Mauro Icardi
Un impianto di depurazione acque reflue è un impianto che raccoglie le acque nere (civili oppure industriali) con l’obiettivo di ridurre la concentrazione di inquinanti a limiti inferiori a quanto stabilito dalla normativa, prima dello scarico in un bacino idrico.
La sostanza organica negli impianti di depurazione viene valutata normalmente con la determinazione del COD e del BOD5. Il rapporto tra le concentrazioni di questi due parametri fornisce già una buona indicazione della biodegradabilità del refluo da trattare. Per le acque reflue domestiche il rapporto è di 1,5/2, che corrisponde a una biodegradazione facile. Questo rapporto può arrivare al valore di 2,5/3 senza che nella vasca di ossidazione si verifichino problemi particolari.
Nel fango presente in una vasca di ossidazione si forma una piccola comunità di microrganismi in cui si possono trovare i decompositori (batteri, funghi) che ricavano l’energia per il loro sviluppo dalla sostanza organica disciolta nel liquame, e i consumatori (flagellati, ciliati, metazoi, rotiferi) che predano i batteri dispersi e altri organismi.

La presenza nei liquami in ingresso oppure nei reflui conferiti tramite autobotte di sostanze tossiche può determinare la riduzione o addirittura il blocco del reattore biologico. Gli effetti sono la riduzione della qualità dell’effluente in uscita, e un aumento dei costi depurativi per il ripristino delle normali condizioni di funzionamento. Effettuando un test denominato OXIGEN UPTAKE RATE, conosciuto con l’acronimo OUR test, si può verificare il consumo di ossigeno della biomassa, a seguito dell’immissione di un refluo. Il valore di questa misura viene generalmente espresso come: S OUR= mgO2/g*hr. (OVVERO OUR SPECIFICO) dove il termine g è riferito alla concentrazione di solidi in g nel fango attivo. Per un periodo di circa quindici anni ho effettuato queste prove, dato che sugli impianti dove ho lavorato vi erano sezioni di impianti di trattamento di reflui provenienti dalla ripulitura delle fosse imhoff ancora molto diffuse sul territorio.
Si tratta di un test di misura di consumo dell’ossigeno molto semplice. Che si conduce inserendo in una beuta un tubicino che insuffla aria (è sufficiente un piccolo compressore da acquario con diffusore poroso); e una sonda per la misura dell’ossigeno disciolto. Nella beuta viene messa un’ancoretta magnetica e la si pone su agitatore magnetico. La sonda viene inserita in un tappo di gomma rossa forato per fare in modo che sia a tenuta di aria. Si tratta di una prova di respirazione a “respirometro chiuso”. Dopo l’effettuazione di diverse prove, avevo stabilito di lavorare su una quantità in volume di fango pari a 300 ml. Quando si doveva testare un refluo trasportato da autobotte, oppure valutare preventivamente se poterlo ricevere la quantità totale era pari a 220 ml di fango della vasca di ossidazione e 80 ml di refluo da testare. Areavo il liquame fino ad avere nella beuta una concentrazione di ossigeno disciolto di circa 6 mg/L e iniziavo la lettura del consumo di ossigeno ad intervalli di 15 secondi per un tempo totale di 5 minuti.
Questo parametro definito appunto come S OUR (ovvero OUR specifico) veniva rapportato con i seguenti valori:
S OUR <0,1 il refluo aggiunto è tossico;
S OUR ≤ 0,35 deve essere ripetuta la prova;
S OUR > 0,35 il refluo è idoneo al trattamento biologico.

Come detto prima le condizioni di prova sono state stabilite nel tempo effettuando diversi aggiustamenti, sia in termini di volume che di tempo per la prova. Una procedura identica veniva effettuata nel caso si volesse integrare il funzionamento dell’impianto in condizioni di scarsità di carico organico, magari con aggiunta di reflui ad alto tenore di carbonio quali residui di lavorazione della birra che sono certamente appetibili per i microrganismi, ma il cui dosaggio deve essere accuratamente valutato. In questo ultimo caso è sempre preferibile non fermarsi alla fase di prove di laboratorio e organizzare una serie di prove tramite impianto pilota. La biomassa aerobica contenuta nel fango consuma rapidamente ossigeno se viene alimentata con reflui rapidamente biodegradabili. E i reflui civili normalmente soddisfano questa condizione. In qualche situazione invece, per inconvenienti di vario genere, mi sono trovato in difficoltà. In un caso per un refluo inquinato da idrocarburi per la rottura di una caldaia alimentata a gasolio: il gasolio fuoriuscito era finito nella fossa settica. In un secondo caso per un refluo che era un cocktail incredibile di residui per la pulizia e di olio lubrificante per auto. Un terzo caso per la massiccia presenza di residui di materiale per le lettiere dei gatti (situazione di cui ho già scritto sul blog). In questo caso era ardua la discussione con gli operatori dello spurgo. Trattandosi di materiale conferito in autobotte e non proveniente da condotta fognaria, era per definizione legislativa un rifiuto. Noi respingevamo il carico facendolo proseguire fino ad una azienda specializzata per il trattamento dei rifiuti allora catalogati come tossico-nocivi, con la quale avevamo una convezione. Il carico doveva proseguire dalla zona di Varese fino in Brianza. Questo scatenava discussioni infinite, che potevano durare ore. Ovvio che io non recedessi dalla mia decisione. Ripetevo il test anche tre volte, ma era un’impresa non facile convincere gli operatori. Senza contare che sarebbero stati addebitati costi aggiuntivi per la nuova codifica del rifiuto, che da assimilabile cambiava tipologia.
Nonostante il test fosse sufficientemente rapido, molto spesso i conducenti delle autobotti che effettuavano le operazioni di spurgo erano soliti pressarmi perché erano costantemente in corsa contro il tempo. Io ovviamente dovevo mediare e dovevo cercare di essere molto paziente.
Ma ad uno di loro che era sempre particolarmente frenetico combinai un piccolo scherzo. Mi feci portare il campione una seconda volta e iniziai la misura con lui presente. Assunsi un’aria perplessa e nel frattempo pronunciavo frasi di questo tipo: “Questa è una cosa che non ho mai visto” e “Ma qui proprio non ci siamo”.

Quando lo vidi sbiancare buttai la maschera e gli feci capire che non era il caso di avere sempre tutta questa fretta, considerato che per facilitare le operazioni di conferimento il test era stato standardizzato a cinque minuti. Gli chiesi anche se nell’intimità avesse la tendenza a sempre essere così veloce. Forse rischiai che la faccenda finisse male. Ma alla fine capì e ci facemmo una bella risata. La piccola lezione gli era servita. Il servizio di ricevimento di reflui da fossa biologica ora è stato centralizzato nella zona sud della provincia di Varese. Ovviamente questo ha ulteriormente provocato i mugugni degli operatori dello spurgo, soprattutto del nord provincia. Da questa vicenda io ho tratto molte riflessioni, sulla gestione dei rifiuti anche nelle nostre case, sull’importanza di essere intransigenti. La corretta gestione dei rifiuti direi che dovrebbe essere norma primaria per tutti. Ogni tanto incontro la “vittima” del mio scherzo. Regolarmente andiamo al bar per un caffè e invariabilmente mi definisce un rompiscatole. Io lo ammetto senza nessun problema. Ero allora un giovane tecnico della depurazione che usava una chimica pratica e che affrontava i primi problemi a cui doveva dare una soluzione rapidamente. Un periodo davvero molto formativo, sia sul piano professionale che personale.