Cos’è un elemento chimico?

Roberto Zingales*

Recensione

E. Scerri & E. Ghibaudi (eds) – What is a chemical element? Oxford University Press, 2020
pag 272, £65

Il concetto di elemento chimico è così familiare a chi si occupa di Scienze, come pure ai profani, e persino a qualche studente, da far ritenere superfluo formularne una definizione, o considerare con attenzione quelle riportate nei libri di testo. In particolare, esso rappresenta lo strumento concettuale fondamentale con il quale i chimici interpretano la composizione e le trasformazioni delle sostanze materiali, usandolo routinariamente e, direi, disinvoltamente, senza soffermarsi sulla necessità di darne una definizione rigorosa.

Questo, invece, diventa tanto più importante quanto più la Chimica si interfaccia con altre aree di ricerca, come la Fisica o la Filosofia, che si muovono in ambiti diversi e su differenti piani di complessità, e, soprattutto, nell’ambito didattico, dove occorre condividere con gli studenti idee e concetti che devono essere quanto più è possibile, semplici, chiari, e definiti in maniera esatta, esauriente, priva di ambiguità.

La questione potrebbe essere risolta rapidamente, definendo gli elementi come gli ingredienti dei quali sono fatte tutte le cose, rimandando, in maniera intuitiva, all’ambito gastronomico, a quei componenti che, come il lievito, pur non essendo sensibilmente identificabili nelle pietanze, tuttavia, conferiscono loro specifiche proprietà. Anche se diretta ed efficace, questa definizione lascia aperte, però, alcune questioni fondamentali, come quella di stabilire dei criteri per identificare, caratterizzare e riconoscere ciascun elemento.

I filosofi greci sono stati i primi a elaborare il concetto di elemento perché, per spiegare la composizione delle sostanze e le loro trasformazioni, hanno scelto di ricorrere all’ipotesi che, al di sotto della sua varietà e complessità, la Natura nasconda un ordine unificante, un substrato comune, eventualmente articolato in uno o più semplici costituenti elementari. Nel corso dei secoli, il concetto ha subito una notevole e continua evoluzione, mentre ai metodi di indagine della Natura puramente speculativi si aggiungevano quelli empirici e poi sperimentali.

Di conseguenza, l’iniziale concezione astratta è stata gradualmente sostituita, da una visione più materiale, che considera gli elementi come costituenti reali delle sostanze composte, isolabili con metodi analitici, e ricombinabili in nuovi composti, senza subire alterazione, soprattutto nella loro identità e nel loro peso. Questa caratteristica ha causato non poche difficoltà, specialmente perché l’ apparenza delle sostanze naturali è molto diversa da quella degli elementi dai quali sono ritenute composte.

Lo stesso Lavoisier, che pure ha formulato la prima definizione rigorosamente operazionale di elemento, e lo ha decisamente privato di ogni attributo metafisico, riportandolo sul piano materiale delle sostanze semplici, termine ultimo dell’analisi chimica, riteneva che le qualità dei composti siano determinate da quali elementi (principi) essi contengano. Il tipico esempio è quello dell’ossigeno, cui attribuiva l’origine delle proprietà acide di tutte le sostanze che lo contengono, tanto da attribuirgli un nome che, nella sua origine greca, esplicita questa convinzione, poi rivelatasi non corretta.

Tuttavia, l’ipotesi dell’invariabilità degli elementi nel corso delle trasformazioni chimiche fu usata da Lavoisier a supporto della legge di conservazione della massa, e, successivamente, da Dalton, come presupposto per associare a ciascuno di essi un differente atomo indivisibile, con un peso atomico definito e costante. Così, la non decomponibilità degli elementi, sancita a livello macroscopico dalla definizione operazionale di Lavoisier, era integrata, a livello microscopico, dalla indivisibilità dei loro atomi.

Occorse più di mezzo secolo perché la teoria atomica giungesse a piena maturazione, con l’accettazione delle differenze tra atomo e molecola e tra peso equivalente e peso atomico, e di un metodo oggettivo per la determinazione di quest’ ultimo. Alla fine, i tempi erano maturi per tentare un nuovo approccio al concetto di elemento e di classificare tutti quelli (vecchi e nuovi) che erano considerati tali.

Sotto questo aspetto, un ruolo determinante l’ha giocato il chimico russo Dimitri Mendeleév, che, solo dopo aver riconsiderato attentamente il concetto di elemento, ha potuto individuare la legge di periodicità (1869), ed assegnare a ciascun elemento un posto, all’interno dello schema di distribuzione, relativo al sistema periodico. Il passaggio fondamentale del suo processo speculativo è stato l’ aver posto una netta distinzione tra il corpo semplice, osservabile, riconoscibile dalle proprietà chimiche e fisiche che lo caratterizzano, e l’elemento, che è responsabile di queste proprietà, ma non ne possiede nessuna, a parte il peso atomico.

Secondo questa doppia prospettiva, l’elemento è sia un componente reale, concreto delle sostanze, la cui realtà materiale è espressa dal peso atomico, sia un ente astratto, immutabile, che si manteneva come tale nel corso delle trasformazioni chimiche (reazioni). Attraverso questo processo di astrazione, Mendeleév è stato in grado di individuare correttamente le relazioni reciproche tra i diversi elementi, sulle quali costruire un efficace schema di distribuzione, che gli ha consentito, inoltre, di prevedere le proprietà delle sostanze semplici corrispondenti a quelli ancora da scoprire.

L’elemento era perciò identificato dalla posizione occupata nello schema di distribuzione (tabella periodica), e nessun nuovo elemento poteva essere accettato se non vi avesse trovato un posto: questo spiega le difficoltà concettuali che, per anni, hanno impedito di riconoscere la scoperta dei gas nobili.

All’inizio del XX secolo, gli enormi progressi della Fisica nucleare hanno portato a scoperte fondamentali, che hanno aggiunto nuove difficoltà alla formulazione del concetto e della definizione di elemento: la scoperta degli isotopi di uno stesso elemento (con pesi atomici leggermente, ma significativamente, differenti) ha tolto al peso atomico lo status di parametro caratterizzante, mentre quella del nucleo atomico e della sua struttura, se ha demolito il principio della indivisibilità dell’atomo, ritenuta strettamente connessa al concetto di elemento, come ultimo componente della materia, nello stesso tempo ha consentito di individuare nel numero di protoni in ciascun nucleo (numero atomico) il parametro individuale caratteristico di ciascun elemento, che lo distingue dagli altri.

La differenza fondamentale tra la sostanza semplice, definita operativamente da Lavoisier, e l’entità immutabile che costituisce sia la sostanza semplice che i suoi composti, fu ribadita nel 1931, dal chimico austriaco Friedrich Paneth, che riprese la concezione duale di Mendeleév: riteneva l’elemento il termine ultimo dell’ analisi chimica, concreto, dotato di qualità (la sostanza semplice di Lavoisier), e, contemporaneamente, anche un’entità trascendentale (sostanza basica), che non manifestava nessuna qualità, ma era presente, immutabile, sia nella sostanza semplice che nei suoi composti.

Numerose altre definizioni sono state proposte, ma l’ambiguità legata alla natura duale dell’elemento permane: la definizione ufficiale della IUPAC fa riferimento, contemporaneamente, al piano microscopico (nucleo con lo stesso numero di protoni) e a quello macroscopico (sostanza semplice, i cui atomi hanno lo stesso numero di protoni), mentre le proposte più recenti continuano ad oscillare tra astrazione, l’elemento è un’entità immateriale, priva di proprietà fisiche e chimiche (Robert Luft, 1997), e materialità, l’elemento è una classe di nuclei aventi lo stesso numero atomico (William Jensen, 1998).

E’ evidente che ancora molta strada deve essere percorsa per arrivare a una definizione che sia priva di ambiguità, non dia adito ad equivoci, e tenga conto dei notevoli progressi nella conoscenza della struttura della materia, e che questo deve essere un cammino condiviso da chimici, fisici, filosofi, epistemologi, e quanti altri possano contribuire  a fare chiarezza.

In questo contesto, il volume dal titolo What is a chemical element?, edito da Eric Scerri e Elena Ghibaudi, pubblicato a inizio 2020 da Oxford University Press, si pone come un tentativo di affrontare, se non superare, questi problemi. Il libro si compone di 14 capitoli, ciascuno di un autore diverso (inclusi gli editori), nei quali la questione posta nel titolo è affrontata secondo differenti punti di vista, quello dello sviluppo storico del concetto di elemento, quello filosofico, quello epistemologico, quello didattico.

Questa impostazione è sicuramente efficace, perché consente al lettore di affrontare la questione da diverse prospettive, m presenta lo svantaggio di generare numerose ripetizioni, che, forse, avrebbero richiesto una maggiore coordinazione, per non costringere a una lettura sinottica dei diversi capitoli.

Considerati curricula e pubblicazioni precedenti dei due editori, è evidente che Scerri e Ghibaudi avrebbero potuto scrivere da soli questo libro, arricchendolo con gli approfondimenti tratti dalla letteratura, realizzando così un prodotto altrettanto ricco, ma sicuramente più omogeneo, e quindi di più agevole lettura, comprensione e assimilazione dei suoi contenuti profondi. Tuttavia, la scelta di coinvolgere nella stesura del volume differenti colleghi, lasciandoli liberi di svolgere l’ argomento secondo le proprie competenze e inclinazioni, dimostra grande onestà intellettuale da parte degli autori, e arricchisce il contenuto di sfumature, sottigliezze e particolari, che lo svolgimento unitario non avrebbe potuto garantire.

Come dichiarato da Scerri già nel primo capitolo, il libro non si pone come un punto di arrivo, né intende fornire una risposta conclusiva (che forse non esiste), anche se ne presenta parecchie, formulate dai diversi autori; piuttosto, vuole essere il punto di partenza di una discussione quanto più ampia e approfondita, alla quale fornisce i presupposti essenziali, esponendo in maniera chiara, puntuale e, per quanto possibile, esaustiva, i termini della questione.

A chi è destinato il libro? Probabilmente, non a quei chimici, che hanno scelto di impegnarsi a tempo pieno nell’attività di ricerca, e puntano ad incrementare sempre più la propria produttività industriale o accademica: essi continueranno, senza disagio, a usare il termine e il concetto di elemento, perfettamente consapevoli del suo significato, e di quali informazioni intendono trasmettere utilizzandolo, certi che gli altri chimici lo recepiranno in maniera corretta.

In fondo, come affermato dal chimico francese Georges Urbain (1925), i chimici si contentano di una definizione per uso interno: l’elemento chimico è un’ idea, una categoria astratta, costruita dai chimici per gli scopi inerenti alla loro disciplina, il cui aspetto distintivo è il numero atomico (pagina 267 del libro), e il chimico inglese Fredrick Soddy aggiunge (1918): la nozione di elemento è chimica, per cui non dobbiamo farci distogliere dal fatto che esso è associato a una miscela isotopica, che non è né semplice né elementare: quello che è importante è che l’elemento è unico nel suo carattere chimico, e che tutto questo non influenza affatto o minimizza l’importanza pratica della concezione degli elementi chimici, come concepiti prima della scoperta degli isotopi (pagina 267 del libro).

Invece, questo libro apre al chimico nuove prospettive e pone nuove problematiche, come, per esempio, quella di riconoscere lo status di elemento a quelli superpesanti, il cui tempo di vita estremamente breve e l’esiguità del numero di atomi che se ne ottengono, rende problematica, se non impossibile, la loro caratterizzazione chimica. Se si vuole inserire anche questi elementi nel sistema periodico, occorre prima considerare questi aspetti e riformulare, di conseguenza, il criterio di accettazione di nuovo prodotto come elemento.

Per tutto questo, il libro costituisce un prezioso strumento di approfondimento e di riflessione per gli storici e gli epistemologi della Chimica e della Scienza, per chi si interessa di Filosofia, per tutti coloro che ritengono ormai superato e anacronistico il tentativo di tenere separate le culture umanistica e scientifica, che, invece, devono interfacciarsi e confrontarsi continuamente, e per tutti coloro che intendono arricchire il proprio essere chimici con una riflessione profonda sui concetti fondamentali della propria disciplina, e rileggere sotto nuova luce tutte le proprie attività, passate, presenti e future.

Soprattutto, il libro è strumento fondamentale di crescita per tutti coloro che insegnano la Chimica a tutti i livelli, perché, come essi sanno, è estremamente importante fornire agli studenti concetti chiari, corretti non ambigui, che possano accompagnarli nel futuro professionale, evidenziando attraverso quali faticosi, e non sempre lineari, procedimenti si sia arrivati, o si cerchi di arrivare, alla loro formulazione. Perché, come dice Farzad Mahootian, docente di Filosofia della Scienza alla New York University, a pagina 156 del libro, di una scienza, impariamo molto di più dal processo di formazione dei suoi concetti, che non dai concetti stessi.

Nel libro, l’insegnante non troverà la formula magica che gli consenta di enunciare in maniera conclusiva il concetto di elemento, ma piuttosto tutte le informazioni, le obiezioni, gli spunti di riflessione, necessari a organizzare il proprio lavoro, e aiutare gli studenti a recepirlo in maniera corretta.

E’ ovvio che chi, come me, ha una formazione solo scolastica e basilare di Filosofia, Logica o Epistemologia, troverà qualche capitolo di non facile lettura o non pienamente comprensibile; tuttavia, la lettura dell’intero volume, gli permetterà di ritrovarsi, di ricostruire e arricchire il concetto di elemento consolidato negli anni della professione, eliminando i fraintendimenti, rendendolo consapevole di quanto ricco e profondo esso sia, qualità che spesso sfuggono a tutti coloro che continuano a ritenere separati e non conciliabili il campo delle Scienze e quello della Cultura umanistica.

*Roberto Zingales è nato a Palermo il 13.05.1951. E’ professore associato di Chimica Analitica dal 1992. Ha insegnato: Chimica Analitica Qualitativa, Chimica Analitica, Storia della Chimica, Equilibri Chimici. E’ componente del Seminario di Storia della Scienza della Facoltà di Scienze MM. FF. e NN dell’Università di Palermo, componente del Collegio di Dottorato in Storia e Didattica della Matematica e della Fisica, nonchè Responsabile scientifico del Museo e della Biblioteca storica del Dipartimento di Chimica.

Progetto eNeuron.

Luighi Campanella, già Presidente SCI

Dopo i terremoti c’è sempre qualcuno che cerca di ricostruire ed anche se in Italia i recenti casi sembrano dimostrare che i qualcuno sono pochi si può senz’altro considerare come naturale il desiderio di rinascita.
Anche guerre e disgrazie paradossalmente producono nuove economie.Il vuoto che si produce attrae energia e nuova vita.L’Europa dopo la recessione del 1929 trasse vantaggi dalla ricostruzione successiva alla Seconda Guerra Mondiale. Oggi la stessa Europa dinnanzi al covid19 ha dimostrato di percepire l’esigenza di investimenti straordinari finalizzati ad una nuova economia. Questo atteggiamento ha trovato alleanze preziose nella societá civile: dalla pubblicazione dell’enciclica “Laudato si” sono cambiati gli atteggiamenti e la pratica del capitalismo fino ad allora ritenuta inadatta a discorsi di economia civile ha cominciato a comprendere che un certo tipo di capitalismo non poteva più funzionare. Il virus é stato uno shock che rispetto a questo recupero dei valori ha fatto meglio e più rapidamente di molti anni di convegni e discussioni più o meno illuminate. L’ambiente di lavoro centrale rispetto allo sviluppo urbanistico, il rapporto famiglia lavoro, la mobilità sostenibile, i nuovi mestieri sono tutte trasformazioni in atto.
Io vorrei parlare di un’altra trasformazione in atto già prima del covid19: mi riferisco alle smart cities alle quali sono stati dedicati progetti nazionali ed europei (io stesso ho partecipato ad uno di questi dedicato alla ottimizzazione delle risorse disponibili in tema di manutenzione dei beni culturali) che hanno formulato proposte per città tecnologicamente avanzate, trasparenti, sostenibili.
Dal covid19 che ha obbligato ad isolarci all’interno delle nostre abitazioni per evitare contagi e diffusione del virus sono venuti anche su questo tema spunti innovativi. Al concetto di Servizio si è sostituito quello di Sistema. È nato cosi ad esempio nel caso del problema energetico il concetto di comunitá energetica : il progetto europeo eNeuron, 17 partner europei fra pubblico e privato, finanziato con 6 milioni di euro è nato per sviluppare strumenti innovativi per la gestione delle comunitá energetiche e per la flessibilità dei contratti di rendimento energetico dei singoli edifici. La chiave di lettura di questo programma é l’integrazione fra fonti e vettori energetici diversi, reti diverse, sistema, come dicevo prima, caratterizzato dall’integrazione di vettori multipli, termici, chimici, elettrici, meccanici tutti generati da fonti rinnovabili (solare, eolico, biomasse, i drogeno), tutti resi disponibili al singolo utente come sistema integrato.Il.sistema integrato diviene più conveniente- rispetto alla somma delle sue componenti giá disponibili- grazie alla digitalizzazione dell’energia, software ed informatizzazione che incidono sul rapporto uomo/macchina e sull’interazione non solo fra operatori,ma anche fra macchine.Così in condizione di eccesso di domanda da queste interazioni può derivare la scelta di riduzioni di richiesta e di intensità operativa della macchina. La smart city aggiunge un concetto nuovo alla sua caratterizzazione, quello di comunità energetica.

progetto e Neuron L’Italia é tra i Paesi pionieri nella digitalizzazione dell’energia che consente al distrubutore di interagire in tempo reale con l’utente finale, rendendolo in questo modo più responsabile dei propri consumi. Le tecnologie di digitalizzazione sono le prime attrici, ma un altro settore drammaticamente coinvolto e ad oggi ancora indietro è quello dell’accumulo per garantire che forme energetiche rinnovabili possano essere accumulate per essere poi gestite in un sistema integrato guidato da intelligenze artificiali ed algoritmi di ottimizzazione. Ecco perchè il progetto eNeuron nasce con un compito molto arduo: come prodotto finale proporre un’organizzazione nuova testata e validata, quasi pronta per la commercializzazione. La comunità fra soggetti in grado di scambiare forme di energia (e di conseguenza di materia) da pari a pari diviene in questa prospettiva il modello del domani all’interno del quale trova spazio anche il dibattito sul rapporto fra società e famiglia.

 

https://www.enea.it/it/Stampa/news/energia-comunita-energetiche-a-enea-il-coordinamento-del-progetto-europeo-eneuron/#nota2

 

Una nuova plastica, riciclabile più e più volte

Rinaldo Cervellati

L’inquinamento da plastica è attualmente uno dei maggiori problemi ambientali. La realizzazione di polimeri che possano essere trasformati nei loro blocchi monomeri per il riutilizzo è un obiettivo importante nella scienza dei materiali. Ma la progettazione di plastiche riciclabili chimicamente, mantenendo ripetutamente le stesse proprietà, è una vera sfida.

Nel numero del 25 agosto scorso di Chemistry World weekly, Kyra Welter ci informa che un gruppo internazionale di ricercatori sarebbe riuscito nell’impresa (Designer plastic can be recycled over and over again, by Kira Welter,  Chem World weeky, 25 August 2020).

 

Eugene Chen della Colorado State University (USA), che ha condotto lo studio insieme a Laura Falivene della King Abdullah University of Science and Technology (Arabia Saudita) e Zi-Chen Li del College of Chemistry and Molecular Engineering di Pechino (Cina), spiega che progettare plastiche riciclabili in grado di competere con i principali materiali oggi sul mercato significa affrontare tre sfide apparentemente insuperabili: “In primo luogo, i polimeri che possono essere facilmente decomposti in genere non presentano buone proprietà. In secondo luogo, i materiali altamente cristallini tendono ad essere fragili e facili alla rottura e in terzo luogo, per ottenere un’elevata cristallinità per migliorare le proprietà meccaniche, è necessario poter controllare con precisione la stereochimica della polimerizzazione”.

Eugene Chen, Laura Falivene, Zi-Chen Li

Il gruppo di ricerca ha preparato una nuova classe di politioesteri che supera queste sfide [1]. Il team ha progettato un monomero tiolattone biciclico (BTL) a ponte che viene trasformato in plastica a temperatura ambiente mediante polimerizzazione ad apertura dell’anello, PBTL (figura 1).

Figura 1. Il monomero tiolattone biciclico a ponte [221]BLT viene preparato dall’acido 3-ciclopentene carbossilico in tre fasi e viene quindi polimerizzato in politioesteri. Il riciclaggio chimico può recuperare completamente il monomero. Credit: Science Advance

Uno dei modi per depolimerizzare il materiale e recuperare il monomero procede a temperatura ambiente per 10 minuti in soluzione in presenza di un carbene N-eterociclico. La depolimerizzazione in massa richiede il riscaldamento a 100 °C per 24 ore con un catalizzatore di lantanio.

Chen osserva che il materiale potrebbe offrire un’alternativa sostenibile alla plastica tradizionale.  La modifica chimica delle plastiche esistenti non riciclabili o difficili da riciclare può prolungare la loro durata, ma le plastiche modificate avranno nuovamente il problema della riciclabilità se non c’è riciclabilità chimica che permetta di riottenere i monomeri, afferma Chen.

Haritz Sardon, un chimico dei polimeri presso l’Università dei Paesi Baschi in Spagna, sottolinea che i materiali sono semicristallini senza essere tattici[1], il che significa che non sono necessarie procedure catalitiche impegnative per controllare la stereochimica dei prodotti. Afferma Sardon: “Tali polimeri – chiamati pan-tattici,  esistono già. L’importanza di questo lavoro è che le plastiche sviluppate non sono solo pan-tattiche ma anche completamente riciclabili”.

Commenta Andrew Dove, che lavora sui biomateriali degradabili al Università di Birmingham, Regno Unito: “Gli autori hanno progettato un polimero che è più vicino all’equilibrio rispetto alla maggior parte dei materiali che utilizziamo oggi, ma che mostra alcune proprietà meccaniche piuttosto buone, il che è insolito per i materiali realizzati in questo modo. La plastica può essere depolimerizzata per ripristinare il monomero di partenza  che può quindi essere riutilizzato.”

Charles Romain, ricercatore sui polimeri sostenibili dell’Imperial College di Londra, afferma: “Contrariamente al riciclaggio meccanico, che altera le proprietà del materiale dopo pochi cicli, la monomerizzazione può potenzialmente portare a materiali riciclabili indefinitamente senza perdita di proprietà“, Ma osserva che mentre la sintesi del monomero in laboratorio è promettente – producendo fino a 50 g alla volta – su scala commerciale potrebbe essere necessario sostituire alcune sostanze di partenza, ad esempio per ridurre i costi o migliorare la sostenibilità.

Chen ammette che l’integrazione di questi polimeri negli attuali sistemi di riciclaggio potrebbe essere difficile. Ma se si effettuasse un’effettiva raccolta differenziata, la nuova plastica potrebbe essere smantellata in modo selettivo e ricondotta ai suoi elementi costitutivi. Andrew Dove aggiunge che se i sistemi di raccolta si evolvessero in linea con lo sviluppo dei materiali, il recupero chimico potrebbe diventare una parte integrante della catena di riciclaggio.

Bibliografia

[1] C. Shi et al., High-performance pan-tactic polythioesterswith intrinsic crystallinity and chemical recyclability., Science. Advance., 2020, DOI: 10.1126/sciadv.abc0495

[1] Per tatticità di un polimero si intende l’ordine della successione delle unità ripetitive configurazionali nella catena principale di una macromolecola regolare, un oligomero regolare, un blocco molecolare regolare o qualsivoglia catena regolare. (A. D. Jenkins et al., Pure Appl. Chem. 1996, 68, 2287). Un polimero è isotattico – quando tutti gli atomi di carbonio hanno la stessa configurazione relativa, sindiotattico – quando gli atomi di carbonio adiacenti hanno configurazioni opposte alternate, atattico – quando le configurazioni degli atomi di carbonio sono distribuite casualmente lungo la catena, senza regolarità. È doveroso ricordare che la scoperta di catalizzatori capaci di orientare la sintesi del polipropilene verso la configurazione isotattica o sindiotattica valse a Giulio Natta e Karl Ziegler, il premio Nobel per la chimica nel 1963.

 

si veda anche: https://advances.sciencemag.org/content/6/34/eabc0495

Vita su Venere?

Claudio Della Volpe

Oggi parleremo di fosfina a causa della scoperta, divulgata nei giorni scorsi dalla Royal Astronomical Society, della sua presenza nell’atmosfera di Venere.

https://www.youtube.com/watch?reload=9&v=5IIj3e5BFp0

Questa scoperta potrebbe essere la più grande di tutti i tempi in quanto una delle sue interpretazioni è che indichi l’esistenza della vita nelle nubi di Venere.

La fosfina è una molecola apparentemente simile all’ammoniaca ma basata sul fosforo; non ha le stesse proprietà dell’ammoniaca, è molto meno basica, il suo doppietto di non legame è essenzialmente del fosforo ed i suoi orbitali sono poco ibridizzati; in conclusione la somiglianza è più apparente che reale.

Questa molecola, molto meno nucleofila dell’ammoniaca, è comunque una molecola tossica, presente nella biosfera terrestre in piccole quantità fortemente variabili nella giornata; in media siamo intorno a valori dell’ordine di 1 nanogrammo per metro cubo, ossia a circa un millesimo di ppb (una parte su 1012).

Si sa che è di origine biologica o di origine industriale; biologicamente è prodotta solo in ambienti anaerobi ed acidi anche se le sue vie metaboliche non sono chiare (Science of the Total Environment 658 (2019) 521–536).

E’ l’unica forma gassosa che può assumere il fosforo nel suo ciclo biogeochimico, anche se la sua importanza quantitativa non è ancora chiara. In ambito industriale si produce dalla degradazione dell’acido fosforico o con la reazione di idrossido di potassio e fosforo. Si usa in agricoltura come agente fumigante al posto del bromuro di metile (eliminato per motivi legati agli effetti sull’ozono) e nell’industria elettronica come agente dopante del silicio.

Dicono gli autori del lavoro di cui parliamo oggi, (basandosi in realtà su una idea di James Lovelock vecchia almeno di 60 anni, quella di cercare la vita attraverso la presenza in atmosfere planetarie non all’equilibrio termodinamico di sostanze altrimenti non ottenibili)

Una sostanza ideale per dimostrare l’esistenza della vita dovrebbe essere inequivocabile. Gli organismi viventi dovrebbero essere la sua unica fonte e dovrebbe avere transizioni spettrali intrinsecamente forti, caratterizzate con precisione, non miscelate con linee contaminanti, criteri che di solito non sono tutti realizzabili. È stato recentemente proposto che qualsiasi fosfina (PH3) rilevata nell’atmosfera di un pianeta roccioso sia un promettente segno di vita. La traccia PH3 nell’atmosfera terrestre (parti per trilione di abbondanza a livello globale) è associata in modo univoco all’attività antropica o alla presenza microbica: la vita produce questo gas altamente riducente anche in un ambiente ossidante generale. PH3 si trova altrove nel Sistema Solare solo nelle atmosfere riducenti di pianeti giganti, dove viene prodotto in strati atmosferici profondi ad alte temperature e pressioni, e dragato verso l’alto per convezione.

Le superfici solide dei pianeti rocciosi rappresentano una barriera al loro interno e PH3 verrebbe rapidamente distrutto nelle loro croste e atmosfere altamente ossidate. Pertanto, PH3 soddisfa la maggior parte dei criteri per una ricerca di gas di firma biologica, ma è impegnativo poiché molte delle sue caratteristiche spettrali sono fortemente assorbite dall’atmosfera terrestre.

A capo del gruppo di ricerca, con molte astronome, è Jane Greaves, prof di astronomia a Cardiff che ha ipotizzato la presenza e il significato della fosfina fin dal 2017,quando effettuò le prime misure a riguardo.

Non è nuova a scoperte straordinarie: ha diretto il Gruppo che ha scoperto un protopianeta nel disco protoplanetario di accrescimento di HL Tauri.

Il lavoro pubblicato su Nature Astronomy contiene varie parti interessanti; la prima è il racconto di come siano stati raccolti  dati spettroscopici, con due diverse apparecchiature: il James Clerk Maxwell Telescope che è un disco di 15m a Mauna Kea, Hawaii, (lo stesso sito dove si analizza l’atmosfera terrestre dal 1956); il telescopio cominciò a lavorare  nel 1987  ed è costituito da un’antenna parabolica del diametro di 15 m, costituita da 276 pannelli individuali rivestiti di una sottile pellicola di alluminio. Lavora essenzialmente nel lontano IR e nelle onde submillimetriche.

Un secondo set di osservazioni per risolvere i problemi e le incongruenze del primo set è stato poi fatto con ALMA, ossia The Atacama Large Millimetre/submillimetre Array  che è collocato sulle Ande cilene 44 antenne da 12 metri  che lavorano insieme.

Il problema spettroscopico infatti era di confermare la presenza di questo picco di assorbimento nello spettro di emissione, picco che si può giustificare ragionevolmente solo con la fosfina. Come si vede il segnale è stato individuato soprattutto alle medie latitudini, il che fa pensare che ci sia una striscia di atmosfera che si immagina basata attorno ai 50 km di quota (con una temperatura ed una pressione non lontane dalle nostre ma con una composizione atmosferica del tutto diversa) da cui il segnale ha origine.

Il segnale di assorbimento è presente a 1.123mm  e corrisponde ad una transizione rotazionale della fosfina; per confermare la sua presenza usando il metodo di misura ed analisi si è anche rianalizzato e confermato tutto lo spettro di emissione dell’atmosfera di Venere e le sue abbondanze. La misura è resa complicata dal fatto di realizzarla su un mezzo gassoso in veloce e complesso movimento.

La concentrazione di fosfina stimata è circa 20.000 volte superiore a quella che è presente nella nostra atmosfera, ma è anche migliaia di volte inferiore a quella presente nelle atmosfere di Giove e Saturno; ma lì ci sono atmosfere riducenti e la fosfina origina da processi termodinamici ben compresi e ad alta temperatura.

Nel caso di Venere invece l’applicazione dell’analisi termodinamica esclude di poter giustificare non tanto la presenza, ma soprattutto l’abbondanza della fosfina usando le reazioni chimiche che conosciamo presenti nell’atmosfera di Venere, basate sulla sua composizione.

Ci sono allora solo due spiegazioni: o ci sono reazioni sconosciute al momento oppure c’è una sorgente biologica. Saranno necessarie molte altre esplorazioni probabilmente anche in situ per scoprirlo. A quell’altezza un pallone meteorologico attrezzato con adatte apparecchiature di analisi e fatto di materiali capaci di resistere alla estrema acidità dell’atmosfera di Venere potrebbe dare una risposta.

Abbondanza della fosfina in alcune atmosfere planetarie:

Venere  20 ppb                J.S. Greaves et al.  Nature Astronomy 2020

Terra      0.001 ppb     Naturwissenschaften83, 129-131 – (1996) Atmospheric Environment 37 (2003) 2429–2433

Giove   1900 ppb     Icarus 202 (2009) 543–564

Saturno 6400 ppb    Icarus 202 (2009) 543–564

Non dimentichiamo che esistono anche sulla Terra organismi cosiddetti estremofili del regno Archea capaci di vivere nell’acido solforico; la procariota Caldariella acidophila (purtroppo ribattezzata in Sulfolobus solfataricus per uniformare la nomenclatura) fu scoperta negli anni ’70 da Agata Gambacorta, studentessa del professor Mario De Rosa, che andava a fare prelievi in mezzo alle fumarole della solfatara Pisciatella, a Pozzuoli. (Napoli c’entra sempre!!! E’ estrema, mica si poteva scoprire un estremofilo a Voghera.)

(da Wikipedia) Le sonde atterrate sul pianeta hanno identificato la presenza di tre distinti strati di nubi: uno strato superiore, composto da piccole goccioline circolari di acido solforico, ad una quota di 60–70 km; uno strato intermedio, costituito da gocce più grandi e meno numerose, collocato a 52–59 km di altitudine; e infine uno strato inferiore più denso e costituito dalle particelle più grandi, che scende fino a 48 km di quota. Al di sotto di tale livello la temperatura è talmente elevata da vaporizzare le gocce, generando una foschia che si estende fino a 31 km. La parte più bassa dell’atmosfera è infine relativamente limpida.

In un articolo pubblicato ad agosto, la dottoressa Greaves e i suoi colleghi hanno suggerito che i microbi trasportati in aria da correnti d’aria chiamate onde di gravità potrebbero vivere, metabolizzare e riprodursi all’interno di goccioline di acido solforico e acqua. E data la quantità di gas prodotta, la popolazione di questi microbi sarebbe ampia.Per quanto riguarda il modo in cui questi microbi sono arrivati ​​lì, la migliore ipotesi è che abbiano avuto origine sulla superficie quando Venere aveva gli oceani, cioè fino a 700 milioni di anni fa, ma furono costretti a volare nei cieli quando il pianeta si prosciugò. E nessuno sa se i microbi, se reali, sono basati sul DNA come noi, o su qualcosa di completamente diverso.

Jane Greaves vincerà uno dei prossimi premi Nobel per la fisica (o la chimica)?

Sinceramente lo spero; vorrebbe dire che è stata scoperta per la prima volta la vita (in senso lato, non sappiamo se basata sul dna) fuori del pianeta Terra.

https://www.nytimes.com/2020/09/14/science/venus-life-clouds.html

https://www.nationalgeographic.com/science/2020/09/possible-sign-of-life-found-on-venus-phosphine-gas/

https://www.nature.com/articles/s41550-020-1174-4

https://static-content.springer.com/esm/art%3A10.1038%2Fs41550-020-1174-4/MediaObjects/41550_2020_1174_MOESM1_ESM.pdf

https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/30579209/

https://www.liebertpub.com/doi/pdf/10.1089/ast.2020.2244

Science of the Total Environment 658 (2019) 521–536

Crisi climatica, capitalismo, chimica.

Luigi Campanella, già Presidente SCI

Si può affermare che nel tempo clima e ricchezza hanno seguito strade parallele, purtroppo in negativo: le differenze, anche estreme, sono aumentate. L’accentramento delle ricchezze ha fatto fare a Klaus Schwab, fondatore e direttore del World Economic Forum, un accurato appello affinché inizi l’era del “capitalismo responsabile”, motivandola con il fatto che oggi il mito della globalizzazione positiva non regge più perché grazie al web c’è una nuova consapevolezza per cui l’accesso a salute, scuole e condizioni di vita decenti per tutti è divenuto fondamentale; nessuno può essere lasciato indietro e chi ci resta ha la capacità di mobilitarsi, come dimostrano le rivolte civili dei nostri tempi, a partire dai gilet gialli francesi o dai moti di Hong Kong.
A questi squilibri se ne è aggiunto un altro, dettato dall’accelerazione della crisi climatica: il capitalismo “verde” sembrava la soluzione virtuosa per ritrovare gli equilibri persi, benvoluto giustamente da associazioni ambientaliste e perfetto bagno di coscienza di molti fondi di investimento considerati legati ad uno sviluppo industriale disattento ai valori ambientali.
Una recente ricerca prodotta dal World Economic Forum mette in evidenza che il capitalismo verde non basta in quanto se i valori ambientali non vengono equiparati a quelli economici  modificando il sistema economico, anche in presenza di un capitalismo verde il PIL globale sconvolto dai cambiamenti climatici subirà un taglio diretto intorno al 15% ed indotto intorno al 35%.
Si collega a tale ricerca un recente rapporto della BRI (Banca dei Regolamenti Internazionali) secondo il quale la prossima devastante crisi finanziaria potrà essere provocata da un evento catastrofico legato ai cambiamenti climatici in grado di innescare effetti drammatici sul sistema finanziario e civile assolutamente impreparato.
Da ricercatore mi chiedo se forse non siano scienza e tecnologia che possono aiutare a farsi trovare più preparati: anche la chimica si è impossessata dell’aggettivo verde con scoperte ed innovazioni preziose, forse con più etica del suddetto capitalismo.

Reazioni oscillanti controllate da suoni a bassa frequenza

Rinaldo Cervellati

Come descritto in un post del 2015, in chimica l’esempio tipico di fenomeno complesso sono le reazioni oscillanti. Una delle principali caratteristiche di queste reazioni è la variazione periodica delle concentrazioni degli intermedi o dei catalizzatori nel tempo. Tuttavia in certe condizioni le reazioni, o meglio i sistemi chimici oscillanti, manifestano una serie di comportamenti che vanno dalle oscillazioni aperiodiche, alla multistabilità, fino all’andamento “caotico”. Ciò dipende dal fatto che la cinetica dei sistemi chimici oscillanti è governata da dinamiche non lineari [1].

Al contrario dei sistemi fisici complessi, come quelli atmosferici, poco prevedibili e tantomeno riproducibili, in una reazione chimica la perturbazione che provoca i fenomeni, come ad esempio le concentrazioni, si può replicare con sufficiente precisione, perlomeno quando la reazione è fatta avvenire in un recipiente come un becher.

Il discorso cambia se la reazione è condotta in strato sottile. Supponiamo, come descritto in precedenza [2], di porre una miscela fuori equilibrio di Belousov-Zhabotinskii, catalizzata da ferroina nello stato rosso, in una capsula Petri, in modo da ricoprirne il fondo per circa 1 mm di spessore. Se si tocca leggermente un punto della superficie con un capillare Pasteur o altra punta acuminata questa perturbazione innescherà in varie zone della superficie liquida le oscillazioni che si allargheranno formando “onde” di colore azzurro che incontrandosi daranno luogo a una varietà di bellissime immagini, che evolvono nel tempo (spatiotemporal patterns) come mostrato in figura 1.

Figura 1. Esempio di “onde stimolate” che danno origine a figure spaziali in uno strato sottile di una miscela BZ [2].

In questo caso la perturbazione è praticamente impossibile da riprodurre perché si dovrebbe ritrovare il punto esatto in cui lo strato è stato toccato dal capillare. Anche un impercettibile spostamento dal quel punto provocherà un risultato imprevedibile con immagini diverse, anche se altrettanto belle.

In un recente numero di Chemistry World newsletter, Andy Extance ha riportato la notizia che un gruppo di ricercatori sud coreani dell’Institute for Basic Science (IBS) di Pohang (Repubblica di Corea) è riuscito a controllare figure spaziotemporali in reazioni che coinvolgono catalizzatori redox utilizzando onde sonore a bassa frequenza (A. Extance, It’s all about that bass when controlling chaotic reactions with sound., Chemistry World news, 18 August 2020).

Il gruppo di ricerca, coordinato dai prof. Ilha Hwang e Kimoon Kim[1], partendo dalla considerazione che il suono gioca un ruolo chiave nella regolazione di vari processi biologici così come nelle onde nelle superfici liquide generate dalle vibrazioni (le instabilità di Faraday note da quasi 200 anni), hanno deciso di studiare gli effetti del suono su sistemi chimici fuori equilibrio che mostrano andamenti caotici [3].

Figura 2. Ilha Hwang e Kimoon Kim

I ricercatori hanno rivolto la loro attenzione a sistemi chimici fuori equilibrio sensibili a variazioni redox o del pH come scelta ideale per il loro studio. Ad esempio, la formazione del radicale catione metilviologeno (MV•+) per aggiunta di ditionito di sodio (SDT, Na2S2O4) come agente riducente del dicatione metilviologeno (MV2+)[2],  dà luogo a un drammatico cambiamento di colore (da incolore a blu intenso). Il sistema è reversibile e ritorna allo stato dicationico incolore in presenza di ossigeno, O2. La reazione è ragionevolmente veloce, la trasformazione chimica oscilla fra i due stati diversamente colorati facendo fluire continuamente riducente e ossigeno.

Effettuando esperimenti su strati sottili in capsula Petri, si osservano figure spaziotemporali casuali e imprevedibili in successivi esperimenti nelle stesse condizioni. Ponendo la capsula Petri sopra una sorgente sonora di opportuna frequenza, Hwang, Kim e collaboratori hanno notato che la soluzione blu si riorganizzava gradualmente in un modello coerente di anelli blu e bianchi concentrici allineati verticalmente (figura 3).

Figura 3.  Rappresentazione schematica della configurazione sperimentale utilizzata per lo studio di patterns spaziotemporali controllati dal suono: (a) generazione di pattern; (b)  le corrispondenti trasformazioni chimiche reversibili in un tipico ciclo fuori equilibrio di una coppia redox MV2+/MV•+ sensibile a O2. Credit: Nature Chemistry

Esplorando un’ampia gamma di frequenze possibili, i ricercatori hanno scoperto che solo una gamma ristretta di suoni bassi da 25 a 90 Hz forma schemi coerenti privi  di casualità.

Oltre all’intervallo sonoro cui si verifica il fenomeno, i ricercatori hanno rilevato l’intensità acustica del suono stabilendola a una soglia di 0,06 W m–2 e una pressione fra 5,0-6,3 Pa, mantenuta uniforme  sul generatore di frequenza. Anche l’ampiezza delle onde sonore è stata studiata risultando efficace nell’intervallo 0,25−0,31. Altri metodi di dissoluzione del gas, ad esempio l’agitazione, non riescono a generare alcun prevedibile pattern spaziotemporale di lunga durata.

Per dimostrare la generalità di questi risultati è stata successivamente studiata la dissoluzione e diffusione di diossido di carbonio (anidride carbonica, CO2) in una soluzione acquosa di blu di bromotimolo (BTB). Il BTB ha colore giallo in condizioni acide (pH <6), blu verdastro (ceruleo) a pH neutro e blu intenso in condizioni alcaline (pH> 7,6). A partire dal colore blu (soluzione alcalina a pH 10), si è ottenuto un pattern a due vortici con domini che variano di colore in base al pH (blu, ceruleo e giallo) quando la dissoluzione della CO2 fa aumentare l’acidità della soluzione (figura 4).

Figura 4. Rappresentazione schematica dell’apparato sperimentale per la generazione di pattern spaziotemporali controllati dal suono sotto atmosfera di CO2 e le corrispondenti trasformazioni chimiche reversibili in un tipico ciclo di protonazione-deprotonazione nel blu di bromotimolo (BTB). Credit: Nature Chemistry

In caso di esposizione prolungata alla CO2 la soluzione diviene di colore giallo. Esponendo la capsula con la miscela a condizioni atmosferiche ambientali, si osserva la ricomparsa della figura. In assenza di onde sonore si osservano patterns casuali.

In seguito l’articolo discute un modello di applicazione di questa tecnica “suono-controllata” all’organizzazione di aggregati supramolecolari in pattern spaziotemporali.

Maïwenn Kersaudy-Kerhoas, una ricercatrice in microfluidica dell’Università di Edimburgo, commenta che la vibrazione delle particelle nei liquidi indotta dal suono è ben nota, ma non aveva sentito di alcun tentativo di applicarla a sistemi chimici. L’approccio potrebbe essere anche un utile strumento educativo, aggiunge, in quanto: “I modelli generati dal suono nei liquidi sono relativamente facili da riprodurre a casa o in classe”.

Bibliografia

[1] https://ilblogdellasci.wordpress.com/2015/04/03/le-reazioni-chimiche-oscillanti-1-parte/

[2] https://ilblogdellasci.wordpress.com/2015/04/06/le-reazioni-chimiche-oscillanti-2-parte/

[3] I. Hwang et al., Audible sound-controlled spatiotemporal patterns in out-of-equilibrium systems., Nature Chemistry, 2020, DOI: 10.1038/s41557-020-0516-2

[1] Ilha Hwang lavora al Center for Self-assembly and Complexity dell’IBS. Kimoon Kim è professore nel Department of Chemistry, Pohang University of Science and Technology; è stato nominato dall’agenzia Thomson Reuters come uno fra i più influenti scienziati del 2015.

[2] I viologeni sono composti organici bipiridilici con formula grezza (C5H4NR)2n+. Quando R = CH3 si ha il metilviologeno. N,N’-dimetil-4,4′-bipiridinio dicloruro, nome commerciale paraquat, oltre a essere un indicatore redox è usato come erbicida. Vista la dimostrata pericolosità, l’Unione Europea ne ha vietati la commercializzazione e l’utilizzo sul territorio comunitario.

La chimica della locusta

Claudio Della Volpe

Nei mesi in cui il coronavirus è partito in Europa e nel nostro paese nel vicino continente africano si è scatenata una seconda minaccia che ha l’apparenza un po’ deprimente della locusta (Locusta Migratoria).

La situazione, partita con la prospettiva di un veloce ed inarrestabile sviluppo, che poteva minacciare l’alimentazione di una vasta zona del continente, si è poi arrestata e confinata ad alcune zone solamente, anche per la pronta azione di risposta delle varie organizzazioni internazionali e degli stati coinvolti; l’autorevole sito della FAO che dedica una pagina alla situazione aggiornata con regolarità dà la situazione come stazionaria, ma con potenzialità di sviluppo negative; per i meccanismi coinvolti che sono basati sull’evoluzione delle condizioni climatiche dell’Oceano Indiano, potete leggere l’articolo opera di una collega CTF.

Qua ci limiteremo ad un recente articolo su Nature (di Guo et al., giugno 2020) che svela i retroscena mediante i quali Locusta migratoria, un insetto normalmente solitario e poco presente, può dare origine ad enormi sciami con miliardi di individui che in epoca storica hanno costituito una minaccia costante per le coltivazioni umane ed hanno più di una volta invaso i confini del cosiddetto “mondo civilizzato occidentale” dove per un motivo od un altro non sono poi riuscite a fare breccia (sono arrivate fino a Londra ed hanno attraversato l’Oceano Atlantico); ma non si sa mai, occorre capire questi meccanismi naturali e provare a conviverci.

E in questi complessi meccanismi gioca un ruolo fondamentale una piccola molecola, il 4-vinil-anisolo, che gioca il ruolo di feromone di aggregazione per questa particolare specie

4 vinil-anisolo (4VA)

Gli autori hanno analizzato altre 4 molecole sospettate di svolgere il ruolo chiave, ma i test chimici e biologici hanno confermato il ruolo di questa sola molecola.

Scrivono gli autori:

I nostri risultati attuali suggeriscono che 4VA agisca come un feromone di aggregazione per la locusta migratrice, sebbene L. migratoria e desertica le locuste (Schistocerca gregaria) condividono una composizione di odori simile e caratteristiche morfologiche e molecolari dei circuiti olfattivi. Le due specie di locuste appartengono a diverse sottofamiglie (Oedipodinae e Cyrtacanthacridinae) e hanno diversi comportamenti e si pensa che il polifenismo di fase in queste due specie si sia evoluto indipendentemente, il che può spiegare l’adozione specifica di 4VA da parte di L. migratoria.

(polifenismo è la variabilità del fenotipo).

Quindi la molecola individuata è fortemente specifica; le tecniche di individuazione hanno permesso di comprendere che sebbene le locuste siano attratte in ogni condizione da questo feromone, tendono a produrlo in maggiori quantità quando sono già in un gruppetto di 4-5. I ricercatori hanno individuato anche lo specifico recettore denominato OR35 (le locuste hanno oltre cento recettori diversi).

Su questa base hanno potuto anche selezionare delle locuste prive di tale recettore.

Gli autori concludono:

I nostri risultati attuali, in particolare la soglia di emissione di 4VA, l’identificazione del recettore olfattivo per 4VA e l’intrappolamento di campo effettuato con successo, forniscono indizi per lo sviluppo di nuovi approcci per la previsione e il controllo dei focolai di locuste. In primo luogo, il 4VA sintetico o i suoi analoghi potrebbero essere utilizzati per attirare le locuste nelle cinture di cattura, dove potrebbero essere uccise usando un agente patogeno fungino e pesticidi, evitando così un ampio utilizzo di insetticidi chimici. La spruzzatura di un antagonista del 4VA potrebbe impedire l’aggregazione e la migrazione delle locuste. Inoltre, 4VA potrebbe essere utilizzato per monitorare le dinamiche demografiche delle locuste sul campo per mettere in guardia contro i focolai di locuste. Infine, locuste mutanti OR35 potrebbero essere generate utilizzando CRISPR-Cas9 e rilasciate sul campo per stabilire popolazioni di locuste non gregarie per la gestione della popolazione a lungo termine, soggette a valutazione della biosicurezza.

L’anisolo ed i suoi derivati, fra cui il 4-vinil-anisolo (o 4-metossi-stirene) sono spesso associati alle attività dell’industria chimica fine, per la produzione di profumi, ma non si conoscevano finora azioni così biologicamente importanti della molecola.

Riferimenti.

https://www.africa-express.info/2020/06/05/covid-aumenta-e-cavallette-continuano-a-divorare-il-corno-a-rischio-anche-africa-occidentale/

https://it.public-welfare.com/4254121-locust-migratory-description-of-the-species-habitat-photo-locust-invasion-and-insect-control     (è una traduzione non ottimale in italiano)

https://www.nature.com/articles/d41586-020-02453-8?WT.ec_id=NATURE-20200827&utm_source=nature_etoc&utm_medium=email&utm_campaign=20200827&sap-outbound-id=F8295EC13B08E8E961CAC6EFEA049117612F5379

In quanti modi non si deve fare una cosa.

Luigi Campanella, già Presidente SCI

Quando si parla di rischio si tende da parte di molti ad individuare nel rischio il rischio chimico, dimenticando che il concetto di rischio è assai più generale e che nella nostra vita siamo continuamente esposti a rischi meccanici, termici, elettrici e di molti altri tipi.
La gestione del rischio (si badi -ripeto-in termini  generali, non soltanto chimico, il più discusso) si basa su una cultura che è alla base del comportamento delle persone in situazione di rischio, ma è anche vero il contrario e cioè che il comportamento contribuisce con l’esempio alla formazione e questa proprio alla cultura del rischio, necessaria per una gestione responsabile di un’azienda.
Il rischio è “l’incertezza che conta” perché  preoccupa rispetto agli obbiettivi prefissati ed al loro raggiungimento. Nella gestione del rischio entra in gioco un valore oggi molto discusso, la complessità. Questa è la caratteristica dei sistemi con elevato numero di parti tra loro relazionate in base alla quale il sistema si comporta in modo diverso da quello prevedibile sulla base della sommatoria delle singole parti. La trasformazione digitale con la sua capacità di multi-parametrazione genera impatti pesanti proprio per il contributo di complessità che rende difficile le correlazioni fra causa ed effetto, producendo il rischio digitale.
Nel tentativo di classificazioni per gruppi si possono classificare due categorie di rischi, naturali ed antropici. I primi limitano l’impiego delle risorse ambientali e minacciano la nostra esistenza, i secondi sottopongono l’uomo a minacce di inquinamento ed a problemi generali di vita e sopravvivenza. La valutazione del rischio riguarda ovviamente entrambi i tipi, in quanto entrambi situazioni di fragilità con conseguente esigenza di misure di previsione, prevenzione, rettifica da parte degli organismi preposti alla sicurezza dei cittadini. Esempi di fattori di rischio sono la vicinanza degli impianti a recettori ambientali sensibili, il livello di complessitá dell’installazione e le sue dimensioni?
La presenza di pericoli naturali (terremoti,emissioni vulcaniche, inondazioni). Storicamente la gestione del rischio con figure ad hoc è stata propria delle grandi e medie imprese, quelle cioè con un’organizzazione strutturata e più risorse da dedicare. Le realtà più piccole pagano per una minore cultura derivante dal contesto e per una minore disponibilità di mezzi.

Chiudo queste note ricordando una frase di Edison  che si può applicare anche alla ricerca applicata al rischio e con il risultato di una ricerca dedicata ad individuare i rischi più importanti del nostro tempo riferiti all’anno in corso.
Edison ha detto: io non ho fallito duemila volte nel fare una lampadina, ma ho trovato 1999 modi in cui non deve essere fatta.
Circa i rischi piu importanti per il 2020 uno studio ad hoc, condotto da quasi 3000 esperti provenienti da oltre 100 paesi e oltre 20 filiere industriali, ha individuato i seguenti incidenti cibernetici, catastrofi naturali, volatilità del mercato, cambi di norme e leggi, variazioni climatiche. Proprio questo elenco ci fa capire come ridurre il rischio a rischio chimico sia non solo non obbiettivo, ma anche profondamente errato.

Elementi della tavola periodica. Indio, In.

Rinaldo Cervellati

L’indio (simbolo In) è l’elemento numero 49 della Tavola Periodica, appartiene al 13° gruppo, 5° periodo, sotto a gallio, alluminio e boro e sopra al tallio, alla sua sinistra si trova il cadmio e alla destra lo stagno. L’indio è il metallo più morbido dopo i metalli alcalini. È bianco argenteo di aspetto simile allo stagno. È un metallo di post-transizione e la sua abbondanza nella crosta terrestre è valutata fra 0,16 e 0,25 ppm. Non si trova praticamente libero in natura ma come componente minore dei minerali solfidrici dello zinco, principalmente la sfalerite (ZnS).

L’elemento fu identificato con la spettroscopia di emissione di fiamma. Nel 1863, i chimici tedeschi Ferdinand Reich (1799-1882) e Hieronymous Theodor Richter (1824-1898) stavano testando i minerali delle miniere intorno a Freiberg, in Sassonia. Essi sciolsero pirite (FeS), arsenopirite (FeAsS), galena (PbS) e sfalerite (ZnS) in acido cloridrico e distillarono il cloruro di zinco grezzo. Reich, che era daltonico, impiegò Richter come assistente per osservare i colori delle linee spettrali. Sapendo che i minerali di quella regione a volte contengono tallio, cercarono la linea dello spettro di emissione del tallio, trovarono invece una riga di un blu brillante. Poiché quella riga non corrispondeva a nessun elemento noto, ipotizzarono che fosse presente un nuovo elemento in quei minerali, e lo chiamarono indio, dal colore indaco osservato nel suo spettro.

Richter continuò a lavorare sul nuovo elemento, riuscendo a isolare il metallo nel 1864. Un lingotto di 0,5 kg fu presentato alla Fiera mondiale del 1867.

Figura 1. Hieronymous Theodor Richter

Reich e Richter in seguito litigarono quando quest’ultimo dichiarò di essere l’unico scopritore.

L’indio era già noto a Mendeleev, che lo inserì (invero con un punto interrogativo davanti al simbolo) nella sua prima versione del sistema periodico nel 1869.

Proprietà fisiche

L’indio è un metallo bianco argenteo con una lucentezza brillante, altamente duttile (figura 2).

Figura 2. Lingotti di indio (sopra); cavetto di indio (sotto)

È così tenero (durezza Mohs 1,2) che, come il sodio, può essere tagliato con un coltello. Le sue proprietà sono per lo più intermedie tra i suoi vicini verticali gallio e tallio. Quando un cavetto di indio viene piegato emette un suono acuto analogamente  allo stagno, in quanto i due metalli hanno la stessa struttura  cristallina (figura 3).

Figura 3. Struttura cristallina dell’indio

L’indio ha un basso punto di fusione, 156,60 °C, superiore al suo omologo più leggero, il gallio, ma inferiore a quello più pesante, il tallio. Il punto di ebollizione è 2072 °C, superiore a quello del tallio, ma inferiore a quello gallio, al contrario della tendenza generale dei punti di fusione, ma analogamente a quella verso il basso degli altri gruppi metallici di post-transizione. Ciò è dovuto alla debolezza del legame metallico con pochi elettroni delocalizzati.

La densità dell’indio, 7,31 g/cm3, è pure maggiore di quella del gallio ma inferiore al tallio. Al di sotto della temperatura critica, 3,41 K, diventa un superconduttore. L’indio cristallizza nel sistema di cristalli tetragonali a corpo centrato, una struttura cubica leggermente centrata e distorta, dove ogni atomo di indio ha quattro vicini a 324 pm di distanza e otto vicini leggermente più avanti (336 pm), (figura 4).

Figura 4. Disposizione degli atomi nella struttura cristallina di indio e stagno

L’indio ha una maggiore solubilità nel mercurio liquido rispetto a qualsiasi altro metallo (oltre il 50% in massa di indio a 0 °C). Mostra una risposta viscoelastica[1] duttile, che è indipendente dalle dimensioni in termini di tensione e compressione.

Proprietà chimiche

L’indio ha due stati di ossidazione, +3 (III) e +1 (I), essendo il secondo meno comune. Il metallo non reagisce con l’acqua, ma viene ossidato da agenti ossidanti forti come gli alogeni per dare composti di indio (III). Non forma boruro, silicuro o carburo e l’idruro (InH3) esiste solo come specie transiente in soluzioni eteree a basse temperature, essendo abbastanza instabile da polimerizzare spontaneamente. L’indio mostra solo lievi caratteristiche anfotere e, a differenza dei suoi omologhi più leggeri alluminio e gallio, è insolubile in soluzioni acquose alcaline.

I due più importanti isotopi dell’indio sono 113In (4,28%), stabile, e 115In (95,72%). 115In, emettitore β, ha comunque un’emivita lunghissima, 4,41 × 1014 anni, quattro ordini di grandezza più dell’età stimata dell’universo, quindi può considerarsi stabile.

L’isotopo artificiale più stabile è 111In, con un’emivita di circa 2,8 giorni. Tutti gli altri isotopi artificiali hanno emivite inferiori a 5 ore.

Principali composti

Il composto più comune di In (III) è il cloruro, InCl3, incolore, la cui struttura cristallina è mostrata in figura 5.

Figura 5. Struttura cristallina del cloruro di indio, InCl3.

L’ossido di indio (III), In2O3, si forma quando l’indio metallico di indio viene bruciato nell’aria o quando viene riscaldato l’idrossido o il nitrato. In2O3 ha struttura simile a quella dell’allumina (Al2O3) ed è anfotera, in grado di reagire con acidi e basi. L’indio reagisce con l’acqua per produrre idrossido di indio (III) solubile, anch’esso anfotero; con alcali per produrre indati (III); e con acidi per produrre sali di indio (III):

In(OH)3 + 3HCl → InCl3 + 3H2O

Sono anche noti analoghi sesquicalcogeni con zolfo, selenio e tellurio. Oltre al cloruro sono ben noti gli altri trialogenuri, InBr3 e InI3 di color giallo. Questi composti sono acidi di Lewis, abbastanza simili ai più noti trialogenuri di alluminio. Sempre analogamente al corrispondente composto di alluminio, il fluoruro, InF3, è polimerico.

Il nitruro di indio, InN, composto semimetallico, è un semiconduttore di colore grigio che richiede un attento stoccaggio per prevenire il contatto con l’atmosfera, inoltre viene prontamente attaccato da acidi e alcali.

I composti di indio (I) non sono comuni. Il cloruro, il bromuro e lo ioduro sono intensamente colorati, a differenza dei trialogenuri genitori da cui vengono preparati. Il fluoruro è noto solo come composto gassoso instabile. La polvere nera di ossido di indio (I) viene prodotta quando l’ossido di indio (III) si decompone per riscaldamento a 700 °C.

Meno frequentemente l’indio forma composti nello stato di ossidazione +2 e persino in stati di ossidazione misti. Solitamente tali materiali presentano il legame In-In, in particolare negli alogenuri In2X4 e [In2X6]2-, e in vari intermetallici, come In4Se3.  Diversi altri composti sono noti in combinazioni indio (I)−indio (III), come In(I)6(In(III)Cl6)Cl3, In(I)5(In(III)Br4)2 e altre.

Composti organometallici

I composti organoindi presentano legami In-C. La maggior parte sono di ​​In trivalente, ma il ciclopentadienilindio (I) è un’eccezione. Fu il primo composto noto di organoindi (I), ed è polimerico, costituito da catene a zigzag dove si alternano atomi di indio e gruppi ciclopentadienilici. Probabilmente il composto organoindio più noto è il trimetilindio, In(CH3)3, usato per preparare particolari materiali semiconduttori.

Disponibilità e produzione

L’indio è il 68° elemento più abbondante nella crosta terrestre. I suoi minerali, come la roquesite (solfuro di rame e indio, CuInS2) sono molto rari e ancora più raramente si trova in forma elementare.

Figura 6. Campione di roquesite.

Nessuno di questi minerali si presenta in quantità sufficienti per l’estrazione commercialmente economica del metallo. Tuttavia, come già ricordato, l’indio è di solito un’impurezza in minerali molto comuni, come la sfalerite e la calcopirite (solfuro di rame e ferro, CuFeS2).  Da questi può essere estratto come sottoprodotto durante i processi estrattivi. Infatti, sebbene l’arricchimento dell’indio in questi minerali sia elevato rispetto alla sua abbondanza crostale, è insufficiente a sostenere l’estrazione come prodotto principale.

Esistono stime diverse delle quantità di indio contenute nei minerali di altri metalli, pertanto la disponibilità è fondamentalmente determinata dalla velocità con cui vengono estratti questi minerali e non dalla loro quantità assoluta.

Durante il processo di arrostimento-lisciviazione-elettrificazione delle sfaleriti e calcopiriti, l’indio si accumula nei residui ricchi di ferro. Da questi può essere estratto in diversi modi. Può anche essere recuperato direttamente dalle soluzioni implicate nel processo. Ulteriore purificazione avviene mediante elettrolisi. Il processo estrattivo varia in base alla modalità di funzionamento della fonderia.

Il suo status di sottoprodotto significa che la produzione di indio è limitata dalla quantità di minerali di zinco e rame estratti ogni anno. Pertanto la sua disponibilità deve essere trattata in termini di potenziale di offerta. Il potenziale di offerta di un sottoprodotto è definito come la quantità annua estraibile economicamente dai suoi materiali ospiti nelle condizioni attuali del mercato (vale a dire tecnologia e prezzo). Le riserve e le risorse non sono rilevanti per i sottoprodotti, poiché non possono essere estratte indipendentemente dai prodotti principali. Stime recenti indicano che il potenziale di offerta di indio è di almeno 1300 t  anno da sfalerite e 20 t/anno da calcopiriti. Queste cifre sono significativamente maggiori della produzione attuale mondiale (655 t nel 2016).

La Cina è uno dei principali produttori di indio (290 tonnellate nel 2016), seguita dalla Corea del Sud (195 tonnellate), dal Giappone (70 tonnellate) e dal Canada (65 tonnellate).

Il consumo principale in tutto il mondo è nella produzione di LCD. La domanda è cresciuta rapidamente dalla fine degli anni ’90 al 2010 con la popolarità dei monitor LCD dei computer e dei televisori, che ora rappresentano il 50% del consumo di indio. L’aumento dell’efficienza produttiva e del riciclaggio (soprattutto in Giappone) mantengono un equilibrio tra domanda e offerta.

Applicazioni

Nel 1924 si scoprì che l’indio aveva l’importante proprietà di stabilizzare i metalli non ferrosi e questo divenne il primo uso significativo dell’elemento. La prima applicazione su larga scala per l’indio fu il rivestimento dei cuscinetti nei motori di aeromobili ad alte prestazioni durante la seconda guerra mondiale, per proteggerli da danni e corrosione; ma questo non è più un uso importante dell’elemento.  Nuovi usi sono stati individuati in leghe fusibili, saldature ed elettronica. Negli anni ’50 furono utilizzate minuscole perle di indio per gli emettitori e i collettori di transistor a giunzione  PNP.  A metà e fine degli anni ’80, lo sviluppo di semiconduttori al fosfuro di indio e di film sottili di ossido di indio-stagno per display a cristalli liquidi (LCD) ha suscitato molto interesse. Nel 1992 l’applicazione per film sottile è diventata il principale utilizzo finale (figura 7).

Figura 7. Monitor a LCD

L’ossido di indio (III) e l’ossido di indio-stagno (ITO) sono usati come rivestimento conduttivo trasparente su substrati di vetro in pannelli elettroluminescenti. L’ossido di indio-stagno viene utilizzato come filtro per la luce nelle lampade a vapori di sodio a bassa pressione. La radiazione infrarossa è riflessa nuovamente nella lampada, il che aumenta la temperatura all’interno del tubo e migliora le prestazioni.

L’indio ha molte applicazioni nel campo dei semiconduttori. Alcuni composti, come l’antimoniuro di indio (InSb) e il fosfuro di indio (InP), sono semiconduttori con proprietà utili.  InSb (e InAs) sono utilizzati per transistor a bassa temperatura e InP per transistor ad alta temperatura. I semiconduttori compositi InGaN e InGaP sono utilizzati in diodi emettitori di luce (LED) e diodi laser. L’indio è utilizzato nel fotovoltaico come semiconduttore (seleniuro di gallio indio rame, CIGS), in un tipo di cella solare di seconda generazione a film sottile.

Il cavo di indio viene utilizzato come sigillante sottovuoto e conduttore termico in applicazioni criogeniche e ultra-alto vuoto. L’indio è un componente della lega gallio-indio-stagno, liquida a temperatura ambiente, che sostituisce il mercurio in alcuni termometri. Altre leghe di indio con bismuto, cadmio, piombo e stagno, che hanno punti di fusione più alti ma ancora bassi (tra 50 e 100 °C), sono utilizzate nei sistemi antincendio a spruzzo e nei regolatori di calore.

L’indio è uno dei tanti sostituti del mercurio nelle batterie alcaline per impedire che lo zinco si corroda e rilasci idrogeno gassoso.

La sezione trasversale ad alta cattura di neutroni termici dell’indio lo rende adatto all’uso in barre di controllo per reattori nucleari, tipicamente in una lega di argento, indio e cadmio.

Nel 2009, il professor Mas Subramanian e colleghi dell’Oregon State University hanno scoperto che l’indio può essere combinato con ittrio e manganese per formare un pigmento intensamente blu, non tossico, inerte e resistente allo sbiadimento.

Ruolo biologico e precauzioni

L’indio non sembra aver alcun ruolo metabolico in alcun organismo. In modo simile ai sali di alluminio, gli ioni di indio (III) possono essere tossici per il rene quando somministrati per iniezione. L’ossido di indio e il fosfuro di indio danneggiano i sistemi polmonare e immunitario, principalmente attraverso i loro ioni, sebbene l’ossido di indio idrato sia quaranta volte più tossico quando iniettato, misurato dalla quantità di indio introdotta. L’indio-111 radioattivo (in quantità molto piccole su base chimica) è utilizzato nei test di medicina nucleare, come radiotracciante per seguire il movimento delle proteine ​ e dei globuli bianchi nel corpo. I composti di indio non vengono assorbiti principalmente per ingestione e  solo moderatamente per inalazione; tendono ad essere temporaneamente immagazzinati nei muscoli, nella pelle e nelle ossa prima di essere escreti e l’emivita biologica dell’indio nell’uomo  è di circa due settimane.

Le persone possono essere esposte all’indio sul posto di lavoro per inalazione, ingestione, contatto con la pelle e con gli occhi. L’Istituto nazionale per la sicurezza e la salute sul lavoro degli USA ha fissato un limite di esposizione raccomandato (REL) di 0,1 mg/m3 in un giorno lavorativo di otto ore.

Riciclaggio e ciclo biogeochimico

Secondo l’UNEP (United Nations Environment Programme, Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente), il tasso di riciclaggio a fine vita dell’indio nel 2011 era inferiore all’1%.

Poiché l’uso dell’indio negli schermi a cristalli liquidi (LCD) consuma oltre il 70% della produzione mondiale si è reso necessario aumentare il suo riciclo dai rifiuti LCD.

Un gruppo di ricercatori cinesi ha pubblicato, nel 2015, un’analisi sullo stato di gestione degli LCD a fine vita [1]. L’analisi riguarda principalmente le tecniche di riciclaggio e riutilizzo più sviluppate. Sono inoltre valutati diversi processi combinati di recupero e vengono suggerite tecniche promettenti e miglioramenti dell’intero processo di trattamento dei rifiuti LCD. In figura 8 è riportato uno schema di riciclaggio.

Figura 8. Schema di processo tecnologico per riciclare IN da scarti LCD [1, da Nie et al, 2008]

In figura 9 è mostrato uno schema più recente basato sull’impiego di resine a scambio ionico.

Figura 9. Schema del processo che utilizza l’adsorbimento su resina a scambio ionico [1, da Matsumoto et al, 2012]

Di riciclaggio e cicli biogeochimici di diversi metalli si sono occupati Luca Ciacci, Fabrizio Passerini e Ivano Vassura del Dipartimento di Chimica Industriale dell’Università di Bologna, anche insieme a ricercatori esteri. Nel 2018 hanno pubblicato un dettagliato articolo su riciclaggio e ciclo antropico dell’indio [2]. L’indio ha attratto l’attenzione di questi ricercatori a causa della sua potenziale mancanza di approvvigionamento e scarso riciclaggio a fine vita. Essi affermano che una tale combinazione di potenziali criticità è ingigantita nei paesi che dipendono dalle importazioni di indio, in particolare nei paesi europei, che sono produttori e consumatori di prodotti finiti. Con l’obiettivo di analizzare la dinamica dei flussi dei materiali che lo contengono e stimare l’entità delle fonti secondarie di indio disponibili per il riciclaggio, hanno studiato il ciclo antropogenico dell’indio in Europa (figura 10).

Figura 10. Ciclo antropogenico dell’indio nell’UE-28 (2014). I valori sono in tonnellate di indio. [2]

In base ai dati raccolti, gli autori concludono che garantire l’accesso alle materie prime essenziali è indubbiamente una priorità per l’Europa, ma la propensione al riciclaggio dell’indio da scarti e rifiuti del metallo rischia di rimanere solo sulla carta, a meno che la raccolta e il trattamento dei materiali non si avvalga dello sviluppo di tecnologie economicamente fattibili e sostenibili dal punto di vista ambientale.

In precedenza, nel 2012, Sara J.O, White e Harold F. Hemond hanno pubblicato una dettagliata rassegna sul ciclo naturale e antrobiogeochimico dell’indio nell’ambiente [3]. Essi hanno presentato lo stato attuale delle conoscenze sui flussi naturali e industriali, comportamento chimico, tossicità e metodi di analisi con cui viene misurato. Inoltre, lo studio contiene evidenti prove sugli effetti ambientali dell’uso industriale dell’indio (figura 11)

Figura 11. Ciclo antrobiogeochimico dell’indio al 2007 [3].

Infine, gli autori provano a definire le esigenze di ulteriori ricerche che potrebbero consentire un’indagine approfondita del comportamento ambientale dell’indio al fine di prendere decisioni informate sul suo uso, trattamento e smaltimento.

Opere consultate

Handbook of Chemistry and Physics, 85th ed. p. 4-16

https://en.wikipedia.org/wiki/Indium

Bibliografia

[1] K. Zhang et al., Recycling indium from waste LCDs: A review., Resources, Conservation and Recycling, 2015, 104 A, 276-290.

[2] L. Ciacci et al., Backlighting the European Indium Recycling Potentials., Journal of Industrial Ecology, 2018, 23, 426-437.

[3] S. J. O. White, H. F. Hemond , The Anthrobiogeochemical Cycle of Indium: A Review of the Natural and Anthropogenic Cycling of Indium in the Environment., Critical Reviews in Environmental Science and Technology, 2012, 42, 155-186.

[1] La viscoelasticità è un modello matematico che descrive un materiale che si comporta in modo intermedio tra un solido elastico e un fluido.

Recensione. Salvare il pianeta per salvare noi stessi. Energie rinnovabili, economia circolare, sobrietà

Claudio Della Volpe

Recensione.

Vincenzo Balzani – Salvare il pianeta per salvare noi stessi. Energie rinnovabili, economia circolare, sobrietà

Collana apocalottimismo Edizioni Lu.Ce. euro 14    p.126 (2020)

Una nota iniziale; pochi giorni fa abbiamo presentato, per la penna di Margherita Venturi una recensione su un libro di Fabio Olmi contenente 10 interviste immaginarie ad altrettanti scienziati (5 del passato e 5 viventi) sul tema della transizione energetica e del riscaldamento climatico; il titolo del libro è molto simile a questo di oggi ma si tratta di due  libri completamente diversi; questo di oggi è una raccolta di tre testi (o quattro se consideriamo anche l’interessante e dotta introduzione dell’editore) due dei quali scritti da Vincenzo Balzani per la Chimica e l’Industria (vedi in fondo) e riuniti qui in un unico  scritto ed una conferenza famosa di molti anni fa di Giacomo Ciamician, La fotochimica dell’avvenire nella sua versione originale in inglese. Il tema è sempre la transizione energetica, ma il taglio è diverso.

Il libro che vi presento oggi, tutto di scuola bolognese in un certo senso, è un agile (forse fin troppo) testo che passa in rassegna i temi principali della transizione e le sue modalità nella parte scritta da Balzani e che ricorda un momento fondamentale della storia della Chimica, l’idea che la fotochimica abbia un grande avvenire, nel testo della conferenza del 1912 di Ciamician, avvenire sia dal punto di vista energetico che dei materiali.

Comincio da questa conferenza che pur essendo stata scritta oltre un secolo fa illustra idee estremamente moderne. L’editore ha preferito riportare il testo originale nonostante sia disponibile in traduzione italiana anzi credo sia stato scritto in italiano e poi tradotto al tempo. E’ una scelta che sottolinea l’internazionalità dell’autore e l’importanza della sua visione già nel 1912, ma che forse ne riduce un po’ la fruibilità.

Per chi non l’avesse mai letto la seconda parte è squisitamente fotochimica, sulle reazioni che si potrebbero ottenere per via fotochimica, ma la prima è quella più interessante per i temi della sostenibilità : si sostiene il punto di vista che i fossili non sono eterni, che diventeranno sempre più difficili da estrarre (un concetto sottile questo che oggi si esprime quantitativamente con l’EROEI)

Si deve ricordare che in alcuni luoghi i depositi di carbone possono diventare praticamente inutili ben prima del loro esaurimento”

e che dunque occorrerà passare ad una forma di energia primaria differente, quella solare che fra l’altro è disponibile in quantità gigantesca.

Ovviamente Ciamician non può parlarci di fotovoltaico perché alla sua epoca il fenomeno era poco più di una curiosità sperimentale, scoperta nella prima metà dell’800 e la comprensione teorica era ancora di là da venire; la teoria dell’effetto fotoelettrico è del 1905 e la sua dimostrazione sperimentale del 1916.

Altrettanto ovviamente Ciamician non si pone problemi di limiti (e come potrebbe?) la popolazione della sua epoca era di poco superiore al miliardo e mezzo di persone, esistevano ancora luoghi del pianeta mai raggiunti o raggiunti da poco (l’impresa di Amudsen al Polo Sud era di nemmeno un anno prima) anche se occorre dire che all’epoca tutto il mondo era diviso già compiutamente in zone di influenza e di lì a pochissimi anni sarebbe iniziata la prima guerra mondiale.

Una cosa che si ricorda poco della conferenza di Ciamician è che egli esorta anche ad una visione che oggi definiremmo di chimica verde, ossia propone che sia possibile usare come sorgenti di sostanze chimiche di base alcuni prodotti vegetali e che addirittura con una opportuna gestione (non credo genetica) si possano ottenere prodotti utili da piante comuni:

Non perché io voglia attribuire a questi studi una qualche importanza pratica, ma perché essi, provano come si possa intervenire direttamente nella vita  delle piante e modificare in un certo senso i processi chimici che in esse si compiono. In una serie di esperienze dirette a determinare la funzione fisiologica dei glucosidi, noi siamo riusciti a farli produrre a piante che naturalmente non ne contengono. Così ad es. abbiamo potuto, con opportune inoculazioni, costringere il mais a fare la sintesi della salicina. E più recentemente, occupandoci della funzione degli alcaloidi nelle piante, ci è stato possibile modificare la produzione della nicotina nel tabacco in guisa da ottenere un notevole aumento, oppure una diminuzione dell’alcaloide in esso contenuto. Questo è l’inizio; ma non sembrapossibile che con opportuni sistemi di coltura ed interventi si possa arrivare a fare

produrre alle piante in copia maggiore di quanto non lo facciano normalmente, quelle sostanze che sono utili alla vita moderna e che noi ora con così gravi artifici aver importanza il timore di sottrarre i campi alla produzione delle materie alimentari per favorire quella industriale. Un calcolo anche approssimativo dimostra che sulla terra v’è largamente posto per tutto e per tutti, massime quando le colture sieno debitamente perfezionate ed intensificate ed adattate razionalmente alle condizioni del clima e del suolo. Ciò costituisce appunto il problema dell’avvenire.

Come vedete dunque una miscela di punti di vista che oggi in parte sono realizzati ma (proprio per questo) il cui “problema” non è stato del tutto risolto.

Diverso il caso del testo di Vincenzo Balzani, a noi contemporaneo e che per molti aspetti è la naturale evoluzione della prima parte del testo di Ciamician.

Il suo sottotitolo è: Energie rinnovabili, economia circolare, sobrietà mentre il titolo originale è stato leggermente modificato per sottolineare che siamo proprio noi la parte debole del pianeta, quella che rischia di più.

In questo sottotitolo sta la forza del testo, cioè nel suo legare i due elementi tecnici, tecnologici ad una scelta sociale; nel comprendere da subito che la scienza e la tecnica da sole non ci salveranno; è la posizione che abbiamo scelto anche per questo blog, è la nostra posizione: gli scienziati devono uscire dalla loro torre, dai loro laboratori e fare politica, anzi fare POLITICA, tutto maiuscolo, basandosi sulla scienza ovviamente ma senza scordare la situazione sociale e politica dell’umanità.

Proprio per questo anche un testo agile, breve, solo 110 pagine che non si può dunque pretendere che dica tutto né che sia privo di punti su cui si potrebbe approfondire è assolutamente di utile e importante lettura.

Su alcuni punti non nascondo che ci vorrebbe un approfondimento: per esempio sull’effettiva sostenibilità dell’energia geotermica o mini-idroelettrica oggi messe spesso in discussione; sul concetto del picco del petrolio, quello del petrolio tradizionale è passato già nel 2005; sui problemi che vengono dalla limitatezza delle risorse minerarie necessarie allo sviluppo delle rinnovabili e dunque le questioni che discendono da una distribuzione sostanzialmente uniforme dell’energia solare ed eolica, ma disuniforme delle risorse minerarie e delle competenze tecniche necessarie al suo uso.

Ma ripeto non si può pretendere un trattato da quello che è un testo di divulgazione ma anche di battaglia che critica per esempio i comportamenti delle nostre aziende energetiche, pur facendo una differenza di valutazione fra le strategie dei Eni ed ENEL. La prima continua a seguire ahimè il tracciato fossile, solo spennellato di pallido verde, mentre l’ENEL dopo aver abbandonato la prospettiva nucleare, che il testo giustamente stigmatizza, sembra aver preso più seriamente il processo di transizione energetica (attenzione: a parte la questione centrali a carbone ovviamente!).

I capitoli più densi sono certamente gli ultimi tre in cui si analizzano nel sesto le varie energie rinnovabili nel settimo le loro prospettive mentre nell’ottavo lo sguardo si allarga ad una prospettiva più ampia di “transizione” che cerca di connettere tutti i discorsi precedenti; questi sono i punti salienti del testo.

La “transizione” è vista dunque come un processo complessivo non solo tecnologico che obbliga a cambiamenti importanti anche dal punto di vista finanziario ed economico; in questo ottavo capitolo c’è uno spazio specifico per la scienza ed il suo ruolo. Scrive Vincenzo:

La scienza ha fatto e continua a fare la sua parte per promuovere e sostenere la transizione energetica. Ha denunciato e combattuto le falsità propagate dalla lobby dei combustibili fossili, ha dimostrato la correlazione fra aumento della temperatura del pianeta ed emissioni di CO2, continua ad indagare sui vari fenomeni collegati al cambiamento climatico nel tentativo di controllarli…… La scienza, soprattutto, ha generato due tecnologie, fotovoltaico ed eolico, che sono oggetto dei più rapidi sviluppi industriali di sempre e che possono risolvere, con il contributo marginale di altre tecnologie, il problema che abbiamo innanzi.

Per quanto riguarda i combustibili fossili, sarebbe bene che non ci fossero più progressi scientifici né nella ricerca di nuovi giacimenti, destinati a rimanere inutilizzati, né nella loro estrazione, per non causare ulteriori danni, come sta accadendo con il metodo fracking, e neppure nel megalomane tentativo di sequestrare e imprigionare le emissioni di CO2 con metodi inefficaci, pericolosi ed energeticamente dispendiosi (CCS). Se vogliamo salvare il pianeta, la strada da percorrere è soltanto una: smettere al più presto di usare i combustibili fossili.

Se una cosa ci ha insegnato la pandemia è che mai la crisi climatica è stata trattata a livello sociopolitico come una vera crisi; le crisi muovono decisioni immediate, grandi finanziamenti, cambiamenti immediati di strategia; nulla di tutto questo per la crisi climatica, che ha mosso grandi discorsi, qualche firma, ma poco di concreto; è quanto rilevano in un recente lettera aperta spedita a tutti i leader e capi di stato europei il 16 luglio us, alcuni scienziati e varie personalità fra cui Greta Thurnberg. Dice la petizione:

 

E’ ora più chiaro che mai che la crisi climatica non è mai stata trattata come una crisi, né dai politici, dai media, dalle imprese, né dalla finanza. E più a lungo continueremo a fingere di essere su un percorso affidabile per ridurre le emissioni e che le azioni necessarie per evitare un disastro climatico sono disponibili all’interno del sistema attuale – o in altri termini che possiamo risolvere una crisi senza trattarla come tale – tanto più tempo prezioso perderemo.

Il testo di Balzani è la prova che ci sono scienziati che fanno il loro mestiere: maestri di scienza e di vita.

Se avete dubbi a comprare il libro considerate che costa meno dell’accesso per un giorno al solo articolo di Ciamician.

Nota.

I due articoli di Balzani sono stati pubblicati su

La Chimica e l’Industria Newsletter 7/ottobre 2018 La Chimica e l’Industria – 2018, 5( 7), ottobre

SALVARE IL PIANETA: ENERGIE RINNOVABILI, ECONOMIA CIRCOLARE, SOBRIETÀ – PARTE PRIMA Vincenzo Balzani pag. 4-20

 

La Chimica e l’Industria Newsletter 8/novembre 2018 La Chimica e l’Industria – 2018, 5(8), novembre

SALVARE IL PIANETA: ENERGIE RINNOVABILI, ECONOMIA CIRCOLARE, SOBRIETÀ – PARTE seconda Vincenzo Balzani pag 4-28

un terzo testo uscì sulla versione cartacea n.5 di C&I del medesimo anno come riassunto.

Photochemistry of the future, G. Ciamician

Science  27 Sep 1912: Vol. 36, Issue 926, pp. 385-394 DOI: 10.1126/science.36.926.385