Superare l’effetto ribrezzo

Mauro Icardi

I rincari record del gas fanno sentire i propri effetti. I costi dei fertilizzanti sono aumentati a causa dell’incremento della domanda e della diminuzione dell’offerta. Tutto ciò è stato scatenato dai prezzi record del gas naturale, che hanno a loro volta innescato tagli alla produzione nel settore dei fertilizzanti. Così facendo, l’urea ha aumentato i prezzi di più del 200%, mentre i prezzi del fosfato biammonico (DAP) sono quasi raddoppiati. La cronaca di questi giorni poi aumenta le apprensioni, visto lo scoppio della guerra  tra Russia e Ucraina.

Tornano quindi di attualità i  progetti che puntano a riutilizzare tutto il riutilizzabile. Perché va ricordato, il problema della scarsità di nutrienti per l’agricoltura non proviene solo da questioni geopolitiche, ma anche dalla perturbazione dei cicli di azoto e fosforo, che furono  segnalati già nel 2009 dallo Stockholm Resilience Centre ( SRC ) Centro di resilienza di Stoccolma. Il lavoro fu pubblicato sulla rivista “Ecology and Society.

Andiamo ad affrontare quindi un problema delicato, cioè quello dell’utilizzo dell’urina umana come materia seconda per la produzione di fertilizzante. Ricordando quello che scriveva Primo Levi nel Sistema Periodico : “Lungi dallo scandalizzarmi, l’idea di ricavare un cosmetico da un escremento, ossia aurum de stercore, mi divertiva e mi riscaldava il cuore come un ritorno alle origini, quando gli alchimisti ricavavano il fosforo dall’urina. Era un’avventura inedita e allegra, e inoltre nobile, perché nobilitava, restaurava e ristabiliva.”

Il fosforo è particolarmente prezioso. Indispensabile nell’agricoltura come fertilizzante e complemento alimentare, sta infatti diventando sempre più raro. Gli esperti ritengono che le riserve potrebbero esaurirsi nei prossimi ottant’anni.

L’elemento centrale di qualsiasi progetto di recupero e trasformazione dell’urina in fertilizzante sono degli speciali servizi  igienici, ossia gabinetti non collegati a un sistema fognario, che permettono di separare l’urina dalle feci grazie alla presenza di due scompartimenti.

 Non sono le caratteristiche tecniche a creare dei problemi. In molte parti del mondo la disapprovazione sociale per chi  ha a che fare con gli escrementi umani è enorme. Un tabù molto radicato.

L’urina è uno dei componenti delle acque reflue. Nelle urine sono presenti, in quantità variabili, nutrienti preziosi quali fosforo, azoto e potassio. Non è conveniente un recupero direttamente dalle acque reflue perché ancora oggi in generale si utilizza troppa acqua (potabile va sottolineato) per accompagnare i nostri residui corporei alla fognatura, e poi all’impianto centralizzato di depurazione.

Vediamo ora alcune tecniche sviluppate per la trasformazione dell’urina in fertilizzante. Non tratterò dell’utilizzo tal quale dell’urina, che pure è stato praticato nell’antichità e che in qualche caso viene suggerito ancora oggi. Preferisco occuparmi di alcune tecniche e ricerche sviluppate a partire dallo scorso decennio di questo secolo, che utilizzano le tecniche tradizionali, sia del trattamento delle acque reflue, che della chimica industriale.

Urina nitrificata concentrata.

Questo processo (nitrificazione parziale seguita da distillazione) è stato sviluppato dall’Istituto federale svizzero per la Scienza e la Tecnologia dell’Acqua (EAWAG) dove è stato installato un impianto pilota. Il fertilizzante liquido ottenuto è ora commercializzato dalla società “VUNA”. Il prodotto è stato approvato dall’Ufficio federale dell’agricoltura ed è venduto in Svizzera con il nome commerciale di Aurin.

Il processo per ricavare fertilizzante avviene in tre  fasi: la prima fase è un normale processo di nitrificazione biologica, la seconda è la concentrazione dell’urina estraendo una parte dell’acqua tramite distillazione, la terza e ultima fase una filtrazione su carboni attivi. In questo modo l’azoto organico è mineralizzato durante la nitrificazione, la distillazione ad alta temperatura riduce notevolmente la quantità di agenti patogeni.  Infine la filtrazione su carbone attivo rimuove i composti quali residui di farmaci o simili.

Urina granulare disidratata.

In questo caso il processo è stato sviluppato dall’Università svedese di scienze agricole (SLU). Attualmente sono in fase di test degli impianti pilota e il processo viene commercializzato da una società svedese, la Sanitation 360.L’azoto può essere stabilizzato e immagazzinato come urea alcalinizzando l’urina fresca. Questo perché un alto pH impedisce all’enzima ureasi (secreto dai microrganismi) di essere attivo e di degradare l’urea in azoto ammoniacale. Quando viene aggiunto all’urina idrolizzata, l’aumento del pH promuove la volatilizzazione dell’ammoniaca. Si possono usare diversi tipi di basi, come idrossidi di calcio, magnesio o potassio o  cenere di legno.

Un esempio di base facilmente disponibile è l’idrossido di calcio Ca(OH)₂(calce spenta). L’aggiunta di 10 g di Ca(OH)₂ per litro di urina fresca permette la stabilizzazione dell’urea. La miscela calce/urina viene poi disidratata con un ventilatore,  una volta solidificata può essere trasformata in forma granulare, con un processo di pellettizzazione.

Estrazione dei nutrienti.

I trattamenti estrattivi mirano a recuperare uno o più dei nutrienti presenti nell’urina per ottenere un fertilizzante concentrato.  L’azoto può essere recuperato sotto forma di solfato di ammonio (ad esempio in una colonna di strippaggio ). Il fosforo può essere recuperato per precipitazione ottenendo struvite, processo per altro maturo e abbastanza consolidato.

Recupero del fosforo da acque reflue e allevamenti | La Chimica e la Società (wordpress.com)

Mi sono venuti diversi dubbi e interrogativi mentre scrivevo quest’articolo. Perché non è usuale parlare di alcune funzioni del nostro corpo, così come non è usuale (e potrebbe sembrare maleducato o scortese) menzionare i prodotti di rifiuto del nostro metabolismo.  Gli anni che stiamo vivendo ci stanno riportando in maniera direi brutale, a dover fare i conti con problemi che non abbiamo mai voluto affrontare con la necessaria serietà. Sono passati cinquant’anni esatti dalla pubblicazione del lavoro conosciuto da molti come “I limiti dello sviluppo” ma che in realtà fu tradotto approssimativamente perché si sarebbe dovuto tradurre “I limiti alla crescita”, come ha giustamente fatto la LU CE  edizioni ripubblicandolo.

Da tecnico che si è occupato di acque reflue, non ho mai avuto troppi ribrezzi li ho superati facilmente. Ricordandomi ancora di Primo Levi al quale non importava l’origine prossima della materia.

Prendere finalmente coscienza di questi limiti, dell’impossibilità di forzare le leggi della natura, della fisica ai nostri desideri invece è un tema che da sempre mi pone degli interrogativi.  Ma i segnali di allarme ormai stanno squillando come impazziti. Mentre non solo le persone comuni, ma purtroppo la classe politica e quella dirigente non trovano il coraggio necessario per cambiare radicalmente il nostro modo di vivere sull’unico pianeta che abbiamo. Quasi fossimo senza più capacità di riflessione o di reazione. E questo davvero mi inquieta.

In questi giorni solo la tragedia di una guerra ci fa riflettere sulla nostra fragilità e sul modo con il quale ci approcciamo a problemi reali. Se scarseggiano i fertilizzanti prima o poi scarseggia il cibo. E forse solo in quel momento diventa meno importante per tutti da dove abbia potuto avere origine il fertilizzante che spargeremo sul campo da coltivare.

Museo diffuso: il caso Valselice.

Luigi Campanella, già Presidente SCI

Sono da oltre 50 anni un sostenitore del modello diffuso di Museo per motivi diversi

-valorizzazione dell’esistente

-delocalizzazione dei siti culturali nel territorio con rispetto delle periferie

-possibile ottimizzazione delle risorse disponibili rendendone più articolata la fruizione

Questo modello richiede strumenti che ne possano rendere fruibile al massimo i contenuti: penso ad itinerari storici, disciplinari, didattici, tematici.

A tutto ciò che ho più volte scritto aggiungo oggi un ulteriore vantaggio del Museo Diffuso: aggregare realtà piccole e meno note all’interno di percorsi culturali di eccellenza. Di recente in questo senso ho fatto una bella scoperta: salendo sulle colline sopra Torino ci si imbatte nell’Istituto Valselice, una scuola frequentata da un migliaio di giovani dalla media ai licei, ma dotato su 2 piani di un Museo Naturalistico dedicato a Don Bosco, suo fondatore. La nascita risale a quando il suo fondatore divenne proprietario di una raccolta di un centinaio di animali imbalsamati e classificati avuti in dono nel 1871 dal suo originale detentore il canonico Gianbattista Giordano.

Don Bosco ha finalizzato la collezione all’insegnamento per il quale ha sempre voluto valorizzare la componente sperimentale rispetto alla teorica. Per noi chimici titolari di una disciplina a prevalente carattere induttivo della conoscenza questo atteggiamento di Don Bosco suona in perfetta sintonia. Nel Museo sono conservati documenti e testimonianze di molti salesiani (Gaudi,Verri) assegnando al Museo un altro grande valore, quello di conservatore delle tradizioni di una comunità tramandandole con i loro significati, anche i meno palesi, ai posteri.

Un momento di svolta nella storia del Museo è rappresentato dal passaggio alla Direzione da parte di don Giuseppe Brocardo infatti con lui il Museo da strumento didattico interno è divenuto struttura aperta al pubblico inaugurata dal Sindaco di Torino nel 1969. È così anche iniziata la sua implementazione con 5000 campioni di rocce e minerali provenienti da tutto il mondo e ordinata secondo i più recenti criteri scientifici e con una raccolta di strumenti scientifici anche obsoleti, ma preziosi didatticamente per la loro trasparenza. Oggi gli strumenti sempre più sono assimilabili a scatole nere sconosciute per il loro funzionamento e quindi reperti dei tempi passati mantengono una specificità didattica che non finisce di stupire anche i non addetti. Per il Museo di Valselice questo avviene per strumenti del XIX secolo di natura fisica (ottica, acustica, meccanica, elettromagnetismo) e Chimica. Una sezione del Museo è dedicata a vertebrati ed invertebrati con alcune specie che vivono solo in Nuova Zelanda. Ottenere esemplari non sempre è stato facile e di recente è considerato un grande successo la donazione al Museo di 2 specie dal Madagascar a riconoscimento del ruolo didattico ed educativo del Museo anche rispetto ai giovani africani. Collezioni importanti su scala mondiale sono quelle di farfalle, coleotteri e conchiglie con un campione del peso di 120 kg. Nel settore di antropologia è  possibile vedere crani ed ossa preistoriche del 10000a.C.provenienti dalla Patagonia. Nel 1900 partì anche la raccolta fossili e più di recente l’erbario, con 15000 specie vegetali rappresentate, recuperate da salesiani in giro per il mondo (Gresini, Crespi,Allioni)

Per chi crede un messaggio di Don Bosco a caratterizzare il suo museo: la bellezza salverà il mondo ed il creato con le sue meraviglie è il depositario primo di questa bellezza di cui il mio ( di Don Bosco) Museo è rappresentazione e sintesi.

Il futuro è agro-ecologia.

Katia Genovali*, Claudio Della Volpe e Luigi Campanella

La biodinamica non può essere equiparata all’agricoltura biologica secondo il testo approvato dalla Camera dei Deputati e che ha modificato la precedente versione in cui tale equiparazione era di fatto accettata. Il testo approvato è tutto sommato una mediazione: salta l’equiparazione fra metodo biologico e metodo biodinamico in agricoltura, ma quest’ultimo resta fra i beneficiari della legge.

Non si può che essere d’accordo sul non confondere il metodo scientifico con procedure e metodologie esoteriche, non scientifiche e per certi aspetti simili a stregoneria, basate sulle teorie di Rudolf Steiner. Queste ultime incorporano nella biodinamica alcuni dettami dell’omeopatia e dell’agricoltura biologica, che condivide con il biodinamico l’obiettivo di coltivare la terra in equilibrio con l’ecosistema terrestre. Tuttavia, proprio per queste commistioni, il discorso merita un approfondimento, al di là del freddo testo approvato che dovrà ora tornare al Senato per la definitiva approvazione. Ma prima dobbiamo fare un passo indietro e capire il percorso compiuto dall’agricoltura moderna che oggi rende il metodo biologico degno di essere, per certi aspetti rivalutato, sicuramente almeno per quanto concerne le ragioni su cui idealmente affonda le sue radici.

Il cambiamento epocale dell’agricoltura che l’ha resa ciò che conosciamo oggi si è avuto con la cosiddetta “rivoluzione verde”, un processo di industrializzazione e meccanizzazione dell’agricoltura che si è verificato essenzialmente dalla fine della seconda guerra mondiale. Si tende a volte a confondere questo processo col generico sviluppo, basato sulle conoscenze chimiche e biologiche a partire dalla metà del XIX secolo fino a risalire a Justus von Liebig (1803-1873), che scoprì i meccanismi metabolici dei vegetali, e a Gregor Johann Mendel (1822- 1884), che gettò le basi della genetica.

Liebig aveva compreso che gli scarichi fognari delle città potevano rappresentare ricche riserve di azoto e fosforo per l’agricoltura al posto del guano acquistato dall’estero, in perfetta ottica circolare; per questo forse oggi sarebbe il riferimento di una intera generazione di ecologisti e probabilmente un difensore cristallino del riciclo di materia ed energia.

Viceversa l’applicazione odierna della rivoluzione verde, dominata dal mercato, ha deformato le cose, nel senso di considerare prima di tutto la produttività come tale dell’area agricola usata; questo senza porre attenzione all’ecosistema in cui l’agricoltura è inserita con effetti drammatici, quali la riduzione di aree coltivabili e di biomassa, la dipendenza energetica, la riduzione della biodiversità, l’incapacità a riciclare le grandi quantità di N e P messe in circolo. Ma le cose sono poi ancora più articolate.

Un precursore poco conosciuto della rivoluzione verde fu un ricercatore italiano, Nazareno Strampelli (1886-1942), che riuscì ad ottenere fra gli altri il grano “Ardito”, un chiaro riferimento all’ideologia fascista imperante all’epoca; le sue scoperte vertevano essenzialmente sui fenomeni di ibridizzazione delle varietà. Dal punto di vista pratico il suo metodo di incrociare varietà differenti per ottenere nuove cultivar si dimostrò vincente sul metodo allora più in voga di selezionare le sementi solo all’interno di una singola varietà. Gli aumenti di produttività innescati da queste modifiche portarono l’Italia a vincere la cosiddetta “battaglia del grano”, ossia a reagire in modo significativo ai provvedimenti politico-economici scatenati contro l’Italia fascista che aveva invaso l’Etiopia per trovare il proprio posto al sole.

La sostenibilità in agricoltura, focus della rivoluzione verde, può essere misurata tramite indicatori che non sempre vanno a braccetto gli uni con gli altri. Il caso più lampante è quello del consumo di suolo utilizzato da Elena Cattaneo per screditare la sostenibilità del biologico rispetto al metodo convenzionale. È fatto altamente accertato che la produzione biologica necessita di una maggiore quantità di suolo a parità di resa. Tuttavia, presentare solo questo aspetto per valutare la sostenibilità di un metodo agricolo può rivelarsi un approccio, anche in questo caso, pericolosamente riduzionista.  Negli ultimi 150 anni abbiamo trasformato il 40% delle terre emerse in aree urbane o coltivate.

Il suolo disponibile per la coltivazione è in diminuzione a causa dell’aumento costante dell’urbanizzazione (si stima che la percentuale di persone che vivranno nelle città passerà dal 50% di oggi al 70% di qui al 2050), ma anche per la degradazione della qualità del suolo.

I dati italiani mostrano che negli ultimi 50 o 60 anni abbiamo perso oltre 100mila kmq di terreno adibito ad attività agricole e di questi il grosso non è ridiventato bosco, non si è “rinselvatichito”, se non per un 20% mentre il grosso di questa superficie è stata infrastrutturata in qualche modo, cosa che non appare strana se pensiamo che la popolazione nel frattempo è cresciuta di circa 15 milioni di abitanti e la qualità della vita, i bisogni di mobilità e il consumo energetico pro-capite sono aumentati. Il terreno abbandonato dall’agricoltura specie nella mezza montagna si è rinselvatichito forse di più ma la sua qualità complessiva si è ridotta nel senso che la gestione umana è venuta a mancare e i tempi di una riappropriazione “naturale” non ci sono stati: una foresta raggiunge il suo climax in secoli non in decenni. La conseguenza di questo è stata l’incremento massiccio della degradazione del paesaggio, del suolo, l’aumento del numero di “incidenti” naturali devastanti: alluvioni, frane, etc.

L’eccessivo sfruttamento del suolo può portare infatti a una perdita di qualità tale da renderlo inutilizzabile, producendo squilibri sui cicli dei nutrienti e dell’acqua e sulla biodiversità. Un metodo di coltivazione più estensivo permette di preservarne la qualità più a lungo, poiché ne riduce l’impoverimento in nutrienti e numero di specie presenti e aumenta la sua capacità di trattenere l’umidità. In questo senso l’agricoltura biologica offre prestazioni migliori nel preservare la biodiversità, compresa quella microbiotica, e, di conseguenza, la qualità del suolo.

L’altro aspetto da considerare legato al consumo di suolo, di cui pochissimo si parla, è quello energetico. Per aumentare le rese per ettaro è infatti necessario investire quantità maggiori din energia, a discapito dei costi biofisici già esposti (Conforti, Giampietro 1997). Considerando che oltre a una certa soglia ulteriori investimenti energetici non corrispondono a un parallelo aumento di resa, il rapporto tra energia investita e energia ricavata diventa sempre più svantaggioso superata una certa soglia. L’approccio della produzione biologica è quello di ridurre quanto più possibile le pratiche più impattanti sul terreno, come l’aratura profonda del suolo.

Abbiamo detto come la fertilizzazione di sintesi rappresenti uno dei maggiori consumi energetici dell’agricoltura convenzionale. Se aggiungiamo l’alto grado di meccanizzazione, le attività agricole convenzionali in genere contribuiscono maggiormente ai consumi energetici e alle emissioni complessive di CO2 in atmosfera, con maggiori contributi al riscaldamento globale, all’acidificazione degli oceani e, di conseguenza, alla perdita di biodiversità su scala globale. Sarebbe importante, sia da parte della politica che della comunità scientifica, cominciare ad affrontare il problema dell’agricoltura e della sua sostenibilità, presente e futura, con quella complessità che lo contraddistingue, riconoscendo meriti e limiti di ogni approccio finora sperimentato, così come quelli di nuova introduzione. Una complessità che dipende dalla enorme quantità di variabili in gioco, tra cui quella troppo spesso sottovalutata: dietro all’agricoltura ci sono le persone, con la loro necessità di lavorare e sostentarsi, il loro diritto a un cibo sano e sicuro, i loro interessi economici e sociali, la loro cultura, il legame con i loro territori.

Ci sono 5 punti che qualunque strategia deve assicurare; li copiamo quasi pari pari da un aureo libretto di pratica biologica scritto da uno dei padri del biologico europeo, Claude Aubert (Agricoltura biologica, tecniche di base La casa verde 1988) senza condividere per forza le convinzioni dell’autore:

– Produrre alimenti di qualità

– Salvaguardare l’ambiente

– Mantenere o migliorare la fertilità del suolo

– Ridurre o eliminare lo spreco di energia e materie prime

– Permettere agli agricoltori (e a tutti i lavoratori della terra, qualunque ruolo abbiano) di

vivere del proprio lavoro

Questi 5 punti irrinunciabili consentono di capire perché la prospettiva economica misurata a colpi di “rese agricole per ettaro” spesso non tiene esplicitamente conto dei costi sociali, energetici e ambientali e le politiche in questo hanno delle grosse responsabilità. In alcuni paesi emergenti, la scelta di sovvenzionare e liberalizzare i fertilizzanti di sintesi ha reso più conveniente mettere da parte la maggior parte delle problematiche ambientali per andare incontro alla necessità di risparmio di suolo. Non si può inoltre tralasciare come l’incentivazione del biologico possa trainare effetti positivi sulle abitudini alimentari dei cittadini. È stato infatti dimostrato che i consumatori di prodotti bio non soltanto hanno in media abitudini alimentari più salutari, ma adottano stili dietetici di minore impatto ambientale e più ecofriendly.

La ricerca scientifica è di fondamentale importanza per tutto questo discorso, anche per fronteggiare il momento storico che globalmente stiamo vivendo, in un mondo che non ha ancora finito di condividere equamente i benefici del progresso scientifico e tecnologico, ma già deve spartire le conseguenze di uno sviluppo umano troppo rapido per i tempi del Pianeta. E probabilmente neppure le innovazioni che la scienza ci offrirà saranno sufficienti se non capiremo che non si può crescere all’infinito nei limiti fissati dalla materia e dall’energia a disposizione sulla Terra. Dovremo presto porci il problema di dover attingere a una molteplicità di soluzioni che non necessariamente proverranno da quelle fornite decenni fa dalla rivoluzione verde né probabilmente dal biologico. Tutto ciò avrà bisogno di un nuovo nome: agroecologia.

  • Katia Genovali, giovane fisica con un dottorato in astrofisica, si dedica alla divulgazione della scienza e lavora attualmente presso il CNR di PIsa con una borsa di studio.

Innovazione: per fare cosa?

Vincenzo Balzani

(già pubblicato su Bo7 del 13 febbraio)

Nei periodi di crisi, come quello che stiamo attraversando, da molte parti si sostiene che è necessario fare spazio alla crescita e, quindi, all’innovazione, che è il motore della crescita. In effetti, è un momento favorevole per l’innovazione, anche perché è sostenuta con incentivi statali.

C’è un vento a favore dell’innovazione ma, come dice un noto aforisma di Seneca, “Non c’è vento a favore per il marinaio che non sa dove andare”. Ecco allora: di fronte a parole come crescita e innovazione, la prima cosa da chiedersi è: per andare dove? Per rispondere in modo corretto, bisogna sapere dove siamo e come siamo arrivati fin qui: siamo in una situazione di insostenibilità ecologica, perché stiamo distruggendo il pianeta, e di insostenibilità sociale, perché abbiamo creato disuguaglianze insostenibili; a tutto ciò vanno aggiunte gravi tensioni internazionali (ad esempio, Russia-Ucraina-NATO) e guerre più o meno dimenticate (Yemen).

Un’innovazione volta soltanto ad aumentare i consumi e ad accrescere le disuguaglianze, come è accaduto negli scorsi decenni, è la ricetta per accelerare la corsa verso la catastrofe di cui parla anche papa Francesco nell’enciclica Laudato si’. Per salvare il pianeta e noi stessi è necessario che l’innovazione non sia funzionale al consumismo e tanto meno alla creazione di ostilità e guerre, ma alla sobrietà, alla collaborazione e alla pace.

Spesso, le innovazioni sono viste positivamente perché contribuiscono a risolvere il problema della scarsità di lavoro. A volte, purtroppo, lo fanno a scapito della pace, fornendo strumenti di guerra sempre più sofisticati e micidiali. Più spesso, lo fanno a scapito della sostenibilità ecologica e sociale. Fra gli esempi di innovazione sbagliata, oltre a quelli nel settore degli armamenti, possiamo citare la conversione delle raffinerie di petrolio in bioraffinerie alimentate con olio di palma proveniente in gran parte dall’Indonesia e dalla Malesia, dove per far posto alle piantagioni di palme vengono compiute estese deforestazioni con gravi danni per il territorio e per il clima. Lo scopo recondito della produzione di biocarburanti è infatti quello di continuare ad usare i combustibili fossili, ai quali i biocarburanti vengono miscelati per ottenere gas e combustibili liquidi (diesel) ingannevolmente pubblicizzati e commercializzati come combustibili “verdi”.

I settori dove è più necessario innovare sono quelli dell’istruzione e della cultura. Bisogna far sapere a tutti i cittadini, in particolare ai giovani, quale è la situazione reale del mondo in cui viviamo per quanto riguarda risorse, rifiuti, disuguaglianze e guerre. L’istruzione è in gran parte di competenza dello Stato, ma anche a livello locale si può fare molto. Lo possono fare, con opportuni corsi di aggiornamento culturale e di formazione politica, le regioni, i comuni, le confederazioni dei lavoratori e degli industriali, i partiti e, perché no, le parrocchie.

Suggerimenti di lettura:

https://www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/13662716.2020.1818555

https://www.tandfonline.com/doi/abs/10.1080/13662716.2020.1726729?journalCode=ciai20

Costituzione e ambiente

Luigi Campanella, già Presidente SCI

Scrivendo la Costituzione, tra il 1946 e il 1947, i nostri Padri Costituenti trascurarono del tutto la nozione di ambiente, che oggi siamo abituati a conoscere. D’altra parte non poteva certamente esistere nessuna presa di coscienza dei gravissimi danni provocati dall’azione umana al patrimonio naturale e dei grandi mutamenti che avrebbero successivamente toccato il Pianeta. Così nell’articolo 9 della Costituzione ci si limitò a prevedere l’impegno della Repubblica a tutelare il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione. 

La circostanza che nel nostro ordinamento giuridico non si rilevi un compiuto status costituzionale dell’ambiente non può certamente addebitarsi ai padri costituenti, ma piuttosto all’incapacità che negli anni a venire l’ordinamento giuridico ha palesato nel non riuscire a completare una riforma sistematica dell’impianto costituzionale, con cui riuscire ad assegnare all’ambiente quel valore dimostratosi sempre più necessario ed impellente. Infatti nel tempo le cose sono profondamente cambiate: l’esigenza innanzitutto, ma non solo, economica di recuperare i danni della seconda guerra mondiale ha obbligato a trascurare alcuni valori, fra i quali proprio l’ambiente, insieme a salute e sicurezza, puntando sulle produzioni spinte, favorite dai nuovi materiali, la plastica innanzitutto.

Questo ha portato ad una situazione di degrado ambientale che ci ha obbligati a rivedere le primarie posizioni. Progressivamente attenzione e sensibilità verso l’ambiente sono cresciute sfociando in norme e leggi che mai prima avevano però assunto un carattere costituzionale. Ora la Camera ha approvato l’inserimento della tutela ambientale nella nostra Costituzione, con riferimento anche alla protezione degli animali ed alla conservazione della diversità biologica. L’Italia diviene cosi il terzo Paese al mondo dopo Ecuador e Bolivia a sancire il diritto della Natura ad esistere. È la prima volta che viene modificata la prima parte della Costituzione (composta dai primi 12 articoli), cioè quella riguardante i principi fondamentali della nazione. Il testo ha ottenuto 468 voti favorevoli, un contrario e sei astenuti. La riforma, che era stata già approvata dal Senato in seconda lettura a novembre 2021, entra subito in vigore e non è sottoponibile a referendum (poiché votata da oltre due terzi del Parlamento). Ecco come cambiano i due articoli della Costituzione (in grassetto le nuove parti).

Articolo 9: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali”.

Articolo 41: L’iniziativa economica privata è libera non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, alla salute, all’ambiente. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali”.

Cosa vuole significare questo cambiamento? Il superamento del rapporto individuale con l’ambiente per divenire un rapporto di comunità che sancisce questo valore come un patrimonio collettivo con diritto di proprietà e che pertanto se viene messo in discussione di fatto comporta un’azione anticostituzionale. In quanto proprietà della comunità la qualità ambientale deve essere garantita nel tempo, in questo introducendo un principio fondamentale alla base del concetto di sostenibilità. Si comprende come si tratti di una vera rivoluzione: ogni azione nei confronti dell’ambiente  da oggi in poi è regolata dal dettato costituzionale.   La innovazione introduce un riferimento all’interesse delle generazioni future e pone un preciso vincolo. L’attuazione della tutela ambientale non deve soltanto assicurare la soddisfazione dei bisogni delle odierne generazioni, ma deve essere concepita in modo tale da assicurare le migliori condizioni di vita alle generazioni che seguiranno. Di conseguenza, le politiche in materia non potranno essere pensate con obbiettivi di breve scadenza, ma dovranno essere rivolte al futuro in una prospettiva di lungo periodo.

Le opportunità della luce.

Luigi Campanella, già Presidente SCI

La scelta della luce più opportuna nelle gallerie e nei musei per rendere più fruibili le opere esposte al tempo stesso preservandole da possibili alterazioni correlate a processi fotochimici è un aspetto della gestione delle opere d’arte che non sempre viene considerato nella sua giusta importanza.

Ma si tratta anche di una questione che riguarda la nostra vita di tutti i giorni. Con il diffondersi dello smart working la condizione di illuminazione è divenuta sempre più essenza di qualità di vita. Oggi le lampadine più utilizzate sono quelle a led fatte di chip di silicio che trasformano la corrente in luce. Da settembre è entrata in vigore una nuova etichetta che ci aiuta a scegliere la luce ottimale.

I led non sono tutti uguali: c’é  una prima classificazione di qualità da A a G. Ci sono poi la potenza, la quantità di energia erogata e l’indice di resa cromatica da zero a cento che indica quanto la luce artificiale consenta di fare percepire i colori reali; ed infine la durata di vita della lampadina che dipende però anche largamente dal modo di uso.

Se parliamo però di benessere da cui siamo partiti con riferimento alle molte ore spese a tavolino il parametro più interessante è la temperatura di colore con i cosiddetti colori freddi e colori caldi che hanno sulla nostra vista effetti diversi in quanto alcuni di quelli freddi, il blu in particolare, sembrano avere ripercussioni negative sulla nostra vista con l’autodistruzione cellulare della retina. Al contrario ci sono tonalità che hanno effetti terapeutici perché possono regolare la produzione di neurotrasmettitori. Le lampadine imitando per quanto possibile la luce naturale generano luce bianca che contiene diversi colori corrispondenti alle varie lunghezze d’onda con spettro continuo emesso. Nel caso invece dei led l’emissione non è dovuta ad effetto termico  come in quelle ad incandescenza ed all’interno di una stessa lampadina ci sono led di colori diversi che portano per l’appunto a produrre luce calda o fredda con le differenze di cui ho prima parlato. Tornando al ruolo della luce per farci godere dinnanzi ad un’opera d’arte rendendocela fruibile al massimo vorrei ricordare che alcuni pigmenti sono fotodegradabili e che in presenza di umidità si possono creare con luce sbagliata condizioni di rischio per un quadro.

Ad esempio per impreziosire sfondi e dettagli decorativi di molte opere d’arte, si usavano foglie d’oro, ma a causa dei costi elevati, il loro impiego era riservato alla realizzazione di aureole e particolari preziosi e, per le zone più ampie, veniva usata una miscela composta da polvere d’argento metallico e orpimento: un pigmento giallo simile all’oro, destinato però a scurirsi con il tempo. La scoperta della causa dell’imbrunimento, è avvenuta grazie alle analisi condotte ai raggi X sul “finto oro” usato da Cimabue nella sua celebre opera “La maestà di Santa Maria dei Servi“, conservata a Bologna. Le analisi sono state condotte presso il sincrotrone di Grenoble e il Centro di Ricerca Desy di Amburgo. Il team (guidato dall’Istituto di Scienze e Tecnologie Chimiche “Giulio Natta” del CNR e dall’Alma Mater Studiorum di Bologna, in collaborazione con l’Università di Perugia e l’Università di Anversa) ha concluso che il fenomeno è imputabile principalmente all’umidità e può aggravarsi con l’esposizione alla luce.

La chimica della biosfera profonda

Claudio Della Volpe

C’è qualcuno dei nostri lettori più anziani che non abbia letto Verne?

Probabilmente il numero dei lettori di Verne si riduce con l’età, nel senso che Verne è stato sostituito da altri scrittori, casomai di fantascienza; ma sono sicuro che fra le persone di 50-70 anni che leggono queste pagine molti abbiano letto “Viaggio al centro della Terra”; per me una lettura indimenticabile che fu alla base, ancor più di altri romanzi del grande francese, della meraviglia con cui guardo ancora oggi la Natura.

L’idea che le grandi profondità del nostro pianeta ospitino la vita in forme che a stento immaginiamo è tornata ripetutamente nella nostra cultura a partire dall’Ade, dall’inferno cristiano, dal grande viaggio di Dante e poi dai ripetuti sogni esplorativi della grande novellistica ottocentesca.

Tuttavia la esplorazione concreta del sottosuolo e delle grandi profondità marine, spinte dalla sete di energia e risorse minerarie, se hanno fatto giustizia delle ingenue visioni di Verne, hanno fondato con grande base sperimentale un’altra visione del sottosuolo che oggi viene indicata col termine di biosfera profonda, deep biosphere.

Secondo Wikipedia:

Le prime indicazioni di vita profonda provenivano dagli studi sui giacimenti petroliferi negli anni '20, ma non era certo che gli organismi fossero autoctoni fino a quando negli anni '80 non furono sviluppati metodi per prevenire la contaminazione dalla superficie. I campioni vengono ora raccolti in miniere profonde e programmi di perforazione scientifica nell'oceano e sulla terraferma. Sono stati istituiti osservatori profondi per studi più ampi.
Vicino alla superficie, gli organismi viventi consumano materia organica e respirano ossigeno. Più in basso, questi non sono disponibili, quindi fanno uso di "edibles" (donatori di elettroni) come l'idrogeno (rilasciato dalle rocce da vari processi chimici), il metano (CH4), i composti solforati ridotti e l'ammonio (NH4). Essi "respirano" accettori di elettroni come nitrati e nitriti, manganese e ossidi di ferro, composti di zolfo ossidati e anidride carbonica (CO2). C'è pochissima energia a profondità maggiori, quindi il metabolismo è fino a un milione di volte più lento che in superficie. Le cellule possono vivere per migliaia di anni prima di dividersi e non vi è alcun limite noto alla loro età.
Il sottosuolo rappresenta circa il 90% della biomassa in due domini della vita, Archea e Bacteria, e il 15% del totale per la biosfera. Si trovano anche Eukarya, inclusi alcuni funghi vitali multicellulari e animali (nematodi, vermi piatti, rotiferi, anellidi e artropodi). Sono presenti anche virus che infettano i microbi.

Il nuovo mito è stato fondato dal libro di Thomas Gold di cui riporto qui sopra la copertina; in quel libro, pubblicato nel 1999 e preceduto da un articolo dello stesso titolo su PNAS l’autore sosteneva dei punti di vista altamente innovativi e che non si rivelarono tutti corretti, ma che sono stati molto stimolanti per la ricerca della vita nell’Universo:

Gold suggeriva che la vita microbica era probabilmente diffusa in tutto il sottosuolo terrestre, risiedendo negli spazi dei pori tra i grani nelle rocce. Inoltre, ipotizzava che questa vita probabilmente esisteva a una profondità di più chilometri, fino a quando la temperatura elevata non diventasse il fattore vincolante. Gold ipotizzò che la vita nelle aree sotterranee fosse supportata da fonti chimiche di energia, piuttosto che da fonti fotosintetiche, da cui in definitiva dipende la vita in superficie. I nutrienti che supportavano questa vita nel sottosuolo erano forniti, secondo l’autore, sia dalla migrazione di fluidi dalle profondità della crosta terrestre sia dalla roccia ospite stessa, che contiene minerali sia ossidati che ridotti. Sebbene sia probabile che sia tutto microbico, Gold ipotizzò che la massa della vita sotto la superficie in questa biosfera poco conosciuta fosse paragonabile a quella presente negli ambienti di superficie. 
Gold pensava che se c'è vita in profondità, le rocce che contengono o possono produrre  “idrogeno (H2), metano (CH4) e altri fluidi. . . sembrerebbero i luoghi più favorevoli per la prima generazione di sistemi autoreplicanti”, profondamente consapevoli che “tale vita può essere ampiamente disseminata nell'universo” . Inoltre, Gold ipotizzò che gli idrocarburi e i loro prodotti derivati ​​alimentano la vita chemiosintetica del sottosuolo e che questi idrocarburi non sono la biologia rielaborata dalla geologia, ma, piuttosto, la geologia rielaborata dalla biologia.
Questi commenti sono tratti da un articolo commemorativo comparso sempre su PNAS nel 2017 di Colman e altri .
L’idea più controversa e che si è poi dimostrata falsa di Gold era l’origine endogena del metano e dei fossili che oggi sappiamo con sicurezza originati invece dalla degradazione di materiali provenienti dalla biosfera superficiale. Tuttavia molte altre idee si sono dimostrate sperimentalmente concrete.

PNAS | July 3, 2017 | vol. 114 | no. 27 | 6895–6903

In particolare una biosfera profonda costituita da una vita essenzialmente microbica, ma non solo, si estende

al di sotto dei nostri piedi e arriva a profondità variabili in dipendenza della temperatura interna della crosta, fermandosi ragionevolmente attorno ai 150°C che significa però decine di chilometri.

A causa della elevata pressione l’acqua rimane liquida e questo giustifica, ma complica, la possibilità di mantenimento della vita; in laboratorio la massima temperatura per la sopravvivenza di batteri è stata misurata in 122°C a circa 400 atmosfere (Takai, Ken (2019). “Limits of Terrestrial Life and Biosphere”. Astrobiology. pp. 323–344. doi:10.1007/978-981-13-3639-3_20. ISBN 978-981-13-3638-6.) Questa situazione esemplifica un nuovo tipo di organismi, i batteri “piezofili” che non sopravvivono sotto le 50 atmosfere.

La temperatura elevata accelera ogni tipo di reazione ed obbliga alla costruzione di enzimi specifici che resistano alle nuove condizioni di impiego.

Noi siamo abituati ad una vita che respira un’ossidante il quale a sua volta ossida dei riducenti essenzialmente organici; dunque i riducenti sono il cibo di specie che respirano ossigeno; tuttavia questo non è possibile nel sottosuolo, dove i batteri possono si usare come riducenti specie organiche, casomai provenienti dalla biosfera superiore ma possono usare anche metano oppure idrogeno che viene generato da parecchie reazioni di tipo geologico, ma devono usare come ossidanti “respirabili” altre specie chimiche: nitrati e nitriti per esempio oppure manganese, ossidi di ferro, composti di zolfo ossidati e anidride carbonica (CO2).

Le condizioni specifiche e la bassa concentrazione dei materiali edibili (riducenti) o respirabili (ossidanti) implicano una vita che si accontenta di quel che trova e dunque molto meno intensa e veloce che in superficie.

Tuttavia si stima che la biosfera profonda sia una frazione significativa di quella totale specie per i batteri tipo Archea.

La cosa da notare è che stiamo parlando di processi che potrebbero svilupparsi in molte condizioni comuni in ambito astronomico: per esempio sotto strati di roccia all’interno di pianeti, satelliti, comete, dunque in condizioni molto lontane da quelle che associamo tipicamente alla vita; questo fa pensare che un simile tipo di sviluppo possa essere molto più comune di quanto immaginiamo e che la vita sia in qualche modo il portato “spontaneo” delle condizioni geologiche prevalenti in buona parte dell’universo.

Questa nuova idea si presenta come sconvolgente per molti scienziati, ma è basata su una vasta mole di osservazioni sperimentali. E’ relativamente probabile che nella nostra esplorazione del sistema solare la vita basata su queste condizioni e su analoghi processi possa essere scoperta nei prossimi anni “dentro” i corpi del sistema solare.

Una ultima nota riguarda il fatto che teorie di questa natura sono state sviluppate nell’ambito della cultura russa ben prima che in quella occidentale, ma che per meri motivi politici questa origine è stata messa quasi sempre ai margini; in Italia esiste per fortuna un gancio nei confronti di quella cultura che è il gruppo di epistemologia fondato a Milano da Ludovico Geymonat che ancora è presente sulla breccia tramite l’attività di Silvano Tagliagambe a cui dobbiamo una recentissima traduzione del fondatore del pensiero scientifico sulla natura “geologica” della vita, sulla sua origine “naturale” dall’ambito geologico, e cioè V. I. Vernadskij, che sviluppò ed articolò l’idea di biosfera (fondata da Suess qualche anno prima) e l’idea della noosfera, quanto di più simile all’attuale concetto di antropocene a cui dobbiamo il sottotitolo del nostro blog.

la Terra e la vita che la abitano costituisc(o)no un solo sistema, che ha la capacità di autoregolarsi in modo da mantenere al suo interno le condizioni adatte alla sopravvivenza degli organismi viventi mediante un processo attivo, sostenuto dall’energia fornita dalla luce solare. Lo studio di questo grande sistema non può, ovviamente, essere condotto in modo frammentario e parziale, rispettando i tradizionali confini tra le singole competenze disciplinari. Esso esige un approccio del tutto nuovo e diverso, che frantumi e attraversi ogni barriera divisoria tra campi differenti e proponga un’indagine che abbia attenzione primaria per i problemi teorici da affrontare e risolvere, e non per le suddivisioni del sapere scientifico che sono, tra l’altro, “un fatto formale, esterno e superficiale.

V.I. Vernadskij, Filosofskie mysli naturalista, cit., p. 389 cit da Silvano Tagliagambe, p.36 in Dalla biosfera alla noosfera. Pensieri filosofici di un naturalista di Vladimir I. Vernadskij, Mimesis 2022. A cura di Silvano Tagliagambe

a cura di Silvano Tagliagambe

Attenzione perché la noosfera non ha necessariamente i caratteri negativi dell’antropocene o peggio del capitalocene, ma al contrario implica che l’interazione fra materia vivente e materia inanimata sia del tutto naturale, faccia parte della spontaneità della Natura e possa essere completamente positiva; tutto dipende da cosa facciamo noi. E questo, ammetterete, è un bel suggerimento.

Rapporto Alma Laurea e le donne

Luigi Campanella, già Presidente SCI

il rapporto del.Consorzio Alma Laurea, il primo di genere presentato a Bologna, ha esaminato il rapporto fra studenti e studentesse nella carriera universitaria dagli studi ai primi impieghi alla carriera nel mercato del lavoro.

L’indagine ha coinvolto quasi 300 mila laureati del 2020 e quasi 600 mila del 2019,2017 e 2015, intervistati a distanza d1,3 e 6 anni dal conseguimento del titolo, attingendo principalmente alle Indagini sul Profilo e sulla Condizione Occupazionale dei Laureati realizzate annualmente dal Consorzio.

L’obiettivo é  mappare, riorganizzare, esplorare e approfondire il complesso e articolato insieme di informazioni statistiche su scelte formative ed esiti occupazionali, per rappresentare e comprendere le differenze tra laureate e laureati, sotto molteplici punti di vista, partendo da un dato: in Italia, nel 2020, le donne costituiscono quasi il 60% dei laureati.

Il primo dato che emerge è che le donne si laureano in maggior numero (60%), prima e con voti migliori (voto di laurea medio 82/100 contro 80/100degli uomini; risultano anche più intraprendenti ed appassionate dei loro colleghi. Quando poi però dallo studio passiamo al lavoro questa superiorità non produce frutti: la carriera degli uomini è più rapida ed è confortata da stipendi più elevati.

L’accesso al lavoro dipendente come anche alla libera professione è piu facile per l’uomo per 4-6 unità percentuali. Differenze significative si registrano anche nelle ambizioni: le donne cercano più degli uomini la stabilità del posto di lavoro, l’autonomia e l’utilità sociale, mentre gli.uomini pensano più al prestigio ed alla retribuzione.

Una differenza molto significativa: la laurea come ascensore sociale vale più per le donne che per gli uomini. La corrente pandemia ha aggravato tutte queste differenze che si attenuano, fino a quasi scomparire, quando il confronto viene limitato alle lauree STEM, il che è un altro contrasto con quanto talvolta si sente dire circa il presunto minore interesse della donna rispetto all’uomo circa l’attività in laboratorio per motivi di sicurezza e di disponibilità temporali.

Quasi a bilanciare questo Rapporto nello stesso giorno Wikipedia ha deciso di allargare la sua attenzione alle donne italiane che durante l’occupazione scelsero di combattere il nazismo. È stato lanciato un appello per conoscere quanto più possibile su dì loro: attivisti, politiche e combattenti hanno nomi e storie pressoché sconosciuti. Attualmente le presenti sono pochissime ed è stata attivata una maratona di contribuzioni per fare crescere il numero dei presenti nell’Enciclopedia. Di quelle presenti 19 sono corredate con biografie documentate e ricche: si tratta di medaglie al valore militare. La giornalista Ada Gobetti ha scritto a commento una nota di assoluto valore e significato: fu la Resistenza a dare alle donne italiane un’occasione importante per partecipare a tutte le attività della Liberazione, rompere il silenzio ed uscire dal ruolo subalterno che era stato loro assegnato dal Fascismo.