Pitagora e la farmacogenomica.

Claudio Della Volpe

Il “non mangiare le fave” era un comandamento astruso del catechismo pitagorico. Perché Pitagora era contrario alle fave, tanto che si racconta che si lasciò uccidere pur di non attraversarne un campo?

Potrebbe essere che soffrisse di favismo, una malattia genetica che comporta una anemia, ma che, superata la crisi emolitica, comporta nelle forme croniche, recidivanti una nutrita serie di sintomi spiacevolissimi (facile stancabilità, dispnea da sforzo, palpitazioni tachicardia, ronzii auricolari, vertigini, insonnia). Insomma una malattia seria di cui si può tranquillamente morire e che interessa solo nel nostro paese 400mila persone.

Solo nel 1950 il favismo fu attribuito alla deficienza di un importante enzima, la glucosio-6-fosfato deidrogenasi (G6PH), illustrato qui di seguito. L’enzima ha una serie di ruoli importantissimi nel nostro metabolismo cosicché la sua deficienza o la sua relativa efficienza può generare disturbi molto importanti.

Per approfondire il legame fra il favismo e la deficienza di G6PH potete leggere questo articolo di due ricercatori italiani.

I difetti genetici che hanno come conseguenza la mancanza o la scarsa efficienza di enzimi hanno un peso in tutte le reazioni biologiche, comprese quelle che metabolizzano i farmaci.

La farmacogenomica è lo studio del ruolo del genoma nella risposta ai farmaci. Il suo nome (farmaco + genomica) riflette la sua combinazione di farmacologia e genomica. La farmacogenomica analizza come il corredo genetico di un individuo influisce sulla sua risposta ai farmaci. Si occupa dell’influenza della variazione genetica acquisita ed ereditaria sulla risposta al farmaco nei pazienti correlando l’espressione genica o i polimorfismi a singolo nucleotide (ossia le modifiche dell’enzima conseguenti a singoli errori del DNA) con la farmacocinetica (assorbimento, distribuzione, metabolismo ed eliminazione del farmaco) e la farmacodinamica (effetti mediati attraverso i bersagli biologici di un farmaco).

Il termine farmacogenomica è spesso usato in modo intercambiabile con la farmacogenetica. Sebbene entrambi i termini si riferiscano alla risposta ai farmaci basata su influenze genetiche, la farmacogenetica si concentra sulle interazioni singolo farmaco-gene, mentre la farmacogenomica comprende un approccio di associazione più ampio a livello di genoma, incorporando genomica ed epigenetica (caratteri non legati direttamente al DNA ma alla sua espressione e mediati per esempio da modifiche ambientali sul DNA (metilazione) che impediscono la sua espressione tramite i meccanismi che coinvolgono gli istoni, le molecole che impacchettano e spacchettano il DNA) mentre si occupa degli effetti di più geni sulla risposta ai farmaci.

Il tipico approccio della medicina anche moderna è espressa dall’inglese “one-dose-fits-all” ossia le medicine e le loro posologie vanno bene a tutti uomini e donne e qualunque sia la loro capacità metabolica o la loro espressione genica, al massimo si considera il peso e dunque la loro “diluizione” corporea. Ma le cose sono più complicate.

E lo sono perché i geni incidono sull’efficacia dei farmaci che prendiamo, anche i più comuni.

Per esempio nell’8% della popolazione britannica è inefficace l’analgesico oppioide codeina per l’assenza dell’enzima che la metabolizza e la converte in morfina.

Finora gli scienziati hanno individuato circa centoventi coppie di farmaci e geni collegati al loro metabolismo. Secondo Henk-Jan Guchelaar, farmacologo dell’università di Leida, nei Paesi Bassi, in circa metà dei casi è possibile intervenire modificando la dose o sostituendo il farmaco per ottenere risultati migliori. Munir Pirmohamed, farmacologo e genetista dell’università di Liverpool, dice che i britannici con più di settant’anni hanno il 70 per cento di probabilità di assumere almeno un farmaco la cui sicurezza o efficacia è compromessa dai geni.

Tuttavia al momento non vi sono molti metodi diffusi per gestire l’incompatibilità tra farmaci e geni a parte un rischioso meccanismo di tentativo-errore, ossia provare e vedere cosa succede, una cosa che funziona bene in molti casi pratici ma è potenzialmente suscettibile di effetti devastanti.

Nel caso di malattie croniche e dunque di farmaci prescritti per il controllo della pressione o del colesterolo o del glucosio, mentre il medico sperimenta cercando il farmaco giusto possono verificarsi effetti della malattia come ictus, infarti o altri gravi danni agli organi.

Questo è importante non solo per il singolo paziente ma anche per la società nel suo complesso dati i costi enormi dell’assistenza per questi effetti indesiderati.

Rappresentazione della taurochenodeossicolato 6alfa-idrossilasi, o CYP3A4, uno degli enzimi maggiormente coinvolti nella degradazione dei farmaci

Tra le proteine in grado di interferire con il metabolismo dei farmaci vi sono sicuramente gli enzimi appartenenti alla famiglia del citocromo P450 (CYP), una famiglia che comprende 18 famiglie, 44 sottofamiglie e 57 geni, i quali rientrano nella stessa categoria a causa della similarità che accomuna le varie sequenze amminoacidiche. Questo enzima è presente in tutti i domini dei viventi (infatti sono note più di 7.700 distinte macromolecole di tipo CYP), appartiene alla sottoclasse enzimatica delle ossidasi a funzione mista (o monoossigenasi).

I citocromi P450 sono i maggiori attori coinvolti nella detossificazione dell’organismo, essendo in grado di agire su un gran numero di differenti substrati, sia esogeni (farmaci e tossine di origine esterna) sia endogeni (prodotti di scarto dell’organismo). Spesso prendono parte a complessi con funzione di catena di trasporto di elettroni, noti come sistemi contenenti P450.

Le reazioni catalizzate dalle isoforme del citocromo P450 sono svariate. La più comune è una classica reazione da monossigenasi: il trasferimento di un atomo di ossigeno dall’ossigeno molecolare a un substrato organico, con riduzione del secondo atomo di ossigeno ad acqua:

RH + O2 + 2H+ + 2e → ROH + H2O

Le proteine enzimatiche appartenenti a questa categoria sono i principali responsabili della metabolizzazione farmacologica. Farmaci utilizzati per il trattamento di un’ampia varietà di condizioni patologiche, compresi depressione e altri sintomi psichiatrici, nausea, vomito, cinetosi e malattie cardiache, vengono degradati da queste proteine, e così anche componenti della famiglia degli oppiacei come la morfina e la codeina.

Debrisochina, un farmaco antipertensivo, usabile anche per stabilire la presenza di difetti genetici nel gene CYP2D6.

In particolare, il gene CYP2D6 è correlato al 25-30% dei farmaci assunti. Il gene CYP2D6 codifica per un polipeptide noto come debrisochina idrossilasi, in grado di inattivare tramite idrossilazione il ruolo anti-ipertensivo della debrisochina in soggetti sensibili. CYP2D6 mostra la più grande variabilità fenotipica tra i CYP. Infatti, esistono più di 70 alleli noti di CYP2D6 e a seconda del genotipo possono originarsi (un allele è ciascuna delle sequenze alternative di un gene o di altra sequenza di DNA):

  • metabolizzatori scarsi; deficit di debrisochina idrossilasi.
  • metabolizzatori intermedi; un allele nullo e un allele che codifica una versione difettosa della debrisochina idrossilasi.
  • metabolizzatori completi; un allele pienamente funzionante
  • metabolizzatori ultrarapidi; un numero di copie del gene superiore al normale, come risultato di eventi di duplicazione genica.

Il fenotipo CYP2D6 di un paziente è spesso determinato clinicamente tramite la somministrazione di debrisochina e la successiva analisi della concentrazione plasmatica del metabolita (4-idrossidebrisochina) (il fenotipo corrisponde alla espressione concreta del genotipo, ossia del gene, del DNA, in questo caso alla proteina coinvolta). Il profilo metabolico di un paziente è di importanza cruciale nel determinare il dosaggio appropriato. Infatti, un metabolizzatore scarso presenterà un rischio maggiore di effetti collaterali dannosi o di sovradosaggio, perché l’organismo eliminerà il farmaco in maniera inefficiente, mentre un metabolizzatore ultrarapido avrà probabilmente bisogno di una dose maggiore per ottenere un effetto benefico, a causa della sua aumentata capacità di modificarlo e rimuoverlo.

Un altro esempio di farmacogenomica applicata è evidente nella terapia farmacologica contro HIV, il virus dell’immunodeficienza umana. Un gruppo di ricercatori italiani (https://cattolicanews.it/news-dalle-sedi-giuliodori-dio-ci-chiede-di-non-rimanere-immobili/news-dalle-sedi-hiv-un-test-anti-reazioni-da-abacavir) ha messo a punto un test del DNA che rileva la predisposizione ad una reazione tossica all’uso dell’Abacavir, un importante farmaco antiretrovirale somministrato, insieme ad altri farmaci, durante il trattamento terapeutico contro HIV.

Solitamente l’Abacavir è ben tollerato dalla maggior parte dei pazienti; tuttavia esiste una piccola percentuale di soggetti (5-8%) che, nelle prime sei settimane di trattamento, risulta ipersensibile al farmaco. Essendo questa reazione di ipersensibilità molto pericolosa per la salute, coloro che tendono a svilupparla non potranno assolutamente essere trattati con questo tipo di farmaco. Ad oggi, infatti, la prescrizione dell’Abacavir è consentita solo a quei pazienti che, dopo il test, non risultino soggetti a rischio; da qui l’enorme vantaggio di avere a disposizione un esame che fornisca risposte in tempi brevi (il test in questione sfrutta la real time PCR) e che sia facilmente accessibile da tutti i pazienti. Lo stesso principio è applicato nel trattamento terapeutico contro il cancro; qui i test di farmacogenomica vengono impiegati per identificare quali pazienti risulteranno ipersensibili oppure non risponderanno affatto a farmaci antitumorali comunemente usati nella pratica clinica.

Purtroppo queste ricerche sono solo all’inizio e la farmacogenomica legata a comuni farmaci come l’aspirina poniamo non è ancora ben conosciuta; c’è spazio per molte ricerche di base su questo tema per una medicina di precisione a partire dal ruolo delle modifiche genetiche presenti in maggiore o minore percentuale nelle varie etnie del mondo e fra uomini e donne.

Una lista aggiornata dei farmacogeni, ossia dei geni associati al metabolismo di un certo farmaco è qui. La lista è gestita dalla FDA.

NdA. Alcune parti del testo sono estratte dalle voci corrispondenti di Wikipedia, l’enciclopedia libera.

Ho comunque introdotto alcune definizioni dei termini meno comuni.

La sofferenza del chimico.

Luigi Campanella, già Presidente SCI

Da chimico soffro un po’ quando sento parlare di motore elettrico alternativo a quello ad idrogeno, soffro perché si tratta di due motori, elettrici entrambi, essendo diverso solo il serbatoio sostituito in un caso da batterie e in un altro da idrogeno gassoso. E’ questo che poi con una reazione elettrochimica con l’ossigeno dell’aria produce energia ed acqua: questo avviene nelle celle a combustibile.

La differenza quindi tra i due modelli non è nel tipo di motore, elettrico per entrambi, ma nel tipo di alimentazione. Ed allora può sorgere spontanea la domanda: quale delle 2 soluzioni è la migliore? In effetti come sempre nelle due facce di un problema ci sono per entrambe vantaggi e svantaggi. Oggi il mercato è decisamente orientato verso le batterie, ma non credo si possano escludere variazioni nei prossimi 10 anni, quando i vantaggi di una potrebbero divenire svantaggi e tutto l’opposto per l’altra. L’autonomia viene considerata confrontabile, la ricarica è ovviamente a favore dell’idrogeno con semplicità e tempi ridotti: questi sono gli stessi delle macchine a benzina, mentre malgrado i progressi negli accumulatori la ricarica delle batterie richiede circa 10 volte più tempo, addirittura molte ore se ci si serve della rete di casa. Il grande vantaggio del sistema a batterie sta nella difficoltà e negli alti costi per realizzare gli impianti a ricarica di idrogeno: l’elemento va stoccato a 700 atmosfere cosa difficile da fare tanto che in Italia c’è un solo distributore a Bolzano.

Il risultato è che benché macchine ad idrogeno già esistano, da noi non possono essere utilizzate perché non c’è modo di rifornirle. Stanno meglio altri Paesi Europei come Francia e Germania, ma più di tutti hanno scommesso su questi modelli giapponesi e coreani.

https://leganerd.com/2017/06/28/auto-elettriche-vs-auto-idrogeno/

Superato questo gap l’idrogeno potrebbe avere un vantaggio sul piano ambientale: non certo per le emissioni che sono a zero in tutti e due i casi, ma nella produzione e smaltimento in quanto gli accumulatori sono costosi e utilizzano materiali non tutti ecofriendly. Forse nella stessa logica di vantaggi e svantaggi alternativi nel tempo richiesto dall’idrogeno per installare la sua rete, le batterie aumenteranno la loro densità energetica, diverranno meno ingombranti, meno pesanti e meno costose. Il mercato ci dirà quale soluzione sarà più convincente per i cittadini. Oggi già si intravedono orientamenti di scelta: l’idrogeno è più adatto per i veicoli pesanti, le batterie per le vetture che offrono meno spazio disponibile.

Un’altra alternativa è rappresentata dalle hybrid con motore termico ed elettrico e quindi alimentazione a batterie ed idrocarburi. Rappresentano il top innovativo già in uso e rispondono ad una esigenza al tempo stesso ambientale e di resistenza ai cambiamenti bruschi.  Si tratta di una mediazione che riduce l’impatto ambientale ma non lo annulla:  le emissioni di CO2 e di altri gas è solo ridotta.

In effetti ci sono varie forme di ibridizzazione con costi e risultati molto diversi.La guidabilita e l’uso più conveniente sono legati alla velocità ed alle condizioni e caratteristiche della strada.Ci sono ibridi che non hanno alcun collegamento tra il propulsore elettrico e la trasmissione.La parte ibrida sta nello stoccaggio dell’energia poi utilizzata solo dal propulsore elettrico. C’e poi un altro ibrido: idrogeno e batteria su cui si accentuano le attenzioni scientifiche delle case automobilistiche. Sarà la soluzione? Difficile dirlo, ma da chimico mi permetto di trasferire a questo settore quanto vale in qualsiasi processo: quando si può arrivare con una sola reazione la semplicità diventa un elemento di preferenza, la doppia soluzione è sempre elemento di complessità.

Almanacco della Scienza CNR dedicato ai rifiuti.

Rinaldo Psaro*

Cari colleghi, vi segnalo che al tema dei rifiuti è dedicato l’Almanacco della Scienza, il magazine dell’Ufficio Stampa del Cnr on line da oggi.

A svilupparlo, come sempre, sono ricercatrici e ricercatori del Consiglio nazionale delle ricerche, chiamati ad indagare i rischi ma anche le opportunità legati al rifiuto, le innovazioni disponibili al riguardo e le molte significazioni di questo termine.

Nel Focus , i danni ambientali determinati dalla pandemia, in seguito all’uso massiccio di dispositivi quali mascherine e guanti monouso che si sono aggiunti alla spazzatura tradizionale, e dalla moda usa e getta o fast fashion: ne parlano rispettivamente Matteo Guidotti dell’Istituto di scienze e tecnologie chimiche e Giampaolo Vitali dell’Istituto di ricerca sulla crescita economica sostenibile. C’è poi sempre il problema della plastica, specialmente micro‐ e nano‐, per la salute (ne parlano Sandra Baldacci, Amalia Gastaldelli e Sara Maio dell’Istituto di fisiologiaclinica), per le spiagge e i mari ( Marco Faimali, Chiara Gambardella e Francesca Garaventa dell’Istituto per lo studio degli impatti antropici e sostenibilità in ambiente marino), tema trattato anche nel video interno all’articolo da SilviaMerlino dell’Istituto di scienze marine e da Marco Paterni dell’Istituto di fisiologia clinica.

Ma le nuove soluzioni non mancano.

Serena Doni dell’Istituto di ricerca sugli ecosistemi terrestri, Carmelo Drago dell’Istituto di chimica biomolecolare e Matteo Panizza dell’Istituto di chimica della materia condensata e di tecnologia per l’energia ricordano rispettivamente l’utilizzo di rifiuti organici come fertilizzanti, il ricorso agli oli di frittura esausti per ottenere biocarburanti e il riuso dei resti delle demolizioni come materiale da costruzione. Ci sono poi gli aspetti legati alla salute Anna Lo Bue dell’Istituto di farmacologia traslazionale parla della disposofobia, un disturbo che impedisce di disfarsi dei propri oggetti, indipendentemente dal loro valore.

Il medico Roberto Volpe dell’Unità prevenzione e protezione, nella nuova rubrica Salute a tavola, illustra i rischi del cibo spazzatura o junk food.

Sul tema è essenziale il ruolo dei media. Protagonista del Faccia a faccia è Licia Colò, la nota conduttrice di programmi ambientali. Mario Tozzi, divulgatore e ricercatore dell’Istituto di geologia ambientale e geoingegneria, in Cinescienza commenta il film d’animazione Wall‐e.

Ma essenziale resta l’impegno civico: in Altra ricerca si ricordano le giornate di volontariato ambientale organizzate da Unicoop Firenze con Legambiente e l’evento promosso dalla campagna nazionale A buon rendere dell’associazione Comuni virtuosi.

Le Recensioni , infine, propongono lo spettacolo teatrale Muttura, incentrato sull’interramento illecito di rifiuti in Salento. E i volumi L’era degli scarti, che il ricercatore Marco Armiero dedica al wasteocene, di cui parla anche in un video, e il Plasticene del biologo Nicola Nurra, collaboratore dell’Istituto di scienze marine del Cnr: gli autori ricorrono a due neologismi ispirati all’antropocene per definire l’era contemporanea, in cui il Pianeta è invaso dagli scarti prodotti dagli esseri umani.

*Rinaldo Psaro è Direttore dell’Istituto CNR per le scienze e le tecnologie molecolari; autore di oltre 160 pubblicazioni e vari brevetti nel campo della chimica organometallica delle superfici, della caratterizzazione dei catalizzatori  e della catalisi eterogenea.

Tensioattivi “biologici” in cosmetica e cura della persona

(In base al testo di C. Bettenhausen, Switching to sustainable surfactants., C&EN, May 1, 2022)

Rinaldo Cervellati

Mentre la maggior parte delle industrie punta a zero emissioni entro il 2050, i marchi di prodotti di consumo che producono sapone, shampoo, lozioni e cosmetici fissano i loro obiettivi di sostenibilità al 2030. Questi obiettivi vanno anche oltre alle sole emissioni di anidride carbonica.

Infatti, quando le persone acquistano prodotti per la cura della persona, cercano anche biodegradabilità, basso impatto ambientale e un approvvigionamento sostenibile ed etico.

I tensioattivi sono un ingrediente primario per rendere i prodotti più efficienti. Queste molecole svolgono un ruolo centrale in tutti i tipi di prodotti per la cura della persona, avendo il potere di rimuovere lo sporco e il grasso contenuti nei cosmetici per viso e corpo. Molti tensioattivi aiutano anche a idratare e levigare la pelle e i capelli.

Neil Burns, amministratore delegato di un’azienda produttrice di cosmetici, dice: “È un buon momento per vendere nuovi ingredienti, i marchi per la cura della persona sono più ricettivi di quanto lo fossero un tempo. Grandi nomi aziendali si impegnano per obiettivi piuttosto ambiziosi in materia di sostenibilità. Data la portata degli impegni e data la lista odierna di materie prime prontamente disponibili, hanno bisogno di ingredienti nuovi”.

Ma quali sono le loro opzioni per questi ingredienti e quali sono le migliori per il pianeta? Mentre le aziende produttrici cercano di sostituire i tensioattivi sintetici con alternative più ecologiche e a basse emissioni di carbonio, sono tre le categorie principali tra cui scegliere: biotensioattivi microbici, tensioattivi intrinsecamente biobased[1] e versioni biobased dei tensioattivi convenzionali. Le decisioni che verranno prese potrebbero avere un impatto duraturo sul nostro ambiente.

Biotensioattivi Microbici

Chimicamente parlando, i tensioattivi sono molecole che hanno sezioni sia idrofile che idrofobiche. Il tradizionale sapone ha una testa di acido carbossilico attratta dall’acqua e una lunga coda di idrocarburi attratta dai grassi. Molte altre molecole naturali, sintetiche e semisintetiche possono avere lo stesso effetto con diverse combinazioni di motivi molecolari polari e apolari.

Il termine biotensioattivo si riferisce ai glicolipidi prodotti da alcuni microrganismi. La testa idrosolubile è un gruppo zuccherino e la coda idrosolubile è una lunga catena di idrocarburi per lo più satura. In natura, i microbi utilizzano i glicolipidi per il rilevamento di adesione, lubrificazione e competizione con altri microrganismi.

I due biotensioattivi commercialmente più avanzati sono i ramnolipidi e i soforolipidi, che presentano rispettivamente ramnosio e soforosio nelle loro teste zuccherine (fig.1 e 2). All’interno di ciascuna di queste famiglie, le variazioni strutturali possono alterare le proprietà del tensioattivo.

Figura 1. Struttura di un soforolipide. Classe: Biotensioattivo; Concentrazione tipica in uno shampoo: 0,5–10%; Quantità di schiuma: bassa; Mitezza: molto lieve; Applicazione comune: struccanti in acqua micellare.

La coda idrocarburica dei soforolipidi, ad esempio, può fluttuare liberamente e terminare in un acido carbossilico (fig. 1) o avvolgersi e attaccarsi alla testa dello zucchero, creando un anello di lattone. I biotensioattivi non sono nuovi; i riferimenti nella letteratura chimica risalgono agli anni ’50, tuttavia di recente sono disponibili per il mercato commerciale.

L’indicatore più forte dell’interesse per i biotensioattivi è il ritmo con il quale vengono presi gli accordi. Pochi giorni prima di In-cosmetics Global, la fiera degli ingredienti per la cura della persona tenutasi a Parigi, Holiferm ha firmato un accordo con l’azienda chimica Sasol, che acquisterà la maggior parte dei soforolipidi prodotti nel Regno Unito.

La BASF, concorrente di Sasol, ha pure un accordo con Holiferm e una partecipazione nel produttore giapponese di soforolipide Allied Carbon Solutions.

All’inizio di quest’anno, l’industria specialista della fermentazione dei tensioattivi Locus Performance Ingredients, ha firmato un accordo simile per la fornitura alla ditta Dow di soforolipidi per i mercati della cura della casa e della persona.

E a gennaio, Evonik Industries ha annunciato l’intenzione di costruire un impianto di ramnolipidi in Slovacchia.

Figura 2. Struttura di un ramnolipide. Classe: Biotensioattivo; Concentrazione tipica in uno shampoo: 2–10%; Quantità di schiuma: alta; Mitezza: molto lieve. Applicazione: Detergenti

Holiferm utilizza un ceppo di lievito isolato dal miele, che consuma zucchero e olio di girasole per produrre il tensioattivo bersaglio. Clarke afferma che il processo semicontinuo dell’azienda, che estrae i soforolipidi durante cicli di fermentazione lunghi settimane, la distingue da quelle che utilizzano metodi di produzione in batch.

Oltre ad essere a base biologica, i biotensioattivi hanno un impatto ecologico inferiore rispetto ai tensioattivi convenzionali come il sodio lauriletere solfato (SLES) (fig. 3).

Figura 3. Struttura di sodio lauriletere solfato. Classe: Tensioattivo semisintetico; Concentrazione tipica in uno shampoo: 40%; Quantità di schiuma: alta; Mitezza: Moderata; Applicazione: detergenti

Secondo Dan Derr, un esperto di bioprocessi che ha contribuito a sviluppare la tecnologia dei ramnolipidi, il vantaggio ecologico deriva principalmente dalle condizioni di fermentazione, che viene effettuata a temperatura e pressione ambiente.

Infatti, lo SLES è solitamente prodotto facendo reagire gli alcoli grassi derivati ​​dall’olio di palma con l’ossido di etilene e il triossido di zolfo. Questi passaggi consumano molta energia perché si svolgono a temperature e pressioni elevate. E sebbene la componente grassa sia a base biologica, l’olio di palma è molto preoccupante per la sostenibilità, inclusa la deforestazione necessaria per costruire fattorie di palme e le emissioni di gas serra dalla rimanente materia vegetale legnosa.

I biotensioattivi sono anche più potenti rispetto allo SLES e alla maggior parte delle altre opzioni, rendendo possibile un minor utilizzo in una formulazione finale.

Intrinsecamente biobased

Altri tensioattivi a base biologica, prodotti modificando chimicamente e combinando molecole estratte dalle piante, sono disponibili da anni ma ora stanno riscuotendo un crescente interesse.

La classe più popolare in questa categoria sono gli alchil poliglucosidi o APG (fig. 4).

Figura 4. Struttura di un alchil poliglucoside. Classe: sintetico; Concentrazione in uno shampoo: 15–25%; Quantità di schiuma: moderata; Mitezza: irritante; Applicazioni: creme e gel.

Chimicamente simili ai glicolipidi microbici, gli APG sono prodotti combinando glucosio o altri zuccheri con alcoli grassi derivati ​​da oli vegetali. La reazione è guidata da catalizzatori inorganici o enzimi. Come i biotensioattivi, gli APG sono più delicati e generalmente hanno un impatto di CO2 inferiore rispetto ai tensioattivi convenzionali, però costano fino a tre volte gli SLES e non sono molto schiumogeni. La formazione di schiuma non migliora molto l’efficacia dei detergenti, ma le persone vedono le bolle schiumose come un segno di efficacia.

Sebbene non siano così popolari come lo SLES e i relativi ingredienti etossilati, gli APG sono già diffusi.

Marcelo Lu, vicepresidente senior di BASF per i prodotti chimici per la cura in Nord America, afferma che per fornire tensioattivi biobased a basso contenuto di CO2 nella quantità necessaria per le ambizioni ecologiche delle aziende globali, gli APG sono i più adatti.

Convenzionali, ma biobased

Anche con l’aiuto dei fornitori, la riformulazione degli ingredienti non è banale; per un’azienda è costoso e rischioso cambiare una linea di prodotti che già funziona. Evitare la riformulazione è la proposta che alcune grandi aziende chimiche stanno portando avanti con le versioni biobased dei tensioattivi convenzionali.

Soprattutto nella cura della persona, molti tensioattivi, come lo SLES, sono già parzialmente biobased. Circa la metà degli atomi di carbonio in un tensioattivo a base di olio vegetale etossilato ha origini da biomassa.

Due produttori chimici, Croda International e Clariant, hanno apportato una modifica che ha consentito loro di arrivare al 100% di biobased. Essi stanno ricavando ossido di etilene dalle piante invece che dalle risorse fossili. La chimica utilizzata da entrambi è stata sviluppata principalmente dalla società di ingegneria Scientific Design (New Jersey, USA). Il processo inizia disidratando l’etanolo di origine vegetale in etilene. Le fasi successive dell’ossidazione dell’etilene in ossido di etilene, cioè la sintesi di tensioattivi etossilati, sono le stesse del percorso sintetico, sebbene Scientific Design offra sistemi che integrano tutte e tre le fasi.

Sebbene i consumatori apprezzino le etichette di tali prodotti a base biologica, per i sostenitori dell’ambiente, essere derivati ​​​​dalle piante non è un obiettivo centrale come lo era prima. Gran parte del discorso sulla sostenibilità nell’industria chimica oggi riguarda le emissioni di carbonio e i danni della CO2 e dell’ossido di etilene a base biologica non vengono eliminati.

David Schwalje, responsabile dello sviluppo dei mercati per l’azienda di ingegneria chimica e dei combustibili Axens, afferma che la provenienza della materia prima per l’etanolo fa la differenza quando si tratta di misurare l’intensità di CO2 dei prodotti risultanti. L’ossido di etilene ottenuto da alcol di mais o canna da zucchero coltivato in modo convenzionale, spesso chiamato etanolo di prima generazione, non è affidabile dal punto di vista delle emissioni rispetto all’ossido di etilene prodotto dal petrolio.

Uno sguardo ad alcuni numeri pubblicamente disponibili mostra quanto può variare l’emissione di CO2 per il composto. Le emissioni di carbonio della coltivazione del mais necessarie per produrre un chilogrammo di ossido di etilene a base biologica, anche dalla produzione di fertilizzanti, carburante per trattori e altre fonti di emissioni, erano comprese tra 0,8 e 2,8 kg di CO2, secondo i calcoli basati sulle stime di Argonne National Laboratory e University of Minnesota [1,2], tenendo conto dei numeri sulla produzione di ossido di etilene, il percorso biobased offre una riduzione dell’86% a un aumento del 46% delle emissioni di CO2 rispetto al percorso petrolchimico.

Tuttavia, afferma Schwalje, l’etanolo di seconda generazione ottenuto da rifiuti o cellulosa coltivata in modo sostenibile in cui le apparecchiature di fermentazione e distillazione utilizzano la cattura del carbonio può essere fortemente carbonio-negativo e portare quel vantaggio di CO2 a valle dei prodotti che ne derivano.

Sia Croda che Clariant stanno usando etanolo di prima generazione, almeno per ora. Croda produce i suoi prodotti Eco da etanolo a base di mais in un impianto alimentato da metano catturato da una discarica vicina, riducendo l’impatto di carbonio degli ingredienti prodotti.

L’impianto di Clariant a base di canna da zucchero e mais si trova a Uttarakhand (India), parte di una joint venture con India Glycols. Fabio Caravieri, responsabile del marketing di Clariant, afferma che il solo uso di ossido di etilene a base biologica non renderà uno shampoo o un bagnoschiuma negativo al carbonio, ma offre un miglioramento. Clariant afferma che grazie alla materia prima e alle attrezzature specifiche dello stabilimento in India, un produttore può rivendicare una riduzione dell’impatto del carbonio fino a 2 kg di CO2 per ogni kg di tensioattivo. E l’azienda Clariant è in grado di fare di più. Essa gestisce uno degli unici impianti di etanolo di seconda generazione al mondo, una struttura da 50.000 tonnellate all’anno, in Romania, che ha iniziato a produrre etanolo dalla paglia nel 2021. L’etanolo cellulosico potrebbe diventare una materia prima per i prodotti cura della persona in futuro, se una tale combinazione sarà redditizia una volta che l’azienda avrà acquisito più esperienza.

La via del bilancio di massa

Altre importanti aziende chimiche stanno soddisfacendo la domanda di contenuto di carbonio rinnovabile attraverso un approccio noto come bilancio di massa. Come per gli etossilati a base di etanolo, i tensioattivi ottenuti con questo metodo sono chimicamente identici a quelli già presenti sul mercato. Ma l’approccio del bilancio di massa introduce la biomassa più a monte. Viene miscelata con materie prime di carbonio fossile come la nafta o il gas naturale poiché queste sostanze vengono immesse nei cracker che producono l’etilene e altre sostanze chimiche costitutive.

I metodi di contabilizzazione del bilancio di massa variano, ma l’idea di base è che un operatore ottenga crediti per ogni atomo di carbonio a base biologica immesso nel suo cracker. Può assegnare quei crediti a una parte della produzione dell’impianto contenente lo stesso numero di atomi di carbonio. I clienti che vogliono acquistare dalla parte biobased pagano la tariffa di mercato per la chimica convenzionale più un supplemento per la biomassa, o carbonio rinnovabile.

Nonostante i vantaggi logistici del bilancio di massa, l’approccio non convince tutti gli utenti finali. Le abbreviazioni di certificazione di bilancio di massa come ISCC e REDcert non significano molto per il consumatore. E anche se la contabilità del bilancio di massa è legittima, le emissioni di carbonio nel prodotto finale sono un mix di origine vegetale e fossile, e questo non è ciò che molti acquirenti vogliono.

Ivo Grgic, Global Purchase Category Manager di Henkel per i tensioattivi, riconosce queste preoccupazioni, ma afferma che il bilancio di massa è il passo successivo più veloce che l’azienda può compiere per rendere i suoi prodotti più sostenibili.

Sostiene Grgic: “Siamo un’azienda che produce enormi volumi. Dal nostro punto di vista, dobbiamo avere un impatto e abbiamo deciso che l’equilibrio della biomassa è l’approccio con cui possiamo sostituire il carbonio fossile su larga scala nel modo più veloce. Altre tecnologie, come la cattura della CO2 e i biotensioattivi, seguiranno nei prossimi anni”.

I marchi di prodotti di consumo che cercano di diventare biobased hanno diverse opzioni: nuovi ingredienti come i glicolipidi, uso esteso di ingredienti speciali come gli APG e nuove versioni biobased degli ingredienti a cui sono abituati. Ma le scelte implicano un complesso equilibrio tra sostenibilità, efficacia, disponibilità e, naturalmente, costo. Caravieri afferma che i consumatori ecoconsapevoli sono disposti a tollerare un sovrapprezzo del 25-40%.

La chimica dietro i tensioattivi a base biologica è nota da anni. Il cambiamento verso di loro sta avvenendo ora, perché i consumatori sono più consapevoli di ciò che stanno usando. In numero sempre crescente, vogliono prodotti sostenibili a base biologica.

Aziende come Henkel stanno adottando un approccio completo per soddisfare tale domanda, anche se guardano alla via  per approcci migliori. “I clienti sono alla ricerca della sostenibilità e vogliono provare ad accedervi da tutte le aree possibili”.

Bibliografia

[1] T.M. Smith et al., Subnational mobility and consumption-based environmental accounting of US corn in animal protein and ethanol supply chains., Proc. Natl. Acad. Sci. U.S.A. Sept 5, 2017, DOI: 10.1073/pnas.1703793114.

[2] U. Lee et al., Retrospective analysis of the U.S. corn ethanol industry for 2005–2019: implications for greenhouse gas emission reductions. Biofuels, Bioprducts & Biorefining, 2021, 15, 1318-1331. DOI: 10.1002/bbb.2225.


[1]  Il termine “biobased” è utilizzato per materiali o prodotti che siano interamente o parzialmente derivati da biomassa

In occasione della Giornata della Terra

 Vincenzo Balzani

Cos’è la Terra? Un frammento apparentemente insignificante dell’Universo, formatosi 4,5 miliardi di anni fa dall’aggregazione di materiali provenienti dal Sole, che è una delle centomila miliardi di miliardi (1 seguito da 23 zeri) di stelle dell’Universo. In una famosa fotografia della NASA, scattata dalla sonda spaziale Cassini quando si trovava a una distanza di 1,5 miliardi di chilometri da noi, la Terra appare come un puntino blu-pallido nel buio cosmico. Non c’è evidenza che si trovi in una posizione privilegiata dell’Universo, non ci sono segni che facciano pensare ad una sua particolare importanza. Fotografata da più vicino, la Terra sembra una grande astronave che viaggia senza meta nell’Universo; sappiamo che trasporta più di 8 miliardi di persone.

La terra vista dalla sonda Cassini.

La scienza ha stabilito che 3,5 miliardi di anni fa sulla Terra è emersa quella “entità” misteriosa che chiamiamo “vita”, confinata fra due altri misteri che chiamiamo “nascita” e “morte”. L’evoluzione della vita ha poi portato all’uomo. La civiltà umana ha solo 10.000 anni!

La Terra è, forse, l’unico luogo nell’Universo in cui c’è la “vita”. In ogni caso, è certamente l’unico luogo dove noi possiamo vivere perché se anche nell’Universo esistesse un’altra stella con un suo pianeta in una situazione simile a quella Sole-Terra, essa sarebbe lontana da noi almeno quattro anni luce; quindi, irraggiungibile.

Nel Salmo 115 della Bibbia è scritto che “I cieli sono i cieli del Signore, ma ha dato la Terra ai figli dell’uomo”. La Terra, quindi, è un dono di Dio. Come dice papa Francesco è la nostra casa comune. Siamo legati alla Terra come i figli alla madre, ma anche come la madre ai figli perché, proprio come se fosse nostra figlia, dobbiamo avere cura della Terra, dobbiamo custodirla, amarla e renderla accogliente per le prossime generazioni.

Purtroppo, non lo stiamo facendo. Viviamo in un’epoca chiamata Antropocene, caratterizzata dal degrado del pianeta (insostenibilità ecologica) e della stessa società umana, come dimostrato dalla guerra Russia-Ucraina e dalle altre 871 fra guerre e guerriglie, coinvolgenti 70 stati, che si combattono oggi nel mondo, quasi sempre senza che si riesca a comprenderne le ragioni.

Si potrebbe pensare che la Terra, questo luogo allo stesso tempo così insignificante e così speciale, non sia adatto ad ospitare l’umanità perché ha troppi difetti: è fragile, ha risorse spesso insufficienti e, soprattutto, non distribuite in maniera equa. In realtà è proprio con questi suoi difetti che la Terra ci insegna, spesso inascoltata maestra, come dovremmo vivere. Con la sua fragilità ci ricorda che è nostro dovere prenderci cura delle persone che ci sono state affidate. Con la scarsità di certe risorse ci insegna a vivere non nella dissolutezza dell’usa e getta e dell’egoismo, ma nell’aiuto reciproco e nella sobrietà del risparmio e del riciclo. Infine, con la diseguale distribuzione delle risorse nelle varie regioni, sprona le nazioni a collaborare in amicizia e rispetto, senza farsi la guerra. Che si tratti di una persona o di una nazione o della Terra stessa non c’è salvezza senza aiuto reciproco.

Recensioni. Società, Conoscenza e Nuove Tecnologie

Luigi Campanella, già Presidente SCI

Sono un appassionato lettore ed ero rimasto molto dispiaciuto per non avere potuto in questo 2022 rispettare la mia media di 1 libro al mese.

Nel periodo prepasquale fra i dolori della guerra ed il ritorno alla vita sociale che ho rilevato nella mia città ho deciso di recuperare e cosi mi sono dedicato a queste letture che mi piace segnalare agli amici del blog: Antropocene e le sfide del XXI secolo di A.F. De Toni, G. Marzano e A. Vianello Meltemi ed. 2022, ;132p 13 euro

Il secolo della Fraternità di M. Ceruti e F. Bellusci ed. Castelvecchi 2021, 80p 11 euro

Indagini sul Futuro di S. Rossi , Laterza, 2022, 176 p , 14 euro

L’abbecedario del post umanismo a cura di E. Baioni, L.M. Quadrado-Payeras, M. Macelloni. Ed. Mimesis, 2022, 446p 24 euro

Perché ho deciso di scrivere questo post di sintesi a queste letture?

Perché credo -non lo sapevo davvero quando le ho scelte- che siano in qualche misura collegate rappresentando la trasformazione della nostra società per gli aspetti di stratificazione sociale e per il ruolo svolto rispetto ad essi dalle nuove tecnologie da una parte e dai nuovi valori che i cambiamenti climatici hanno imposto.

I media e la rete, discutendo con continuità di questi valori di fatto creano una disarticolazione fra quanti accedono a questi nuovi strumenti cognitivi e chi ad essi rinuncia per scelta o, come più spesso avviene, per incapacità.

L’invecchiamento della popolazione ha sviluppato una silver economy che finisce, proprio per i prevalenti interessi economici, per alimentare questa nuova stratificazione.

A un mondo in rapida trasformazione serve un nuovo linguaggio che tenga conto del fatto che la visione antropocentrica della natura è superata da quella ben più universale del pancentrismo, puntando ad una sorta di umanità postumana.

Il primo passo consiste nell’aggiornare il significato di alcuni termini.

Ambientalismo, ad esempio, ha significato attenzione al paesaggio ecologico in cui la sola specie sapiens è attrice principale, sicché per essa l’ambiente è solo sfondo e non fondamento.

Oggi ambientalismo significa superare l’antropocentrismo per evitare che la specie sapiens e le sue civiltà possano trascurare le comunità multispecie.

Altrettanto importante per inquadrare la realtà è trovare nuovi termini: nell’abbecedario si fa l’esempio del termine solastalgia, il sentimento di sconforto che si prova alla degradazione del luogo che da sempre abbiamo considerato casa, ma anche di antropocene, termine ideato dall’ecologo Eugene F.Stoermer per sottolineare come l’attività umana sia arrivata ormai ad incidere sui processi climatici e geologici.

Siamo perciò dentro un passaggio epocale dall’umano al post umano rispetto al quale la disponibilità delle nuove tecnologie digitali che contaminano la specie umana comporta una serie di domande sull’evoluzione umana, sulla trasmissione della cultura, sulla stessa storia. Oggi grazie alle comunità intelligenti connesse si profilano importanti opportunità di sviluppo per l’organizzazione della memoria culturale con la prospettiva di un nuovo umanesimo tecnologico.

La chimica è scienza che sta percorrendo questo percorso: dal focus solo economico al ruolo di garante del diritto umano all’ambiente sano, agli alimenti, alla sicurezza.

Il dubbio nasce rispetto all’unitarietà di questa comunità digitale che invece viene spesso gestita settorialmente con connessioni talvolta troppo rare. Ed allora ecco che dovrebbe intervenire uno dei valori collegati al progresso, cioè la creatività di cui si sente la mancanza, per cui, in mancanza di fantasia, si deve ricorrere a strumenti di previsione.

Questi nel libro di Salvatore Rossi vengono cercati intervistando 5 esperti, una studiosa di neuroscienze e senatrice a vita, Elena Cattaneo, l’amministratore delegato di Google Cloud, Thomas Kurian, la direttrice di un’organizzazione sui cambiamenti climatici Cristiana Fragola, il giornalista Ferruccio De Bortoli e l’architetto Carlo Ratti.

Emerge dalle risposte come la passione per la conoscenza sia il motore del processo innovativo, la cui alimentazione è affidata allo Stato ed alle sue istituzioni, prime fra tutte le università, ma con l’impegno anche della magistratura, del mercato affinché prevalga il metodo scientifico nel separare i fatti verificati dalle opinioni e nell’evitare che prevalgano le paure contro il nuovo -ed il futuro di certo ne conterrà- e contro il diverso che tendono sempre a riemergere.

Il pericolo è che il guadagno di produttività ottenuto con le nuove tecnologie, i robot le intelligenze artificiali resti nelle mani di chi le possiede. Al riequilibrio deve presiedere lo Stato senza però dimenticare le esigenze delle imprese e del mercato: e questo è un riequilibrio ancor più difficile da raggiungere dell’altro.

Chi ha scoperto il cesio-137?

Rinaldo Cervellati

Il cesio-137 è un isotopo radioattivo del cesio, che si forma come uno dei prodotti più comuni dalla fissione nucleare dell’uranio-235 e di altri isotopi fissili nei reattori e nelle armi nucleari. Il cesio-137 ha attualmente una serie di usi pratici.  Viene utilizzato per calibrare apparecchiature di rilevamento delle radiazioni, in medicina è usato nella radioterapia, nell’industria in flussimetri, misuratori di spessore, misuratori di densità dell’umidità e in dispositivi di registrazione di raggi gamma.

Chi ha scoperto il cesio-137?  Rebecca Trager, su Chemistry World Weekly news[1], racconta la storia di Margaret Melhase (sposata Fuchs), una brillante studentessa universitaria che scoprì il cesio-137 nel 1941, ma fu dimenticata fino alla fine degli anni ’60. Qui ne presentiamo una breve storia e i motivi per cui fu così a lungo trascurata.

Margaret Melhase nacque a Berkeley (California) il 13 agosto 1919, unica figlia di John Melhase e Margaret Orchard, discendente della famiglia di pionieri Orchard di Sunflower Valley.

La storia del cesio inizia con Glenn Seaborg[2], che stava identificando una miriade di nuovi radionuclidi che venivano prodotti dal ciclotrone di Lawrence all’Università di Berkeley dalla reazione nucleare dell’uranio. C’erano radionuclidi prodotti dalle interazioni tra particelle cariche e anche altri prodotti dalla fissione indotta da particelle neutre: i neutroni. Seaborg notò qualcosa di interessante. In tutti i prodotti della fissione individuati nel 1940 non c’erano radioisotopi a lunga emivita degli elementi del gruppo I (Na, K, Rb, Cs), sebbene sembrasse non esistere una ragione per cui non dovessero esserci. E intendeva scoprirne uno.

Glenn T. Seaborg nel 1940

Nel 1940, Margaret Melhase era studentessa di chimica a Berkeley e intendeva proseguire gli studi per il dottorato. A quel tempo, gli studenti molto dotati intraprendevano generalmente un progetto di ricerca e Margaret chiese consiglio all’amico Gerhart Friedlander che aveva ottenuto il dottorato sotto la supervisione di Seaborg.  Lui le suggerì di contattare Seaborg per un progetto. Seaborg le propose la ricerca di un elemento del I Gruppo tra i prodotti di fissione.

Margaret Melhase nel 1941, l’anno in cui scoprì il cesio 137.

Nel marzo 1941 Melhase ricevette 100 grammi di un composto di uranio (nitrato di uranile) irradiato con neutroni con cui lavorare. Trascorse i mesi successivi a estrarre gli elementi di altri gruppi e ad analizzare ciò che è rimaneva. La maggior parte dell’attività residua precipitava con il silicotungstato, che identificò come un radioisotopo del cesio. L’attività era abbastanza intensa da poter essere misurata con un semplice elettroscopio. Nelle due settimane successive, l’attività non diminuì in modo misurabile e Melhase poté solo concludere che, qualunque fosse l’isotopo del cesio, aveva un’emivita molto lunga. Fu presto identificato come Cs-137 con emivita di 30 anni [1].

Anche se Melhase aveva ragione, i tempi non erano propizi per divulgare la notizia. Infatti era in atto la seconda guerra mondiale e tutte le informazioni riguardanti la fissione nucleare vennero secretate,  pertanto Seaborg e Melhase sono stati privati di un tempestivo riconoscimento attraverso la pubblicazione su una rivista scientifica. Molte ricerche furono fatte con il cesio-137, tutte classificate, ma i risultati non furono rilasciati fino a dopo la guerra, e la scoperta non interessava più.

È piuttosto sorprendente che il radiocesio non sia stato trovato prima del 1941; la resa dalla fissione dell’uranio è di circa il 6%, più alta di qualsiasi altra.

Melhase ottenne dall’Università di Berkeley un diploma in chimica nel 1941 e desiderava continuare per il dottorato, ma incontrò improvvisamente un ostacolo quando il presidente del dipartimento di chimica dell’università, il famoso Gilbert Lewis[3],  rifiutò di lasciarglielo conseguire. Apparentemente, una precedente studentessa di Lewis aveva ottenuto un dottorato ma aveva lasciato la scienza per sposarsi e avere figli. Lewis lo considerava uno spreco di dottorato, una perdita del suo tempo e del tempo dell’università, e quindi  decise di bloccare Melhase esclusivamente a causa del genere [2].

Poiché Berkeley era considerata più liberale[4], Margaret poteva insistere, ma non lo fece. Lavorò nell’industria chimica e al Progetto Manhattan fino al 1946 ma, mancando di un grado avanzato, non perseguì una carriera nella scienza. Durante la sua permanenza alla UC a Berkeley, Melhase è stata membro dei Berkeley Folk Dancers e ha curato la newsletter del gruppo.

Incontrò Robert A. Fuchs, insegnante di matematica, a un ballo popolare. I due si sposarono nel 1945 ed ebbero tre figli. Quando si trasferirono a Los Angeles, Margaret decise di occuparsi della famiglia. È stata una sostenitrice delle cause sociali, organizzando marce per i lavoratori agricoli e aiutando le famiglie di immigrati laotiani.

Esistono pochi riferimenti ai primi lavori con il cesio-137. Come fa notare D. Patton [2]:

“Nella tabella degli isotopi del 1946 emessa dal Progetto Plutonio curato da J.M. Siegel, sotto cesio 137 ci sono riferimenti piuttosto indiretti: Seaborg, GT e M. Melhase, comunicazione privata a CD Coryell (1941),  in Coryell-Sugarman  sulla radiochimica: G. T. Seaborg, comunicazione privata (1942), infine un rapporto di Berkeley:  M. Melhase, Rapporto di ricerca, Università della California, Berkeley (settembre 1941).”

Lo stesso Patton ci informa tuttavia che Glenn Seaborg riconobbe, in un intervento alla Society of Nuclear Medicine, nel 1970, il contributo di Margaret Melhase [2]:

In the late fall of 1940 I asked an undergraduate student, Margaret Melhase (now Mrs. Fuchs), to take some uraniumwhich had been bombarded with neutronsfurnished by the 60 inch cyclotron  and make chemical separationsdesigned to look for hitherto unknown radioactivefission products such as cesium. She performedher chemical separations on the top floorof the old “Rat House” which even at that timewas an ancient, ramshackle wooden buildingdating from the earliest days of the Departmentof Chemistry at Berkeley. Her measurements ofthe radioactive decay and radiation absorptionproperties were performed through the use of aLauritsen quartz fiber electroscope. Miss Melhase continued her work until the summer of 1941, bywhich time she had established the presence of avery long-lived radioactive fission product in thecesium fraction which on the basis of subsequentwork we can now identify as being due to the30-year cesium 137.

Quindi, dal 1970 in poi è stato riconosciuto che il cesio-137 è stato scoperto da G.T. Seaborg e Margaret Melhase, anche se il contributo fondamentale di quest’ultima non è stato riconosciuto per circa trenta anni. 

Bibliografia

[1] Dennis D. Patton, How Cesium-137 Was Discovered by an undergraduate student, J. Nucl. Med., 1999, 40, 15N e 31N.

[2] Dennis D. Patton, Part 5: The discovery of cesium 137: The untold story, Acad. Radiol. , 1994, 1, 51–58. 


[1] R. Trager, Margaret Melhase Fuchs and the radioactive isotope, Chem. World Week., 4 April 2022.

[2] Glenn Theodore Seaborg (1912-1999) radiochimico americano, premio Nobel per la Chimica 1951 e premio Enrico Fermi 1959, ha sintetizzato e isolato il plutonio e scoperto altri elementi transuranici dall’americio al fermio. È considerato il fondatore della moderna chimica nucleare.

[3] Vedi: https://ilblogdellasci.wordpress.com/2016/05/07/gilbert-newton-lewis-1875-1946-un-premio-nobel-mancato-parte-1/; https://ilblogdellasci.wordpress.com/2016/05/20/gilbert-newton-lewis-1875-1946-un-premio-nobel-mancato-parte-2/.

[4] Nel 1871, il Board of Regents dell’University of Berkeley, stabilì che le donne dovevano essere ammesse su base di parità con gli uomini.

L’iperaccumulo, un modo alternativo di estrarre il Nickel (e altri metalli).

Claudio Della Volpe

Del Nickel abbiamo parlato ripetutamente; per esempio qui oppure qui.

Si tratta di un elemento molto importante dal punto di vista applicativo e dotato di un complesso ciclo biogeochimico che ricopio da uno dei post sopracitati.

L’ìmmagine è a sua volta estratta da un fondamentale lavoro sui cicli biogeochimici che non smetterò di citare (2009 (GLOBAL BIOGEOCHEMICAL CYCLES, VOL. 23, GB2001, doi: 10.1029/2008GB003376, 2009).

Come si vede la parte naturale del ciclo del Nickel non è così ridotta ed il Nickel è un elemento che arriva anche dallo spazio come anche è presente nel nucleo terrestre; insomma un elemento veramente principe.

Proprio per questo trovo veramente importante la sottolineatura di un recente articolo giornalistico sull’accumulo di questo elemento in varie piante; l’articolo originale è stato pubblicato dal Guardian, che personalmente considero uno dei migliori quotidiani del mondo e tradotto in italiano da Internazionale, una rivista mensile di articoli da tutto il mondo a cui sono abbonato da molti anni (nel numero 1459 ).

Cominciamo col dire che la percentuale del metallo nei minerali è attualmente in discesa, il che è OVVIO; abbiamo già estratto le risorse più ricche di molti elementi e dunque non possiamo meravigliarci di questa continua discesa della ricchezza dei depositi dei principali elementi che stiamo usando.

Il mondo che abitiamo è limitato e le sue risorse non sono affatto infinite come invece sottintende o ipotizza una ridicola visione economica cosiddetta “neoclassica” sulla quale sono ahimè basati molti programmi economici anche nel nostro paese e le cognizioni “scientifiche” di molti colleghi economisti e di altrettanti uomini politici, fra i quali il nostro attuale Presidente del Consiglio.

Come vedete i minerali dai quali estraiamo il nickel hanno attualmente una percentuale di metallo che si avvicina al 2% e tende a ridursi sempre più; ricordiamo che questo dato è simile in parecchi altri metalli importanti.

Torniamo all’argomento sull’accumulo. In realtà sarebbe più corretto parlare di iperaccumulo, in inglese hyperaccumulation, un fenomeno scoperto in effetti da molto tempo ed ancora in studio.

Di che si tratta?

È interessante notare che ci sono piante che sopravvivono, crescono e si riproducono su terreni metalliferi naturali e su siti inquinati con metalli pesanti a seguito di attività antropogeniche. La maggior parte delle specie che tollerano concentrazioni di metalli pesanti altamente tossici per le altre piante si comportano come “esclusori” (Fig. 1), basandosi su strategie di tolleranza e persino ipertolleranza utili per limitare l’ingresso del metallo. Trattengono e disintossicano la maggior parte dei metalli pesanti nei tessuti radicali, con una traslocazione ridotta al minimo alle foglie le cui cellule rimangono sensibili agli effetti fitotossici. Tuttavia, un certo numero di specie ipertolleranti, definite “iperaccumulatori”, mostra un comportamento opposto per quanto riguarda l’assorbimento e la distribuzione di metalli pesanti nell’organismo (Fig. 1).

Il termine “iperaccumulatore” è stato coniato per le piante (Fig. 1) che, a differenza delle piante che si comportano come “esclusori”, assorbono attivamente grandi quantità di uno o più metalli pesanti dal suolo. Inoltre, i metalli pesanti non vengono trattenuti nelle radici ma vengono traslocati nel germoglio e accumulati in organi fuori terra, in particolare foglie, a concentrazioni 100-1000 volte superiori a quelle che si trovano nelle specie non iperaccumulanti. Non mostrano sintomi di fitotossicità [12,13]. Sebbene sia una caratteristica distinta, l’iperaccumulazione si basa anche sull’ipertolleranza, una proprietà chiave essenziale che consente alle piante di evitare l’avvelenamento da metalli pesanti, a cui le piante iperaccumulatrici sono sensibili quanto quelle che non lo sono.

È il testo di una review scritta da due autrici italiane:

Il lavoro spiega quali meccanismi interni vengono usati dalla pianta per iperaccumulare, quali enzimi servono per trasferire senza danno gli ioni da una zona all’altra e illustra anche le ipotesi che si fanno sull’origine di questo comportamento, che sembrerebbe legato alla difesa della pianta dall’attacco di specie animali di varia natura; è da dire che esistono anche insetti specializzati che riescono comunque a cibarsi della pianta iperaccumulatrice. Le applicazioni che si intravedono per queste proprietà sono due: la depurazione di suoli inquinati (fitodepurazione) e l’estrazione mineraria (fitominazione).

Sierra Exif JPEG

Streptanthus polygaloides – Milkwort jewelflower (bozzolina)

Sierra Exif JPEG

Alyssum bertolonii (in regione mediterranea)

Uno studio pionieristico sulla fitominazione è stato condotto utilizzando l’iperaccumulatore di Ni S. polygaloides: una resa di 100 kg ha−1 di Ni senza zolfo potrebbe essere ottenuta dopo un’applicazione moderata di fertilizzanti. La rimozione del Ni dal suolo mediante fitominazione è praticabile in linea di principio, poiché esistono molte piante iperaccumulatrici, come Alyssum spp. e B. coddii, che soddisfano il criterio di raggiungere concentrazioni di Ni nei germogli superiori a 10 g kg-1 su base di sostanza secca e producendo più di 10.000 kg ha −1 all’anno. A. bertolonii può anche accumulare 10 mg di materia secca Ni g−1 da terreni serpentini. Sono stati condotti esperimenti sul potenziale utilizzo di questa pianta iperaccumulatrice nella fitominazione di terreni serpentini. Nel campo di prova piante di A. bertolonii sono state concimate con N + P + K per un periodo di 2 anni. La fertilizzazione aumenta la biomassa di 3 volte senza diluizione della concentrazione di Ni nelle piante fertilizzate. Si è concluso che A. bertolonii, con una biomassa dopo fertilizzazione di circa 13.500 kg ha-1, o altre specie di Alyssum potrebbero essere utilizzate per la fitominazione. In un’altra prova sul campo B. coddii, con una biomassa non fecondata di 12.000 kg ha-1, è stato segnalato come uno dei migliori candidati per la fitominazione del Ni con fertilizzanti applicati e umidità adeguata, dopo di che è stata raggiunta una biomassa di 22.000 kg ha-1 e un’alta concentrazione di Ni [159.162.177.180 ?].

Da altri lavori si ricavano dati su altre piante iperaccumulatrici; i rapporti estrattivi sono espressi sui grammi di sostanza secca e in questo caso stiamo parlando dunque di concentrazioni che sono comparabili con quelle ottenute da minerale; stiamo parlando di valori fra 0.X e X%, dove X può superare 3-4; inoltre in questo caso si parla anche in resa per ettaro di coltivazione, in analogia a quella ottenuta in campo alimentare.

L’altra cosa da notare è che per avere valori ragionevoli della resa non è necessario coltivare le piante su suoli inquinati o particolarmente ricchi poiché le radici sono in grado di concentrare moltissimo i valori presenti nel suolo (notate la frase sui terreni serpentini, ossia originato dalla degradazione di rocce di tipo serpentinoscisto).

Ecco dunque un metodo che può certamente aiutare nel riciclo dei metalli e che riduce di gran lunga l’impatto umano sul pianeta, almeno in potenza.

Oltre ai metalli elencati nella tabella sono stati condotti esperimenti sull’iperaccumulo di metalli preziosi ed anche in quel caso i risultati sono di tutto rispetto anche se inferiori quantitativamente al caso del Nichel.

Voi ve lo sareste aspettato?

Lavori consultati.

https://onlinelibrary.wiley.com/doi/epdf/10.2307/1221970

https://www.annualreviews.org/doi/abs/10.1146/annurev-arplant-042809-112156

https://scialert.net/fulltext/?doi=jest.2011.118.138

https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S0168945210002402

Una lista di piante iperaccumulatrici la trovate qui con i riferimenti di letteratura.

Rame, croce e delizia; le tre facce del rame

Luigi Campanella, già Presidente SCI

Si discute molto intorno alle 3 facce del rame, quella buona come oligoelemento biologicamente essenziale per tutti gli esseri viventi, ioni rame essendo componenti insostituibili di enzimi, fattori di trascrizione ed altre strutture proteiche, il rame fungendo da cofattore di numerosi enzimi;

quella ambigua fungicida da una parte e fertilizzante dall’altra;

quella cattiva come inquinante ambientale stabile, bioaccumulabile e tossico (criterio pbt).

ll problema sta nel fatto che la faccia buona si esercita a concentrazione dei decimi di ppm ed invece per le attività connesse a quella ambigua bisogna raggiungere concentrazioni delle unità e decine di ppm che ovviamente comportano il rischio di inquinamento ambientale (faccia cattiva).

È questa la ragione per cui il rame sulla base del regolamento europeo REACH è sostanza candidata alla sostituzione.

In opposizione a questa valutazione e con l’intento di supportare l’utilizzo del rame in agricoltura, è nata nel 1999 un’associazione fra 12 imprese europee, la Copper Task Force che nel 2016 ha contestato questa valutazione a partire dalla considerazione che il criterio pbt per sancire la pericolosità ambientale è stato sviluppato per le sostanze organiche persistenti e non è applicabile alle inorganiche, in accordo anche con quanto stabilito dal REACH.

L’azione della Copper Task Force si è anche sviluppata nella direzione di ottenere il rinnovo dell’approvazione dei sali di rame indicati dalla Direttiva 91/414 e successivamente dal Regolamento 1107/2009. Il prossimo rinnovo è previsto per il dicembre di quest’anno e l’impressione che si ha leggendo tutta la pratica è che saranno necessari alcuni ulteriori dati per rispettare il regolamento europeo per ottenere il rinnovo.

La storia del rame é in continua evoluzione sia in ambito tecnologico che normativo nei processi di rivalutazione tossicologica ed ambientale degli agrofarmaci. La sua nascita come fitofarmaco risale al 18mo secolo, ma solo 100 anni dopo le varie forme a cessione controllata sono divenute prodotti di mercato.

I processi produttivi riguardano la poltiglia bordolese ottenuta dalla neutralizzazione del solfato di rame con idrossido di calcio, l’ossicloruro di rame a partire da cloruro di rame e successiva ossidazione ed idrolisi; l’idrossido di rame a partire da una soluzione acquosa di solfato rameico a cui si aggiungono idrossido di ammonio e poi idrossido di sodio; ossido rameoso ottenuto per via elettrochimica o per riduzione dell’ossido rameico.

Questi formulati vengono prodotti sia come liquidi che solidi: questi ultimi rappresentati da microgranuli idro-disperdibili, i primi da sospensioni stabili di materia attiva. Da qualche decina di anni è poi iniziato il riassestamento normativo ed ambientale dei giorni nostri a cui più su accennavamo

Il mondo ha bisogno di uno stop completo ai combustibili fossili

Rinaldo Cervellati

Intervista di Cheryl Hogue, di Chemistry & Engineering news, a Holly Jean Buck, analista ambientale, autrice del libro Ending Fossil Fuels: Why Net Zero is Not Enough, Verso Ed. 2021.

La breve intervista è stata rilasciata il 18 marzo scorso a C&EN, qui ne riportiamo una versione tradotta e adattata da chi scrive[1].

Holly Jean Buck, nata a Columbia (Maryland, USA), PhD in sociologia dello sviluppo, Cornell University (Ithaca, N.Y.), è attualmente professoressa di ambiente e sostenibilità alla Buffalo University (N.Y.), fig. 1.

Figura 1. Holly Jean Buck

Buck, nel suo libro, sostiene che l’obiettivo zero di emissioni entro il 2050 si concentra esclusivamente sui gas serra e di conseguenza distolgono l’attenzione dai combustibili fossili. Le aziende di diversi settori, compreso il settore chimico, si stanno impegnando per ridurre le proprie emissioni di gas serra a zero. Per raggiungere tale obiettivo, compenseranno il carbonio attraverso varie azioni, tipo piantare molti alberi o catturare l’anidride carbonica per immagazzinarla e utilizzarla come materia prima. Ma, sostiene Buck, il raggiungimento di emissioni zero netto non garantirà che il pianeta sia protetto dagli impatti sulla salute e sull’ambiente dovuti all’estrazione e all’uso di combustibili fossili. Secondo Buck, il cambiamento climatico non è l’unico motivo per eliminare gradualmente i combustibili fossili, che sono collegati a molti impatti negativi, incluso l’inquinamento atmosferico e il sostegno finanziario a governi corrotti e oppressivi.

Buck è una delle centinaia di autori che stanno contribuendo al prossimo rapporto dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), gruppo di lavoro delle Nazioni Unite che valuta i modi per rimuovere i gas serra dall’atmosfera. Il gruppo di lavoro pubblicherà una sintesi della relazione l’1 aprile.

Buck ha anche fatto parte di un comitato delle accademie nazionali di scienza, ingegneria e medicina degli Stati Uniti che ha scritto il rapporto “A Research Strategy for Ocean Carbon Dioxide Removal and Sequestration”, pubblicato nel dicembre 2021.

In precedenza Buck è stata ricercatrice scientifica presso l’Università della California, Los Angeles, Institute of the Environment and Sustainability e ricercatrice climatica presso la UCLA School of Law, dove la sua ricerca si è concentrata sulla governance dell’ingegneria climatica.

Ecco l’intervista:

CH. Quali sono i vantaggi e gli svantaggi delle politiche e degli obiettivi dello zero netto?

HJB. Il vantaggio dello zero netto come obiettivo è che offre una certa flessibilità, sia nel tempo sia nello spazio. Forse il tuo paese produce molto bestiame. Nuova Zelanda e Uruguay sono in questa situazione. Molte delle loro emissioni provengono dal bestiame ed è difficile decarbonizzare.

Inoltre, alcune cose sarebbero possibili da decarbonizzare completamente in pochi decenni, ma manca ancora la tecnologia. Esistono percorsi plausibili per il carburante sostenibile per l’aviazione o l’idrogeno verde per alimentare le fabbriche, ma non sono abbastanza maturi.

Ma ci sono anche altri problemi. Il più grande è il pericolo che l’obiettivo zero netto sia usato come una sorta di scappatoia o un modo per rimandare transizioni più costose. Potrebbe ritardare i tagli alle emissioni. Questo è ciò che preoccupa molti sostenitori del clima.

CH. Il tuo libro sostiene che un allontanamento dai combustibili fossili è essenziale per affrontare il cambiamento climatico causato dall’uomo. Ne discuteresti, soprattutto a proposito dello zero netto?

JHB. Sappiamo che dobbiamo ridurre la produzione di combustibili fossili, non solo aumentare le rinnovabili. Dobbiamo fare entrambe le cose. Se vogliamo limitare il riscaldamento a 1,5 ºC, cosa che molti paesi hanno accettato di provare a fare, dovremmo ridurre la produzione di combustibili fossili del 6% all’anno in questo decennio. Eppure stanno pianificando di aumentare la produzione del 2% circa. Non siamo davvero sulla strada giusta.

CH. Lei afferma che la decarbonizzazione del settore petrolchimico è particolarmente difficile. Come mai?

JHB. In questo momento, circa l’80% di un barile di petrolio va per i combustibili e il resto ai prodotti petrolchimici. Ci sono emissioni legate a varie parti di quella produzione. Sia l’estrazione di petrolio e gas che il cracking delle molecole hanno un’impronta sul gas serra. La plastica non è ben riciclata, quindi è una specie di problema climatico a sé stante.

CH. Quali sono le sfide e le opportunità che l’industria chimica deve affrontare per porre fine ai combustibili fossili, piuttosto che lottare per lo zero netto?

JHB. È un settore difficile da convincere perché molte strutture sono estremamente costose e impegnano  grossi capitali. Ma penso che ci siano opportunità in termini di nuovi settori. Ad esempio, cattura, utilizzo e stoccaggio della CO2. Ci sono molte opportunità interessanti nell’utilizzo della CO2 in termini di prodotti chimici come metanolo, polimeri e anche materiali da costruzione. La CO2 può essere utilizzata in tutte queste diverse applicazioni. I prodotti petrolchimici potrebbero essere realizzati con carbonio riciclato. Queste opportunità potrebbero attirare nuove società in competizione con le attività petrolchimiche usuali.

CH. Qual è il tuo messaggio per i chimici o i ricercatori che escogitano nuovi materiali in relazione allo zero netto?

JHB. È un momento così interessante ed emozionante per essere veramente innovativi nel settore. Il movimento per affrontare il cambiamento climatico sta aprendo opportunità economiche per prodotti che ora non sarebbero competitivi con i prodotti petrolchimici. Questa potrebbe essere una sorta di nuova rivoluzione chimica, sia in termini di biomateriali sia di utilizzo della CO2.

Breve recensione del libro Ending Fossil Fuels: Why Net Zero is Not Enough[2].

Il libro è costituito da due parti. La prima parte, “L’ottimismo crudele dello zero netto”, discute vantaggi e svantaggi dello zero netto. Pur riconoscendo che raggiungere lo zero netto entro il 2050 è un obiettivo ambizioso in contrasto con l’attuale ritmo di decarbonizzazione globale, i capitoli di questa parte sostengono che l’assunzione del concetto di equilibrio e stabilità creerebbe ambiguità che l’industria dei combustibili fossili potrebbero sfruttare. La seconda parte, “Cinque modi di guardare all’eliminazione graduale dei combustibili fossili”, valuta cinque approcci per avviare un declino pianificato dei combustibili fossili, un’impresa estremamente difficile che richiederà uno stretto coordinamento in tutti i settori della società. Di conseguenza, gli approcci delineati in questa parte non operano in modo isolato. Solo attraverso gli sforzi collettivi, la società può iniziare a delegittimare le basi materiali e ideologiche della produzione e del consumo di combustibili fossili. In paesi come gli Stati Uniti, i combustibili fossili sono saldamente radicati nell’immaginario sociale della “buona vita della classe media” poiché forniscono la base energetica per la vita suburbana e la proprietà dei veicoli. Il più grande ostacolo alla decarbonizzazione sono quindi le strutture culturali e politiche che legittimano la dipendenza dai combustibili fossili come norma sociale. Si propone dunque di modificare la consapevolezza pubblica con un discorso sui fini per trasformare l’attuale cultura neoliberista in una che pianifica. Secondo la ricerca di Buck, ciò che rende particolarmente problematiche molte delle soluzioni offerte dai giganti della tecnologia, come Apple, Microsoft e Google, a parte le loro tendenze tecnocratiche, è quanto siano inestricabilmente intrecciate queste soluzioni con il fossile. Il loro obiettivo collettivo è costruire un mondo fossile più pulito senza introdurre cambiamenti strutturali nell’accumulazione di capitale.


[1] https://cen.acs.org/environment/climate-change/world-needs-full-stop-fossil-fuels-sustainability-analyst-Holly-Jean-Buck-says/100/i13

[2] https://blogs.lse.ac.uk/impactofsocialsciences/2021/11/06/book-review-ending-fossil-fuels-why-net-zero-is-not-enough-by-holly-jean-buck/