Diritto alla conoscenza.

Luigi Campanella, già Presidente SCI

Una settimana fa l’Assemblea Parlamentare del Consiglio di Europa, formata da 47 Stati Membro ha discusso e votato il Rapporto “Libertà dei media,fiducia pubblica e diritto alla conoscenza dei cittadini“.


Si tratta di un diritto di nuova generazione sollevato dai Radicali Europei edificato su quattro pilastri base: disponibilità del potere politico a mettere a disposizione dei cittadini le informazioni e conoscenze ed a rendere centrale il dibattito pubblico;
libertà e monitoraggio dei media pubblici e privati attraverso la raccolta e l’analisi di dati condotte da un organismo indipendente;
l’incentivo alla diffusione dei luoghi del sapere e della cultura per coltivar la libertà di pensiero.
Si tratta di un Rapporto fondamentale come precondizione per un Paese che vuole definirsi democratico: da un lato il diritto dei cittadini ad essere informati, dall’altro con tale diritto garantito la possibilità di partecipare responsabilmente alle scelte del Paese anche candidandosi con proposte che possono essere conosciute e giudicate dall’opinione pubblica.
Il diritto alla conoscenza come diritto umano universale è un contributo volto a ristabilire la fiducia nelle istituzioni democratiche ed a fare fronte a governi autoritari, quando non a vere dittature. Ora il traguardo deve essere l’estensione del diritto alla conoscenza in tutti i Paesi di Europa,,ai Paesi dell’ONU, ai paesi dell’estremo Oriente, a partire dalla Cina.
Non si possono ammettere prosperità e sviluppo che nascono nell’oscurità e nella repressione. Le nuove tecnologie ci aiutano in questo processò di condivisione ed ad esse si appoggiano anche strumenti organizzativi come il Museo diffuso, la didattica in vivo,i Network tematici; l’Intelligenza Artificiale,l’e.leasing, la Block Chain: sono strumenti a doppia faccia perché se gestiti egoisticamente possono portare a discriminazioni anche peggiori dell’ignoranza. Da quì l’esigenza che sia la politica ad assumere la condivisione della conoscenza come una irrinunciabile condizione per un equilibrato sviluppo della società globale.
Un ostacolo potrebbe essere rappresentato dal linguaggio: ecco perché il tutto non può prescindere da un’attività formativa ed educativa, anch’essa base di una crescita civile e sociale

Carta igienica biodegradabile.

Mauro Icardi

Mi sono interessato al tema della depurazione dell’acqua abbastanza presto. In generale di ambiente e trattamento ho sentito parlare molto già negli anni 70, quando i problemi d’inquinamento dei corpi idrici si rivelarono , mostrando problemi e criticità rilevanti. Gli anni del secondo dopoguerra in Italia furono caratterizzati da una crescita economica rilevante (il boom economico). Questa euforia non permise di rendersi conto che la crescita economica non si curava troppo dei danni ambientali che provocava.  Tutto questo ebbe inizialmente un forte impatto nella pubblica opinione, e nello stesso tempo accese in me una forte curiosità. Di acqua e di fognature si parlò molto anche durante l’epidemia di colera del 1973.

E sui quotidiani fino alla metà circa degli anni 80 si lessero molti articoli che si interessavano della tutela delle acque. Alcuni di questi non rivolgevano l’attenzione solamente agli scarichi di origine industriale, ma cercavano di dare indicazioni anche per un corretto uso dei prodotti di detergenza e cosmesi.

Ricordo di avere letto articoli che si occupavano dei prodotti per la pulizia del wc. Questo tipo di prodotti possono essere liquidi o in polvere, con caratteristiche acide o basiche. I primi hanno formulazioni nelle quali possiamo trovare idrogenosolfonato di sodio, acido citrico, acido fosforico. Nelle formulazioni si trovano generalmente anche tensioattivi che migliorano l’azione pulente. I prodotti basici  contengono ipoclorito di calcio o di sodio, e carbonato di sodio. Sono prodotti non adatti a sciogliere calcare o macchie di acido urico. Ma hanno una buona azione candeggiante e disinfettante. Non vanno dimenticati poi i prodotti di detergenza a base di formaldeide, sapone potassico e alcol etilico.

“Un uso scorretto ed eccessivo di questi prodotti, date le loro caratteristiche potrebbe potenzialmente inibire il funzionamento dei sistemi centralizzati di depurazione.” Questo è quanto lessi in un articolo a metà degli anni 80. In quel periodo furono le fioriture algali nel mare adriatico a riportare il tema del trattamento delle acque reflue sotto i riflettori.

La considerazione non è del tutto sbagliata, ma ai tempi probabilmente si enfatizzò la cosa. Uno scarico di origine domestica difficilmente presenta difficoltà di trattamento in un impianto di depurazione biologico a fanghi attivi. Ma un utilizzo non eccessivo dei prodotti di pulizia del bagno è ovviamente raccomandato. E oltre a ciò i prodotti di questo tipo devono essere maneggiati con cautela. Ne avevo scritto a suo tempo.

Ovviamente l’industria della detergenza ha sviluppato linee di prodotti di detergenza green, a base enzimatica. Questo tipo di prodotti ha ovviamente effetto su residui di tipo organico.

Ma le novità nel settore non mancano, e quindi sono venuto a conoscenza dell’immissione sul mercato di un tipo di carta igienica brevettata con l’acronimo BATP ® ovvero Biologic Active Tissue Paper.

https://www.bbaecotech.com/en/

Di fatto tra i due rotoli costituenti lo strato di carta igienica viene nebulizzato uno di una miscela di microrganismi in fase liquida. Non appena la carta finisce nello scarico e viene  a contatto con l’acqua, attiva i microrganismi che iniziano a decomporre la sostanza organica depositata nelle condutture e nei sifoni.

Confesso di essere molto incuriosito.  Cercherò di trovare questo tipo di prodotto per sperimentarne personalmente il funzionamento.

Nel redazionale che ho letto, se ne dice un gran bene. E comunque è importante affermare, che occorre essere attenti a cosa si getta anche negli scarichi delle nostre abitazioni, cosa che spesso è sottovalutata. Invece va riproposta. So che l’argomento potrebbe far storcere il naso, ma anche questa volta devo chiamare in causa Primo Levi. “La materia è materia, e non ha alcuna importanza quale sia la sua origine prossima”. Il brano è tratto da Azoto ed è uno dei capitoli che più apprezzo de “Il sistema periodico”.

La consapevolezza dei nostri gesti quotidiani è spesso sottovalutata. Si banalizzano troppe cose invece assolutamente necessarie. Tutto quello che sparisce dai nostri scarichi, confluisce in impianti di depurazione. Se questi non sono presenti, tutto quello di cui ci liberiamo può terminare nel ruscello vicino casa.  E renderlo una fogna a cielo aperto. Non credo sia inutile ricordarlo. La depurazione, o se vogliamo chiamarla in maniera terminologicamente più completa, l’ingegneria sanitaria ambientale, è una delle conquiste di due secoli fa. E una conquista dei paesi cosiddetti sviluppati. E’ invece ancora un sogno per quelli che vivono situazioni molto gravi dal punto di vista igienico, e di approvvigionamento idrico.

Vorrei terminare questo articolo con un suggerimento di lettura.

https://www.ibs.it/grande-bisogno-perche-non-dobbiamo-libro-rose-george/e/9788845264597

Una popolazione di quasi otto miliardi di esseri umani deve preoccuparsi della gestione dei propri rifiuti. Anche quelli innominabili.

Si veda anche:
https://www.bbaecotech.com/it/carta-igienica-biologicamente-attiva.html

Come va l’economia circolare?

Luigi Campanella, già Presidente SCI

Ho avuto modo di leggere il Rapporto 2021 del CEN( Circular Economy Network).Ho così con piacere appreso una notizia che già era rimbalzata sulla stampa: fra i Paesi a livelli più alti di circolarità, Germania, Francia, Italia, Spagna e Polonia è proprio l’Italia ad essere leader con 79 punti contro i 68 della Francia, i 65 di Germania e Spagna, i 54 della Polonia.Il punteggio deriva da una serie di fattori dalla produzione al consumo, dalla gestione dei rifiuti al riutilizzo.

Il tema centrale del Rapporto 2021 verte sull’apporto che l’economia circolare può dare alla lotta ai cambiamenti climatici. Il nostro Paese ha adottato misure significative come il recepimento delle direttive  UE in materia di rifiuti per garantire un riciclo di almeno il 65% dei rifiuti urbani entro il 2035 e per ridurre alla stessa data del 10% gli smaltimento in discarica. È inoltre previsto entro marzo 2022 l’approvazione del Programma Nazionale di gestione dei rifiuti ed in tempi brevi il Piano di Transizione 4.0 che prevede agevolazioni per gli investimenti delle imprese finalizzati all’economia circolare. Il PNRR potrà giocare un ruolo importante per superare gli ostacoli che frenano questi provvedimenti innovativi.  Alcuni dei dati riportati nel Rapporto che giustificano la nostra posizione di prevalenza

-rifiuti per anno per abitante 499 kg contro la media europea di 502

-tasso di riciclo pari al 46 %, stesso valore dell’Europa

-tasso riciclo dei rifiuti pari al 67 % contro un valore del 58% valido per l’Europa

-tasso di utilizzo circolare di materia pari al 19 % ben superiore al valore dell’Europa fermo all’12%.

La lezione che ci viene da questo Rapporto è che se la natura ha la capacità di rigenerarsi e di adattarsi ai cambiamenti, siamo tutti chiamati a fare la nostra parte riducendo la nostra impronta ecologica per dare modo alla natura di rigenerarsi. La Terra vive grazie ad un complesso meccanismo dove ogni elemento, ogni creatura  ed il sistema ambientale in cui vive sono in stretta relazione fra loro e tutti insieme concorrono a garantire un equilibrio fondamentale per la vita dell’uomo, di animali, di vegetali.

Un’altra osservazione più critica riguarda le scadenze degli impegni concordate nei grandi eventi di accordi internazionali per affrontare le crisi climatiche; non si può non osservare come andando avanti le velocità di adeguamento siano progressivamente cresciute obbligando nei prossimi 3 decenni a riduzioni drastiche a dimostrare quanto le due domande che molti si fanno: perché così tardi? perchè così lenti? siano giustificate. I motivi di questi ritardi sono di natura diversa, di certo di natura politica e gestionale dell’ambiente, ma di certo poiché siamo poi noi cittadini, aziende con il nostro comportamento, con il nostro stile di vita e di consumo a determinare emissioni climalteranti ed azioni di mitigazione ed adattamento, non si può trascurare una componente psicosociale ed antropologica.

Anche in molte università italiane da alcuni anni si é sviluppata la riflessione sui contributi che possono venire dalle scienze sociali per contrastare la crisi climatica. La conoscenza dei processi psico-sociali può aiutare a comprendere innanzitutto lo scarto tra la gravità del problema e la scarsa consapevolezza al livello dell’opinione pubblica e della decisioni politiche; sono state descritte alcune barriere psicologiche -dall’inazione allo scetticismo fino al negazionismo -la cui rimozione potrebbe rappresentare un contributo maggiore di quanto si possa pensare alla risoluzione del problema.

Scienziat* “divers*”

Rinaldo Cervellati

Sinceramente non sapevo che questo mese è il Pride Month (Mese dell’Orgoglio), celebrato in parte della Terra dalla comunità LGTB+.  LGBT o GLBT è un sigla che sta per lesbica, gay, bisessuale e transgender. In uso dagli anni ’90, il termine è un adattamento dell’iniziale LGB, che ha cominciato a sostituire il termine gay con riferimento alla più ampia comunità LGBT a partire dalla metà degli anni ’80. L’iniziale, così come alcune delle sue varianti comuni, funziona come un termine generico per la sessualità e l’identità di genere. Gli appartenenti a questa comunità, che ha lo scopo principale di estendere i diritti civili a tutti, sono spesso soggetti a violenze verbali e fisiche, compreso l’omicidio. Le statistiche recenti mostrano che negli USA i LGBT dichiarati sono il 5,6% della popolazione [1], in Italia erano l’1,6% nel 2011 [2].

Certamente non si è dimenticato del Pride Month Chemistry & Engineering News che, nel numero del 7 giugno scorso ha dedicato un articolo per ricordare alcuni scienziati scomparsi appartenenti alla comunità LGTB, per colmare le lacune nella storia della chimica [3].

Per colmare queste lacune, C&EN ha raccolto un elenco preliminare di chimici LGBTQ+ pionieristici della storia e alcuni persi di recente. Questo elenco di scienziati innovativi mette in evidenza i contributi di lunga data dei chimici LGBTQ+, molti dei quali non si trovano nei libri di testo. Oltre a fornire contributi scientifici, questi pionieri hanno avuto un enorme impatto sulle persone con cui hanno lavorato e come attivisti. Hanno guidato e ispirato gli studenti LGBTQ+, hanno contribuito a riformulare il modo in cui il pubblico li percepiva e hanno sfidato i pregiudizi di genere dei loro colleghi. Altri non potevano dichiararsi a causa della discriminazione sul posto di lavoro e del pericolo fisico. Solo nel 2020 la Corte Suprema degli Stati Uniti ha esteso alle persone LGBTQ+ una legge federale che vieta la discriminazione sul lavoro. Oggi, circa 80 paesi criminalizzano le relazioni tra persone dello stesso sesso e molti altri hanno leggi che negano i pieni diritti civili o discriminano attivamente le persone LGBTQ+. La necessità per le persone di nascondere la propria identità rende difficile compilare storie come quelle che racconteremo qui.

Un’altra sfida quando si mettono insieme storie LGBTQ+, è che il modo in cui si concepiscono le identità cambia continuamente; i personaggi storici non hanno necessariamente usato lo stesso linguaggio per descriversi come si fa oggi. Per compilare un primo elenco, C&EN ha fatto affidamento su risorse storiche di organizzazioni come GLAAD (Gay & Lesbian Alliance Against Defamation), ricerche indipendenti e sondaggi sul pubblico [3].

Qui elencherò alcune scienziate e scienziati in ordine della loro data di nascita.

Nina Vedeneyeva (1882-1955)

Nata nel 1882 a Tbilisi, in Georgia (allora parte dell’Impero russo), Nina Vedeneyeva è stata un’eminente cristallografa. I suoi riconoscimenti includono il Premio Stalin, l’Ordine di Lenin e diverse altre medaglie assegnate dall’Unione Sovietica.

Vedeneyeva ha iniziato i suoi studi presso la Scuola Politecnica di Liegi in Belgio, ma è tornata in Russia dopo solo un anno. Dopo essersi laureata al dipartimento di chimica dei Corsi Bestuzhev, una delle migliori università femminili, nel 1913, iniziò a insegnare alla Seconda Università di Stato e all’Istituto di tecnologia chimica fine, entrambi a Mosca.

Nina Vedeneyeva. Credit:Wikimedia Commons

Sposò un uomo, dal quale in seguito ha divorziato, e più tardi nella vita si è innamorata della famosa poetessa lesbica russa Sophia Parnok. Nel corso della loro relazione, che durò fino alla morte di Parnok nel 1933, la poetessa scrisse 32 poesie ispirate a Vedeneyeva.

Vedeneyeva conseguì il dottorato in fisica e matematica nel 1937 e fu assunta a capo del settore ottico dell’Istituto di scienze geologiche nel 1941. Lì, ha lavorato su problemi di mimetizzazione per l’Armata Rossa e ha sviluppato un metodo per analizzare le proprietà ottiche dei materiali sul campo. Nel 1945, Vedeneyeva fondò il Laboratorio di Cristallo Ottica presso l’Istituto di Cristallografia, parte dell’Accademia delle Scienze dell’URSS; ha diretto il laboratorio fino alla sua morte nel 1955.  Tra gli altri contributi, la sua ricerca ha dimostrato che la colorazione di diversi tipi di quarzo è dovuta a difetti del reticolo.

Rachel Carson (1907-1964)[1]

Se ispirare il movimento ambientale globale può essere attribuito a un individuo, quella persona è la biologa marina Rachel Carson. Il suo lavoro su come i pesticidi danneggiano gli habitat naturali ha avuto un impatto duraturo su governo, industria e società. Un articolo del 1985 sull’EPA (European Patent Office) Journal definì l’Agenzia per la protezione ambientale degli Stati Uniti “l’ombra estesa di Rachel Carson”. Il suo libro del 1962, Primavera silenziosa, sugli effetti dannosi dei pesticidi, ha influenzato in modo significativo il modo in cui le persone pensano sull’impatto ambientale dell’uso di sostanze chimiche, e le autorità di regolamentazione hanno successivamente vietato molti dei pesticidi di cui ha scritto nel libro.

Nata il 27 maggio 1907 a Springdale, in Pennsylvania, Carson è stata affascinata dal mondo naturale fin dalla giovane età. Vinse una borsa di studio per frequentare il Pennsylvania College for Women e nel 1929 fu accettata nel programma di laurea in zoologia della Johns Hopkins University. Due anni dopo aver conseguito la laurea, Carson lasciò la scuola per sostenere la sua famiglia. Nel 1935 entrò a far parte dell’US Bureau of Fisheries.

Rachel Carson a una conferenza. Credit: Associated Press

In questo periodo, ha iniziò a scrivere sulla vita acquatica e ha prodotto una terna di libri: Under the Sea-Wind, The Sea around Us e The Edge of the Sea.

Tuttavia Carson è meglio conosciuta per aver scritto Silent Spring (Primavera silenziosa), che ha sollevato la consapevolezza pubblica sull’inquinamento dovuto all’uso incontrollato di sostanze chimiche nell’agricoltura e nell’industria. Carson sostenne la regolamentazione del governo per gli inquinanti persistenti, incluso il DDT. Dovette affrontare gravi contraccolpi da parte dell’industria chimica per la sua posizione.

Nel 1953, Carson incontrò Dorothy Freeman. Sebbene si vedessero di rado, si scambiarono circa 900 lettere in 12 anni. Carson distrusse la maggior parte di queste lettere prima della sua morte. Quelle che rimangono, pubblicate decenni dopo in una raccolta curata dalla nipote di Freeman, alludono alla natura romantica della relazione.

Carson, cui fu diagnosticato un cancro al seno ebbe una malattia respiratoria in tarda età, è morta per un attacco di cuore nel 1964. Oltre a numerosi riconoscimenti nel corso della sua vita, è stata destinataria postuma della Presidential Medal of Freedom.

Martin Gouterman (1931-2020)

Martin Gouterman, un gay dichiarato in un’epoca in cui pochi scienziati erano aperti sulla loro sessualità, ha scoperto perché il sangue è rosso e l’erba è verde.

Gouterman è nato il 26 dicembre 1931 ed è morto il 22 febbraio 2020 all’età di 88 anni. Era un chimico dell’Università di Washington che divenne un esperto di porfirine, grandi molecole ad anello costituite da quattro anelli più piccoli formati da quattro atomi di carbonio e un azoto . Sono essenziali per gran parte della vita, aiutando a formare sia l’emoglobina rossa nel sangue che la clorofilla verde nelle piante.

Martin Gouterman in laboratorio. Credit: Univ. of Washington

Nel 1963, Gouterman, allora all’Università di Harvard, e i suoi colleghi svilupparono un modello della fisica delle porfirine per spiegare le proprietà delle molecole [4]. Il suo modello a quattro orbitali descrive le porfirine metalliche come aventi due orbitali molecolari occupati più alti che hanno quasi gli stessi livelli di energia, o sono “quasi degeneri” e due orbitali molecolari non occupati esattamente degenerati.

Chiuso a Harvard e brevemente sposato con DeLyle Eastwood, Gouterman è sbocciato quando si è trasferito a Seattle nel 1966. Lì ha vissuto nel quartiere storicamente gay di Capitol Hill e ha contribuito a fondare la Dorian Society, un Gruppo per i diritti di Stonewall che ha cercato di ritrarre gay e lesbiche come cittadini rispettabili. Ha anche lavorato per porre fine alla guerra in Vietnam e si è unito a Kadima/New Jewish Agenda e all’International Jewish Peace Union, facendo una campagna per porre fine all’occupazione israeliana del 1967 della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Durante l’epidemia di AIDS, ha aperto la sua casa a giovani gay malati senza nessun altro posto dove andare, e in seguito si è offerto volontario presso la Bailey-Boushay House di Seattle, il primo ospizio per l’AIDS della nazione.

Nel 1983, ha aiutato una coppia lesbica a concepire un figlio, Mikaelin BlueSpruce, che, insieme a una nipote, gli sopravvive.

Bruce Voeller (1934-1994)

Figura di spicco nella lotta contro l’epidemia di AIDS, Bruce Voeller è stato uno scienziato e attivista, il cui lavoro ha contribuito a prevenire la trasmissione dell’HIV. Intendeva promuovere i diritti degli omosessuali. Infatti, ha coniato il termine sindrome da immunodeficienza acquisita (AIDS) in sostituzione dell’impreciso e stigmatizzante soprannome di disordine da immunodeficienza legato all’omosessualità.

Voeller nacque nel 1934 a Minneapolis ed crebbe nella piccola città di Roseburg, nell’Oregon.  Eccelse nei suoi studi universitari al Reed College e conseguì il dottorato di ricerca in biologia dello sviluppo, biochimica e genetica presso la Rockefeller University nel 1961. Dopo la laurea, è rimasto come ricercatore associato presso Rockefeller. Secondo un necrologio pubblicato al momento della sua morte sul Journal of Sex Research, Voeller era la persona più giovane ad essere promossa a professore associato all’università.

Bruce Voeller. Credit:#7301/Division of Rare and Manuscript Collections/Cornell University Library

Tuttavia, sospese la sua carriera di ricercatore per concentrarsi sulla campagna per i diritti dei gay. Voeller ha cofondato la National Gay Task Force nel 1973 e ne è stato direttore esecutivo fino al 1978.

Alla fine degli anni ’70, Voeller cofondò la Mariposa Education and Research Foundation, che ha studiato la sessualità e le infezioni sessualmente trasmissibili. Mentre l’epidemia di AIDS imperversava negli Stati Uniti negli anni ’80, Voeller e la Fondazione Mariposa erano in prima linea nella ricerca sulla prevenzione della trasmissione del virus successivamente identificato come HIV. È stato uno degli autori di uno studio del 1985 su Lancet che mostrava che un popolare spermicida, nonoxynol-9, potrebbe inattivare l’HIV [5].

Voeller morì nel 1994 per una malattia correlata all’AIDS. Nel 2019, è stato una delle 50 persone  commemorate sull’inaugurando National LGBTQ Wall of Honor degli Stati Uniti.

Ben Barres (1954-2017)

Ben Barres, il primo membro apertamente transgender della National Academy of Sciences degli Stati Uniti, è ricordato non solo per il suo lavoro pionieristico sulle cellule gliali nel cervello, ma anche come campione per le donne nella scienza.

Barres nacque il 13 settembre 1954 a West Orange, nel New Jersey, e alla nascita fu stata assegnata come femmina. Il suo interesse per la scienza si sviluppò mentre era a scuola, ma poiché si presentava come una ragazza, fu scoraggiato dal seguire corsi di matematica e scienze. Nonostante questo, ha guadagnò un posto al Massachusetts Institute of Technology e andò alla Dartmouth Medical School per la sua laurea in medicina.

Ben Barres in laboratorio. Credit: Associated Press

All’inizio degli anni ’80, mentre Barres stava facendo la sua specializzazione in neurologia, le cellule gliali nel cervello catturarono la sua attenzione. Le cellule gliali erano state precedentemente considerate semplicemente come la colla biologica del cervello, ma Barres ha dimostrato che svolgono un ruolo attivo nella funzione cerebrale. Il suo lavoro ha cambiato il modo in cui comprendiamo le interazioni delle cellule con i neuroni.

Barres ha compiuto la transizione sulla quarantina e ha parlato apertamente del sessismo che ha dovuto affrontare come donna nella scienza e di come è cambiato dopo la transizione. Subito dopo la transizione, un collega ha osservato su di lui: “Il suo lavoro è molto migliore di quello di sua sorella”, non rendendosi conto che erano la stessa persona.

Ha continuato a sostenere le donne scienziate e ha sfatato l’idea che l’abilità innata fosse dietro il loro basso numero nelle carriere scientifiche.

Nel 1993, Barres è entrato a far parte del Dipartimento di Neurobiologia di Stanford e nel 2008 ne è diventato presidente. Ha pubblicato 167 articoli, ha vinto numerosi premi e ha fatto parte di numerosi comitati editoriali. Morì di cancro al pancreas nel dicembre 2017, all’età di 63 anni.

Gregory L. Hillhouse (1955-2014)

Gli scienziati hanno a lungo considerato i nitreni, molecole altamente reattive a base di azoto, troppo difficili da usare. Sembrava impossibile isolare un nitrene stabile basato su metalli di transizione perché quei metalli sono così ricchi di elettroni. Gregory L. Hillhouse, nato il 1 marzo 1955, dimostrò di poter produrre nitreni con metalli di transizione tardivi, aprendo nuove reazioni per la creazione di importanti molecole organiche.

Hillhouse chiamò la sua prima molecola del genere, costruita nel 2001, nichel doppio, un nome che anche i suoi colleghi dell’Università di Chicago gli hanno conferito [6]. Il suo lavoro ha vinto l’ACS Award Hillhouse in Chimica organometallica nel 2013.

Era stato affascinato dai composti azotati ricchi di energia sin dalla sua tesi di dottorato all’Indiana University (Bloomington) nel 1980.

Gregory L. Hillhouse. Credit: J. Montgomery

Dopo il lavoro post-dottorato al California Institute of Technology, Hillhouse si stabilì all’Università di Chicago, dove è ricordato non solo come uno scienziato innovativo ma anche come un caloroso amico per studenti e colleghi, cuoco gourmet e collezionista di vini, pittore di talento e organizzatore di squadre di basket e softball intramurali. Il suo ruolo di mentore è stato così efficace che la società universitaria di chimica dell’Università di Chicago ha intitolato la sua conferenza annuale in suo onore.

Hillhouse ha impiegato molti anni per dichiararsi gay, temendo che potesse danneggiare la sua carriera, secondo un ricordo in The Chemists Club, una pubblicazione dell’Università di Chicago. Negli anni ’90, scosso dalla morte di un caro amico, ha iniziato a fare volontariato in un ospizio per l’AIDS di Chicago, dove preparava pasti gourmet ogni fine settimana. È diventato anche un modello per i più giovani chimici LGBTQ+. “Mentre non ero al college, Greg mi ha aiutato a sentirmi bene essendo me stesso e a sentirmi a mio agio nell’essere fuori nella comunità della chimica”, dice Matthew Joannou, che ha frequentato il corso di Hillhouse come studente universitario dell’Università di Chicago.

Hillhouse è morto di cancro al pancreas nel 2014 all’età di 59 anni.

Jemma Redmond (1978-2016)

Da bambina, Jemma Redmond amava smontare i giocattoli e rimetterli insieme, cercando di migliorare il design mentre lo faceva. Nata come donna intersessuale nel 1978 a Tallaght, un sobborgo di Dublino, Redmond ha studiato ingegneria elettronica prima di conseguire la laurea in fisica applicata alla Robert Gordon University. Ha poi completato un master in nanobioscienze presso l’University College di Dublino nel 2012. Ha iniziato a realizzare le sue prime biostampanti sul tavolo della sua cucina e la sua tesi di master si è concentrata sulla stampa 3D delle ossa delle dita da cellule ossee derivate da topi.

A photo of Jemma Redmond.

Jemma Redmond. Credit: You Tube

Redmond era sterile e parte del suo interesse per la stampa 3D biologica derivava dal desiderio di stampare per se stessa organi riproduttivi funzionanti. Ha cofondato una start-up di stampa 3D chiamata Ourobotics nel 2015. Il suo lavoro ha attirato l’attenzione di diverse società di capitali, e di un incubatore di start-up a Cork, in Irlanda.

Redmond è stata CEO (Amministratore delegato) di Ourobotics e, sotto la sua guida, l’azienda ha sviluppato la prima stampante 3D in grado di utilizzare 10 diversi biomateriali contemporaneamente. Era anche una ferma sostenitrice della scienza aperta e accessibile, e la seconda stampante 3D di Ourobotics era interamente open source e un ordine di grandezza più economica del primo design. La sua speranza era che un giorno, ogni ospedale e università del mondo avrebbe avuto una biostampante in loco in grado di stampare nuovi organi per i pazienti nell’elenco dei trapianti. Ha anche immaginato di fondere il biologico e il tecnologico, ad esempio impiantando sensori negli organi per monitorare la salute. Redmond è morta prematuramente nel 2016 all’età di 38 anni.

Bibliografia

[1] https://news.gallup.com/poll/329708/lgbt-identification-rises-latest-estimate.aspx

https://www.vice.com/it/article/mb8kwx/glossario-lgbtq

[2] https://www.oecd.org/social/society-at-a-glance-19991290.htm

[3] AA.VV. LGBTQ+ chemists you should know about, C&EN, June, 7 2021., tradotto e adattato dall’autore del post

[4] M. Gouterman, G.H. Wagnière, Spectra of Porphyrins II. J. Mol. Spectrosc.,1963, 11, 108-127.

[5] D.R. Hicks et al., Inactivation of HTLV-III/LAV-Infected Cultures of  Normal Human Lymphocytes by Nonoxynol-9 in vitro. The Lancet, 1985, 21/28, 1422-23.

[6] D.J. Mindiola, G.L. Hillhouse, Terminal Amido and Imido Complexes of Three-Coordinate Nickel. J. Am. Chem. Soc., 2001, 123, 4623-4624.


[1] Per una biografia di Carson, si può vedere: Rachel Carson (1907-1964), in R. Cervellati, Chimica al feminile, Aracne, Roma, 2020, pp. 235-246.

Biologico e biodinamico.

Luigi Campanella, già Presidente SCI

I due termini biologico e biodinamico, vengono artificiosamente confusi, anche se hanno significati molto diversi e soprattutto fanno parte di due mondi culturali diversi, quello della scienza il biologico, quello della non scienza il biodinamico.

Di fatto la domanda di prodotti agroalimentari ottenuti da un impiego meno intensivo della terra è in continuo aumento ed il biologico rappresenta in questo senso la nuova frontiera, una sorta di ri-orientamento della PAC (politica agricola comunitaria), ma anche un superamento dell’agricoltura industriale in favore di un recupero degli equilibri naturali persi in questi ultimi 50 anni e di una riparazione dell’agroecosistema. Ne guadagnano ambiente, consumatori e produttori. Non è un processo semplice, anzi richiede impegno e disponibilità da parte del produttore che deve mettere in previsione difficoltà organizzative e gestionali, un periodo di transizione a produzione ridotta, una maggiore possibile esposizione delle colture alle avversità parassitarie a causa della rinuncia al ricorso alla chimica di sintesi. Bisogna superare le paure per rese bio inferiori al convenzionale, per rese economiche meno convenienti, per una maggiore vulnerabilità alle malattie vegetali.

In linea con definizioni analoghe in altri settori possiamo parlare di agricoltura 4.0.

Ma l’impegno deve proseguire oltre il cambiamento: saranno necessari monitoraggi sull’adattamento del suolo, sul tasso di produttività, sullo stato di salute. I cambiamenti climatici già causa di tanti danni diventano un ulteriore problema in una fase di transizione. Tutti questi sforzi sono però compensati a regime; quando l’ambiente risulterà più sano, le denunce su alimenti non sicuri, quando non tossici, saranno diminuite, i consumatori dimostrerano con gli acquisti la loro accresciuta fiducia nei prodotti agroalimentari. Fino a qui il biologico.

Diverso il biodinamico che vede crescita delle piante e allevamento di animali come componenti interrelati, combinati insieme da pratiche spirituali e mistiche. In altre parole poca agronomia e molte pseudoscienze varie, che vengono equiparate al metodo scientifico del povero Galileo.

Si vede così preparare il terreno seppellendo in primavera, per rimuoverlo in autunno, un corno di mucca segato e riempito di polvere di quarzo oppure l’intestino tenue di un vitello riempito di fiori così da raccogliere le forze cosmiche. Che poi anche la biodinamica preveda pratiche comuni all’agricoltura biologica, quali la rotazione delle colture e le  colture di superficie, il ricorso a concimi non basati su composti di sintesi, ma  su materiali naturali, come il letame, la difesa della biodiversità è anche vero, ma è proprio da questo che nasce confusione e malinteso sui due termini.

Una curiosità riguarda la storia delle 2 pratiche: mentre la agricoltura biologica è propria del nostro tempo, quella biodinamica è più vecchia e risale ad un secolo fa, essendo nata più come attività filosofica che come pratica agraria, questa è stata vista come un’applicazione.

Plastiche biodegradabili e bioplastiche

Rinaldo Cervellati

Dal 1907, quando fu brevettata la prima plastica completamente sintetica, la bachelite[1], a oggi, le materie plastiche sono aumentate in modo vertiginoso, tanto che difficilmente potremmo farne a meno. Le materie plastiche sono una vasta gamma di materiali sintetici o semisintetici che utilizzano i polimeri come base principale. La loro plasticità consente di modellarle, estruderle o pressarle in oggetti solidi di varie forme. Quest’adattabilità, come la leggerezza, la durevolezza, la flessibilità e l’economicità di produzione, ha portato al loro impiego diffuso. Le materie plastiche sono tipicamente prodotte attraverso sistemi industriali. La maggior parte delle plastiche moderne deriva da sostanze chimiche a base di combustibili fossili come il gas naturale o il petrolio; tuttavia, i metodi industriali recenti utilizzano varianti realizzate con materiali rinnovabili, come i derivati del mais o del cotone.

Poiché la struttura chimica della maggior parte delle materie plastiche le rende durevoli, sono resistenti a molti processi di degradazione naturale. Gran parte delle plastiche può persistere per secoli o più, come dimostrano le seguenti figure, con incalcolabili danni ambientali (fig 1-4).

Figure 1-4. Discariche in spiagge, animali marini e uccelli si cibano di plastiche.

Esistono stime diverse sulla quantità di rifiuti di plastica prodotti nell’ultimo secolo. Secondo una stima, un miliardo di tonnellate di rifiuti di plastica sono stati scartati dagli anni ’50. Altri stimano una produzione umana cumulativa di 8,3 miliardi di tonnellate di plastica, dei quali 6,3 miliardi di tonnellate sono rifiuti, con un tasso di riciclaggio di solo il 9%.

Per questi motivi sono state studiate e prodotte “plastiche biodegradabili” e “bioplastiche”, parole che sebbene siano simili, non sono sinonimi.

La bioplastica è, secondo la definizione data dall’European Bioplastics, un tipo di plastica che può essere biodegradabile, a base biologica (bio-based) o possedere entrambe le caratteristiche. Più precisamente: può derivare (parzialmente o interamente) da biomassa e non essere biodegradabile (per esempio: bio-PE polietilene, bio-PET polietilentereftalato); può derivare interamente da materie prime non rinnovabili ed essere biodegradabile (per esempio: PBAT polibutirrato, PCL policaprolattone, PBS polibutilene succinato); può derivare (parzialmente o interamente) da biomassa ed essere biodegradabile (per esempio: PLA acido polilattico, PHA poliidrossialcanoati, plastiche a base di amido).

Secondo la definizione data da Assobioplastiche, per bioplastiche s’intendono quei materiali e quei manufatti, siano essi da fonti rinnovabili che di origine fossile, che hanno la caratteristica di essere biodegradabili e compostabili. Assobioplastiche suggerisce di non includere nelle bioplastiche quelle derivanti (parzialmente o interamente) da biomassa, che non siano biodegradabili e compostabili, indicandole piuttosto con il nome “plastiche vegetali”.

Su questo blog molto è stato scritto sulle plastiche, il loro riciclo e la degradazione, qui riportiamo i risultati di una recente ricerca condotta da un gruppo dell’Università di Berkeley, coordinato dalla Prof. Ting Xu [1].

Prof. Ting Xu

I ricercatori sono partiti dalla considerazione che molte plastiche biodegradabili spesso impiegano mesi o anni per decomporsi e anche in questo caso possono formare microplastiche[2] potenzialmente dannose. Essi sono stati in grado di accelerare il processo attraverso enzimi che trasformano la plastica in un rivestimento protettivo che incorpora le nanoparticelle.

L’esposizione a umidità e temperature comprese tra 40 e 60 °C libera gli enzimi, che decompongono i polimeri in monomeri di unità trimeriche in poche ore o giorni.

Il policaprolattone (PCL) e l’acido polilattico (PLA) sono entrambi plastiche biodegradabili, utilizzate per contenitori per alimenti, applicazioni biomediche e sacchetti per rifiuti. Tuttavia, questi polimeri si degradano facilmente solo alle alte temperature che si trovano negli impianti di compostaggio industriale. Ting Xu, un ingegnere chimico, e il suo gruppo del Lawrence Berkeley National Laboratory, dell’UC a Berkeley e dell’Università del Massachusetts intendono consentire anche ai consumatori di degradare queste plastiche in casa propria [1].

Il nuovo materiale del gruppo incorpora nanoparticelle, insieme a enzimi tipo lipasi o proteinasi K e avvolte in un polimero costituito da una miscela di esteri metilenici metacrilici, come il “ripieno” di un raviolo. Questo rivestimento protegge gli enzimi dalle alte temperature necessarie per fondere ed estrudere la plastica a formare fogli e altri oggetti. Il gruppo ha aggiunto meno del 2% della nanoparticelle in peso, quindi esse non interferiscono con le proprietà chimiche o meccaniche della plastica.  Solo quando i ricercatori espongono la plastica all’umidità e al calore o alla luce UV che lo strato protettivo si rompe, rilasciando gli enzimi all’interno. Secondo il polimero e la temperatura del test, l’enzima ha scomposto fino al 98% dei polimeri in appena 30 ore. Gli acidi lattici risultanti possono essere buttati con acqua nello scarico o aggiunti al terreno del giardino, così che la degradazione può essere fatta anche in casa (figura 5).

Figura 5. Gli enzimi incapsulati distribuiti in tutto il policaprolattone accelerano la degradazione del sacchetto in presenza di calore e umidità. Le foto mostrano il materiale prima (a sinistra) e dopo (a destra) il trattamento per 3 giorni. Credit: Nature

Tuttavia, come ricorda Xu, la maggior parte delle materie plastiche è composta di parti sia cristalline sia amorfe. Nelle tipiche plastiche biodegradabili, i microrganismi mangiatori di polimeri presenti nei cumuli di compost, degradano le parti amorfe ma non quelle cristalline. Di conseguenza, i materiali non sono completamente scomposti, lasciando frammenti di microplastica cristallina. Incorporando gli enzimi all’interno della plastica, essi sono in una posizione migliore per accedere alle parti cristalline e degradare completamente i polimeri.

Xu sostiene che il punto chiave è che si possono disperdere gli enzimi a livello nanoscopico, che è la stessa scala delle singole catene polimeriche. Questa dispersione aumenta la disponibilità degli enzimi. La maggior parte dell’enzima sarà abbastanza vicino alle catene polimeriche per catalizzare la loro rottura e quindi non è necessario aggiungerne troppo.

Julia A. Kornfield, ingegnere chimico presso il California Institute of Technology, afferma:

Ci sono stati tentativi precedenti di incorporare enzimi nella plastica allo scopo di degradarli alla fine della loro vita, ma hanno fallito e ho considerato l’approccio un vicolo cieco fino a quando non ho letto questa ricerca. Rispetto ai precedenti tentativi di utilizzare enzimi per abbattere la plastica, le nanoparticelle del gruppo di Xu si disperdono molto più finemente nella plastica, “come la differenza tra le dimensioni di una pallina da tennis e un capello umano”.

Xu e il suo gruppo ritengono che le persone siano in grado di decomporre queste plastiche nelle loro case, sia in vasche di acqua calda o in pile di compost nel giardino. Il metodo sarebbe inoltre compatibile con i servizi di compostaggio municipale su scala più ampia. L’ex studente di Xu e coautore del nuovo lavoro, Aaron Hall, ha ideato uno start-up chiamata Intropic Materials per sviluppare commercialmente queste plastiche.

Opere consultate

L. K. Boerner, Plastics with embedded particles decompose in days instead of years, C&EN, 2021, Vol. 99, n. 15

Bibliografia

[1] C. DelRe, Y. Jiang, P. Kang, et al., Near-complete depolymerization of polyesters with nano-dispersed enzymes. Nature  2021, 592,558–563.


[1] La bachelite (poliossibenzilmetilenglicolanidride) è una resina fenolo-formaldeide termoindurente, formata da una reazione di condensazione del fenolo con la formaldeide. È stata sviluppata dal chimico belga-americano Leo Baekeland (1863-1944) a Yonkers (New York).

[2] Le microplastiche sono frammenti di qualsiasi tipo di plastica di lunghezza inferiore a 5 mm. Qui ci interessano le microplastiche secondarie che derivano dalla degradazione di prodotti di plastica più grandi dopo essere entrati nell’ambiente. Tali fonti di microplastiche secondarie includono bottiglie di acqua e soda, reti da pesca, sacchetti di plastica, contenitori per microonde ecc. È noto che persistono nell’ambiente a livelli elevati, in particolare negli ecosistemi acquatici.

Oceani e acqua.

Luigi Campanella, già Presidente SCI

Due giorni fa è stata celebrata la giornata degli Oceani.

Vogliamo celebrarla anche noi , a modo nostro, ricordando due episodi che riguardano l’acqua e che ci educano al rispetto della sua purezza, preziosa risorsa per il Pianeta. Negli oceani è proprio la purezza a garantire la biodiversità.

Il primo ci mostra come l’inquinamento oltre ai ben noti danni che provoca può portare ad errori scientifici, come di recente la stessa dimostrata correlazione con la diffusione del covid 19 dimostra. Negli anni sessanta del secolo scorso circolò in Europa la notizia di una scoperta in Russia relativa ad una nuova forma di acqua che poteva essere prodotta in piccole gocce, in tubi sottilissimi. L’informazione arrivò negli USA e lascio di stucco ed incredulo il mondo della ricerca americana: tale atteggiamento va inquadrato nel clima da guerra fredda tra est ed ovest di quei tempi. L’informazione era arrivata da una conferenza di Boris Derayagin a Nottingham. Questa nuova forma di acqua era caratterizzata da  una tensione di vapore minore, un punto di ebollizione di 200 gradi ed uno di congelamento a -30 gradi,valori quindi molto diversi da quelli della forma nota di acqua Si ipotizzò che questa nuova forma di acqua avesse una densità maggiore di quella che si trova normalmente sulla Terra. Il famoso cristallografo Bernal scrisse addirittura che ci si trovava di fronte ad una scoperta rivoluzionaria, forse la più importante del secolo. Fu battezzata poliacqua con una struttura ipotizzata esagonale : sei molecole di acqua unite da ponti ossigeno.

Americani ed inglesi si misero alla caccia della poliacqua. Si ipotizzò che avesse una struttura esagonale dove sei molecole di acqua si uniscono attraverso ponti di ossigeno.Fu ipotizzata presente nella polvere stellare e sospettata di essere inquinante e pericolosa e quindi da trattare con prudenza. Finalmente si scoprì che poliacqua si produceva dai piccoli capillari da esperimento che la inquinavano. Si tratta di una storia combattuta sui due più grandi giornali scientifici, Nature e Science e con la compartecipazione dei mass media. Ma la conclusione fu che non c’era una nuova forma di acqua, ma solo acqua inquinata.

Il secondo episodio del quale si è scritto molto ed a lungo riguarda la memoria dell’acqua. Il tutto è cominciato con gli esperimenti di uno scienziato francese, Jacques Benveniste, un immunologo di grande reputazione, ricercatore a Clamart all’istituto per la ricerca medica di Francia. Benveniste faceva esperimenti sulla degranulazione di alcuni globuli bianchi speciali (granulociti basofili) in presenza di un siero contenente le immunoglobuline E – quelle dell’asma dei bambini.

Un giorno si accorse che la degranulazione era molto più grande di quella che immaginava potesse avvenire sulla base della diluizione delle proteine usate. A seguito di questa osservazione Benveniste ed i suoi pubblicarono su Nature un lavoro in cui si asseriva che l’acqua era capace di degranulare i basofili anche quando le IgE erano state diluite fino a 10 elevato a 120. A queste diluizioni si disse che non ci sono più IgE e che pertanto la degranulazione era opera dell’acqua che conservava la memoria, quasi un’impronta, delle immunoglobuline disciolte prima che la loro diluizione divenisse tanto elevata da potere considerare prossima a zero la concentrazione.

Posto di fronte ad una commissione internazionale Benveniste non fu in grado di ripetere l’esperimento. Successivi lavori smentirono il risultato. E’ stata una battaglia importante perché se fosse stato vero quel che diceva Benveniste anche l’omeopatia, che si basa sulla diluizione dei farmaci, avrebbe avuto un suo solido supporto su base scientifica. 

Niente improvvisazioni in laboratorio.

Mauro Icardi

Il nostro tempo è quello dell’informazione costante continua ossessiva a cui purtroppo non corrisponde una crescita della conoscenza. Questa ha due possibili metodi di acquisizione quello deduttivo dall’universale al particolare basato sulle grandi verità (Platone, Aristotele fino a Kant) dalle quali derivano le conoscenze attraverso processi di elaborazione e quello induttivo affidato invece all’esperienza da Bacone a Leonardo a Hume fino ad Einstein. La chimica é disciplina che per la sua storia possiamo considerare a prevalente conoscenza induttiva e quindi fondamentalmente legata al laboratorio come sede preferenziale ed irrinunciabile dell’esperienza

Ho scritto diverse volte del lavoro in laboratorio. E delle norme  di comportamento  cui ci si deve attenere.  A mio parere col passare degli anni alcune sono state in parte disattese. Partendo da quella che dovrebbe essere la prima di tutte. Un laboratorio ordinato. Mi è capitato alcune volte di dover essere coinvolto in discussioni che avrei davvero preferito evitare, quando mi erano affiancati colleghi oppure tirocinanti o tesisti che non erano attenti su questo punto.

Nonostante Berzelius abbia sostenuto in un suo noto aforisma che “Un laboratorio ordinato è segno di un chimico pigro”, si può e si deve lavorare con un approccio che sia attento a non trasformare i banconi di laboratorio in vortici di caos e disordine. Se questo concetto viene capito ed applicato con naturalezza, anche la produttività ne risente positivamente. Lo posso affermare con sicurezza.

Un altro aspetto fondamentale è quello di essere in grado di creare una propria metodologia di lavoro. Oggi la tendenza nei laboratori di analisi, in particolare quelli al servizio del ciclo idrico integrato, è quella di raggiungere l’accreditamento. L’accreditamento attesta la competenza,l’indipendenza e l’imparzialità dei laboratori di prova e ne assicura l’idoneità a valutare la conformità di beni e servizi alle prescrizioni stabilite dalle norme volontarie e obbligatorie. Questo è certamente un traguardo importante, ma chi lavora in laboratorio dovrebbe acquisire non solo manualità, ma anche la capacità di saper vedere ed individuare i carichi di lavoro, il modo più opportuno per gestirli, le priorità da dare nell’esecuzione del lavoro giornaliero. Mi sento di dire con un certo rammarico, che non sempre le cose funzionano in questa maniera. Le ragioni di questi comportamenti mi riescono davvero incomprensibili. Credo rientrino in un certo qual modo nella rarefazione del concetto di voglia. La voglia di fare le cose bene, sembra in qualche caso quasi sparita.

Altro tema sul quale ritorno spesso, è quello di sapere osservare. Nell’esecuzione anche di analisi routinarie, essere attenti. Non sottovalutare nessun particolare, anche se a prima vista può apparire insignificante. Questa forma mentis fa la differenza. Sapere osservare può essere una qualità innata, ma ci si può anche esercitare nel coltivarla e farla crescere. E a quel punto (perlomeno a me continua a succedere) ci si rende conto di avere acquisito una consapevolezza del proprio lavoro, e del modo con cui si opera che avvicina davvero molto a quanto diceva Primo Levi. Amore per il proprio lavoro come una delle migliori approssimazioni alla felicità terrena.

Un ultimo punto importante, che si collega agli altri. Saper valutare con attenzione e senso critico il risultato di un’analisi. Nel caso delle acque reflue questo è molto importante. Collegare quel numero alla realtà dell’impianto. Capire se esiste un nesso possibile, oppure si è commesso un errore grossolano che con un minimo di attenzione in più si sarebbe potuto evitare. Gli errori sono ovviamente inevitabili, ma qui mi riferisco ancora all’attenzione continua. Non parlo di demonizzare gli sbagli, ma semplicemente di farne un’occasione per superarli e crescere. Questi atteggiamenti creano un circolo virtuoso. Più impari, più senti la voglia di continuare a farlo. Ultima raccomandazione: imparare, conoscere, riflettere sono tre condizioni importantissime per acquisire una reale cultura della sicurezza. In laboratorio, ma più in generale nell’esecuzione di ogni tipo di lavoro.

Ringrazio Luigi Campanella per gli utili suggerimenti.

In occasione della Giornata dell’ambiente 2021.

Luigi Campanella, già Presidente SCI

Scrive il Parlamento Europeo introducendo il suo Piano d’azione per l’economia circolare che entro il 2050 consumeremo come se avessimo a disposizione tre pianeti terra, per cui il passaggio da un modello lineare ad uno circolare di economia è una pietra angolare per una transizione verso una società e verso un’economia più sostenibili.

L’Assemblea Plenaria del Parlamento Europeo ha accolto con favore la proposta individuando come obbiettivi ad essa correlati la riduzione dell’impronta ambientale dei prodotti e dei materiali riferita all’intero ciclo di vita e di quella di consumo, una cultura della manutenzione e della riparazione, un mercato unico dei materiali riciclati, il design sostenibile, il contrasto all’obsolescenza programmata.

È una strada lunga se si pensa che oggi fino all’80% dell’impatto ambientale dei prodotti è determinato nella fase di progettazione e solo il 12% dei materiali utilizzati dall’industria proviene dal riciclo.

Un interessante specificità nella trattazione del.Parlamento Europeo riguarda i materiali elettronici e per le telecomunicazioni per i quali vengono raccomandati longevità e riparabilità, nonché eco progettazione di batterie (concetto peraltro esteso anche alle autovetture) e per i materiali di imballaggio oggi fonte di grandi quantità di scarti, anche di materuale plastico.

La Commissione Europea punta a che gli Stati membri attraverso incentivi finanziari si muovano verso la creazione di un mercato unico delle materie prime seconde

La chimica della maggioranza (molecolare)

Claudio Della Volpe

Uno dei concetti apparentemente più semplici ed elementari della chimica è la purezza delle varie sostanze di cui conosciamo la formula; prendiamo la comune acqua, la formula è H2O.

E’ una sostanza comunissima e necessaria alla vita; l’acqua che usiamo è solo acqua? Ossia possiamo immaginare almeno in questo caso di avere acqua al 100%?

No, non possiamo; l’acqua che usiamo di solito è una soluzione salina di qualche tipo; anche se la distilliamo in aria il risultato sarà una soluzione di acido carbonico a pH fra 5 e 6; per avere dell’acqua più pura possiamo usare dei metodi a scambio ionico o ad osmosi inversa che partono da acqua già distillata e avremo la cosiddetta acqua ultrapura, che sarà priva di biossido di carbonio, di batteri, virus e quasi di sali disciolti finché non la esporremo all’aria.

Quale è la massima purezza ottenibile dell’acqua?

Se si cerca in rete si trova in vendita acqua con un grado di purezza rispetto alle contaminazioni batteriche del 99.9999%; ma cosa vale per il contenuto in sali? La resistività finale è di 18,2 MΩ.cm a 25°C e i livelli di TOC inferiori a 5 ppb.

Anche un’acqua di questo tipo se esposta all’aria andrà comunque all’equilibrio con i suoi costituenti; fra l’altro qualunque contenitore dell’acqua cederà qualcosa: vetro o PTFE, che sono fra i materiali più resistenti all’attacco dei solventi, cederanno piccole quantità del loro materiale; dunque anche se fossimo in grado di ottenere un’acqua al 100% non sapremmo come conservarla per mantenerne la purezza assoluta.

Ma questo non vale solo per l’acqua.

Un altro materiale relativamente comune che per i suoi impieghi industriali deve essere ultrapuro è il silicio, usato per la costruzione dei dispositivi elettronici.

Cosa possiamo dire del silicio e della sua purezza?

Il silicio è un semiconduttore le cui proprietà vengono esaltate dal drogaggio, un drogaggio che al massimo arriva a 1ppm; dunque la base dell’elemento deve essere più puro se possibile; attualmente si arriva ad un silicio 12N ossia con una purezza di una parte su 1012; questo significa che su una mole di silicio, 28 grammi, abbiamo comunque 1011 atomi di diverso tipo. Esposto all’aria il silicio si ossida ricoprendosi di uno strato di ossido di silicio perché i suoi atomi esterni avranno legami liberi.

In realtà la cosa è più complessa; si è tentato di usare il silicio come campione di massa o del numero di Avogadro, un’idea partorita molti anni fa da uno scienziato italiano (C. Egidi, Phantasies on a Natural Unity of Mass, Nature, 1963, 200, 61-62.) e portata avanti dal gruppo dell’INRIM diretto da Enrico Massa e Carlo Sasso; per fare questo occorreva un campione di silicio isotopicamente puro; ma non si è andati oltre 99.9998% di purezza in 28Si. Dunque se guardiamo le cose dal punto di vista della purezza isotopica le cose stanno ancora peggio che prima; su 28g di silicio isotopo-28 avremo che ben 2 atomi su un milione saranno diversi per qualche motivo.

Il problema isotopico ovviamente è presente anche nell’acqua; avremo infatti isotopi sia dell’idrogeno che dell’ossigeno e dunque oltre alle impurezze dovute alla presenza di gas disciolti o di ioni residui non tutte le molecole saranno veramente uguali; o meglio lo saranno nei limiti in cui la loro nuvola elettronica sarà sovrapponibile a quella dell’acqua “base”, diciamo così; ci sarà un certo effetto isotopico sia per l’idrogeno che per l’ossigeno con proprietà di reazione diverse. Saranno “quasi” uguali; saranno approssimativamente uguali; d’altronde ricordiamo che quando si analizzano le proprietà molecolari teoricamente si fa una approssimazione, nota come approssimazione di Born-Oppenheimer, che vuol dire considerare trascurabile il moto del nucleo che ha una massa molto grande rispetto a quella degli elettroni; questo aiuta a fare i conti ma anche a mascherare le differenze che dipendessero dal nucleo.

Ma anche se avessimo la possibilità di purificare una molecola come l’acqua al 100%, ottenendo solo atomi di H e isotopi dell’ossigeno 16, combinati tra di loro, (cosa che non siamo in grado di fare al momento) comunque avremo una differenza residua che riguarderebbe una percentuale elevata di molecole.

Infatti le molecole come l’acqua hanno che i nuclei dell’idrogeno, dotati ciascuno di un proprio vettore momento magnetico potranno avere i due vettori dei due idrogeni allineati od antiallineati, nel primo caso parliamo di orto-acqua e nel secondo di para-acqua; le due molecole sono interconvertibili, ma hanno proprietà leggermente diverse e sono separabili e si possono mantenere separate.

Una situazione analoga ma molto più evidente, tanto da dare problemi di accumulo, si ha con l’idrogeno, il semplice idrogeno. Ne abbiamo parlato qualche anno fa (https://ilblogdellasci.wordpress.com/2017/02/03/naturale-o-sintetico-note-sullidentita-chimica-1/).

Cosa possiamo concludere?

La nostra tecnologia chimica per quanto ormai basata su una enorme esperienza sperimentale e teorica non è in grado né di generare né di conservare sostanze totalmente pure; la nostra chimica è dunque una chimica approssimata, una “chimica della maggioranza” delle molecole, che riguarda la maggioranza delle molecole di una sostanza o al massimo il loro comportamento medio ma che trascura necessariamente effetti al di sotto di un certo valore critico. Le minoranze molecolari sono trascurate almeno in una descrizione di base.

C’è ancora spazio di progresso e anche enorme. Chissà cosa potrebbe fare (se ci fosse, se ci potesse essere) una chimica in grado di gestire purezze del 100%.

Il chimico analitico potrebbe commentare: Ogni metodo è caratterizzato da 5 grandezze: accuratezza, precisione, limite minimo di rilevabilità, sensibilità, selettività: si comprende facilmente come a seconda del metodo un’impurezza possa essere rilevata oppure no

Questo è giusto ma non cambia la situazione di fatto: la chimica moderna non è in grado di garantire sostanze pure al 100% e non saprebbe nemmeno dove conservarle. E’ in grado di arrivare fino ad un certo punto che dipende dallo sviluppo della tecnica analitica; ma ci sono limiti assoluti? Potremo mai avere una chimica analitica che discrimini la singola molecola?

D’altronde occorre ricordare che SE le molecole sono abbastanza grandi come accade per le proteine o gli acidi nucleici per esempio, questo limite critico è GIA’ stato raggiunto.

Nel recente libro (2018) Single Molecule Analysis – Methods and Protocols Second Edition Edited by Erwin J. G. Peterman si fa il punto sui metodi e le tecniche analitiche che almeno nel settore della biochimica consentono di operare su singole molecole di notevole dimensione. DNA, RNA, proteine possono essere analizzate individualmente usando microscopia a forza atomica o pinze magnetiche o ottiche

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Ma saremo mai in grado di farlo su piccole molecole?

Voi che ne pensate?

Si veda anche: