandone di nuovi. Come le nuove generazioni si pongono e si porranno rispetto alle vecchie nei confronti  della tecnologia? La tentazione potrebbe essere quella, partendo dalla nostra doppia esperienza (senza e con tecnologia) di assumere un atteggiamento educativo: ne risulterebbe uno scadente paternalismo inutile. Le molte facce della tecnologia, certo più della scienza, pretendono un partecipato coinvolgimento. Questo non vuol dire rinunciare all’educazione, ma concentrarla nelle sedi istituzionali, lasciando all’esperienza diretta di definire il proprio rapporto con la tecnologia e di tradurre nel proprio caso l’affermazione di Bacone.

Elementi della tavola periodica. Antimonio, Sb. Prima parte.

Rinaldo Cervellati

L’antimonio (Sb) è l’elemento n. 51 della tavola periodica, collocato nel gruppo 15, 5° periodo, sotto l’arsenico, a fianco di stagno (a sinistra) e tellurio (a destra). La sua abbondanza nella crosta terrestre è stimata in 0,2-0,5 ppm, alquanto minore di quella dell’arsenico (stima: 1,6-1,8 ppm). L’antimonio si trova talvolta libero in natura, ma più frequentemente in minerali, il principale dei quali è la stibnite o stibina o antimonite (solfuro di antimonio, Sb2S3). È un semimetallo grigio lucente, i suoi composti sono noti fin dall’antichità, usati come cosmetici e rimedi medici, spesso noti con il nome arabo kohl.

Figura 1. Antimonio nativo (a sinistra), Stibnite (a destra)

Il minerale stibnite finemente polverizzato era utilizzato nell’Egitto predinastico come cosmetico per gli occhi già nel 3100 a.C., quando fu inventato il trucco del volto. Un manufatto, ritenuto facente parte di un vaso, risalente al 3000 a.C. circa, fatto con antimonio, fu trovato a Telloh, in Caldea (parte dell’attuale Iraq), e un oggetto di rame placcato con antimonio risalente al 2500-2200 a.C. fu rinvenuto in Egitto.

L’archeologo britannico Roger Moorey (1937-2004) non era convinto che il manufatto di Telloh fosse davvero un vaso, menzionando che I. R. Selimkhanov[1], dopo la sua analisi del reperto, “tentò di mettere in relazione il metallo con l’antimonio naturale transcaucasico” (cioè il metallo nativo) e che ” gli oggetti di antimonio della Transcaucasia sono tutti piccoli ornamenti personali, ciò che indebolisce l’evidenza di un’arte perduta per rendere malleabile l’antimonio “.

Lo studioso romano Plinio il Vecchio (23/24-79 d.C.), nel suo famoso trattato di storia naturale, descrisse diversi modi per preparare il solfuro di antimonio a scopi medici. Fece anche una distinzione tra forme di antimonio “maschili” e “femminili”: la forma maschile è probabilmente il solfuro, mentre la forma femminile, che è superiore, più pesante e meno friabile, è probabilmente antimonio metallico nativo.

Il naturalista greco Pedanius Dioscorides[2] ha scritto che il solfuro di antimonio potrebbe essere arrostito riscaldando in corrente d’aria. Si pensa che con questo sistema abbia prodotto antimonio metallico.

Figura 2. Dioscorides e copertina del De Materia Medica

L’isolamento intenzionale dell’antimonio è descritto da Jabir ibn Hayyan[3] prima dell’815 d.C. La descrizione di una procedura per isolare l’antimonio viene successivamente fornita nel libro De la pirotechnia del 1540 del metallurgista italiano Vannoccio Biringuccio[4], che precede il più famoso libro del 1556 di Agricola[5], il De re metallica. In questo contesto, ad Agricola è stata spesso erroneamente attribuita la scoperta dell’antimonio metallico. L’antimonio metallico era noto al chimico tedesco Andreas Libavius ​​ (1555-1616) nel 1615, che lo ottenne aggiungendo ferro a una miscela fusa di solfuro di antimonio, sale e tartrato di potassio. Questa procedura ha prodotto antimonio con una superficie cristallina stellata.

Con il tramonto della teoria del flogisto, fu riconosciuto che l’antimonio è un elemento che forma solfuri, ossidi e altri composti, così come altri metalli e semimetalli.

La prima scoperta dell’antimonio naturale presente nella crosta terrestre fu descritta nel 1783 da Anton von Swab, scienziato svedese e ingegnere del distretto minerario locale. Il campione studiato fu raccolto nella miniera d’argento di Sala nel distretto minerario Bergslagen, Västmanland, in Svezia.

Dalla forma latina medievale antimonium, l’antimonio prende il nome nel greco tardo bizantino e nelle lingue moderne. L’origine di questo nome è incerta; tutte le ipotesi hanno qualche difficoltà di forma o interpretazione. L’etimologia popolare, da αντίμοναχός (anti-monachos) o antimoine (francese), ha ancora sostenitori; significherebbe “uccisore di monaci”, dal fatto che molti dei primi alchimisti erano monaci e che l’antimonio è molto velenoso.

Figura 3. Simbolo alchemico per l’antimonio

Un’altra interpretazione etimologica popolare è l’ipotetica parola greca ἀντίμόνος antimonos, “contro la solitudine”, spiegata come “non trovato come metallo” o “non trovato non legato”. Fu ipotizzata anche un’ipotetica parola greca ανθήμόνιον (anthemonion), che significherebbe “fiorellino”, nonché alcuni esempi di parole greche correlate che descrivono efflorescenza chimica o biologica.

I primi usi dell’antimonium includono le traduzioni di trattati medici arabi effettuate dal medico africano Costantino nel 1050-1100. Diverse autorità ritengono quindi che antimonium sia una corruzione scribale di qualche forma araba; ad esempio derivata da ithmid; altre possibilità includono athimar, il nome arabo del metalloide, e un ipotetico as-stimmi, derivato o parallelo al greco.

Il simbolo chimico standard per l’antimonio (Sb) è attribuito a Jöns Jakob Berzelius, che ha derivato l’abbreviazione dallo stibio (in latino Stibium).

Gli egiziani chiamavano l’antimonio mśdmt; nei geroglifici le vocali sono incerte, ma la forma copta della parola è CTHM (stēm). La parola greca , stimmi, è probabilmente una parola in prestito dall’arabo o dall’egiziano stm, usato dai poeti tragici attici del V secolo a.C. Successivamente i Greci usarono anche στἰβι (stibi), così come Celso e Plinio, scrivendo in latino, nel Io secolo d.C. Plinio dà anche i nomi stimi, larbaris, alabastro, e il “molto comune” platyophthalmos, “grandangolo” (dall’effetto del cosmetico). Successivamente autori latini adattarono la parola al latino come stibio.

Proprietà

L’antimonio è un semimetallo grigio argenteo brillante con durezza 3 (scala Mohs), poco malleabile quindi non adatto da solo per formare oggetti duri; ha un’elettronegatività 2,05 (scala di Pauling), quindi, in accordo con le tendenze periodiche, è più elettronegativo di stagno o bismuto e meno elettronegativo di tellurio o arsenico. L’antimonio è stabile all’aria a temperatura ambiente, ma reagisce con l’ossigeno se riscaldato per produrre triossido di antimonio, Sb2O3, è resistente all’attacco degli acidi.

Sono noti quattro allotropi: la forma metallica stabile e tre forme metastabili (esplosivo, nero e giallo). Se fuso e lentamente raffreddato, cristallizza in una forma a celle trigonali, isomorfa con l’allotropo grigio dell’arsenico (figura 4).

Figura 4. Struttura dell’antimonio cristallino

Una rara forma esplosiva di antimonio può formarsi dall’elettrolisi del tricloruro di antimonio. Quando graffiato con un attrezzo affilato, si verifica una reazione esotermica e vengono emessi fumi bianchi di antimonio metallico; quando viene strofinato con un pestello in un mortaio, si verifica una forte detonazione. L’antimonio nero si forma con il rapido raffreddamento del vapore di antimonio. Ha la stessa struttura cristallina del fosforo rosso e dell’arsenico nero, si ossida nell’aria e può infiammarsi spontaneamente. A 100 °C, si trasforma gradualmente nella forma stabile. L’allotropo giallo è il più instabile, si forma soltanto se generato dall’ossidazione della stibina (idruro di antimonio, SbH3) a -90 °C. Sopra questa temperatura e alla luce ambientale, questo allotropo metastabile si trasforma nell’allotropo nero più stabile.

L’antimonio elementare adotta una struttura a strati costituiti da anelli concatenati, increspati, a sei membri. I membri più vicini formano un complesso ottaedrico irregolare, con i tre atomi in ciascun doppio strato leggermente più vicini dei tre atomi nel successivo. Questo impacchettamento relativamente vicino porta a una densità di 6,697 g/cm3, ma il debole legame tra gli strati è causa della bassa durezza e fragilità.

L’antimonio ha due isotopi stabili: 121Sb con un’abbondanza naturale del 57,36% e 123Sb con un’abbondanza naturale del 42,64%. Sono noti 35 radioisotopi artificiali, di cui il più longevo è 125Sb con un’emivita di 2,75 anni.

Disponibilità e tendenze future

Anche se questo elemento non è abbondante, si trova in oltre 100 specie minerali, oltre che nel suo minerale predominante che, come già ricordato è la stibnite solfidrica (figura 1).

Nel 2005, il British Geological Survey (BGS) riportò che la Cina era il principale produttore di antimonio con circa l’84% della quota mondiale, seguita a distanza da Sudafrica, Bolivia e Tagikistan.

Nel 2016, secondo lo US Geological Survey (USGS), la Cina rappresentava il 76,9% della produzione totale di antimonio, seguita al secondo posto dalla Russia con il 6,9% e dal Tagikistan con il 6,2% .

La produzione cinese di antimonio dovrebbe diminuire in futuro poiché le miniere e le fonderie saranno chiuse dal governo come politica di controllo dell’inquinamento. Soprattutto a causa dell’entrata in vigore di una nuova legge sulla protezione ambientale nel gennaio 2015 e della revisione degli “Standard di emissione degli inquinanti per Stagno, Antimonio e Mercurio”, gli ostacoli alla produzione sono più elevati. Secondo il National Bureau of Statistics, a settembre 2015 in Cina il 50% della capacità di produzione di antimonio nella provincia di Hunan (la provincia con maggiori riserve di antimonio in Cina) non era stata utilizzata. È quindi improbabile che aumenti nei prossimi anni, anche perché nessun deposito significativo di antimonio in Cina è più stato sfruttato e le rimanenti riserve si stanno rapidamente esaurendo.

Secondo le statistiche dell’USGS, le attuali riserve globali economicamente sfruttabili di antimonio si esauriranno tra 13 anni. Tuttavia, la stessa USGS non esclude che ne saranno trovate altre.

Processi produttivi

L’estrazione dai minerali dipende dalla qualità e dalla composizione del minerale. La maggior parte dell’antimonio viene estratto come solfuro; i minerali a concentrazione inferiore sono concentrati mediante flottazione, mentre quelli a concentrazione maggiore vengono riscaldati a 500–600 °C, la temperatura alla quale la stibnite fonde e viene separata dalla ganga. L’antimonio è quindi isolato dal solfuro di antimonio grezzo mediante riduzione con rottami di ferro:

Sb2S3 + 3Fe → 2Sb + 3FeS

Alternativamente, il solfuro è convertito in ossido; il prodotto viene quindi arrostito, a volte allo scopo di vaporizzare l’ossido di antimonio (III) volatile, che viene recuperato. Questo materiale è spesso utilizzato direttamente per le principali applicazioni, le impurità sono arsenico e solfuro.

L’antimonio metallico viene isolato dall’ossido mediante una riduzione carbotermica:

2Sb2O3 + 3C → 4Sb + 3CO2

I minerali a concentrazione inferiore sono ridotti negli altiforni mentre i minerali a concentrazione superiore sono ridotti nei forni a riverbero.

(continua)

Opere consultate

CRC, Handbook of Chemistry and Physics, 85th, p. 4-4

https://en.wikipedia.org/wiki/Antimony

https://it.wikipedia.org/wiki/Antimonio

[1] I. R. Selimkhanov, chimico sovietico, studioso dell’antica metallurgia.

[2] Pedanius Dioscorides (circa 40-90 d.C.) è stato un medico, farmacologo, botanico e scrittore greco, autore del De materia medica (Περὶ ὕλης ἰατρικῆς) trattato di fitoterapia e sostanze medicinali correlate, (una vera farmacopea), che è stato ampiamente usato per oltre 1.500 anni.

[3] Abū Mūsā Jābir ibn Hayyān, (arabo persiano, c. 721 – c. 815 d.C.), è il presunto autore di un numero enorme e varietà di opere in arabo spesso chiamato corpus jabiriano. Lo scopo del corpus è vasto e diversificato e copre una vasta gamma di argomenti, tra cui alchimia, cosmologia, numerologia, astrologia, medicina, magia, misticismo e filosofia.

[4] Vannoccio Vincenzio Austino Luca Biringuccio (Siena, 1480 –1539?) è stato un maestro artigiano nella fusione e nella metallurgia del XV e XVI secolo. Conosciuto soprattutto per il suo manuale di metallurgia, pubblicato nel 1540, che contiene anche la prima descrizione di una procedura per isolare l’antimonio, di cui è considerato lo scopritore.

[5] Georg (o Gregorio) Agricola (1494 – 1555) è stato uno scienziato e mineralogista tedesco. È conosciuto come il padre della mineralogia. Il suo vero nome era Georg Pawer (o Georg Bauer); Agricola è la versione latina del suo nome, poiché Bauer significa contadino.

Sempre carbonio!

Luigi Campanella, già Presidente SCI

Il CO2 ha la responsabilità per i cambiamenti climatici, ma è solo una faccia del carbonio, un elemento per altri aspetti prezioso (si pensi ai metodi di datazione isotopica, alle nuove strutture molecolari del nanocarbonio) e per altri aspetti vero anello di congiunzione fra la materia vivente e quella inanimata.

Fra le strutture del nanocarbonio, il grafene è la più popolare per le applicazioni che ha avuto. Si tratta di  uno strato bidimensionale di atomi di carbonio impacchettati con proprietà elettroniche e meccaniche, considerato chimicamente inerte a causa della stabilità dei legami carbonio/carbonio che costituiscono la rete bidimensionale. Questo è però vero solo nel caso di grafene da solo e non stressato meccanicamente : in presenza di una perturbazione chimica (doping) o fisica la reattività aumenta e può essere modulata.

In presenza di un adsorbato sulla superficie del grafene si produce un’interazione, il cui valore ottimale è funzione del tipo di applicazione.

Chinese Chemical Letters

Volume 31, Issue 2, February 2020, Pages 565-569

Ad esempio per l’uso di grafene come elemento attivo in dispositivi elettronici è necessario  che il gap energetico (prodotto dall’interazione) fra banda di valenza e banda di conduzione contenga  il livello di Fermi. In effetti l’adsorbimento di piccole molecole come anche la funzionalizzazione possono consentire che ciò avvenga. Studi teorici suggeriscono che un significativo aumento dell’energia di adsorbimento, che si correla a variazioni delle proprietà elettroniche e chimiche, può essere ottenuto drogando il grafene con atomi donatori o accettori. Anche le vacanze create artificialmente nella struttura del grafene possono essere utili per alcune applicazioni, in particolare nella catalisi e nella sensoristica.

In entrambi i casi è però necessario che adsorbimento e desorbimento siano reversibili.

Un ulteriore studio ha riguardato gli effetti della curvatura locale, ottenuta mediante tensione applicata, del grafene sulla sua reattività giungendo alla conclusione di una possibile finalizzazione del materiale per immagazzinare idrogeno che verrebbe poi rilasciato quando la tensione viene rimossa.

Nanomaterials 2020, 10, 344; doi:10.3390/nano10020344

 

Segnali incoraggianti per l’acqua.

Mauro Icardi

Nel gran flusso di notizie, che riguardano l’epidemia di coronavirus in corso, è piuttosto facile che ci sfuggano invece notizie diverse. Che si occupano di altre problematiche, e che spesso rischiano di non ricevere la dovuta attenzione.

Il settore del trattamento delle acque, come sostengo ormai da tempo, deve affrontare cambiamenti necessari, e deve farlo con un impegno costante. Impegno che deve coinvolgere una pluralità di soggetti, partendo dai gestori degli impianti e terminando con gli enti di ricerca e quelli di controllo. Ripeto questo invito, proprio perché ritengo di conoscere il settore, e di capire con una certa chiarezza quelle che sono le criticità che deve affrontare. Oltre che a viverle giornalmente sul campo.

Mentre per quanto riguarda i rifiuti è relativamente facile convincere i cittadini, o molti di essi ad effettuare raccolta differenziata, o a cercare di ridurre la quantità di rifiuti, per l’acqua molto spesso il problema risulta più complesso. O meno intuitivo. Nelle nostre acque residue, ma anche parzialmente in quelle per l’approvvigionamento potabile si stanno concentrando un gran numero di inquinanti emergenti. E può sfuggire il legame diretto che si può instaurare tra le nostre azioni personali, e le conseguenze che ne possono derivare per l’ambiente.

Molti inquinanti emergenti finiscono per contaminare le acque probabilmente all’insaputa di molti.

E sono inquinanti costituiti da molecole molto spesso refrattarie all’ordinario trattamento biologico.

Su questo blog abbiamo affrontato molte volte queste tematiche, per esempio parlando di PFAS. Per molecole così refrattarie alla degradazione con meccanismi biologici, è necessario trovare  tecniche alternative di trattamento. In attesa di sostituirle con altre. Dovremmo conoscere ed evitare  l’acquisto di merci che vengono prodotte tramite processi inquinanti e pericolosi. Sia per l’ambiente, che per i lavoratori.    La domanda che spesso mi viene posta  è “cosa si può fare per risolvere questi problemi?

Una buona notizia è del Dicembre dello scorso anno. Prima che la nostra attenzione si concentrasse, per ovvi motivi, quasi esclusivamente sui problemi legati all’epidemia di Covid 19. Una buona notizia che arriva da un comunicato stampa del Consiglio nazionale delle ricerche  per la Sintesi organica e fotoreattività (Cnr-Isof) e per la Microelettronica e microsistemi (Cnr-Imm). L’ente pubblico di ricerca italiano, in collaborazione con l’università svedese Chalmers ha costruito e testato dei filtri per il trattamento dell’acqua tre volte più efficaci di quelli tradizionali grazie al materiale più sottile del mondo: il grafene.

I filtri sono costituiti da ossido di grafene e membrane di polisolfone (PSU). Il PSU è un polimero amorfo ad alte prestazioni, presenta una serie di eccellenti proprietà termiche, meccaniche ed elettriche. E’ trasparente (ambrato) ed ha un elevata stabilità all’idrolisi (resiste a ripetuti cicli di sterilizzazione a vapore), che lo rende ideale per l’utilizzo nell’industria alimentare e per attrezzature mediche.

L’accoppiamento di questi due materiali riesce a catturare contaminanti organici, molecole costituenti principi attivi di farmaci, cosmetici o detergenti che spesso non sono eliminati dai trattamenti convenzionali e che possono contaminare le acque della rete idrica.

Le prove per verificare la capacità di filtraggio del nuovo materiale sono state effettuate su campioni di acque contaminate con sostanze come il colorante rodamina, usato nell’industria tessile e farmaceutica, e principi attivi di antibiotici, antinfiammatori, colliri.

I coordinatori del gruppo di lavoro, Manuela Melucci e Vincenzo Palermo di Cnr-Isof hanno dichiarato: “Abbiamo realizzato filtri capaci di catturare contaminanti organici, molecole costituenti principi attivi di farmaci, cosmetici o detergenti che spesso non sono eliminati dai trattamenti convenzionali e che possono contaminare le acque della rete idrica”.

Secondo Palermo, vicedirettore del progetto europeo Graphene Flagship, le eccellenti prestazioni di questi nuovi filtri sono dovute alla struttura dell’ossido di grafene: la disposizione a strati dei foglietti di carbonio del grafene separati tra loro da distanze molto piccole che si possono controllare, è ideale per intrappolare le molecole contaminanti. Le membrane, inoltre, rileva Melucci, “possono essere recuperate dopo l’uso, lavate con un solvente per rimuovere i contaminanti che hanno raccolto e usate nuovamente”.

Questa è una realizzazione che è davvero molto importante e promettente. La realizzazione è già coperta da una domanda di brevetto internazionale. Si tratta di un altro passo avanti nel perfezionamento e nella scoperta di nuove tecniche di trattamento dell’acqua. Fortemente minacciata nella sua qualità originaria. Troppo spesso ci dimentichiamo il ruolo fondamentale che ha nel permettere lo sviluppo della vita. Intendendo come vita quella dell’intera biosfera, non limitiamo la nostra visione ai soli esseri umani.

Un altro non trascurabile aspetto di questa realizzazione, è che la chimica dei materiali ne è la protagonista. Grafene e Polisolfone sono materiali che nascono tramite la chimica. Quella dei ricercatori e quella dei tecnici di laboratorio e di quelli delle linee produttive. E questa è un’altra buona notizia. Che rende in parte giustizia della ormai proverbiale avversione generalizzata che molti hanno nei confronti di una scienza che può avere avuto luci ed ombre. Ma senza la quale la nostra vita quotidiana sarebbe davvero molto diversa da come la conosciamo. C’è bisogno di chimica per il trattamento delle acqua, e più in generale del risanamento ambientale.

 E’ fortemente auspicabile che, dalla dimensione delle prove di Laboratorio, il filtro possa poi essere utilizzato nelle reti acquedottistiche, o nei trattamenti terziari degli impianti di depurazione. Servono altri segnali incoraggianti come questo. Ma non basta. Dobbiamo anche imparare a rispettare il pianeta nel quale viviamo. Che pensiamo ci appartenga di diritto. Non è cosi. Lo abbiamo da sempre in prestito per le generazioni future, dobbiamo ricordarcelo sempre. Se non comprendiamo questo, qualunque realizzazione, qualunque scoperta, per quanto promettente e meravigliosa, perderebbe il suo significato.

La ricerca e conseguentemente le applicazioni tecniche che ne derivano da sole non bastano. Dobbiamo mettere in discussione il ruolo che abbiamo nelle trasformazioni permanenti che stiamo apportando al pianeta. Dobbiamo modificare gli stili di vita, essere capaci di diventare davvero resilienti. Di resistere alla lusinghe di un consumismo acritico. Di ripensare e criticare profondamente il pensiero unico, che vede capitalismo e liberismo incontrollati come unici sistemi economico- sociali possibili. Le leggi naturali e quelle fisiche ci dicono qualcosa di molto diverso.

https://www.cnr.it/it/comunicato-stampa/9135/nano-fogli-di-grafene-catturano-nuovi-contaminanti-nell-acqua-potabile

https://graphene-flagship.eu/

L’elettrochimica può produrre ossido di etilene a bassa emissione di CO2.

Rinaldo Cervellati

L’ossido di etilene, formula bruta C2H4O, è un importante prodotto di base per la fabbricazione di plastiche (resine epossidiche), detergenti e solventi, nonché per i liquidi antigelo che contengono il suo derivato, glicole etilenico. La struttura di questo ossido è mostrata in figura 1.

Figura 1. Struttura dell’ossido di etilene

Viene prodotto facendo reagire ossigeno ed etilene su un catalizzatore a base di argento a temperature di 200–300 °C e pressioni fino a 3 MPa, e la reazione genera quasi la stessa quantità di gas serra CO2 e  di ossido di etilene. Più della metà di questa CO2 proviene dall’ossidazione dell’etilene, il resto viene emesso dai combustibili fossili utilizzati per alimentare il processo.

Un approccio elettrochimico potrebbe contenere queste emissioni, ma dovrebbe superare due grandi problemi. Il primo è che l’etilene è scarsamente solubile in acqua, il solvente elettrolitico preferito utilizzato all’interno delle celle elettrochimiche. La bassa solubilità ostacolerebbe l’interazione dell’etilene con l’anodo della cella riducendo l’efficienza del processo di ossidazione. Aumentare la potenza della cella potrebbe migliorare il tasso di produzione di ossido di etilene, ma creerebbe il secondo problema: una eccessiva ossidazione dell’etilene, generando troppa indesiderata CO2.

Mark Peplow, l’11 giugno, su C&EN newsletter, riporta la notizia di un nuovo processo elettrochimico per produrre ossido di etilene a bassa emissione di diossido di carbonio (Electrochemistry cuts CO2 footprint of synthesizing ethylene oxide, C&EN, Vol. 98, n. 23, 2020).

Il gruppo di ricerca coordinato dal Prof. Edward H. Sargent[1] all’Università di Toronto ha risolto questi  problemi usando ioni cloruro nell’elettrolita come veicolo per trasportare la carica tra l’anodo della cella e l’etilene per migliorarne l’ interazione [1].

Edward H. Sargent

Gli ioni cloruro fungono da mediatore redox”, spiega Wan Ru Leow, che ha guidato la ricerca del gruppo.

Wan Ru Leow

Mentre la corrente scorre attraverso l’anodo della cella elettrochimica, converte gli ioni cloruro in cloro (Cl2), che forma acido ipocloroso (HOCl) e acido cloridrico (HCl). L’acido ipocloroso reagisce quindi con etilene formando cloridrina etilenica (1-cloro-2-idrossietano):

2Cl → Cl2 + 2e (1)

Cl2 + H2O ⇋ HOCl + HCl (2)

C2H4 + HOCl → HOCH2CH2Cl (3)

Nel frattempo, al catodo avviene la riduzione dell’acqua con rilascio di anioni idrossido e idrogeno gassoso, che può essere raccolto come prodotto secondario:

2H2O + 2e → H2 + 2OH (4)

La cella realizzata dal gruppo canadese è provvista di una membrana che separa i due compartimenti, anodico e catodico, impedendo la miscelazione delle soluzioni fra i comparti.

Dopo che si sono verificate le reazioni dell’anodo e del catodo, i ricercatori rimuovono le due soluzioni dalla cellula e le combinano, consentendo all’etilene cloridrina di reagire con l’idrossido e produrre ossido di etilene:

HOCH2CH2Cl + OH → C2H4O + Cl + H2O (5)

HCl + OH → Cl+ H2O (6)

La reazione globale è quindi la seguente:

C2H4 + H2O → C2H4O + H2  (7)

Leow afferma che in un processo industriale, queste operazioni potrebbero potenzialmente essere eseguite in un sistema a flusso continuo per migliorare ulteriormente l’efficienza.

Complessivamente, circa il 70% della corrente elettrica fornita alla cella contribuisce a ottenere il prodotto con un’efficienza ragionevolmente elevata e non produce emissioni di CO2. Circa il 97% dell’etilene che reagisce viene trasformato nell’epossido desiderato, e in linea di principio l’etilene non reagito potrebbe essere fatto ricircolare attraverso la cella, afferma il gruppo di ricerca. La cella converte anche il propilene in ossido di propilene con una efficienza simile.

L’elettrosintesi opera con un’alta densità di corrente fino a 1 A/cm2, che stabilisce la quantità di materiale che può essere prodotta da un determinato elettrodo.

“È abbastanza eccezionale“, afferma Karthish Manthiram dell Massachusetts Institute of Technology (USA), che sta sviluppando metodi elettrochimici per produrre epossidi e non è coinvolta nel nuovo lavoro. “Hanno impiegato la stessa densità necessaria per le operazioni industriali”.

I ricercatori canadesi hanno anche effettuato un’analisi tecnoeconomica del loro processo e hanno concluso che in condizioni ottimali il processo potrebbe produrre ossido di etilene ad un costo di circa $1.500 per tonnellata, corrispondente al processo convenzionale.

L’anno precedente, il gruppo di Sargent aveva presentato un metodo elettrochimico per ridurre la CO2 in etilene [2]. Combinando questo metodo con il nuovo processo elettrochimico, il gruppo ha anche dimostrato che potrebbe convertire la CO2 in ossido di etilene.

Un impianto pilota a Calgary che applica il processo CO2-etilene del gruppo è già in grado di produrre 100 kg di etilene al giorno e Sargent afferma che potrebbe essere possibile modificare l’impianto per testare il nuovo processo di produzione su una simile scala. Aggiunge che c’è un crescente interesse commerciale in questi processi: “L’industria chimica globale è ansiosa di vedere come si potrebbe decarbonizzare il settore“.

Bibliografia

[1] W. R. Leow et al., Chloride-mediated selective electrosynthesis of ethylene and propylene oxides at high current density., Science, 2020, 368, 1228–1233. DOI: 10.1126 / science.aaz8459

[2] F. Li et al., Molecular tuning of CO2-to-ethylene conversion., Nature, 2020, 577,509–513.

[1] Edward H. Sargent è professore ordinario nel Dipartimento di Ingegneria elettronica e informatica dell’Università di Toronto. Ricopre la cattedra di nanotecnologie ed è prorettore per gli affari internazionali dell’Università.

Elementi della Tavola Periodica. Cromo, Cr. 2

Rinaldo Cervellati

Applicazioni

Metallurgia

Il forte aumento della resistenza alla corrosione ha reso il cromo un importante materiale per l’acciaio. Gli acciai per utensili contengono tra il 3 e il 5% di cromo.

Figura 7. Set di posate in acciaio al cromo

L’acciaio inossidabile, la lega metallica resistente alla corrosione primaria, si forma quando il cromo è introdotto nel ferro in concentrazioni sufficienti, di solito superiore all’11%. Per la formazione dell’acciaio inossidabile, il ferrocromo è aggiunto al ferro fuso. Inoltre, le leghe a base di nichel aumentano di resistenza a causa della formazione di particelle di metallo duro stabili ai bordi della lega. Ad esempio, Inconel 718 contiene il 18,6% di cromo. A causa delle eccellenti proprietà ad alta temperatura di queste superleghe al nichel-cromo, sono utilizzate nei motori a reazione e nelle turbine a gas al posto dei comuni materiali strutturali.

La relativa elevata durezza e resistenza alla corrosione del cromo non legato lo rende un metallo affidabile per il rivestimento superficiale; è ancora il metallo più popolare per il rivestimento in lamiera con una durata superiore alla media rispetto ad altri metalli di rivestimento. Uno strato di cromo viene depositato su superfici metalliche pretrattate mediante tecniche galvaniche. Esistono due metodi di deposizione: sottile e spesso. La deposizione sottile comporta uno strato di cromo inferiore a 1 µm di spessore depositato dalla cromatura e viene utilizzata per superfici decorative. Gli strati di cromo più spessi vengono depositati se sono necessarie superfici resistenti all’usura. Entrambi i metodi utilizzano soluzioni di cromato acido o dicromato. Tuttavia, a causa delle normative ambientali e sanitarie sui cromati (cromo esavalente), sono in fase di sviluppo metodi di rivestimento alternativi. L’elevata tossicità dei composti di Cr(VI), utilizzati nel processo di galvanoplastica e il rafforzamento delle norme di sicurezza e ambientali richiedono la ricerca di sostituti del cromo o almeno una modifica che utilizzi composti di cromo (III) meno tossici.

Pigmenti

Il minerale crocoite è stato utilizzato come pigmento giallo poco dopo la sua scoperta. Dopo che un metodo di sintesi divenne disponibile a partire dalla più abbondante cromite, il giallo cromo era, insieme al giallo cadmio, uno dei pigmenti gialli più usati. Il pigmento non fotodegrada, ma tende a scurirsi a causa della formazione di ossido di cromo (III). Ha un colore deciso ed è stato utilizzato per gli scuolabus negli Stati Uniti e per il servizio postale (ad esempio Deutsche Post) in Europa. Da allora l’uso del giallo cromo è diminuito a causa di problemi ambientali e di sicurezza, ed è stato sostituito da pigmenti organici o altre alternative prive di piombo e cromo. Altri pigmenti che si basano sul cromo sono, ad esempio, la tonalità profonda del pigmento rosso cromo, che è semplicemente cromato di piombo con idrossido di piombo (II) (PbCrO4·Pb(OH)2). Il verde cromo è una miscela di blu di Prussia (esacianoferrato (III) di ferro (II), KFe(II)[Fe(III)(CN)6]) e giallo cromo, mentre il verde di ossido di cromo è semplicemente ossido di cromo (III).

Gli ossidi di cromo sono anche usati come pigmento verde nel campo della lavorazione del vetro e anche come smalto per ceramiche. L’ossido di cromo verde è estremamente resistente alla luce e come tale viene utilizzato nei rivestimenti di lamiere. È anche l’ingrediente principale nelle vernici riflettenti agli infrarossi, utilizzate dalle forze armate per dipingere i veicoli e per dare loro la stessa riflettanza agli infrarossi delle foglie verdi.

Altri impieghi

Gli ioni di cromo (III) presenti nei cristalli di corindone (ossido di alluminio) li colorano in rosso; quando il corindone assume questo colore, è noto come rubino.

Figura 8. Rubino (corindone rosso)

Un rubino artificiale di colore rosso può anche essere ottenuto drogando con cromo (III) cristalli di corindone artificiale, rendendo così il cromo un requisito per la produzione di rubini sintetici. Un tale cristallo di rubino sintetico costituiva la base del primo laser, prodotto nel 1960, che si basava sull’emissione stimolata di luce dagli atomi di cromo in tale cristallo.

Figura 9. Componente di un laser a rubino

A causa della loro tossicità, i sali di cromo (VI) sono utilizzati per la conservazione del legno. Ad esempio, l’arsenato di rame cromato (CCA) è utilizzato nel trattamento del legno per proteggerlo da funghi in decomposizione, insetti che attaccano il legno, comprese le termiti e trivellatori marini. Le formulazioni contengono anidride cromica (CrO3) tra il 35,3% e il 65,5%.

I sali di cromo (III), in particolare l’allume di cromo e il solfato di cromo (III), vengono utilizzati nella concia delle pelli. Il cromo (III) stabilizza la pelle legando in modo incrociato le fibre di collagene. Le pelli conciate al cromo possono contenere tra il 4 e il 5% di cromo, che è strettamente legato alle proteine. Sebbene la forma di cromo utilizzata per la concia non sia la varietà esavalente tossica, permane un notevole interesse per il cromo nell’industria conciaria. Recupero e riutilizzo, riciclaggio diretto/indiretto, e concia “senza cromo” sono praticati per gestire meglio il suo utilizzo.

L’elevata resistività al calore e l’alto punto di fusione rendono la cromite e l’ossido di cromo (III) un materiale refrattario ad alta temperatura, come altiforni, forni per cemento, stampi per la cottura di mattoni e sabbie di fonderia per la fusione di metalli. In queste applicazioni, i materiali refrattari sono realizzati con miscele di cromite e magnesite. Tuttavia questo impiego è in calo a causa delle normative ambientali dovute alla possibilità di formazione di cromo esavalente.

Numerosi composti di cromo sono utilizzati come catalizzatori per la sintesi di idrocarburi e plastiche polietileniche.

Ruolo biologico

Gli effetti biologicamente benefici del cromo (III) continuano a essere oggetto di controversie. Alcuni esperti ritengono che riflettano risposte farmacologiche piuttosto che nutrizionali, mentre altri suggeriscono che sono effetti collaterali di un metallo tossico. Il cromo è accettato dal National Institutes of Health degli Stati Uniti come oligoelemento per il suo ruolo nell’azione dell’insulina, un ormone fondamentale per il metabolismo e la conservazione di carboidrati, grassi e proteine. Il preciso meccanismo delle sue azioni nel corpo, tuttavia, non è stato completamente definito, mettendo  in discussione se il cromo è essenziale per le persone sane.

Al contrario, il cromo esavalente (Cr(VI)) è altamente tossico e mutageno quando inalato. L’ingestione di cromo (VI) nell’acqua è stata collegata a tumori allo stomaco e può anche causare dermatite allergica da contatto.

La carenza di cromo, che comporta una mancanza di Cr(III) nel corpo, o forse un suo complesso come fattore di tolleranza al glucosio, è controversa. Alcuni studi suggeriscono che la forma biologicamente attiva di cromo (III) sia trasportata nel corpo attraverso un oligopeptide a basso peso molecolare che legherebbe il cromo (LMWCr), svolgendo un ruolo nel metabolismo dell’insulina.

Il contenuto di cromo degli alimenti comuni è generalmente basso (1-13 microgrammi per porzione) e varia ampiamente a causa delle differenze nel contenuto di minerali nel suolo, nella stagione di crescita, nella cultivar delle piante e nella contaminazione durante la lavorazione. Inoltre, il cromo (e il nichel) penetra negli alimenti cotti in acciaio inossidabile, con effetto maggiore quando le pentole sono nuove. Anche gli alimenti acidi come la salsa di pomodoro che vengono cotti per molte ore aggravano questo effetto.

Vi è disaccordo sul cromo come oligoelemento essenziale. Gli Istituti per la Salute di Australia, Nuova Zelanda, India, Giappone e Stati Uniti considerano il cromo essenziale, mentre l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA), che rappresenta l’Unione europea, non lo considera tale. Quindi è inutile riportare dosi di assunzione giornaliera raccomandate.

Diffusione nell’ambiente, tossicità e precauzioni

Il cromo è naturalmente presente nell’ambiente in tracce, ma i suoi impieghi industriali contaminano i sistemi acquatici. I fiumi dentro o a valle delle aree industrializzate presentano contaminazioni dai suoi composti. La quantità standard  nell’acqua per il cromo è 0,1 mg/L, ma in alcuni fiumi è anche cinque volte superiore. Lo standard per i pesci destinati al consumo umano è inferiore a 1 mg/kg, ma in molti campioni testati è risultata più di cinque volte superiore. Il cromo, in particolare il cromo esavalente, è altamente tossico per i pesci perché è facilmente assorbito attraverso le branchie, entra rapidamente nella circolazione sanguigna, attraversa le membrane cellulari e si diffonde nella catena alimentare. Al contrario, la tossicità del cromo trivalente è molto bassa, attribuita alla scarsa permeabilità della membrana e alla scarsa biomagnificazione.

L’esposizione acuta e cronica al cromo (VI) influenza il comportamento, la fisiologia, la riproduzione e la sopravvivenza dei pesci. Nei pesci adulti sono stati segnalati danni istopatologici a fegato, reni, muscoli, intestino e branchie.

I composti di cromo (III) insolubili in acqua e il cromo metallico non sono considerati un pericolo per la salute, mentre la tossicità e le proprietà cancerogene del cromo (VI) sono note da molto tempo. A causa dei meccanismi specifici di trasporto, solo una quantità limitata di cromo (III) entra nelle cellule. La tossicità acuta per via orale varia tra 50 e 150 mg/kg.

La tossicità acuta per via orale del cromo (VI) varia tra 1,5 e 3,3 mg/kg. Nel corpo umano, il cromo esavalente è ridotto a cromo (III) già nel sangue prima che entri nelle cellule. Questo viene escreto dal corpo, mentre lo ione cromato viene trasferito nella cellula da un meccanismo di trasporto, attraverso il quale anche gli ioni solfato e fosfato entrano nella cellula. La tossicità acuta del cromo (VI) è dovuta alle sue forti proprietà ossidanti. Dopo che raggiunge il flusso sanguigno, danneggia i reni, il fegato e le cellule del sangue attraverso reazioni di ossidazione. Risultato: emolisi, insufficienza renale ed epatica.

La cancerogenicità della polvere di cromato è nota da molto tempo, già nel 1890 una prima pubblicazione descriveva l’elevato rischio di cancro dei lavoratori in una fabbrica di coloranti.  Sono stati proposti tre meccanismi per descrivere la genotossicità del cromo esavalente. Il primo meccanismo include radicali idrossilici altamente reattivi e altri radicali  prodotti dalla riduzione del cromo (VI) a cromo (III). Il secondo processo include il legame diretto del cromo (V), prodotto dalla riduzione nella cellula, e dei composti di cromo (IV) al DNA. L’ultimo meccanismo ha attribuito la genotossicità al legame con il DNA del prodotto finale della riduzione a cromo (III).

I sali di cromo (cromati) sono anche causa di reazioni allergiche e dermatiti da contatto in alcune persone, specialmente nei lavoratori delle industrie conciarie e tintorie.

Riciclaggio

Il riciclaggio dei rifiuti di lavorazione delle leghe contenenti cromo metallico dell’industria metallurgica e di oggetti scartati da privati perché diventati obsoleti viene generalmente effettuato da ditte specializzate, come ad esempio la tedesca RS-Recycling GmbH. Un report USA non troppo recente riporta che la quantità stimata riciclata era di circa 99 mt di cromo. Gran parte di questo materiale (97 mt di cromo) era contenuto in acciaio inossidabile e superleghe. Quasi tutto il materiale metallurgico è riciclato, in gran parte per il suo contenuto di cromo [1]. Lo stesso report mostra il seguente diagramma di flusso del riciclo (figura 10)

Figura 10. Tipico diagramma di processo e riciclo del cromo [1]

Gli estensori del rapporto sostengono che tale diagramma resterà valido anche nel futuro.

Maggior attenzione viene posta al riciclaggio dei rifiuti di concerie e tintorie che contengono il tossico cromo esavalente (cromo (VI)).

Nel 2005 Vladimír Vašek et al., al XVI Congresso Internazionale dell’IFAC (International Federation of Automatic Control) presentarono la descrizione di un sistema di controllo e monitoraggio computerizzato per un processo tecnologico di riciclaggio di rifiuti liquidi e solidi al cromo per l’industria conciaria [2].

Recentemente Janez Scancar e Radmila Milacic hanno riportato un metodo basato su ossidoriduzioni per lo smaltimento e riutilizzo di materiali di scarto ricchi di cromo [3].

Ancora più recentemente, un gruppo di ricerca dell’Istituto Federale Svizzero di Tecnologia (EPFL), coordinato da Wendy L. Queen[1], ha sintetizzato strutture molecolari metallo-organiche (MOF) che riducono gli ioni Cr(VI) a ioni Cr(III).

Figura 11. Prof. Wendy L. Queen

Questi materiali funzionano anche da catalizzatori fotosensibili che, se illuminati dalla luce, riducono e rimuovono contemporaneamente l’inquinante cromo esavalente rendendo potabile l’acqua inquinata [4]. Un altro vantaggio è che i MOF sono rigenerabili. In figura 12 è riportato lo schema del metodo.

Figura 12. Schema di funzionamento del MOF sintetizzato all’EPFL [4]

Sebbene i MOF siano costosi, sono molto efficienti nell’eliminazione di questi inquinanti, certamente di più degli usuali materiali porosi come carboni attivi o zeoliti, che soffrono di scarsa selettività e bassa capacità ma sono più economici.

La ricerca di Queen (e di altri gruppi che studiano i MOF) ha ora l’obiettivo di realizzare  materiali che possano rendere attuabile il loro impiego commercialmente vantaggioso per portare acqua pulita alle popolazioni che più ne necessitano. Intendono testare questi materiali sul campo per applicarli ai dispositivi di purificazione dell’acqua utilizzati in tutto il mondo.

Ciclo biogeochimico

Non sono molti gli studi sul ciclo biogeochimico globale del cromo poiché la natura vulcanica dei suoi minerali non ne consente una distribuzione uniforme.

Tuttavia, nel 1991, un dettagliato lavoro di Richmond J. Bartlett aveva stabilito l’interconversione fra Cr(III) e Cr(VI) come la principale nel ciclo del cromo nei terreni e nelle acque naturali [4]. In questa interconversione principale partecipano molti processi che coinvolgono la mobilitazione e ossidazione di Cr(III) e riduzione di Cr(VI). Dice Bartlett: Ci sono lacune nella nostra comprensione dei fattori che controllano questi processi. Se il Cr(III) solubile viene aggiunto a un terreno “medio”, parte di essa verrà immediatamente ossidata dagli ossidi di manganese in Cr(VI). Il resto del Cr(III) può rimanere ridotto per lunghi periodi di tempo, anche in presenza di ossidi di manganese . Tuttavia, questo Cr(III) meno disponibile può essere mobilitato da  composti organici  complessanti a basso peso molecolare e quindi ossidati dove le condizioni redox sono ottimali… [5]

Secondo questi presupposti, ricerche sul campo e analisi di laboratorio, Bartlett giunse a proporre il seguente schema (figura 13)

Figura 13. Schema del ciclo del cromo [5]

Molto recentemente, un gruppo internazionale di ricercatori, coordinati dal Prof. Wei Wei, utilizzando le moderne tecniche di spettrometria di massa, ha identificato un ampio intervallo di concentrazione di isotopi del cromo durante la sua mobilitazione in ambienti terrestri, fluviali e oceanici, utile non solo per tracciare un ciclo biogeochimico attuale, ma anche per ipotizzare il paleo-ambiente [6].

Opere consultate

CRC, Handbook of Chemistry and Physics, 85th, 4-9

https://en.wikipedia.org/wiki/Chromium

Bibliografia

[1] Chromium Recycling, https://www.911metallurgist.com/chromium-recycling/#gsc.tab=0

[2] V. Vašek et al., Control System for Chromium Recycling Technology from Tannery Waste., Proceedings of 16th IFAC, 2005, 139-142.

[3] J. Scancar, R. Milacic, Safe disposal and re-use of chromium rich waste material., in M. J. Balart Murria Ed.: Management of Hazardous Residues Containing Cr(VI), Nova Science Publishers Inc., NY, 2011, Cap 15, pp. 295-317.

[4] B. Valizadeh et al., A novel integrated Cr(VI) adsorption–photoreduction system using MOF@polymer composite beads., Journal of Materials Chemistry A, 2020, DOI: 10.1039/d0ta01046d

[5] R.J. Bartlett, Chromium Cycling in Soils and Water: Links, Gaps, and Methods., Environmental Health Perspectives, 1991, 92, 17-24.

[6] W. Wei et al., Biogeochemical cycle of chromium isotopes at the modern Earth’s surface and its applications as a paleo-environment., Chemical Geology, 2020,  DOI: 10.1016/j.chemgeo.2020.119570

[1] Wendy Lee Queen è Assistant Professor nel Laboratory of Functional Inorganic Materials dell’EPFL di Losanna.