Nell’Antropocene, l’epoca geologica attuale fortemente caratterizzata dalle attività dell’uomo, la Chimica ha il compito di custodire il pianeta e aiutare a ridurre le diseguaglianze mediante l’uso delle energie rinnovabili e dell’economia circolare.
Le intelligenze artificiali scambiano enormi quantità di dati e per fare questo richiedono reti ultraveloci che consumano energia in misura crescente con il loro diffondersi: si pensi che dal 2017 al 2019 i modelli di rete neurale prevedevano 100 milioni di variabili ed oggi ne prevedono un miliardo e che è stato valutato al 10% dell’utilizzo mondiale di elettricità l’energia consumata dai Data Center, i sistemi dotati di intelligenza artificiale. Per progettare ed addestrare una rete neurale a trovare la soluzione si produce CO2 in quantità circa 5 volte maggiore a quella emessa in tutta la sua vita da un’autovettura e circa 50 volte superiore a quella emessa in un anno da un essere umano. La componente più rilevante si riferisce all’energia spesa per il raffreddamento dei sistemi di calcolo. Un altro aspetto riguarda l’impatto ambientale: questi processori potenti richiedono minerali rari estratti da miniere con conseguente distruzione del territorio e poi alla fine della loro vita smaltiti nell’ambiente costituendo un rischio al degrado.
Alla Sapienza di Roma un gruppo di ricerca guidato dal fisico Claudio Conti ha elaborato un sistema a favore della sostenibilità dell’intelligenza artificiale. Tale sistema si basa sulla fotonica in luogo dell’elettronica. La fotonica, nata negli anni 70, impiega raggi laser per tante applicazioni, dalla medicina alla matematica. Per alcuni anni i suoi costi elevati non la rendevano vantaggiosa rispetto alla elettronica, ma oggi non è più così: un raggio luminoso, in particolare i fotoni che lo costituiscono, sostituisce la corrente elettrica per elaborare e veicolare le informazioni, ad esempio un’immagine, codificate attraverso un modulatore di luce. La macchina fotonica può, analogamente a quanto avviene per l’elettronica, essere addestrata all’intelligenza artificiale (machine learning). I vantaggi principali del nuovo processore fotonico rispetto all’elettronico sono la superiore capacità elaborativa di informazioni in quanto i laser possono intrecciarsi e sovrapporsi senza interferenza di segnale e nel fatto che il fascio laser, al contrario della corrente, non scalda sprecando così energia: si valuta un’efficienza energetica superiore del processore fotonico rispetto a quello elettronico di circa 10mila volte. Infine se il raggio laser viene fatto propagare in aria non è necessario costruire una scheda di contenimento con un ulteriore vantaggio di semplificazione. Di fatto siamo dinnanzi ad una superintelligenza artificiale che non inquina.
Resta una domanda: avremo presto una delega totale all’algoritmo da parte del tecnico? Si tratta di una domanda particolarmente critica in certi settori, come la medicina.
Di recente di passaggio in un ospedale per la terza vaccinazione ho sentito un cittadino esclamare: non ho bisogno di un algoritmo, ma di un dottore. L’importante è non rinunciare da parte del tecnico ad un atteggiamento critico nei confronti della macchina, anche perché può sbagliare, come è ad esempio avvenuto nel caso dei veicoli a guida autonoma.
Questo atteggiamento critico però non deve cadere nell’errore opposto, lo scetticismo nei confronti di apparecchi che sono invece preziosissimi nella loro capacità elaborativa e nella velocità esecutiva. Il caso più noto è di certo il sequenziamento del genoma: milioni di dati che a mano non si potrebbero analizzare in modo compiuto. Si tratta non di una sostituzione degli esseri viventi, ma di un cambiamento dell’approccio, delle competenze, del modo di lavorare. Tornando da questo punto di vista alla medicina le direzioni future, quali la telemedicina, il tema è ormai solo quello di introdurre queste tecnologie all’interno degli ospedali e di gestire le ricadute organizzative. Un recente articolo su Nature dimostra che anche le politiche sanitarie risentono di questa svolta tecnologica: rispetto ad un incremento zero degli investimenti USA, c’è stato un aumento del 4,3% di quelli in telemedicina e sanità di precisione.
E questi dati non possono non faci porre una domanda: le risorse impegnate nelle intelligenze artificiali applicate alla telemedicina quanto possono essere considerate l’alternativa alla medicina del territorio le cui carenze si sono drammaticamente fatte sentire in occasione della pandemia?
La sua scoperta della struttura dell’adenina e della guanina è stata una parte fondamentale per risolvere il rebus della doppia elica del DNA, ma i suoi contributi sono quasi dimenticati.
June Broomhead (sposata Lindsey) è nata il 7 giugno 1922 da June Broomhead in un piccolo villaggio fuori Doncaster, nel Regno Unito. Alla sua scuola femminile, eccelleva nelle materie scientifiche. Tutti i suoi compagni di classe preferirono andare a Oxford e studiare i classici e argomenti del genere.
June Broomhead Lindsey in gioventù
Lindsey voleva studiare fisica. Qualcuno, forse sua madre Florence Broomhead, l’ha convinta a provare per Cambridge, un’università con esami di ammissione notoriamente difficili. “Anche la madre era una donna in anticipo sui tempi”, afferma la figlia di June, Jane Lindsey (una biostatistica presso la TH Chan School of Public Health di Harvard negli USA): “Suppongo che abbia instillato quel senso di indipendenza in mia madre, che l’ha portata a fare domanda a Cambridge per il suo talento“.
Dopo aver frequentato corsi di latino per soddisfare i requisiti di ammissione all’università, ha ricevuto un’offerta per studiare fisica a Cambridge con una borsa di studio completa.
Tuttavia, quando concluse la dissertazione nel 1944, ricevette un diploma, ma non una laurea completa. Prima del 1948, infatti, alle donne di Cambridge non era permesso ricevere lauree, un punto di vista antifemminista che l’università avrebbe impiegato 50 anni per correggere. Nel 1998, Lindsey e altre 900 donne l’avrebbero finalmente ricevuta in una sfarzosa cerimonia di laurea.
Durante gli ultimi anni della seconda guerra mondiale, Lindsey ha dovuto lasciare Cambridge e fare come le era stato detto. Ciò significava insegnare scienze in una scuola femminile, compensando la carenza di insegnanti di scienze che prestavano servizio nelle forze armate. Ma Lindsey tornò presto a Cambridge come ricercatrice per il dottorato. Fu convinta non solo perché le piaceva la fisica, ma perché lavorare con altri fisici dava più significato alla scienza, come scrisse all’epoca.
Nel 1945, Lindsey si unì al gruppo di cristallografia a raggi X di W.H. Taylor (1905-1984) presso il Cavendish Laboratory. Il dipartimento ospitava i più grandi nomi della cristallografia e di attrezzature all’avanguardia. Sotto la guida del pioniere della cristallografia Lawrence Bragg (1890-1971, Premio Nobel Fisica 1915), gli scienziati hanno puntato i raggi X su tutti i tipi di cristalli inorganici e organici. Ma la comprensione degli elementi costitutivi della vita – proteine e DNA – era al centro dei loro sforzi.
June Lindsey e colleghi al Cavendish Laboratory
Incoraggiata dal successo di Dorothy Hodgkin (1910-1994)[1] e Kathleen Lonsdale (1903-1971)[2], Lindsey decise che la cristallografia sembrava essere un argomento in cui le donne potevano prosperare. Nel 2019 ha ricordato:”Fui messa in una stanza con due uomini e mi sono state date le sostanze su cui lavorare – e ovviamente si trattava di adenina e guanina”.
Nel corso di quattro anni, si assunse l’arduo compito di coltivare cristalli di adenina cloridrato emiidrato e guanina cloridrato monoidrato, ispezionarne le facce e gli assi, disponendoli con cura nel fascio di raggi X ed esponendoli per giorni o settimane per ottenere un modello di diffrazione: una foto con uno schema che mostrava un modello regolare di macchie.
“Dovevo identificare da dove provenivano quelle macchie nel cristallo, quali piani stanno disperdendo i raggi X. Dovevo misurare l’intensità relativa di questi punti.” A quei tempi, l’unico modo per farlo davvero era a occhio, creando una specie di film cinematografico.
Fatto ciò, Lindsey dovette dedurre la struttura della molecola attraverso una serie di trasformazioni matematiche. Lindsey ricorda: “Stavo un sacco di tempo seduta alla scrivania facendo questi noiosi calcoli“. In assenza di computer digitali, infatti, trascorreva ore a calcolare le trasformate di Fourier con le strisce di Beevers-Lipson[3]. Per prima cosa avrebbe ottenuto una mappa di Patterson[4], in cui i picchi rappresentano i vettori tra gli atomi. “L’intera arte consiste nel capire quale tipo di modello darà origine a quell’insieme di vettori. Una volta scelto un modello, torni indietro e stabilisci quali dovrebbero essere tutte le fasi, quindi si ricalcolano di nuovo le mappe, mostrando infine la struttura effettiva.”
June Lindsey (da: The Globe and Mail)
Dal punto di vista odierno, quando la maggior parte del calcolo e dell’elaborazione viene eseguita dai computer, “è difficile apprezzare quanto fosse dura e ripetitiva la cristallografia”, scrive il chimico e storico degli strumenti Andrea Sella, “potevano volerci mesi o forse un anno”.
Tuttavia, Lindsey ha definito il laboratorio “un luogo felice”. Dice la figlia Jane: “Penso che abbia trascorso il periodo migliore della sua vita”. Nonostante sia una delle sole quattro donne tra 100 uomini al Cavendish, Jane afferma che Lindsey “non ha mai percepito che ci fosse alcun tipo di discriminazione”.
Nel 1949, lo stesso anno in cui Lindsey terminò il suo dottorato di ricerca, Francis Crick arrivò al Cavendish. Quattro anni dopo, lui e James Watson avrebbero pubblicato la struttura a doppia elica del DNA e nel 1962 la coppia avrebbe condiviso un premio Nobel con Maurice Wilkins per la loro scoperta (v. https://ilblogdellasci.wordpress.com/2021/12/31/i-retroscena-del-nobel-rubato-a-rosalind-franklin/).
Ma alla fine degli anni ’40, il team sapeva poco della struttura del DNA a parte i componenti di base della molecola: uno scheletro zucchero-fosfato e quattro diverse basi azotate (adenina, timina, citosina, guanina) tutte presenti in quantità uguali. Ora si trovavano di fronte al puzzle di come “legare” quattro basi di dimensioni molto diverse tra due filamenti di zucchero-fosfato paralleli senza che la struttura dorsale si gonfiasse e si deformasse.
È qui che entrano in gioco le strutture a nucleobase di Lindsey, pubblicate in due studi nel 1948 [1]. “Chiunque stesse lavorando sul DNA, cercando strutture, usava praticamente quelle di June“, afferma Alex MacKenzie, professore di pediatria e scrittore a Ottawa (CAN). Secondo il libro dello storico della scienza Robert Olby, The Path to the Double Helix, finalmente Watson ha capito consultando la tesi di Lindsey: “Lì, con suo stupore, ha trovato uno schema regolare di legami idrogeno tra le basi di adenina e guanina proprio il giusto ordine di distanza per alloggiare all’interno della sua doppia elica“, scrive Olby.
Poiché gli atomi di idrogeno erano – e sono tuttora – notoriamente difficili da rilevare mediante la cristallografia a raggi X, Lindsey si era spinta molto a lungo per descrivere i legami a idrogeno intermolecolari tra le coppie di ciascuna base azotata. Da ciò, aveva dedotto le posizioni degli atomi di idrogeno di ogni molecola e molto probabilmente la forma tautomerica.
Watson ha avuto l’idea “meravigliosamente semplice” che le catene di DNA contenessero coppie di basi simili, secondo lo storico della scienza Horace Freeland Judson nel suo libro L’ottavo giorno della creazione. L’accoppiamento di basi consentirebbe anche a una molecola di DNA di decomprimersi e fornirebbe un meccanismo per copiare le informazioni genetiche.
L’idea si è rivelata un po’ troppo semplice: ora sappiamo che le basi non formano coppie simili ma piuttosto coppie purina-pirimidina. Ma è stato un passo importante nella giusta direzione. Sebbene le opere di Lindsey non siano citate nell’influente articolo su Nature del 1953 di Watson e Crick, la coppia ha discusso del suo contributo in un articolo pubblicato dalla Royal Society un anno dopo.
Nonostante abbia lavorato nello stesso edificio di Crick per un anno, Lindsey non ricordava di aver mai parlato con lui direttamente. “Non avevo importanza, ero una donna noiosa“, ha detto. “Se volevano informazioni sul mio lavoro, dovevano andare dal mio collega Bill Cochran“.
Dopo aver terminato il dottorato, Lindsey si trasferì a Oxford, dove ha lavorato con Dorothy Hodgkin sulla struttura della vitamina B12. Ammirava molto Hodgkin, ma a volte trovava frustrante lavorare con lei: “passavo mesi e mesi a fare questi calcoli elaborati per arrivare al punto in cui poteva iniziare a cercare di capire la struttura fisica, e Hodgkin entrava, guardava l’immagine e capiva“.
Nel 1951, Lindsey si trasferì in Canada per raggiungere il marito George Lindsey[5]. Ha trovato lavoro presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche (NRC) a Ottawa, ma poiché era una donna, non è stata assunta come ricercatrice. “Doveva timbrare il cartellino all’ingresso – qualcosa che i suoi colleghi maschi che erano classificati come scienziati non dovevano fare – e aveva uno stipendio abissalmente basso”, dice la figlia Jane.
Al NRC, ha risolto le strutture di importanti farmaci, codeina e morfina. Tuttavia, ha deciso di non pubblicare i suoi risultati su quest’ultimo medicinale quando ha scoperto che Hodgkin aveva incaricato uno degli studenti del suo gruppo di Oxford di lavorare sulla morfina per la sua tesi di dottorato. Preferiva invece che lo studente utilizzasse e si basasse sui suoi risultati.
“Poi ero determinata ad avere figli e non volevo rimanere alla NRC”, ha ricordato Lindsey nel 2019. “Né credevo che se hai bambini piccoli, dovresti avere un lavoro a tempo pieno”. Lindsey non è mai tornata alla ricerca scientifica. “Penso che a volte fosse dispiaciuta di aver lasciato la sua carriera.[Il suo periodo di ricerca] è stato un periodo molto felice della sua vita”, afferma Jane. “L’importanza del suo lavoro potrebbe, ironia della sorte, non essere nota a June come lo sarebbe stata per molte persone”, sostiene MacKenzie.
June Lindsey a 96 anni
Il 4 novembre 2021, June Lindsey è morta all’età di 99 anni. Anche se il suo nome manca da molti libri di storia della scienza, ora potrebbe ricevere un piccolo riconoscimento poiché il Newnham College, il college di Cambridge dove ha studiato come studentessa universitaria, sta valutando l’installazione di una targa in suo onore. Potrebbe anche avere un cameo in un prossimo film biografico su Rosalind Franklin (v. https://ilblogdellasci.wordpress.com/2017/11/27/scienziate-che-avrebbero-dovuto-vincere-il-premio-nobel-rosalind-franklin-1920-1958/).
“Mi piacerebbe, in definitiva, che fosse conosciuta, per non parlare di targhe e premi”, ha detto MacKenzie in un’intervista per il giornale Ottawa Citizen. “Solo se, quando si parla della doppia elica, la gente fosse consapevole del suo contributo.”
Bibliografia
[1] J.M. Broomhead, The structures of Pyrimidines and Purines. II. A Determination of the structure of Adenine Hydrochloride by x-Ray Methods., Acta Cryst., 1948, 1, 324-329.
*Tradotto e adattato da Katrina Krämer, June Lindsey, another forgotten woman in the story of DNA., Chemistry World, 13 December 2021, e da Elizabeth Payne, Obituary:’Unsung hero’ of science laid the ground work for epic DNA discovery., Ottawa Citizen, November 18, 2021.
[1] Dorothy Mary Crowfoot Hodgkin (maggio 1910 – luglio 1994) è stata una chimica britannica, premio Nobel per la chimica 1964, ha avanzato la tecnica della cristallografia a raggi X per determinare la struttura delle biomolecole, che divenne essenziale per la biologia strutturale.
[2] Dame Kathleen Lonsdale (1903 – 1971) è stata una pacifista, riformatrice carceraria e cristallografa irlandese. Ha dimostrato, nel 1929, che l’anello benzenico è piatto utilizzando metodi di diffrazione dei raggi X. Fu la prima ad utilizzare i metodi spettrali di Fourier mentre risolveva la struttura dell’esaclorobenzene nel 1931.
[3] Le strisce di Beevers-Lipson erano un aiuto computazionale per i cristallografi nel calcolo delle trasformate di Fourier per determinare la struttura dei cristalli dai dati cristallografici, consentendo la creazione di modelli per molecole complesse. Sono state utilizzate dagli anni ’30 fino all’avvento dei computer con una potenza sufficiente che furono disponibili negli anni ’60.
[4] La funzione (o mappa) di Patterson viene utilizzata per risolvere il problema della fase nella cristallografia a raggi X. È stata introdotta nel 1935 da Arthur Lindo Patterson mentre era ricercatore in visita al MIT. È essenzialmente la trasformata di Fourier delle intensità piuttosto che i fattori di struttura. Le posizioni dei picchi nella funzione di Patterson sono i vettori della distanza interatomica e le altezze dei picchi sono proporzionali al prodotto del numero di elettroni negli atomi interessati.
[5]ll canadese George Lindsey, incontrato al Cavendish Laboratory quando entrambi stavano lavorando a un dottorato di ricerca. George stava studiando fisica nucleare. Un erudito, svolse lavori di difesa militare durante la Guerra Fredda.
Molte missioni sono attualmente in corso per l’esplorazione del pianeta Marte. Diversi robot sono sulla superficie del pianeta rosso per conoscerne la superficie. La Mars Science Lab dal 2011 con il rover Curiosity sta esplorando il suolo marziano, la missione successiva Mars 2020 con il rover Perseverance ha come obiettivi primari studiare l’abitabilità di Marte, investigare il suo passato e cercare tracce di eventuale vita biologica. Anche la Cina è presente con gli stessi scopi con la missione Tianwen-1. A queste missioni sono demandate molte delle risposte per organizzare una missione umana su Marte, ma anche per conoscere se in passato sia mai esistita qualche forma di vita e come essa si sia sviluppata. Eppure per avere maggiori conoscenze si affiancano ancora l’analisi dei campioni di meteoriti arrivati sulla Terra a seguito di impatti su Marte. Fra tutte le migliaia di meteoriti trovate sulla Terra ad oggi ne sono stati identificati 323 secondo la International Society of Meteoritics and Planetary Science [1]. I meteoriti sono raggruppati in 3 sottogruppi: shergottiti, nakhliti e chassigniti. Gli shergottiti sono rocce magmatiche di formazione recente (circa 180 milioni di anni) che, in base ai minerali che contengono e alla dimensioni dei cristalli, sono basaltiche, olivino-Phyric e Lherzolitiche. Le nakhliti sono anche esse rocce magmatiche ricche di augite, minerale della famiglia dei pirosseni, con cristalli di olivina formatesi a partire da magma basaltico circa 1,3 miliardi di anni fa. Simile età hanno anche le chassigniti . A questa classificazione sfugge il più famoso dei meteoriti ALH 84001 (Figura 1)., il quale presenta un tipo di roccia diverso dagli altri meteoriti marziani, composto prevalentemente da ortopirosseni del gruppo degli inosilicati.
Questo meteorite fu ritrovato in Antartide nel 1984 da ricercatori statunitensi impegnati nel progetto ANSMET. Si suppone che, in base alle ipotesi sull’origine di rocce extraterrestri, il frammento si sia formato a seguito di un catastrofico impatto meteorico su Marte durante il periodo Archeano, circa 4 miliardi di anni fa. Circa 15 milioni di anni fa, in conseguenza di un altro impatto meteorico, il frammento è fuggito alla gravità marziana per arrivare sulla Terra, approssimativamente 13’000 anni fa. Le datazioni sono state individuate mediante tecniche radiometriche basate sul decadimento del Samario in Neodimio (147Sm decade nell’isotopo radiogenico 143Nd messo in relazione con 144 Nd), sul decadimento del Rubidio in Stronzio (87Rb decade nel 87Sr la cui abbondanza è messa in relazione con l’isotopo 86Sr di origine nucleosintetica stellare), del Potassio in Argon (40K decade in 40Ar) e con il metodo del 14C. Al momento della scoperta pesava 1931 g [2].
Figura 1. IL meteorite ALH84001
Dal 1996 questo meteorite è al centro dell’attenzione mediatica poiché, come fu riportato in un articolo pubblicato da David McKay della NASA su Science, sembrava che potesse contenere tracce di vita marziana [3]. In particolare le possibili tracce di vita antica in ALH 84001 potevano essere in globuli carbonati arrotondati brunastri e chiari costituiti dai minerali carbonatici: siderite (carbonato di ferro, brunastro) e magnesite (carbonato di magnesio, trasparente), formati dopo la solidificazione del meteorite. Tre prove furono addotte: (1) la somiglianza dei grani minerali con alcuni prodotti dai batteri della Terra; (2) idrocarburi policiclici aromatici (IPA) che sarebbero potuti provenire da organismi decomposti; e (3) alcune formazioni che, per la loro morfologia, si riteneva potessero essere batteri fossili (Figura 2). Queste strutture, con un diametro compreso tra i 20 e 100 nanometri, erano simili a quelle dei nanobatteri terrestri, ma un ordine di grandezza più piccole di qualsiasi forma di vita cellulare conosciuta. La notizia trovò vasta eco sui mass media di tutto il mondo; fu persino annunciata ufficialmente dal presidente degli USA dell’epoca Bill Clinton che parlò di “una scoperta potenzialmente epocale”.
Figura 2 Immagine di microscopia elettronica dei globuli che mostrano una struttura a catena morfologicamente simile ad organismi di natura biologica (Immagine NASA)
Ma già l’anno seguente Becker et al. esaminarono gli IPA in un altro meteorite di origine marziana uno shergottite antartico EETA79001 [4]. Molti degli stessi IPA, rilevati nei globuli di carbonato di ALH84001, sono presenti sia nelle condriti carboniose delle Colline Antartiche di Allan, sia nella matrice che nella componente carbonatica di EETA79001. Gli scienziati conclusero che Il carbonato è un efficace spazzino di IPA nell’acqua di disgelo del ghiaccio antartico. La presenza segnalata di L-aminoacidi, di apparente origine terrestre, nel materiale EETA79001 suggerisce che questo meteorite sia contaminato con sostanze organiche terrestri probabilmente anche esse derivate dall’acqua di disgelo che era filtrata attraverso il meteorite. Quindi gli IPA osservati sia in ALH84001 che in EETA79001 derivano da un delivery esogeno di sostanze organiche su Marte o da IPA extraterrestri e terrestri presenti nell’acqua di disgelo o, più probabilmente, da un mix di queste fonti. Pertanto conclusero che gli IPA non siano biomarcatori utili nella ricerca di vita estinta o esistente su Marte.
Inoltre lo stesso gruppo ritrovò tracce di glicina, serina ed alanina successivamente, anche se non uniformemente distribuite [5]. Questi amminoacidi sembrarono essere di origine terrestre e simili a quelli del ghiaccio nella zona dell’Antartide di Allan Hills, anche se non si può escludere la possibilità che piccole quantità di alcuni amminoacidi come la D-alanina si siano conservate nel meteorite.
Il dibattito e gli studi su questo meteorite sono proseguiti negli anni e quasi 200 lavori in 25 anni dal 1994 al 2017 sono stati pubblicati sull’origine e la composizione chimica di ALH84001.
Una recentissima pubblicazione nei giorni scorsi sembra concludere definitamente questa vicenda dimostrando la formazione delle molecole organiche ritrovate a seguito di reazioni di Serpentinizzazione e Carbonatazione avvenuta su Marte [6]. La Serpentinizzazione è un sintesi abiotica organica nella quale una roccia basaltica come l’olivina (ortosilicato di magnesio e ferro), reagisce con una soluzione acquosa producendo minerali del serpentino, magnetite, e idrogeno secondo le due reazioni:
3Fe2SiO4+2H2O → 2Fe3O4+3SiO2+2H2
3Mg2SiO4+ SiO2 +2H2O → 2Mg3Si2O5(OH)4
L’idrogeno prodotto in questa reazione è poi disponibile per ridurre gli ossidi di carbonio acquosi in metano (via reazione di Sabatier o via reazione reverse water-shift) come pure in altri composti organici come acido formico e formaldeide. Il monossido di carbonio e l’idrogeno possono anche reagire via reazioni Fischer-Tropsch per produrre alcani ed altre molecole organiche, includendo composti organici azotati. I composti organici si trovano nella porzione di campione nella quale la magnetite coesiste con la fase talc-like, indicando che le reazioni della serpentinizzazione marziana è responsabile della reazione di formazione dei composti organici. Inoltre mostrano la presenza di magnetite in un’area contenente solo silicio amorfo, carbonati e carbonio organico indice di formazione della sostanza organica a seguito della reazione di carbonizzazione. Inoltre non è stato rilevato materiale organico in fessure o fessure al di fuori di tali assemblaggi minerali; pertanto, vengono scartate fonti esterne di materiale organico formato o trasportato nel campione da altre zone su Marte. Si può concludere che le molecole organiche si sono formate in situ durante le interazioni dell’acqua sulla roccia. Quindi questi due meccanismi potenzialmente distinti di sintesi organica abiotica operavano sul primo Marte durante il tardo periodo noachiano. Vengono scartate precedenti ipotesi, come processi biogenici, e decomposizione termica di siderite. Questi risultati fanno luce sulla formazione dei composti organici su Marte e forniscono elementi sulle prime reazioni di formazioni di composti organici anche per quanto riguarda la Terra.
3) David S. Mckay et al. Search for Past Life on Mars: Possible Relic Biogenic Activity in Martian Meteorite ALH84001 Science1996, 273(5277), 924-930. DOI: 10.1126/science.273.5277.924.
2) Becker L., et al. Polycyclic aromatic hydrocarbons (PAHs) in Antarctic Martian meteorites, carbonaceous chondrites, and polar ice. Geochimica et Cosmochimica Acta, 1997, 61, 475-481. https://doi.org/10.1016/S0016-7037(96)00400-0
3) J. L. Bada et al. A Search for Endogenous Amino Acids in Martian Meteorite ALH84001. Science1998, 279, 362-365. DOI:10.1126/science.279.5349.362
4) A. Steele, et. al “Organic synthesis associated with serpentinization and carbonation on early Mars” Science2022, 375(6577), 172-177. DOI: 10.1126/science.abg7905
L'indio è elencato dall'American Chemical Society come uno dei nove elementi “in via di estinzione” con una limitata abbondanza di circa 250 × 10–9% nella crosta terrestre.
Tuttavia, a causa della mancanza di una valida sostituzione, l'ossido di indio-stagno (ITO) è ancora il materiale preferito per molte applicazioni che richiedono elettrodi conduttivi trasparenti.
Una breve nota su come funziona ITO. L’ossido di indio-stagno (più precisamente ossido di indio drogato con stagno, soprattutto noto con l’acronimo ITO, dall’inglese Indium tin oxide) è una soluzione solida di ossido di indio In2O3 e ossido di stagno (IV) (SnO2), tipicamente in percentuale in peso intorno al 90% In2O3 e 10% SnO2. Esso è elettricamente conduttore e anche trasparente alla luce visibile; come mai?
Gli atomi In+3 nella struttura cubica tipo bixbyite nel In2O3 sono sostituiti con atomi di stagno. Lo stagno forma così un legame interstiziale con l’ossigeno ed esiste sia sotto forma di SnO che SnO2, presentando quindi rispettivamente una valenza +2 e +4. Questi stati di valenza hanno una diretta connessione con la conduttività finale dell’ITO.
Infatti lo stato di valenza più basso (+2) risulta in una netta riduzione nella concentrazione di ioni ossigeno negativi necessari a bilanciare le cariche positive (ce ne vorranno solo due invece di tre ogni coppia di atomi di indio sostituiti); la buca creatasi nella rete di ioni negativi consente la diffusione di questi ioni e dunque parte almeno della conducibilità elettrica (conducibilità ionica). Dall’altro lato una predominanza dello stato SnO2 si comporta come un donatore di tipo n (n sta per negativo) fornendo elettroni alla banda conduttiva (conducibilità elettrica). Dunque nell’ossido di indio-stagno sia lo stagno sostitutivo che la lacuna di ossigeno contribuiscono all’alta conduttività e il materiale potrebbe essere rappresentato come In2-xSnxO3-2x.
L’alta trasmittanza ottica delle pellicole di ITO è anche essa la diretta conseguenza dell’essere un semiconduttore la cui band-gap come si dice, ossia la differenza di energia fra banda di valenza e di conduzione è generalmente maggiore di 3,75 eV. Questo valore corrisponde alla finestra dell’ultravioletto (ma si sposta a più basse lunghezze d’onda con l’aumento della concentrazione di portatori di carica) lasciando libero il visibile.
Dunque ITO è un semiconduttore un po’ particolare e molto usato proprio per queste particolarità. Esso viene depositato su vetri normali in ragione di 20-150nm consentendogli di rimanere trasparente ma di acquisire conduzione elettrica; questo gli consente di essere usato sia nell’industria elettronica che in quella delle costruzioni (le grandi vetrate isolanti sono in pratica “gabbie di Faraday” per gli IR in entrata ed uscita anche se sono costituite di materiali leggermente diversi perché il film è ossido di stagno dopato con fluoro in ragione del diverso bandgap; fateci caso negli edifici con vetrate isolanti spesso il cellulare non riceve!!)
Gli autori del lavoro che presentiamo, membri della Queen Mary University e della Paragraf Limited, affermano: “A causa della sua importanza e scarsità, ci sono stati molti tentativi di sostituire ITO, ma fino ad ora nessun materiale è stato trovato con prestazioni paragonabili in un dispositivo elettronico o ottico“.
“Il nostro lavoro è il primo al mondo a dimostrare che il grafene può sostituire ITO in un dispositivo elettronico/ottico. Abbiamo dimostrato che un OLED al grafene ha prestazioni identiche a un ITO-OLED. Gli ITO-OLED sono ampiamente utilizzati come schermi a contatto sui nostri telefoni cellulari.“
Sfruttando il grafene monostrato di alta qualità depositato direttamente su un substrato trasparente utilizzando un sistema di deposizione di vapore chimico metallo-organico (MOCVD) disponibile in commercio, sono stati sviluppati diodi organici a emissione di luce (OLED) a base di grafene senza l'uso di catalizzatori metallici.
Il grafene viene modellato utilizzando la fotolitografia e la sua conduttività è migliorata drogandolo con acido nitrico prima della deposizione dello stack OLED. Le prestazioni ottiche ed elettriche degli OLED a base di grafene fabbricati sono identiche a quelle dei dispositivi di controllo con anodi ITO convenzionali.
2101675 (1 of 8) Wafer-Scale Graphene Anodes Replace Indium Tin Oxide in Organic Light-Emitting Diodes Zhichao Weng, Sebastian C. Dixon, Lok Yi Lee, Colin J. Humphreys,* Ivor Guiney, Oliver Fenwick, and William P. Gillin
Nell’arco di pochi anni dalla scoperta del grafene si sono sviluppati ormai metodi a basso costo per produrlo in ingenti quantità, in dimensioni macroscopiche ed usarlo in comuni applicazioni. Questo almeno in teoria consente di risparmiare elementi rari e difficili da estrarre.
Si tratta certamente di una scoperta molto utile e che crediamo potrebbe avere notevoli applicazioni anche nel campo energetico perché i materiali ITO sono usati in numerose applicazioni che hanno a che fare col risparmio energetico e la conversione dell’energia (es.: vetrate isolanti e celle fotovoltaiche).
Le persone vedono la ricerca scientifica in modo ambiguo, con sentimenti che vanno dalle più grandi speranze ai più profondi timori. Le speranze riguardano la possibilità che essa possa risolvere i problemi che affliggono il mondo, cioè che ci permetta di avere cibo sufficiente, farmaci per vincere le malattie e per vivere più a lungo, energia per alleviare la fatica e vivere in modo più confortevole e, infine, che protegga l’ambiente e ci difenda dalle catastrofi naturali.
Dall’altro lato ci sono i timori che nascono dalla convinzione che la ricerca scientifica possa diventare un potere pericoloso, spesso occulto, nelle mani di una minoranza di persone. Nel nostro mondo occidentale, forse, i timori prevalgono sulle speranze.
Consideriamo un esempio recente per trarne qualche spunto di riflessione. L’attuale pandemia COVID-19 sembra aver risvegliato l’interesse delle persone per gli scienziati che vengono continuamente interpellati. La diversità delle loro opinioni spesso disorienta la gente che vorrebbe certezze, rapide e immutabili; queste, però, non sono le caratteristiche della scienza, particolarmente nel caso di fenomeni nuovi come la presente pandemia. E’ proprio il confronto fra opinioni diverse che permette alla scienza di progredire e di trovare soluzioni, via via perfettibili, nei confronti dei problemi che si presentano.
È emblematico che in questo periodo abbia attirato l’attenzione dei mezzi di comunicazione un lavoro apparso su un sito on-line in cui gli autori formulavano l’ipotesi che il corona virus fosse stato creato intenzionalmente in un laboratorio. Questa è proprio la notizia che certe persone volevano sentire, per poi incolpare gli scienziati di complottare contro la società. Il fatto che quel lavoro sia stato ritirato dopo breve tempo dai suoi stessi autori è stato visto, da alcune persone, non come chiara indicazione del suo scarso valore scientifico, ma come dimostrazione che c’é una trama volta alla copertura della “vera verità”. Accusando scienza e scienziati, queste persone si sono sentite sollevate dalla responsabilità che, invece, ciascuno di noi ha per quanto è avvenuto. Infatti, studi scientifici seri indicano che il virus è passato da animali selvatici all’uomo a causa del nostro attuale e dissennato comportamento nei confronti del pianeta. I virus sono, in qualche modo, “profughi” della distruzione ambientale causata dalla aggressività dell’uomo. Stavano bene nelle foreste e nei corpi di alcuni animali, abbiamo offerto loro l’occasione di venire a moltiplicarsi nei nostri corpi.
Il COVID-19 ha messo in evidenza ancora una volta quanto sia importante fornire al cittadino basi scientifiche che lo aiutino a capire come funziona il mondo, a comprendere il lavoro degli scienziati e a comportarsi in maniera responsabile nei confronti del pianeta e delle future generazioni. Ha anche messo in evidenza quanto sia importante che la divulgazione scientifica sia seria, senza trionfalismi e al tempo stesso senza eccessivi allarmismi.
Nelle scorse settimane due casi si sono imposti all’attenzione della pubblica opinione mondiale in tema di scienza e applicazioni, entrambi negli USA ed entrambi hanno visto la condanna pesante in termini giudiziari di personalità osannate fino a poco tempo prima.
Si tratta di due casi relativamente diversi fra di loro in quanto a contenuto, ma che possono entrambi aiutarci non solo a riflettere sul mondo americano della ricerca, ma anche a comprendere meglio i meccanismi che in generale collegano la scienza ed il mondo economico e politico.
Entrambi questi casi hanno avuto grande risonanza anche su importanti riviste come Nature, ma molto meno sui giornali specie nostrani per i quali la Scienza è fondamentalmente spettacolo, non un mondo complesso da analizzare criticamente.
Dopo aver abbandonato nel 2004 la Stanford University, dove era studentessa di Ingegneria Chimica, Elizabeth Holmes, ispirata dalla sua stessa paura degli aghi, avvia un’azienda (NdA:la Theranos) all’età di 19 anni, con la missione di creare un’alternativa più economica ed efficiente a un esame del sangue tradizionale. La Theranos promette ai pazienti la possibilità di testare condizioni come il cancro e il diabete con poche gocce di sangue, attirando così centinaia di milioni di dollari in finanziamenti, da un consiglio di personaggi politici ben noti e partner chiave di vendita al dettaglio (fra di essi: Murdoch, Henry Kissinger, George Shultz (il segretario di Stato di Reagan), William Perry, il generale James “Mad Dog” Mattis.
Per oltre 10 anni le diagnosi della start-up miliardaria sono rimaste credibili, portando il valore della startup Theranos a quasi 10 miliardi di dollari, fino al 2015 (quando ricevette l’approvazione FDA per il test sull’Herpes) e alle domande scomode del biochimico Eleftherios Diamandis e all’inchiesta di John Carreyrou per il Wall Street Journal. Nell’articolo, Carreyrou scriveva, usando le testimonianze di alcuni dipendenti della startup, che la macchina innovativa per fare analisi a partire da una singola goccia di sangue – chiamata Edison, dal nome dell’inventore americano Thomas Edison – semplicemente non funzionava.
Diamandis scrive: La storia ha avuto un impatto negativo sulle nostre amicizie di lunga data e sui rapporti con molte persone, tra cui la dirigenza e molti membri dell'American Association for Clinical Chemistry (AACC), alcuni dei quali sono stati nominati consulenti esperti nel consiglio di Theranos. Alcuni editoriali che abbiamo scritto su Theranos sono stati sottoposti a Clinical Chemistry e ad altre riviste ma non hanno ottenuto un'elevata priorità per la pubblicazione. In un'occasione, il nostro lavoro è stato etichettato come "gossip", più adatto a un giornale scandalistico che a una pubblicazione scientifica di alto livello. Retrospettivamente, crediamo che un certo numero di importanti riviste di medicina di laboratorio, tra cui Clinical Chemistry, abbiano apparentemente giudicato grossolanamente la nuova tecnologia finora segreta che Theranos sosteneva di aver sviluppato. Le ragioni di questo errore di valutazione rimangono speculative.
Holmes e il suo ex socio in affari, Ramesh “Sunny” Balwani, sono stati accusati nel 2018 dal governo degli Stati Uniti di molteplici accuse di frode telematica e cospirazione per commettere frodi telematiche.
Il processo si è tenuto negli ultimi mesi del 2021; i due sono stati ritenuti colpevoli di alcuni degli 11 capi di imputazione, essenzialmente di truffa nei confronti degli investitori: di cospirazione per frodare investitori e di frode telematica legati a investitori specifici. È stata dichiarata non colpevole di tre ulteriori accuse riguardanti la frode di pazienti e un’accusa di cospirazione per frodare i pazienti. La giuria non ha emesso alcun verdetto su tre delle accuse relative alla frode agli investitori. Holmes rischia fino a 20 anni di carcere e una multa di $ 250.000 più la restituzione di ogni frode.
Anche la storia di Charles Lieber inizia molti anni prima. Lieber è un famoso scienziato, oltre 400 pubblicazioni, 50 brevetti, vincitore di innumerevoli premi internazionali, direttore del Dipartimento di Chimica e Chimica Biologica di Harvard. Il suo settore è quello al confine fra Chimica, Biologia, Elettronica, nanomateriali e nanoscienza per applicazioni potenzialmente rivoluzionarie. E il suo scopo dichiarato è vincere un Nobel.
Nel 2012 (sotto il presidente Obama che fu presidente dal 2009 al 2017) Lieber firma un contratto con le autorità cinesi di tre anni che gli garantiva uno stipendio mensile fino a 50mila dollari, cioè circa 44mila euro, oltre a un bonus da 158mila dollari e un finanziamento da 1,5 milioni di dollari per aprire un laboratorio a Wuhan, Cina. I procuratori dell’accusa hanno anche fatto notare che Lieber riceveva parte del suo stipendio in una valigetta piena di contanti, e che sia nel 2013 sia nel 2014 nella sua dichiarazione dei redditi non compaiono né il suo salario dall’università di Wuhan né l’indicazione di un conto aperto in una banca cinese.
La cosa rimane sotto copertura fino a quando diventa presidente Trump e attiva la cosiddetta China Initiative, una serie di dispositivi di legge e di attività che hanno lo scopo dichiarato di evitare che informazioni e competenze potenzialmente strategiche finiscano nelle mani della Cina.
Nell’ambito di questa operazione Lieber viene interrogato nel 2018 e nega i suoi rapporti con l’università di Wuhan ed anche i soldi ricevuti.
Harvard University professor Charles Lieber leaves federal court, Tuesday, Dec. 14, 2021, in Boston. Lieber is charged with hiding his ties to a Chinese-run recruitment program. His trial is the latest bellwether in the U.S. Justice Department’s controversial effort to crackdown on economic espionage by China. (AP Photo/Michael Dwyer)
La cosa viene scoperta e Lieber diventa il bersaglio di un attacco senza precedenti e di una causa che lo ha visto soccombere su alcuni dei capi di imputazione, che però sono fondamentalmente che egli abbia mentito sui suoi rapporti con i cinesi non che abbia passato segreti scientifici o militari o che abbia evaso il fisco (non finora perlomeno).
Dunque Lieber è stato condannato per cose che esulano da China Initiative, allo scopo si pensa di dare una lezione a tutti i suoi colleghi. Circa il 10% dei lavori pubblicati da americani sono insieme a cinesi; e China Initiative ha contribuito a far condannare decine di ricercatori di origine cinese, con un chiaro intento politico; e ha ridotto la voglia di collaborare fra gli scienziati dei due paesi; il tutto sta avvenendo in un quadro che oggi vede ancora un presidente democratico.
Ci sono state varie dichiarazioni di solidarietà con Lieber, ma Lieber è stato condannato per aver mentito al suo governo, non altro.
Cosa ci insegnano queste due storie?
Ci insegnano due cose: anzitutto anche gli scienziati sono umani, sono come tutti gli altri uomini, hanno i medesimi desideri di arricchimento che vengono da una cultura basata sul denaro e, secondo, che, al di là della onestà personale, la scienza che è oggi la PRINCIPALE forza produttiva del pianeta è frenata dai rapporti sociali che abbiamo. Il desiderio di guadagnare tanto e i conflitti politici ed economici fra diversi paesi rallentano ed impediscono quei rapporti e scambi che sono necessari per far crescere la scienza stessa, si trasformano in conformismo.
Conclusione: per far crescere veramente la Scienza (con la S maiuscola) ci vogliono rapporti umani diversi; anche la pandemia con la incapacità di vincere i legami dei brevetti perfino in una condizione di enorme difficoltà umana, dimostra che questa organizzazione sociale basata sul mercato e il denaro e la crescita infinita è un vero legaccio, un vero intoppo per il nostro sviluppo di specie. Abbiamo bisogno di una politica “di specie” che ci riaffratelli per quello che siamo: una piccola scimmia priva di pelo abbandonata su una piccola astronave in viaggio in uno spazio infinito.
Molto si muove sull’energia purtroppo con una permanente incertezza fra dichiarazioni ed atti concreti. Prima della pausa di fine d’anno la Commissione Europea ha stabilito il Ranking delle fonti di energia sostenibili ai fini delle precedenze negli investimenti finanziari. In questo Ranking troviamo anche il nucleare ritenuto importante per ridurre l’effetto serra.
Nel Consiglio Europeo, dove siedono i rappresentanti degli Stati membri si è anche sbloccato il primo atto delegato sul tema tassonomia, documento che ricomprende le attività che danno un contributo sostanziale alla mitigazione ed all’adattamento ai cambiamenti climatici, tenuto finora fermo proprio a causa del braccio di ferro sull’inserimento del nucleare ed anche del gas come fonti utili alla transizione verde.
Il presidente della Commissione Ambiente del Parlamento Europeo ha illustrato la formulazione di compromesso: ok alle centrali a gas se sostituiscono un impianto a carbone e se emettono meno di 270 g di CO2 per kilowattora in media ed a quelle nucleari previa presentazione di misure per ridurre i rischi ambientali delle scorie.
Anche nel nostro Paese intorno alle energie alternative si sta sviluppando il dialogo fra ricerca ed economia. Cito l’esempio recente di SNAM che ha ottenuto buoni ritorni sul mercato dopo la promulgazione del piano di sviluppo nel campo energie alternative.
In particolare è l’idrogeno verde il settore sul quale si sono registrati ritorni di immagine e soprattutto di valore commerciale e di mercato.
SNAM dichiara di puntare ad un abbattimento totale della produzione di CO2 negli anni 2040 e porta a sostegno della serietà del suo impegno alcune situazioni dell’azienda; innanzitutto il fatto di essere già leader in Europa per differenti indici
– la riduzione delle emissioni dei fornitori
– il peso della finanza green nel 2025 dentro il suo funding,
– il dato degli investimenti nella transizione ecologica, 8 miliardi, cioè il 30% del valore delle opportunita
– gli investimenti entro il 2040 e non ultimo
– il partenariato industriale con De Nora la cui vivacità è dimostrata dalle joint venture internazionali firmate, (in particolare quella al 35% con un’azienda tedesca la Uhde ChlorineEngineers), dai solidi rapporti con il sistema bancario e dal ricco patrimonio brevettuale
I campi principali di intervento della De Nora che ne agevolano la corsa alle quotazioni in borsa sono le tecnologie elettrochimiche applicate al trattamento delle acque, ma che possono essere strategiche rispetto alla produzione di idrogeno verde, in relazione ai materiali elettrodici di cui De Nora è innovativa produttrice.
Il nodo è però un altro: quanto la ricerca dell’immagine e del ritorno di mercato resti documentazione e dichiarazioni a scapito di una chiarezza operativa con tempi e scadenze non tanto riferite ai traguardi finali ma agli step di avvicinamento ad essi.
Un altro nodo è il futuro della Sardegna. SNAM vuole metanizzarla, mentre Enel vorrebbe sviluppare in Sardegna le rinnovabili e la rete elettrica. E’ uno scontro decisivo. Quanto al cane a sei zampe, da alcuni anni la pubblicità di ENI mostra l’evoluzione del cane, attraverso varie fasi e vari colori: nero, giallo, blu, tricolore, bianco, fino al verde :già questa evoluzione di facciata -ENI publicizza ora anche ENI Cafè-alimenta dubbi circa la sua corrispondenza ad un’evoluzione programmatica ed operativa.
Indubbiamente gli anni passati sui banchi e negli eventuali laboratori all’Università, plasmano gli studenti in modo diverso da Facoltà a Facoltà.
Vi sarà capitato di sentir ripetere spesso da un Avvocato “Dove sta scritto?”, magari parlando del più e del meno. Per un avvocato infatti la verità non è quella che percepisce, ma quella desunta da un Codice o da una sentenza pregressa. Se non è scritto non è dimostrato!
Molto meno spesso avrete sentito pronunciare numeri da un Medico. Generalmente il Medico esprime valutazioni qualitative: “Molto, poco, abbastanza, quanto basta, il tempo necessario e così via”. Pochi numeri e molti pareri.
Al contrario un Ingegnere tende a dare una misura a tutto, a calcolare ogni cosa e magari valutare spesso l’aspetto strutturale.
Mai ad un Ingegnere sareste riusciti a far dichiarare morto il Covid alla vigilia della seconda ondata pandemica. Un Ingegnere ed in genere chi ha solide basi scientifiche, dà molta importanza ai numeri e ai dati di cui dispone. Se non ne ha a sufficienza sceglie di non esprimersi.
Anche non esprimere un parere è di per sé un parere: vuol dire che non si hanno abbastanza dati, e derogare da questo principio rivela scarso rigore scientifico.
Oltre agli Avvocati, i Medici e gli Ingegneri, anche i Geologi o gli Economisti o altri laureati sono distinguibili fra loro dal modo di esprimersi.
E un Chimico come si riconosce? Dal comportamento: basta dargli in mano qualcosa di sconosciuto ed il Chimico, dopo averla guardata, magari anche controluce, se la porterà al naso. Il Chimico cerca di capire cosa c’è dentro. Non è solo questione di farci un’analisi, ma di cercar di capire quel che non si vede da fuori.
È chiaro che questa descrizione quasi caricaturale delle diverse sensibilità dei nostri laureati non è generalizzabile perché esistono Medici che conoscono bene la matematica ed Ingegneri che conoscono la chimica meglio di un Chimico, ma queste conoscenze non nascono solo dall’istruzione universitaria, bensì da approfondimenti successivi alla laurea.
I Professionisti laureati.
Finita l’Università ogni Laureato, con il suo imprinting dato dagli studi che ha fatto, entra in una specie di Corporazione che gli consente di lavorare per quel che ha studiato e che impedisce per legge agli altri di farlo. Un Avvocato compie a volte atti puramente burocratici che quasi tutti potrebbero fare, ma che per legge sono di sua esclusiva competenza; un Perito chimico, che conosce l’Analitica strumentale altrettanto bene di un Dottore in Chimica, non può firmare le analisi; senza essere Farmacista non si possono leggere le ricette e consegnare le relative medicine; un Geometra non può firmare alcune pratiche alla sua portata, ma che sono prerogativa dell’Ingegnere; un Infermiere non può sostituire il medico neppure in operazioni elementari, tant’è che un Assessore regionale dell’Emilia Romagna, Medico, è stato radiato dal suo Ordine per aver consentito la presenza di soli infermieri nelle ambulanze.
Ogni Corporazione difende i propri aderenti da invasioni di campo aliene, ma questo comportamento rende difficoltosa l’osmosi del “sapere” fra una Corporazione e l’altra cosicché si perdono potenziali sinergie che potrebbero migliorare notevolmente il lavoro di entrambe le parti interessate a tutto vantaggio della Collettività.
Ogni componente di una Corporazione diffida del sapere degli altri professionisti e tende a non confrontarsi con loro, anche perché si sentirebbe o darebbe l’impressione di essere, meno competente.
L’Ingegnere ed il Chimico.
Lasciando da parte gli esempi della Medicina, dove alcuni comportamenti rasentano una vera e propria liturgia e degli altri casi citati, esaminiamo quel che succede fra un Ingegnere ed un Chimico, in particolare un Chimico Industriale.
L’Ingegnere ha dalla sua tutta una legislazione, una prassi ed una solidarietà professionale che ne fanno l’indiscusso dominatore nel campo delle costruzioni ed è un bene che sia così perché solo ad Ingegneria se ne studia ad alti livelli la scienza, ma ci sono culture che possono, anzi devono, esprimersi durante l’attività della progettazione. Per esempio la cultura chimica che gli Ingegneri possiedono in genere molto più marginalmente di un Chimico vero e proprio. Vediamo qualche esempio di vita vissuta fra cantieri e fabbriche.
L’acqua della pampa argentina.
Ero in Argentina, qualche decennio fa, in un paesotto di 20.000 abitanti, nella pampa sconfinatamente piatta: Venado Tuerto. Non ci sono fiumi nella pampa perché, in assenza di pendenze, non saprebbero dove andare. Ci sono solo stagni e laghetti visibili quando piove e che scompaiono man mano che l’acqua viene assorbita dal suolo od evapora.
A Venado Tuerto, come in molta parte della pampa argentina, i pascoli, i campi e tutto ciò che si vede, poggiano su un acquifero costituito da uno strato di sabbia, ghiaia, terriccio spesso quasi 200 metri sotto al quale inizia uno strato di argille impermeabili. La falda acquifera, alimentata dalle piogge, si sposta verso il mare con movimento lentissimo: è praticamente ferma.
Non essendoci pendenze non ci sono fogne perché persino la fogna più piatta ha pur sempre bisogno di una anche minima pendenza per poter funzionare, ma in quella zona della pampa non c’è possibilità di alcuna pendenza ed il fiume più vicino dista 170 chilometri. In pratica, sotto il profilo del bilancio idrico, quel paesotto era un sistema quasi del tutto chiuso. Per risolvere il problema degli scarichi fognari qualche progettista a digiuno di chimica puntò sui pozzi disperdenti. In pratica gli scarichi fognari venivano lasciati percolare nell’acquifero puntando sul fatto che, prima di arrivare alla profondità di emungimento dei pozzi per l’acqua potabile, l’acqua di fogna si sarebbe in qualche modo depurata. Così è successo per decenni e Venado Tuerto alimentava il suo acquedotto con acqua presa a -150 metri mentre gli scarichi erano praticamente a piano campagna; in quei 150 metri l’acqua di fogna, percolando nall’acquifero, perdeva i solidi sospesi, le sostanze organiche venivano digerite da microorganismi, i solfati ed i fosfati precipitavano a composti insolubili e l’Azoto, prima o poi diventava gassoso. Infatti, come ogni Chimico sa anche “ad orecchio”, i sistemi chimici evolvono spontaneamente verso composti meno solubili, meno dissociati e più volatili. Questo concetto per un Chimico fa parte perfino dell’inconscio perché deriva da dimostrazioni termodinamiche o da esperienze nei laboratori di analitica inculcate da più di un esame.
A differenza dell’Ingegnere un chimico si sarebbe anche chiesto che fine avrebbero fatto i cloruri perché, a parte quelli del primo gruppo in Chimica analitica qualitativa (da escludere per ovvie ragioni), i cloruri sono tutti solubili.
Per quanto attiene la precipitazione dei metalli durante la percolazione nell’acquifero si può fare lo stesso ragionamento: molti vengono insolubilizzati, ma alcuni ed in primo luogo il Sodio, restano in soluzione.
In pratica ad ogni giro l’acqua di Venado Tuerto, che era praticamente sempre quella, si arricchiva di Sodio e di cloruri i quali sono molto reattivi e piano piano ha cominciato a portare in soluzione elementi contenuti nelle rocce dell’acquifero, come l’Arsenico, che l’acqua iniziale non riusciva a sciogliere: all’aumentare della salinità aumentava anche la concentrazione di Arsenico nell’acqua potabile ed i casi di patologie ad esso collegate erano ormai non tollerabili.
Chiamato a suggerire una soluzione, alla mia domanda del perché di una scelta così sciagurata come i pozzi disperdenti l’Ingegnere capo del comune mi rispose che anche le autorità mediche non avevano trovato da eccepire circa la soluzione adottata dall’Ufficio tecnico comunale. Infatti per decenni il sistema ha funzionato: cercavano germi patogeni e controllavano la carica batterica, senza neppur sospettare quel che li aspettava. Evidentemente a Venado Tuerto scarseggiavano i Chimici o erano inascoltati: un loro coinvolgimento avrebbe evitato parecchi guai sia agli ingegneri sia ai medici, ma soprattutto agli abitanti. Bastava considerare l’evoluzione dell’indice di SAR o qualcosa di simile per prevedere quel che sarebbe successo nel tempo alle rocce dell’acquifero, ma nessuno ha avuto la sensibilità scientifica necessaria.
Uno zuccherificio molesto ed una discarica pericolosa.
Un altro esempio di scarsa collaborazione fra il Chimico pratico di industria e l’Ingegnere mi è capitato in Italia, in uno zuccherificio vicino ad una città del nord.
Accanto allo zuccherificio erano stati costruiti una decina di grossi bacini destinati a contenerne gli scarichi idrici prodotti durante i tre mesi della campagna bieticola. Tali scarichi venivano poi per tutto l’anno inviati al depuratore biologico delle acque reflue; in questo modo era sufficiente dimensionare l’impianto di depurazione sulla portata media annuale anziché quella trimestrale: quattro volte più piccolo.
In uno zuccherificio lo zucchero contenuto nelle barbabietole viene estratto con acqua calda e per facilitarne l’estrazione le barbabietole stesse vengono preventivamente ridotte in listarelle. Dopo l’estrazione il sugo zuccherino viene inviato alle lavorazioni successive mentre quel che resta delle listarelle costituisce le cosiddette “polpe”, cioè pezzetti di bietola esausta che venivano una volta impiegate per l’alimentazione del bestiame, ma che, a causa del loro scarso potere nutritivo, sono state progressivamente abbandonate, diventando quindi un rifiuto da smaltire.
Poiché ogni smaltimento ha un costo, il direttore di stabilimento pensò bene di buttare le polpe nelle vasche di polmonazione ancora vuote, contando sul fatto che il sole estivo le avrebbe fatte seccare prima del riempimento con gli scarichi idrici.
Così successe, ma quando si cominciarono ad inviare gli scarichi idrici sopra le polpe essiccate, queste ultime andarono in putrefazione e presero ad emanare un fetore avvertibile a chilometri di distanza. L’aggiunta di calce, che al tempo consigliai, ha tamponato temporaneamente il fenomeno della puzza, ma ormai la frittata era fatta. Anche in questo caso un professionista dotato di un minimo di cultura chimica avrebbe previsto quanto sarebbe successo bagnando le polpe essiccate, ma i chimici nello zuccherificio sono in genere tutti nel laboratorio analisi bietole e le scelte di processo demandate al capofabbrica, in questo caso un Ingegnere meccanico.
In un caso simile mi imbattei quando la Società per la quale allora lavoravo propose di trattare i Rifiuti Solidi Urbani di una grossa città del sud con calce, prima dell’interramento in discarica. Il progettista, in questo caso, ahimè, un Ingegnere chimico, contava sul fatto che questo pretrattamento con calce avrebbe permesso lo smaltimento in discarica, vietato al rifiuto tal quale, e che la sterilizzazione dovuta all’azione della calce, avrebbe reso inerte il rifiuto per sempre. Invano cercai di spiegare che prima o poi la forte alcalinizzazione sarebbe stata neutralizzata e che la CO2 prodotta avrebbe vieppiù consumato calce e risuscitato la putrefazione della sostanza organica. Non fui ascoltato, anzi trattato quasi da saputello menagramo, ma sto aspettando che si verifichi quanto avevo previsto. È solo questione di tempo perché nella “pancia” della discarica è presente un sistema chimico estremamente complesso nel quale avvengono le più disparate reazioni le quali inesorabilmente tendono a smussare le eccessive acidità o alcalinità ed a ripristinare il decorso naturale della decomposizione delle molecole organiche più grandi in sostanze a sempre minor peso molecolare.
Calcestruzzo armato, ma indifeso.
L’ultimo esempio riguarda un’isola del Mediterraneo dove è stato costruito, intorno al 2010, l’impianto di depurazione degli scarichi fognari. Si tratta di un impianto che, sfruttando sempre l’attività dei cosiddetti fanghi attivi, utilizza però un sistema chiamato “biofiltrazione”, una complicazione impiantistica utile più che altro alle grosse ditte costruttrici le quali possono brevettare queste tecniche mettendo fuori gioco la concorrenza.
In quell’isola non facevo più il Chimico, ma ero Amministratore Unico della Società di scopo costituita per l’esecuzione dei lavori in JV con un socio non italiano.
Le strutture dell’impianto erano quasi tutte di calcestruzzo armato, materiale che ho sempre guardato con sospetto. Anche prima del ponte Morandi. Il sospetto deriva dal fatto che, per una ragione o per l’altra, un’opera in c.a. ha sempre qualche difetto perché per una buona riuscita devono essere eseguite alla perfezione troppe operazioni. Oltre ad una buona progettazione si deve utilizzare cemento adatto all’impiego che se ne fa, si devono dosare nella giusta quantità i componenti della malta (il mix design), si deve utilizzare acqua con pochi sali disciolti, si deve usare ferro adatto per le armature le quali devono essere distanziate dalla cassaforma, i ferri devono essere ben legati, il getto vibrato per evitare la formazione dei vespai, ma non troppo per evitare la stratificazione nella malta, dopo il getto si devono evitare temperature troppo rigide o troppo alte, il getto va bagnato per evitare che si surriscaldi . . .: è praticamente impossibile che tutti i 290 muratori impiegati in quel cantiere come subappaltatori non abbiano “velocizzato” qualche operazione, magari d’accordo con il caposquadra-padroncino e che tutti abbiano preso le necessarie precauzioni circa la qualità dell’acqua e del cemento. Neppure una Direzione Lavori poliziesca avrebbe potuto evitarlo completamente.
Fatto sta che dopo qualche tempo dalla posa, una piattaforma di c.a. la quale era destinata ad essere sempre sommersa, mostrava evidenti segni di corrosione. Informato del problema, ho metaforicamente indossato di nuovo il mio vecchio camice ed ho fatto segretamente eseguire un’analisi chimica sul calcestruzzo dalla quale è emerso che era stato usato cemento con pochissimi ossidi di Ferro e di Alluminio. Questi ultimi sono quelli che rendono “idraulico” il cemento, cioè lo rendono più adatto alla presa in presenza di acqua. La quasi totale assenza di Ferro e Alluminio rendeva il cemento usato più simile ad un legante aereo che non ad un legante idraulico e quindi la piattaforma deteriorata non era adatta all’uso sott’acqua. Naturalmente non resi pubblica la cosa perché il subappaltatore che aveva usato cemento inadatto, era di nostra competenza in quanto costruttori delle opere civili, ma evitai comunque di perdere altro tempo a scervellarmi circa l’origine del problema, cosa che non fecero i nostri soci stranieri ai quali, per interesse di parte, non potei essere di alcun aiuto. Sarebbe bastata da parte loro una conoscenza, anche superficiale, dell’esistenza dell’Indice di Idraulicità dei cementi.
Un auspicabile ritorno al passato.
Questi esempi, che fra i tanti ho citato, dimostrano, secondo me, la necessità di avere una professionalità che faccia da cuscinetto fra il Chimico e l’Ingegnere chimico: il primo conosce meglio la Chimica ed il secondo è pur sempre un Ingegnere portato a valutare più l’aspetto strutturale che quello chimico.
Questa esigenza era stata avvertita cento anni fa dall’Ingegner Toso Montanari il quale rese possibile la fondazione a Bologna della Scuola superiore di Chimica Industriale che doveva appunto sfornare tecnici con una preparazione intermedia fra la Chimica e l’Ingegneria chimica, fra la conoscenza scientifica e quella tecnica in campo chimico. Chi usciva da quella Scuola poteva indifferentemente svolgere la professione di Ingegnere o di Chimico perché le materie ingegneristiche, come ha ben relazionato il Ch.mo Prof. Ferruccio Trifirò in occasione del centenario della Scuola, erano lì insegnate agli studenti in modo ben più approfondito di quanto non lo siano ora nella Facoltà di Chimica Industriale.
Purtroppo fra le due anime della Scuola, quella chimica e quella ingegneristica, prevalse quella chimica e così la Facoltà di Chimica Industriale, erede della primigenia Scuola, divenne simile a quella di Chimica a Scienze, magari con una maggior propensione alla Chimica Organica per la quale divenne un punto di riferimento internazionale. Ma non era questo l’auspicio iniziale.
Sono fermamente convinto che sarebbe tempo di riesumare l’intuizione dell’Ing. Toso Montanari e di ripristinare una Facoltà di Chimica Industriale, sulla traccia della centenaria Scuola superiore di Chimica Industriale, nella quale lo studio del Disegno, della Fisica tecnica, di Meccanica e macchine, della Termodinamica industriale e degli Impianti chimici sia più approfondito di adesso.
Il recente cambiamento nell’Ordine professionale dei Chimici che ci ha ridotti ad Operatori Sanitari dipendenti dal Ministero della salute, è vissuto come un’onta da chi, come me, ha passato cinquant’anni a progettare, realizzare e gestire Impianti chimici con grandi soddisfazioni professionali, come dimostrano anche i pochi esempi che ho sopra descritto.
*Danilo Tassi, Chimico industriale.
Nato a Brisighella (1947), laureato nel febbraio 1972 in Chimica Industriale a Bologna discutendo una tesi poi pubblicata, Danilo Tassi è stato prima ricercatore e poi progettista e direttore tecnico di grandi impianti industriali e di depurazione sia nel settore pubblico che privato ed ha anche pubblicato lavori su temi relativi al trattamento delle acque.
Sulla fine di questo anno appena trascorso che, con discrezione, ha celebrato i settecento anni dalla morte del Sommo Poeta, vale la pena di ripercorrere, almeno a volo d’uccello, quel canto della Commedia – corrispondente alla cerchia di Malebolge – dedicato ai “falsatori”. Come mai accanto a Ulisse troviamo gli alchimisti – “falsatori”, appunto, “di materia” e padri di quella disciplina che, meno esoterica, divenne la chimica che conosciamo – ce lo spiega, con dovizia di dettagli, quel grande esegeta che fu Vittorio Sermonti. Secondo un’interpretazione piuttosto unanime infatti, Dante crea una sorta di tassonomia trasversale che raccoglie insieme categorie all’apparenza disparate come, appunto l’Ulisse che ben conosciamo (reo di aver istigato i suoi a seguirlo nell’ultimo viaggio oltre le Colonne d’Ercole), i seminatori di zizzania e costoro che sembrano avere il potere di mutare la materia. La spiegazione di Sermonti, che per noi si fa “meta-Virgilio”, cui volentieri stiamo dietro e senza la quale il Poema (che ingloba in sé così tanti e disparati registri giustapposti – cultura ‘alta’ e ‘bassa’, prestiti da greco, latino e provenzale accanto a termini che arrivano dalle parlate regionali[1], miti classici ed eventi di personaggi minori coevi al poeta ) ci risulterebbe a tratti caotico e incomprensibile.
Insomma, Dante e Virgilio hanno appena lasciato il cerchio di Malebolge più splatter che possiamo immaginare: le persone che hanno alle spalle e con cui il poeta ha scambiato brevi battute – tra i quali niente meno che il profeta Maometto – sono letteralmente divise in due, aperte a fil di spada da un diavolo esecutore della volontà divina (perché in questo poema tutto è congegno divino, compreso l’Inferno) per la ferrea (e veterotestamentaria, verrebbe da dire) legge del contrappasso. Costoro sono artefici di scisma storici (l’Islam e il suo “derivato” sciita) e quindi vengono letteralmente scissi, costretti a trattenere con le mani le interiora mentre si rivolgono ai due poeti-pellegrini. Raccapricciante.
Con questo raccapriccio la discesa verso Cocito prosegue appunto per incontrare altre anime dannate, quelle dei “falsadori” o “falsatori di materia” per mezzo dell’alchìmia. Anche qui il contrappasso non ha bisogno di spiegazioni: hanno mutato la materia e i loro corpi vengono mutati, contraffatti in eterno e infatti si presentano ai due viaggiatori come ricoperti da orribili croste, bolle e piaghe che suppurano. Ma c’è un problema: perché condannare costoro? Di quale colpa così grave si sono macchiati?
Proviamo a seguire il filo del ragionamento che il nostro meta-Virgilio Sermonti propone. In via di principio – dice Sermonti – l’«alchimia naturalis», l’insieme cioè delle procedure chimiche intese all’estrazione laboratoriale di metalli nobili da minerale grezzo, era legittimata dalla dottrina di Tommaso d’Aquino, tanto più che il suo maestro – Alberto Magno, eruditissimo in materia – aveva scrupolosamente descritto e decantato la «coppellazione», capitale fra quelle procedure.
Condannate, viceversa, erano le pratiche finalizzate ad adulterare per lucro la struttura chimica dei metalli nobili, che Tommaso stesso rubricava come «alchimia sophistica». E qui, aggiungiamo noi, si intravvede il lume morale della condanna estendersi all’indietro – almeno fino al terzetto dei filosofi che hanno fondato il pensiero Occidentale (Socrate, Platone, Aristotele). Costoro infatti non solo distinguevano tra filosofi e sofisti (quindi tra filosofia e sofistica), ma dichiaravano nobile la prima condannando senza appello la seconda, come arte indirizzata a cumulare denari e non a conoscere la verità. Insomma i sofisti, imparentati con quelli che adesso potrebbero essere mutatis mutandis i nostri avvocati, non erano visti molto di buon occhio, così, come sembra, non lo fosse neppure questa forma di alchimia, che spedisce dritti all’Inferno – e anche piuttosto vicino a Lucifero – coloro che la praticavano.
Ma come si arriva fin qui? In via di fatto gli oscuri rituali del laboratorio alchimistico e l’indecifrabile codice ermetico che li occultava, non tardarono ad attirare la diffidenza degli inquisitori di Santa Romana Chiesa, per modo che, sul finire del Duecento – ricordiamo che dall’area arabo-ispanica l’alchimia si era diffusa nell’Occidente cristiano in pochi decenni – riprovazioni, interdetti e roghi ecclesiastici cominceranno a interessare l’intera categoria e il nome stesso di alchimista. Suggestione estemporanea – che suggestione è e rimane, perché di certo non sappiamo se sia lecito calarla nella realtà storica cui abbiamo appena fatto cenno – è quella della celebre “terza legge” di Clarke, secondo la quale «qualunque tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia», dove qui “tecnologia” può essere però sinonimo di scienza o anche solo di tecnica. Tanto bastava per insospettire le gerarchie ecclesiastiche, in un’epoca di “facili piromanie” che si estenderanno fino almeno a Galileo.
Sia come sia: la bolla papale che proibisce l’esercizio alchemico sotto qualsiasi forma arriva solo nel 1317, ma la Commedia, lo sappiamo, è un viaggio (retrodatato) che ha inizio nell’anno 1300 e per la precisione la notte del Venerdì Santo. Benché quindi la scomunica ufficiale arrivi appunto solo diversi anni dopo, il fatto che gli alchimisti ben prima finissero per essere sospettati di connivenza con il demonio, prova l’efficacia delle loro operazioni clandestine. Insomma, bruciandoli vivi, la Chiesa si adopera in realtà a purificare la cristianità da una setta diabolica di manipolatori del mondo minerale, non a sgomberarla da qualche ciarlatano.
Ma Dante? Di tutto questo cosa ne pensava Dante? – che, non dimentichiamolo, era un cristiano osservante, così come lo fu Galileo. Seguiamo ancora Sermonti-Virgilio.
In mezzo al mare di ipotesi che si sono fatte in 700 anni una cosa parrebbe certa: che la condanna alla scabbia eterna perpetui la sentenza capitale emessa dai tribunali ecclesiastici. Certezza minima, per altro non facile da conciliare con la frequente constatazione che, tanto nelle sue radici fisiche (che rimontano alla dottrina aristotelica dei metalli), quanto nelle copiose e variegate ramificazioni cosmologiche e antropologiche (derivate dalla simbologia meta-sperimentale degli Arabi), il magistero alchemico, o «ars regia», complemento terrestre del sapere astrologico e di altre matematiche celesti, occupa nell’universo speculativo e fantastico del più grande poeta cristiano uno spazio non marginale.
Dilatarlo a lume di naso, sull’onda dell’esoterismo di massa che imperversa di questi tempi, non costa e non vale nulla. Ma anche tentare di definire tale magistero alchemico e suoi addentellati con inequivoca precisione, richiederebbe una vita, e non è detto che la nostra basterebbe, se non è detto che sia bastata a lui, Dante, la sua.
Ci basti questo scorcio d’Inferno a ricordarci che la “canoscenza” degli alchimisti, così prossimi a Ulisse in quella avventura che la conoscenza è, fu pericolosa allora tanto quanto, se ben adoperata, è salvifica nell’oggi pandemico che viviamo.
[1] Ricordate il “fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”? Quel “canoscenza” è un “meridionalismo” che ancora oggi si sente, con inflessioni diverse, un po’ dappertutto sotto Roma.
Gli acidi carbossilici alifatici, catene idrocarburiche con all’estremità un gruppo carbossile (−COOH), sono dappertutto. Il più noto è l’acido acetico (CH3−COOH) presente nell’aceto. Il sale sodico o potassico di un acido carbossilico a lunga catena è l’acido stearico, costituente di un sapone (figura 1).
Fig.1. Due rappresentazioni del sale sodico dell’acido stearico
Ma sfortunatamente, non sono molto utili ai chimici sintetici, infatti la catena satura ha solo due atomi di carbonio che possono reagire: quello nel gruppo carbossilico e quello adiacente. Leigh K. Boerner ci informa che Jin-Quan Yu e colleghi di Scripps Research e Bristol Myers Squibb hanno progettato una reazione che raddoppia il numero di carboni reattivi in queste molecole a quattro, trasformando le molecole in versatili blocchi sintetici [1]. Il gruppo di ricerca ha pubblicato di poter eseguire una deidrogenazione in una fase che attacca selettivamente il legame C–H a due atomi di carbonio lontano dal gruppo carbossilico invece del carbonio adiacente tradizionalmente più reattivo, con un catalizzatore di palladio e uno dei due ligandi piridina-piridone [2].
Questa reazione conduce a composti con doppi legami reattivi che i chimici possono utilizzare per costruire una pletora di strutture cicliche e acicliche, inclusi farmaci e altri composti bioattivi.
Un esempio è riportato in figura 2, dove si parte da un acido 4-cicloesilbutanoico per arrivare al 4-cicloesil−α,β-butenoico:
Fig. 2. Trasformazione di un acido carbossilico in acido α,β-insaturo
I chimici hanno a lungo sognato di usare gli acidi alifatici, componenti dei grassi contenuti in molti saponi, come reagente chimico, dice Jin-Quan Yu, coordinatore della ricerca. Il gruppo ha sintetizzato oltre 80 composti in due varianti della reazione, ciascuna utilizzando un diverso ligando. Il primo, con un ligando piridina-piridone più semplice, produce selettivamente acidi carbossilici α,β-insaturi (in figura). L’altro ligando, con un gruppo isometilico a ponte tra gli anelli piridinico e piridone, dà -alchiliden butenolidi. I ricercatori hanno anche incorporato il gruppo butenolide in composti più complessi, come un precursore del farmaco Seratrodast, una cura per l’asma.
I doppi legami, che sono più reattivi dei singoli legami, sono il punto di partenza per molte reazioni sintetiche organiche. Afferma Yu: “una volta creato un doppio legame, ora sei connesso a tutte queste reazioni”.
Jin-Quan Yu
I ricercatori possono quindi aggiungere gruppi funzionali attraverso questo nuovo doppio legame, consentendo l’accesso a quattro atomi di carbonio sulla molecola: il carbossile più i successivi tre atomi di carbonio sulla catena.
Yu ha lavorato su questa reazione per 20 anni e afferma:“ora posso dire che questa non è fantascienza, è tutto vero”.
Sostiene Manuel van Gemmeren, un chimico organico dell’Università di Münster (Germania): “Questa ricerca rappresenta un enorme passo avanti nella reattività degli acidi carbossilici liberi”.
E Nuno Maulide, un chimico organico dell’Università di Vienna, dice: “Il design dei due ligandi è intelligente e la capacità di selezionare tra acidi carbossilici e altri carbonili nella molecola è insolita e molto utile”.
I butenolidi sono elementi costitutivi efficaci per la sintesi di molecole bioattive e Julian G. West, un chimico organico della Rice University (USA), afferma: “E questa reazione rapida e selettiva per assemblarli potrebbe essere un punto di svolta per molte sintesi“.
Bibliografia
[1] Leigh Krietsch Boerner, Transforming soap into drugs.,Chem. & Eng on line, Nov. 12, 2021.
[2] Zhen Wang et al., Ligand-controlled divergent dehydrogenative reactions of carboxylic acids via C–H activation., Science, 2021, DOI: 10.1126/science.abl3939