Nell’Antropocene, l’epoca geologica attuale fortemente caratterizzata dalle attività dell’uomo, la Chimica ha il compito di custodire il pianeta e aiutare a ridurre le diseguaglianze mediante l’uso delle energie rinnovabili e dell’economia circolare.
Guo si è interessato ai possibili contributi dei farmaci non antibiotici alla resistenza agli antibiotici nel 2014, dopo che il lavoro del suo laboratorio ha trovato più geni di resistenza agli antibiotici che circolano nei campioni di acque reflue domestiche che nei campioni di acque reflue degli ospedali, dove l’uso di antibiotici è più alto.
Nell’articolo di commento uscito su Scientific American si dice:
In un lavoro del 2018, il gruppo ha riferito che Escherichia coli è diventato resistente a più antibiotici dopo essere stato esposto alla fluoxetina, che viene comunemente venduta come Prozac.
L’ultimo studio ha esaminato altri 5 antidepressivi e 13 antibiotici di 6 classi di tali farmaci e ha studiato come si è sviluppata la resistenzain E. coli.
Guo ipotizza che essi provochino “una risposta SOS”, innescando meccanismi di difesa cellulare che, a loro volta, rendono i batteri più capaci di sopravvivere al successivo trattamento antibiotico.
Dicono gli autori:
La resistenza agli antibiotici è una minaccia urgente per la salute globale. Gli antidepressivi sono consumati in grandi quantità, con una quota di mercato farmaceutica simile (4,8%) agli antibiotici (5%). Mentre gli antibiotici sono riconosciuti come il principale motore dell’aumento della resistenza agli antibiotici, poca attenzione è rivolta al contributo degli antidepressivi in questo processo. Qui, dimostriamo che gli antidepressivi a concentrazioni clinicamente rilevanti inducono resistenza a più antibiotici, anche dopo brevi periodi di esposizione. Anche la persistenza degli antibiotici è stata migliorata. Le analisi fenotipiche e genotipiche hanno rivelato che l’aumento della produzione di specie reattive dell’ossigeno dopo l’esposizione agli antidepressivi era direttamente associato ad una maggiore resistenza. Una maggiore risposta alla firma dello stress e la stimolazione dell’espressione della pompa di efflusso sono state anche associate a una maggiore resistenza e persistenza. I modelli matematici hanno anche previsto che gli antidepressivi avrebbero accelerato l’emergere di batteri resistenti agli antibiotici e le cellule persistenti avrebbero contribuito a mantenere la resistenza. Nel complesso, i nostri risultati evidenziano il rischio di resistenza agli antibiotici causato dagli antidepressivi.
Ma quale o quali sarebbero i meccanismi implicati?
Nei batteri cresciuti in condizioni di laboratorio ben ossigenate, gli antidepressivi hanno indotto le cellule a generare specie reattive dell’ossigeno: molecole tossiche che attivavano i meccanismi di difesa del microbo. Soprattutto, questo ha attivato i sistemi di pompaggio di efflusso dei batteri, un sistema di espulsione generale che molti batteri usano per eliminare varie molecole, compresi gli antibiotici. Questo probabilmente spiega come i batteri potrebbero resistere agli antibiotici senza avere specifici geni di resistenza. Ma l’esposizione di E. coli agli antidepressivi ha anche portato ad un aumento del tasso di mutazione del microbo e alla successiva selezione di vari geni di resistenza. Tuttavia, nei batteri cresciuti in condizioni anaerobiche, i livelli di specie reattive dell’ossigeno erano molto più bassi e la resistenza agli antibiotici si sviluppava molto più lentamente.
Certamente questa diventa una nuova frontiera per lo studio e l’abbattimento della resistenza agli antibiotici, vista anche la enorme diffusione dei farmaci antidepressivi.
Sitografia
Nature – How antidepressants help bacteria resist antibiotics A laboratory study unravels ways non-antibiotic drugs can contribute to drug resistance. Liam Drew
Primo Levi in un’intervista televisiva racconta quali siamo stati gli elementi fondamentali della sua vita: la prigionia e l’avere deciso di scrivere.
Il terzo elemento fondamentale della sua vita, cioè la chimica, non è mai assente anche durante la tragica esperienza quotidiana del vivere in Lager. Si manifesta in diversi modi, dal quasi surreale esame di chimica sostenuto in Lager davanti al Dottor Pannwitz, fino al tentativo di costruire pietrine per accendini con dei cilindretti di cerio trovati in un magazzino dl camp di prigionia.
Levi affermò anche che Auschwitz fosse stata forse l’esperienza più importante della sua vita. Non è semplice mettersi nei panni di questo uomo timido e garbato, che si trova proiettato nella bolgia del Lager a soli ventiquattro anni, e comprendere i pensieri e le emozioni profonde che possono averlo spinto a questa affermazione.
L’esperienza vissuta lo spinge a scrivere, perché sente dentro di sé l’obbligo morale di testimoniare quello che era l’organizzazione dei campi di sterminio. E lo fa non solo esaminando la questione dal punto di vista morale e storico, ma anche descrivendo le assurde regole che vigevano nel campo, e le terribili condizioni di igieniche a cui i prigionieri dovevano sottostare.
Il primo testo pubblicato da Levi dopo il ritorno dal Lager è intitolato “ Rapporto sulla organizzazione igienico-sanitaria del campo di concentramento per ebrei di Monowitz”. Fu scritto in collaborazione con l’amico Leonardo De Benedetti, e comparve sulla rivista Minerva Medica. L‘intenzione era quella di descrivere con la massima obbiettività le condizioni del campo, le patologie che affliggevano i prigionieri, e il funzionamento delle camere a gas.
Ma Levi scrisse anche una lettera che inviò alla redazione de “La chimica e l’industria” e che venne pubblicata nel numero di Dicembre del 1947.
Levi descrive la condizione dei prigionieri e fornisce alcune notizie sulle sue produzioni chimiche: il campo di Monowitz, struttura satellite del più noto campo di Auschwitz, era infatti sede di vari impianti chimici, tra cui uno gigantesco per la produzione di gomma sintetica, la cosiddetta “buna”*. I bombardamenti alleati del Luglio 1944 danneggiano in parte gli impianti per la produzione della buna, che infatti non verrà mai prodotta nel campo di Monowitz. Restano attive però altre produzioni, tra cui quella di metanolo. L’azienda che gestisce gli impianti all’interno dei lager e tutta la produzione chimica di interesse per il regime nazista e l’economia di guerra è la IG Farben.
Nel dopoguerra, nel breve periodo in cui Levi prova ad esercitare la libera professione, prova a sintetizzare l’allossana come stabilizzante da impiegare nella formulazione di un rossetto. La descrizione della faticosa ricerca della materia prima, cioè escrementi di gallina, e il difficoltoso tentativo di sintetizzarla partendo dall’acido urico che vi è contenuto, e che terminerà con un insuccesso, è narrata in “Azoto”, sedicesimo racconto contenuto ne “Il sistema periodico”.
Ed è in questo capitolo che Levi spiega una parte della filosofia chimica. Partendo dall’idea che lo faceva sorridere, cioè il ricavare un cosmetico da un escremento. Cosa che non lo imbarazzava minimamente.
“Il mestiere di chimico (fortificato, nel mio caso, dall’esperienza di Auschwitz) insegna a superare, anzi ad ignorare, certi ribrezzi, che non hanno nulla di necessario né di congenito: la materia è materia, né nobile né vile, infinitamente trasformabile, e non importa affatto quale sia la sua origine prossima.”
Quello della manipolazione della materia, insieme alla modificazione dell’uomo operata nel Lager, è uno dei capisaldi dell’intera sua opera. La materia che resiste all’uomo in una lotta senza fine, così come l’uomo resiste, nonostante tutto, alla manipolazione operata dai nazisti nel campo di concentramento.
* La buna è la gomma sintetica che si può ottenere dalla copolimerizzazione del butadiene con lo stirolo o con il nitrile acrilico. Il termine, il quale può sembrare così particolare, non è altro che la fusione tra le due iniziali delle parole Butadiene e Natrium (sodio) che sono la materia prima e il catalizzatore che si sfruttano nel processo.
La qualità alimentare dipende ovviamente dai prodotti a cui ci si riferisce, ma c’è poi una componente che gioca sempre un ruolo fondamentale, forse anche più importante di quanto si possa pensare. Intendo parlare degli imballaggi alimentari che proteggono l’alimento da contaminazioni e degrado, assicurando al tempo stesso il mantenimento delle caratteristiche di qualità. Inoltre con le etichette le confezioni forniscono preziose indicazioni ai consumatori circa proprietà ed uso dell’alimento confezionato. Si possono individuare 3 fasi nello sviluppo dell’imballaggio alimentare smart: una iniziale fino al 2000, una di sviluppo per altri 15 anni ed una terza esponenziale che arriva e si proietta oltre i tempi nostri.
La ricerca scientifica ha contribuito molto alla seconda fase moltissimo alla terza. In particolare la pandemia dovuta a covid 19 ha segnato un’accelerazione ed una intensificazione delle ricerche aventi per oggetto materiali sostenibili, sicuri, naturali. La maggior parte però dei prodotti delle ricerche non è ancora oggi commercializzata a causa degli elevati costi di produzione e la mancanza di codificati standard di qualità. La ricerca accademica, con le prove sui materiali e lo studio dei meccanismi di funzionamento, è davanti alla commercializzazione, come dimostrano le migliaia di lavori scientifici prodotti sul tema. È anche interessante rilevare la molteplicità delle discipline coinvolte, alternandosi atteggiamenti esclusivi monodisciplinari ad altri ben più aperti in favore di multi-pluri-inter-disciplinarietà.
Quando i relativi risultati si trasferiranno alla produzione di imballaggi sicuri su larga scala saranno i consumatori ad usufruire di questi avanzamenti. Uno stadio intermedio nella fase di avanzamento con i nuovi materiali inseriti all’interno dei sistemi oggi operanti è probabilmente un saggio approccio metodologico.
Oggi vengono classificati 3 tipi di imballaggi avanzati: gli smart dotati di sensori, in genere Biosensori, per il controllo che il contenuto non subisca danni durante il tragitto; gli imballaggi attivi in cui il materiale del contenitore è additivato con composti che possono essere assorbiti o rilasciati nelle due direzioni contenuto/contenitore e viceversa; gli imballaggi intelligenti dotati di sensori di controllo del contenuto come negli smart, ma anche in questo caso dell’ambiente circostante per evitare che da esso derivino rischi per il contenuto ed anche per l’integrità dell’imballaggio. Sono numerosi i materiali degli imballaggi di nuova generazione, usati sia come base sia come additivi partire da biopolimeri, cellulosa, proteine, amidi, polisaccaridi formabili in 3D. Quando si utilizzano additivi questi vengono ricercati con attenzione a proprietà specifiche, antibatteriche, antiossidanti, passivanti
La dieta mediterranea è da sempre considerata un veicolo fondamentale per alcune tradizioni e per la cultura alimentare del nostro Paese, oltre che per un sostegno significativo all’economia, anche se da sempre questi riconoscimenti subiscono qualche critica, dovuta alla difficoltà di trasportare una dieta così specifica a realtà così diverse come quelle che si trovano nel mondo, per di più riconosciute nella visione globalizzata del nostro Pianeta.
Una risposta puntuale a questi dubbi è venuta dalla Università Federico II di Napoli con una proposta ripresa anche da Nature, il più prestigioso giornale scientifico al mondo. La proposta è quella di esportare la dieta mediterranea nel mondo adattandola ai cibi giusti di ogni continente. Nature ha considerata geniale l’idea trasformandola in un editoriale girato, vista la diffusione del giornale, al mondo intero e tale da giustificare una nuova denominazione, non più dieta mediterranea, ma planeterranea.
Resta il carattere di un regime alimentare basato sulla completezza dei nutrimenti provenienti da alimenti freschi, stagionali con basso indice glicemico, conditi con olio extravergine. Nella nuova versione planiterranea la dieta mediterranea potrà accogliere quindi alimenti asiatici come anche sudamericani con nuove piramidi alimentari locali che però dovranno attenersi alle regole della dieta mediterranea, principalmente a base vegetale, frutta fresca e secca, con apporto adeguato di grassi mono e poli-insaturi, con farina integrale, legumi e, in quantità limitata, pesce, latticini, carne.
Assortment of various food groups: proteins, fats, fruit, vegetables and carbohydrates.
Gli studiosi che hanno formulato la proposta si sono spinti oltre, fino ad individuare, continente per continente, gli alimenti equivalenti ai fini della dieta. Un.esempio molto rappresentativo è rappresentato dai cibi algali tipici dei paesi subtropicali, raccomandati contro l’ipertensione, costituenti una fonte importante di fibre, proteine , polisaccaridi, sali, vitamine. In Canada l’olio estratto da una modificazione della colza e e da alcune variazioni di fagioli si fanno consigliare come alimenti contro l’accumulo di colesterolo. In Africa i prodotti estratti dalla manioca risultano pienamente corrispondenti per proprietà ai nostri spinaci. In America Latina avogado e papaia sono fonti di acidi grassi monoinsaturi, vitamine e polifenoli. La dieta planeterranea verrà diffusa attraverso una piattaforma ad hoc con il fine di contrastare malattie ed obesità. Per quanto riguarda le prime la proposta rinforza ulteriormente la cultura nutraceutica, secondo la quale molti dei principi attivi dei farmaci possono essere introdotti nell’organismo attraverso alimenti con proprietà antinfiammatorie, antidolorifiche, antiossidanti, antimicrobiche, antivirali così contribuendo a ridurre uno degli inquinamenti del nostro tempo sempre più presenti, quello da farmaci e loro prodotti metabolici che ha causato il moltiplicarsi, in 3-4 decenni, per 30 dell’inquinamento da farmaci delle acque dei fiumi europei.
Per il secondo aspetto c’è da osservare che adolescenti e genitori sono persone per il 30% inconsapevoli della loro condizione di obesità, come risulta da un recente studio internazionale “Action Teens”. Questa incoscienza della patologia porta a non contrastarla con conseguenze anche peggiori della causa primaria. L’Italia è purtroppo tra i Paesi a maggiori valori di sovrappeso ed obesità nei giovani in età scolare le cui conseguenze possono essere prevenute a patto di interventi tempestivi e finalizzati
(Ricordi degli anni 70 e di scelte che sono state inevitabili)
Per la mia formazione culturale e personale, gli anni 70 sono stati decisamente molto importanti. In quel decennio sono passato dall’essere un bambino con le prime insopprimibili curiosità, e sono arrivato ad un passo dall’essere maggiorenne. I diciotto anni li avrei compiuti nel 1980.
Furono molti gli avvenimenti che in quegli anni cercavo di approfondire, leggendo il quotidiano di Torino “La Stampa”, che mio padre acquistava quasi tutti i giorni. L’austerity, l’epidemia di colera, il disastro di Seveso tra i tanti. Ma anche terrorismo, crisi economica, guerre (che non ci facciamo mancare mai), inquinamento e sofisticazioni alimentari.
L’austerity con la conseguente proibizione dell’uso dell’auto nei giorni festivi mi riportò indietro nel tempo, ovvero a prima dell’acquisto della prima automobile di famiglia, una fiat 500. I mezzi che utilizzavamo per spostarci erano principalmente treno e tram. Questa situazione è durata fino a quando non ho compiuto sei anni. Credo che la passione che ancora oggi ho per i mezzi su rotaia sia nata proprio in quel periodo. Mia madre mi racconta che uno dei nostri svaghi era andare in giro la domenica con il tram numero nove, partendo dal quartiere di Borgo Vittoria a Torino, dove ho abitato fino al 1966, percorrendo quasi tutta la linea fino ad arrivare al capolinea opposto, che si trovava a pochi metri dallo stadio comunale. Con lo stesso tram raggiungevamo la stazione di Porta Nuova quando si andavano a trovare i nonni paterni e materni nel Monferrato. Un tragitto di circa un’ora e mezza che mi sembrava infinito, e che avrei voluto non finisse tanto presto. Ero un bambino curioso che pronunciava molto spesso una parola: perché. Su quei treni c’erano molte altre persone, parenti o amici dei miei genitori, che ritornavano nello stesso paese, cioè Mombaruzzo.
Quando mia mamma era sul punto di soccombere alle mie continue domande, mi affidava a qualche persona di buona volontà, che mi faceva passeggiare avanti e indietro lungo il convoglio.
E puntualmente ricominciavo a tempestare il povero sventurato con una raffica continua di domande. Nel 1973 posso dire che l’austerity fu per me decisamente un periodo festoso. Ero libero di viaggiare quasi a piacimento in treno e in bicicletta! Il treno avevamo smesso di usarlo ormai da cinque anni. La 500 color “Blu turchese”, come recitava la targhetta applicata all’interno del piccolo portello che copriva il vano motore posteriore, lo aveva soppiantato. Ma adesso si prendeva la sua rivincita. Così io potevo tornare a soddisfare la mia passione per treni e tram.
La crisi petrolifera del 1973 ebbe l’effetto di far comprendere, anche se solo parzialmente, che non era saggio affidare le necessità di mobilità unicamente alla motorizzazione privata. Torino accantonò il progetto di dismissione della rete tramviaria, e le ferrovie cercarono di fermare la tendenza al calo costante di passeggeri. Ricordo una campagna pubblicitaria per incentivare l’uso del treno che mi aveva molto colpito. Si poteva vedere sui cartelloni pubblicitari, e sulle pagine di riviste e quotidiani. Uno sconcertato viaggiatore con la valigia in mano sul marciapiede di una stazione, guardava la massicciata priva di rotaie, mentre la didascalia sullo sfondo recitava più o meno cosi: “Se un giorno ti svegli e il treno non c’è più?”
Personalmente vista la mia passione ferroviaria, provo sempre molto disagio quando vedo massicciate senza più binari. Ed è stato proprio il ricordo di quella campagna pubblicitaria che mi ha suggerito il titolo di questo post e le riflessioni che seguono.
L’abitudine a considerare scontate alcune cose, spesso ci fa perdere la percezione della loro importanza. In quegli anni si manifestarono con molta evidenza i risultati di uno sviluppo industriale che era stato impetuoso, ma che non aveva minimamente considerato l’impatto dei residui sull’ambiente naturale. Anche la crescita della popolazione nelle città più industrializzate ebbe un forte impatto sull’ambiente. Esistevano sul territorio nazionale alcuni depuratori, che si limitavano ad effettuare un trattamento che spesso si limitava alla sola sedimentazione primaria, prima di scaricare i reflui direttamente nei corsi d’acqua. Proviamo a immaginare cosa potremmo vedere se domani svegliandoci ci accorgessimo che i depuratori sono spariti.
Faremmo un gigantesco passo indietro. Torneremmo a vedere i fiumi cambiare colore a seconda degli scarichi che in quel momento vi si riversano, e potremmo capire che ora del giorno sia. Questo si diceva del fiume Olona, prima che iniziasse l’opera di risanamento. Ci accorgeremmo della presenza di un fiume sentendo a centinaia di metri di distanza l’odore nauseante della degradazione anossica della sostanza organica. Ma prima di tutto questo sentiremmo l’odore della putrefazione dei pesci. Perché i pesci sarebbero i primi a sparire, boccheggiando disperatamente alla ricerca di quell’ossigeno che le loro branchie, nonostante l’evoluzione le abbia rese più efficienti dei nostri polmoni, non riuscirebbero più ad assorbire. Non vi sarebbe più ossigeno disciolto, né vita acquatica come siamo abituati a concepirla.
E di questo si parlava nei testi scolastici proprio degli anni 70. Nei telegiornali, e nelle trasmissioni televisive che ancora si possono rivedere nei siti della Rai.
Credo abbia un valore storico riportare il testo di questo articolo del 29 Luglio 1970,tratto dall’archivio storico del quotidiano “La stampa”, che descrive l’inquinamento della laguna di Venezia. Nella stessa pagina vi erano articoli relativi allo stesso problema, che spaziavano dal litorale di Roma, al canale Redefossi di Milano, e ai fiumi Bormida e Tanaro in Piemonte.
La laguna “fermenta” Moria di pesci – Gravi preoccupazioni a. (g. gr.)
La laguna fermenta: questo l’allarme che parte da Venezia e si inserisce nel preoccupante quadro degli inquinamenti. Tralasciando di parlare del mare e dei fiumi della sua zona, è soprattutto la laguna che preoccupa i veneziani. Basti ricordare come alla fine dello scorso giugno una preoccupante moria di pesce si sia accompagnata ad un puzzo insopportabile che giorno e notte infastidì i veneziani; gli oggetti in argento si annerivano, alghe putrefatte affioravano nei canali, macchie preoccupanti comparivano sui muri delle case. Il fenomeno — è stato dichiarato ufficialmente dal comune — verosimilmente è da riferirsi a una lenta modificazione dell’ecologia lagunare. A Venezia, hanno detto gli esperti, la laguna si sta concimando, cioè sta diventando troppo fertile. Secondo i ricercatori dell’Università di Padova, i responsabili di questa trasformazione del fondo e della flora lagunare sono gli scarichi urbani, i detersivi, i fertilizzanti agricoli, le immondizie e l’industria. Nella laguna si sono anche notati aumenti nella presenza di idrocarburi, dovuti probabilmente all’accumulo di scarichi incontrollati di nafta sull’arco dei decenni. Quest’ultimo fenomeno mette in evidenza l’urgenza di dotare la città di fognature e di impianti di depurazione adeguati. Il fenomeno dell’inquinamento preoccupa le autorità per due motivi: la circolazione nei canali viene resa difficile dagli accumuli di rifiuti, il turismo sarebbe poi gravemente danneggiato dalla visione delle larghe chiazze di nafta sulla superficie dell’acqua. Venezia perderebbe il suo fascino, insomma. Non esistono per ora pericoli per gli abitanti, ma si prospetta, con l’andare del tempo, anche questo rischio.
E’ stata la lettura di articoli simili a questo, è stato l’aver visto con i miei occhi di bambino prima, e di adolescente poi, che esplorava il proprio spicchio di mondo pedalando su una bicicletta modello “Graziella” di colore azzurro, i canali di irrigazione nella campagna adiacente a Chivasso dove galleggiavano flaconi di plastica, che si ammassavano sotto le arcate dei ponti. Tutto origina da quegli anni.
I trent’anni di lavoro in depurazione sono stati già superati. La passione di voler imparare e conoscere ancora, proprio no. Perchè c’è sempre tanto lavoro da dover fare. C’è sempre una spinta ad avere delle passioni E c’è da sperare che domani, svegliandoci al mattino, ci si renda conto che non sono spariti né i treni, né i depuratori. La chimica è stata una chiave, uno strumento di lavoro per approcciare questi temi. Giusto ricordarlo. Rifletto spesso che date queste premesse posso dire di essere stato fortunato a fare il lavoro che ho fatto. E anche quello che cerco di fare qui, raccontando di cosa si occupano i tecnici della depurazione.
Un americano su 2 ha una macchina da caffè con capsule o cialde. Tenuto conto che l’Europa cammina ad una velocità poco inferiore a quella americana e che anche il mercato asiatico è in via di adeguamento a questi numeri si calcola che nel 2025 il giro di affari dei vari tipi di capsule si aggirerà sui 30 miliardi di euro. In Italia 2 famiglie su 5 usano le cialde per un totale di1,5 miliardi di cialde l’anno con un tasso di crescita annua del 13%. Nel.mondo le cialde consumate ammontano a mezzo miliardo di tonnellate. Questi dati giustificano quanto si sta tentando di fare per ridurli a valori più sostenibili. La prima osservazione non può che riguardare lo stile di vita e chiedersi se proprio sia necessario abbandonare la moka per il caffè monouso anche pensando al fine vita: un elettrodomestico elettronico contro un altro più facilmente smaltibile in quanto più smontabile nei singoli pezzi e ricaricabile nell’uso in modo semplice con un cucchiaino. Ovviamente chi sceglie le cialde fa riferimento alla rapidità con cui si ottiene la bevanda amata ed alla assenza di rischio di bruciare il caffè o di dimenticare il fuoco acceso. Per contrastare le critiche alle cialde i produttori si muovono su varie direzioni a cominciare con lo scaricare sul consumatore la responsabilità di uno smaltimento sostenibile.
L’altro accorgimento è ricorrere a capsule svuotabili fatte in un solo materiale rispetto al.mjx attuale (plastica ed alluminio) con il caffè usato svuotato da conferire nel bidoncino dell’organico. Per agevolare il consumatore alcuni produttori forniscono un apri capsule domestico che con una leggera pressione separa il contenitore dal contenuto. Però nascono allora 2 domande: il guadagno di tempo che fine ha fatto? Perchè non ricorrere alla riutilizzabilità delle capsule con la possibilità di ricaricare con qualunque miscela di caffè e conseguente vantaggio economico? Alcuni produttori raccolgono le capsule usate, separano contenuto da contenitore e riciclano il materiale di questo. L’alluminio è uno degli elementi più facilmente ed economicamente riciclabili con un risparmio energetico del 90% rispetto ai costi di produzione dalle materie prime. Il caffè smaltito è un ottimo concime, specificatamente in relazione alla sua composizione per le culture di riso di cui viene incrementata significativamente la produttività con i conseguenti vantaggi economici ed etici (lotta alla fame.nel.mondo). Una recente opzione del mercato è il ricorso alla cialda fotodegradabile in carta con il vantaggio che si può conferire il tutto nell’organico senza nessuna separazione fra contenitore e contenuto.
L’ultima innovazione viene dalla Svizzera con una sfera costituita da un polimero algale contenente caffè pressato e quindi da potere essere caricato in minore quantità senza incidere sul gusto della bevanda. Come si vede tanti pro e tanti contro, senza parlare dell’aspetto estetico e dell’eleganza dei vari modelli alcuni dei quali smontabili e ristampabili in 3D per le parti danneggiate. Un discorso più scientifico circa il confronto fra le varie possibili soluzioni si può fare con riferimento ai differenti valori della impronta carbonica utilizzando le Public Available Specifications. Una ricerca dell’Università della Tuscia ha fornito i risultati di questo confronto.
La moka ad induzione genera 55-57 g di CO2,la moka a gas 47-59 g, la macchina per il caffè espresso 74-96 g, quella a capsule 57-73, infine quella a cialde 72-92 g. C’è però da precisare che se si considera l’intero ciclo di vita vanno aggiunti ai dati ora forniti le quantità di CO2 prodotta per la produzione e lo smaltimento di cialde e capsule. Ci sono poi da considerare gli imballaggi, tutti a favore della tazzina con moka, solo 0,5 g contro i 6,4 g del caffè in cialde. A questi dati a favore della moka ad induzione si deve poi aggiungere ad ulteriore suo vantaggio che questa consuma meno energia per essere scaldata:6 wattora contro il doppio della macchina a cialde.
Giorni fa mi sono imbattuto nella pubblicità di vari tipi di stufe che non appaiono così comuni e mi è venuta spontaneamente la voglia di approfondirne le caratteristiche; dopo tutto siamo in inverno e il riscaldamento degli edifici è uno dei problemi pratici da affrontare per milioni di persone; certo la cosa migliore è di investire in case che non hanno bisogno di riscaldamento oppure che usano energie rinnovabili, per esempio l’accoppiata fotovoltaico-geotermia a bassa temperatura che si avvia a diventare una delle tecniche più interessanti.
Ma diciamo la verità, da una parte la scarsa conoscenza tecnica dall’altra la presenza di un robusto sistema produttivo basato sul bruciare qualche tipo di combustibile e infine i costi relativamente elevati delle tecnologie più nuove fanno si che vengano alla ribalta metodi molto più tradizionali.
Oggi vi farò due esempi, fra di loro alquanto diversi, di questi metodi perché mi hanno colpito e perché dopo tutto sono relativamente diffusi: uno è un metodo di riscaldamento diretto basato sulle stufe ad alcool etilico o come dicono i venditori a “bioetanolo” e l’altro un metodo sostanzialmente di accumulo del calore, le stufe a sabbia, che potrebbe forse essere sfruttato per cose più ambiziose.
C’è un massiccio dispositivo pubblicitario che spinge le cose, specie nel caso delle stufe a bioetanolo e che è basato su una serie di enormi ambiguità.
A cominciare dal nome “bioetanolo”; come al solito il prefisso bio è usato con uno scopo esclusivamente pubblicitario; si sottintende che dato che è di origine naturale, ottenuto per distillazione da componenti vegetali è un prodotto sano e buono di per se; ma le cose sono più complesse di così.
Lavori recenti confermano quel che già si sapeva: la produzione di bioetanolo da piante come la cassava o il mais o la canna da zucchero entra in diretta concorrenza con la produzione di cibo e lo fa specie in paesi poveri, dove quella produzione è preziosa. In secondo luogo se uno fa il conto di quanta energia si ottiene per via netta, scorporando l’energia grigia (ossia quella che serve alla coltivazione distillazione e trasporto ) il conto non torna, i risultati sono spesso al limite o della unità o di un valore critico minimale (EROI 3:1) e solo alcuni autori lo stimano molto alto e comparabile con quello di tecnologia più affermate (per dati affidabili si veda per esempio un lavoro di Hall, che ha inventato il concetto di EROI, e altri, https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0301421513003856).
Dunque la parolina bio non basta a rendere l’etanolo di origine agricola un prodotto sostenibile; ma c’è molto di più. Il vantaggio che viene stressato da chi vende le stufe a bioteanolo o ad etanolo (dopo tutto il consumatore finale difficilmente è in grado di rendersi conto della effettiva origine del combustibile che compra casomai su Amazon) è che non c’è bisogno per queste stufe di avere un camino.
Alcuni produttori citano a questo riguardo un regolamento europeo del 1993 (dunque ormai trentennale) ma che si riferisce alla denaturazione dell’alcol etilico; mentre in realtà le norme che consentono e regolano le stufe a bioetanolo sono norme UNI o EN, la UNI-11518:2013 poi superata dalla UNI EN 16647 : 2016; come tutte le norme UNI questa non è libera, cioè occorre pagare per poter leggere le norme necessarie a fare le cose, una assurdità tutta italiana e tutta mercantile; d’altronde siamo o no il paese in cui per sapere come pagare le tasse occorre andare da un commercialista o al CAF? Diciamo che questi pagamenti servono agli stipendi di UNI più che a pagare gli esperti che fanno le norme e che non vengono pagati.
Alcune cose si riescono a estrarre comunque.
Ci sono alcuni metodi di riscaldamento a combustione che non necessitano di camino: sia l’etanolo che gli idrocarburi liquidi, il GPL (questi ultimi se bruciati in stufe a catalizzatore) godono di questo privilegio. (ATTENZIONE: le stufe a pellet dette “senza canna fumaria” in realtà necessitano di una canna fumaria, non necessariamente in muratura.)
La differenza fra queste due tipologie sta nel fatto che le stufe a etanolo o a GPL non fanno fumi (o almeno non ne fanno in quantità significative), ma producono invece i prodotti basici della combustione, CO2 ed acqua, più una quantità piccola ma misurabile di altre molecole tipiche delle combustioni, anche in funzione delle condizioni effettive di composizione del combustibile e di combustione (miscelazione, temperatura, etc). La purezza del combustibile è dunque condizione essenziale per evitare la produzione di sostanze tossiche o semplicemente puzzolenti. Non completamente perché secondo il regolamento del 1993 che invece stabilisce la composizione dell’alcol denaturato (che è quello al 96% che si usa in questi casi) una quantità di “impurezze” sono permesse dalla legge; le tecniche di denaturazione dipendono dal paese europeo; in Italia per esempio l’alcool denaturato contiene:
Per ettolitro anidro di alcole puro: – 125 grammi di tiofene, – 0,8 grammi di denatonium benzoato, – 0,4 grammi di C.l., acid red 51 (colorante rosso),
– 2 litri di metiletilchetone.
Nel momento della combustione queste sostanze, specie all’inizio, possono produrre comunque odore sgradevole. Infine piccole quantità di CO (che è tossico, non solo asfissiante come la CO2) si possono produrre specie se il dispositivo funziona male.
Un secondo problema è causato poi dal fatto che l’alcool etilico è infiammabile e questo, specie in fase di riempimento del serbatoio, può dare origine a pericolosi incidenti se non si rispettano regole precise per evitare il contatto con materiali molto caldi; un nutrito set di incidenti a livello internazionale è riportato in letteratura (vedi in fondo) . Per evitare grandi rischi la quantità di alcol che si può usare per ciascuna alimentazione è ridotta, diciamo che in una grande stufa c’è un serbatoio di 4-5 litri ossia, considerando la densità di 0.8 kg/L, qualche chilo.
E arriviamo ad un po’ di stechiometria e chimica fisica; quanto calore e quanta CO2 si producono?
L’entalpia di combustione dell’alcol etilico puro è di 27 MJ/kg (la legna oscilla fra 15 e 17MJ/kg) e la quantità di CO2 prodotta è di 1.9kg/kg (all’incirca 1.8 nel caso del legno).
La differenza sta oltre che nella bassissima produzione di fumi da parte dell’alcol nel ridotto rischio nel maneggiare la legna; mentre far bruciare l’alcol è molto semplice accendere il fuoco con la legna può essere parecchio più difficile.
Una grande stufa ad alcol, diciamo da 3-4 kW di potenza col suo serbatoio di 5 litri (ossia 4kg) potrà bruciare per quanto tempo? La risposta è alcune ore, ma queste sono le dimensioni massime che si possono avere; semplice fare il conto se avete 4kg di alcol potete ottenere poco più di 108MJ di energia termica; 4 kW sono 4kJ/s e dunque la stufa potrà lavorare per 7-8 ore, consumando circa mezzo litro l’ora. E quanta CO2 produrrà? Quasi 8kg che sono 4mila litri di gas, 4 metri cubi, raggiungendo una concentrazione in un volume poniamo di 300 metri cubi,(consideriamo un appartamento di 100 metri quadri ) superiore all’1%, che è 20-30 volte maggiore della concentrazione naturale (0.04%) ossia arriviamo a 8-10mila ppm mentre il massimo consigliato in ambienti molto vissuti è 2500 ppm per evitare disturbi significativi ; un po’ troppo! Per cui la norma UNI impone di aerare i locali ripetutamente e questo ovviamente contrasta con il mantenimento di una temperatura decente. Anche perché si genera parecchia acqua (1.2 kg/kg di alcol) e l’umidità ambientale aumenta col rischio di avere condensa e muffe.
Conclusione: sì, potete risparmiare di costruire un camino se non ce l’avete, ma la resa complessiva non sarà ottimale rispetto a quella di avere un camino funzionante e in genere non se ne consiglia l’uso in grandi ambienti : piccole stufe in piccoli ambienti, non il riscaldamento principale insomma, e sempre attenti a rischio incendio e qualità dell’aria.
Certo sono oggetti anche ben fatti ed esteticamente validi, ma questo cosa c’entra col riscaldamento?
Un’ultima considerazione è il costo; al momento è di 3 euro al litro, poco meno di 4 al kilo, mentre la legna costa 1 euro al kilo; la differenza è notevole per unità di calore ottenuta.
Passiamo alla stufa a sabbia che è invece un oggetto della mia infanzia. mio padre era un convinto utente della stufa a sabbia; ai tempi era elettrica come è anche adesso e dunque un oggetto dai consumi certo non economici; dove è l’utilità?
L’utilità è nella capacità di riscaldare la stufa ad una temperatura anche elevata e consentire il rilascio lento di questo calore nel tempo; di solito è fatta immergendo delle resistenze metalliche nella sabbia; e la sabbia ha una capacità termica che può essere significativa dato che può raggiungere temperature elevate senza alterarsi significativamente, anche varie centinaia di gradi; ovviamente il problema è che non potete toccare la sabbia e il dispositivo deve essere costruito in modo da evitare contatti molto pericolosi, deve riscaldare solo l’aria ambiente.
La capacità termica della sabbia è di 830J/kgK; immaginiamo allora di averne a disposizione 1 kg e di riscaldarlo a 100°C sopra la temperatura ambiente; il calore disponibile sarà di 83000J; supponiamo di averne 100kg, un oggetto parecchio pesante dunque, ma una volta riscaldato avrà accumulato e ci restituirà nel tempo 8.3MJ e se lo riscaldiamo a 200°C sopra l’ambiente avremo l’accumulo di 16.6MJ che corrispondono a bruciare un kilo di legno.
Non è impossibile isolare bene la massa di sabbia e conservare il calore per parecchie decine di ore o anche più sfruttandolo all’occorrenza.
L’idea, che è venuta ad un gruppo di tecnici finlandesi della Polar Night Energy, è di usare sabbia di quarzo di buona qualità ed in grandi quantità riscaldata a 1000°C usando per esempio eolico o fotovoltaico nei momenti di eccesso di produzione; in questo modo ogni ton di sabbia di quarzo potrebbe immagazzinare 830MJ/ton e secondo i loro esperimenti e calcoli rappresenta un modo innovativo ma semplice di accumulare energia termica a basso costo (attenzione una ton di idrocarburo produce oltre 40GJ, 50 volte di più).
Attualmente ci stiamo concentrando su due prodotti. Al momento possiamo offrire un sistema di accumulo di calore con potenza di riscaldamento di 2 MW con una capacità di 300 MWh o una potenza di riscaldamento di 10 MWh con una capacità di 1000 MWh. Il nostro sistema di accumulo di calore è scalabile per molti scopi diversi e amplieremo la gamma di prodotti in futuro. I nostri accumulatori sono progettati sulla base di simulazioni che utilizzano il software COMSOL Multiphysics. Progettiamo i nostri sistemi utilizzando modelli di trasporto del calore transitorio 3D e con dati di input e output reali. Abbiamo progettato e costruito il nostro primo accumulo di calore commerciale a base di sabbia a Vatajankoski, un’azienda energetica con sede nella Finlandia occidentale. Fornirà calore per la rete di teleriscaldamento di Vatajankoski a Kankaanpää, in Finlandia. L’accumulo ha una potenza di riscaldamento di 100 kW e una capacità di 8 MWh. L’utilizzo su vasta scala dello stoccaggio inizierà durante l’anno 2022.Abbiamo anche un impianto pilota da 3 MWh a Hiedanranta, Tampere. È collegato a una rete di teleriscaldamento locale e fornisce calore per un paio di edifici. Il progetto pilota consente di testare, convalidare e ottimizzare la soluzione di accumulo di calore. Nel progetto pilota, l’energia proviene in parte da un array di pannelli solari di 100 metri quadrati e in parte dalla rete elettrica.
Il dispositivo è correntemente sul mercato. Ci riscalderemo con queste “batterie a sabbia”?
Il fosforo (P) è un elemento essenziale della vita, è presente in tutti gli organismi viventi ed èfondamentale in agricoltura per garantire la produttività dei suoli coltivati. Trattandosi di una risorsa nonrinnovabile e limitata, la crescente domanda di fertilizzanti sta gradualmente esaurendo le riserve di rocce fosfatiche. Inoltre i giacimenti di fosforo sono situati in zone specifiche del pianeta. Alcuni dei paesi produttori di fosforo si trovano in condizioni di instabilità geopolitica. Questo rende il prezzo soggetto a forti variazioni, ed allo stesso tempo meno certa la possibilità di approvvigionamento. L’Europa nord-occidentale importa l’88% del fabbisogno di fosforo, circa 6,37 milioni di tonnellate per anno, da nazioni non appartenenti all’Unione Europea.
Il fosforo può essere recuperato in diverse fasi del trattamento delle acque reflue, sia sulla matrice acqua che sui fanghi di depurazione. I fanghi di depurazione che si producono alla fine dei trattamenti eseguiti sull’acqua da depurare, contengono circa il 95-99% di acqua e l’1-5% di materia secca. Purtroppo In Italia forse più che in altri paesi, esiste un diffuso senso di perplessità nei confronti di tutto quello che riguarda la gestione ed il trattamento dei fanghi. Con molta probabilità per il risalto che hanno avuto alcune vicende di cattiva gestione. Proprio per questa ragione vanno invece incoraggiate buone pratiche e la ricerca, per la gestione di questi inevitabili residui del trattamento delle acque reflue. E aumentati i controlli sul ciclo dei rifiuti.
Dopo i processi di separazione solido/liquido, la frazione acquosa dei fanghi contiene dal 5 al 20% del fosforo in forma disciolta. Da questa frazione è possibile separare la struvite, sale fosfo-ammonico-magnesiaco. Il processo è conosciuto fin dagli anni 80 ed è utilizzato nei paesi del nord Europa. Avevo trattato il tema già nel 2015.
Tuttavia la maggior parte del fosforo (dall’80 al 95%) rimane nei fanghi di risulta, ottenuti dopo i processi di disidratazione meccanica. Se i fanghi vengono essiccati termicamente fino ad avere una percentuale di sostanza secca intorno al 40%, diventano idonei per un processo di termovalorizzazione alimentato dalla combustione dei soli fanghi (mono-incenerimento). La combustione è il trattamento termico oggi più utilizzato (ma non in Italia come vedremo più avanti), per la valorizzazione energetica dei fanghi non idonei per l’utilizzo in ambito agricolo. Il potere calorifico dei fanghi di depurazione essiccati fino al valore del 40% di secco, consente la loro combustione senza necessità di ricorrere all’uso di combustibili ausiliari. Con una progettazione adeguata è possibile recuperare calore per il preriscaldamento dei fanghi, o per la produzione di energia.
La percentuale di fanghi inceneriti sul totale dei fanghi prodotti è del 3% in Italia, 19% in Francia, 24% in Danimarca, 44% in Austria, 56% in Germania, 64% in Belgio, e il 100% nei Paesi Bassi e in Svizzera. Negli Stati Uniti e in Giappone le percentuali sono rispettivamente del 25% e del 55%. In Svizzera è stato vietato totalmente l’utilizzo agricolo dei fanghi di depurazione. I fanghi di depurazione in Svizzera sono destinati unicamente all’incenerimento, dopo essere stati sottoposti a disidratazione ed essicamento termico.
Il recupero del fosforo può essere effettuato precipitandolo come struvite dalle acque di risulta del processo di disidratazione dei fanghi, prima che esse siano reimmesse all’ingresso del trattamento depurativo. Queste acque ne contengono all’incirca il 15% del totale. Il rimanente quantitativo, come detto precedentemente, è concentrato nei fanghi umidi. In Svizzera cantone di Zurigo ha realizzato un impianto centralizzato che tratta 84mila tonnellate/anno di fanghi umidi, e produce 13000 tonnellate/anno di ceneri ricche di fosforo residuo del processo di incenerimento. I fanghi provengono da tutti gli impianti di depurazione cantonali. L’ufficio federale per l’ambiente della Svizzera sta modificando la propria normativa sui rifiuti, ed ha già rilasciato permessi per lo stoccaggio delle ceneri derivanti da incenerimento dei soli fanghi di depurazione. Questo in previsione di poter sviluppare una tecnica adatta ed economicamente conveniente per il recupero del fosforo da questa matrice, con l’intenzione ridurre drasticamente l’importazione di fertilizzanti a base di fosforo. Anche in Danimarca si sta procedendo nella stessa maniera.
Le ceneri di fanghi di depurazione ottenuti da incenerimento potrebbero diventare delle principali risorse secondarie di fosforo. La percentuale di fosforo presente nelle ceneri, espressa come anidride fosforica, di solito varia tra il 10 e il 20%, cioè praticamente uguale alle percentuali presenti nelle rocce fosfatiche minerali. In Svizzera ma anche nell’Unione Europea e in Italia, sono stati sviluppati negli ultimi anni diversi progetti finanziati dall’Unione Europea per lo sviluppo di tecniche per il recupero del fosforo. Non soltanto dalle acque reflue, ma anche dai residui dell’industria agroalimentare, di quella farmaceutica e di quella siderurgica.
In Lombardia un gruppo di aziende del ciclo idrico ha sviluppato in collaborazione con il Politecnico di Milano, l’università degli di studi Milano-Bicocca e IRSA CNR la piattaforma Per FORM WATER 2030. Le attività di ricerca mirano ad ottimizzare le risorse e a sviluppare tecniche per il recupero di energia e materia dai depuratori. Relativamente al fosforo, il recupero effettuato sui fanghi umidi è una strada ormai abbandonata, per ragioni di scarsa convenienza economica. L’attenzione si è focalizzata quindi sulle ceneri da mono incenerimento di fanghi, e principalmente su due tecniche per il recupero del fosforo da questa matrice: la lisciviazione acida, e l’arrostimento termico. Il processo termochimico è costituito da un dosaggio di cloruro e da un trattamento termico tra gli 850 e i 1000°C in modo da rimuovere i metalli pesanti. Questa tecnologia nasce a partire dal progetto europeo SUSAN EU-FP6. In un forno rotativo le ceneri dei fanghi reagiscono con Na2SO4 lasciando evaporare i metalli pesanti e precipitare le ceneri contenenti fosfati.
Nei processi di lisciviazione a umido si effettua una dissoluzione in ambiente acido (pH< 2) seguita solitamente da una filtrazione, oppure da una separazione liquido-liquido e una successiva precipitazione o scambio ionico. Le tecniche sono attualmente ancora allo stadio realizzativo di impianti pilota. In Italia le sperimentazioni si fermano alle prove di laboratorio, in quanto attualmente sul territorio nazionale non esistono impianti di incenerimento dedicati unicamente alla combustione di fanghi.
Il passaggio allo stato applicativo vero e proprio è ancora frenato dai costi del processo. Se attualmente il prezzo medio del fosforo ottenuto da rocce fosfatiche è di circa 1-1,2 €/Kg le tecniche sperimentali per estrarlo da ceneri arrivano ad un prezzo di produzione pari a 2-2,5 €/Kg. Ma la crescita della popolazione, l’impoverimento dei suoli, la siccità potrebbero essere fattori che con molta probabilità potranno concorrere ad ulteriori richieste di fosforo sul mercato. Ed è facile prevedere la possibilità di ulteriori rincari e difficoltà di approvvigionamento.
Non sono a mio parere importanti le sole considerazioni tecnico-economiche. I passaggi precedenti allo sviluppo di queste tecnologie dovrebbero riguardare un uso meno esasperato della concimazione dei suoli, una diminuzione dello spreco di cibo, una procreazione ponderata e ragionata. Una educazione alla conoscenza delle leggi naturali, delle dinamiche dei cicli biogeochimici, una disintossicazione da un consumismo esagerato e compulsivo, seguito da una negazione dei problemi ambientali del pianeta terra che non ha più nessuna giustificazione logica.
La chimica in questo senso riveste un ruolo fondamentale. La chimica è studio della materia e, come diceva Primo Levi, non interessa affatto quale sia la sua origine prossima. Se siamo stati distrattamente avidi depauperando le risorse disponibili, dobbiamo imparare e costruire la chimica e la tecnica delle materie residue.
E’ possibile la vita sulla superficie di Marte? A questa domanda potrebbe rispondere il rover Rosalind Franklin della missione ExoMars (Figura 1) quando verrà lanciato. La missione, essendo una cooperazione congiunta dell’ Esa con la Roscosmos, a seguito dell’invasione dell’Ucraina, è stata bloccata dovendo partire dal cosmodromo di Baikonur lanciata dal razzo Proton. A questa missione è stata affidato l’esperimento Bottle (Brine Observation Transition To Liquid Experiment). Questo esperimento ha come obiettivo di generare acqua liquida sulla superficie di Marte mediante la deliquescenza, un processo in cui un sale igroscopico assorbendo vapore d’acqua dall’atmosfera, genera una soluzione salina. Inoltre si indagherà l’eventuale abitabilità di queste salamoie. La vita, almeno per come la conosciamo, oltre la presenza di carbonio, idrogeno, azoto, ossigeno, fosforo e zolfo, indicati con l’acronimo CHNOPS, necessita anche di altri oligoelementi e soprattutto dell’acqua liquida e di energia. Ora su Marte, l’energia potrebbe essere fornita dalla luce solare o da processi chimici. Il carbonio è disponibile nella sottile atmosfera sotto forma di biossido di carbonio, gli oligoelementi sono largamente presenti nella regolite, lo strato di polvere fine che ne ricopre la superficie.
Il fattore fortemente limitante è la presenza acqua liquida a causa della bassa pressione atmosferica (da 7 a 4 millibar contro i circa mille millibar terrestri) e delle temperature prevalentemente sotto lo zero Celsius. In queste condizioni, come ben sappiamo fin dai nostri primi studi di Chimica Fisica l’unica possibilità perché l’acqua sia liquida, in base alla legge di Raoult e dell’abbassamento crioscopico, è la presenza in soluzioni ad alta concentrazione salina. Sulla superficie del pianeta rosso sono stati rilevati negli ultimi decenni sali igroscopici in grado di formare salamoie che potrebbero rendere l’acqua liquida, fra cui i perclorati. Queste considerazioni hanno negli ultimi anni spinto la ricerca a trovare dei potenziali microorganismi in grado di vivere in queste condizioni drastiche, che chiaramente presentano varie problematiche. In primo luogo l’elevata salinità, che avrebbe quest’acqua, sarebbe in grado di modificare l’equilibrio osmotico delle cellule. Inoltre i perclorati hanno un effetto caotropico promuovendo la denaturazione delle macromolecole, il danno al DNA e lo stress ossidativo dovuto all’elevato potere ossidante del cloro nello stato di ossidazione +7.
Fra i potenziali microorganismi che potrebbero adattarsi a queste condizioni si annoverano gli archaea alofili (famiglia Halobacteriaceae). Queste specie si sono adattate alla vita agli estremi di salinità sulla Terra, pertanto potrebbero risultare dei buoni candidati per la vita anche su Marte. Molte specie resistono a livelli elevati di radiazioni UV e gamma; una specie è sopravvissuta all’esposizione al vuoto e alle radiazioni durante un volo spaziale; e c’è almeno una specie psicrotollerante (specie che crescono a 0°C, ma hanno un optimum di temperatura di 20-40 °C),. Gli archaea alofili possono sopravvivere per milioni di anni all’interno delle inclusioni di salamoia nei cristalli di sale. Molte specie hanno diverse modalità di metabolismo anaerobico e alcune possono utilizzare la luce come fonte di energia utilizzando la batteriorodopsina della pompa protonica guidata dalla luce. Inoltre la presenza dei caratteristici pigmenti carotenoidi (α-bacterioruberina e derivati) rende le Halobacteriaceae facilmente identificabili mediante spettroscopia Raman [1]. Pertanto, se presenti su Marte, tali organismi possono essere rilevati dalla strumentazione Raman pianificata per l’esplorazione EXoMars.
Per verificare la possibilità di vita sul suolo marziano per alcune specie batteriche metanogene, un gruppo di ricercatori della Technische Universität (TU) di Berlino hanno testato l’attività di tre archaea metanogenici: Methanosarcina mazei, M. barkeri e M. soligelidi (Figura 2)[2]. Le cellule microbiche sono state bagnate in un sistema di deliquescenza chiuso (CDS) costituito da una miscela di substrato essiccato Martian Regolith Analog (MRA) e sali. Il metano prodotto tramite attività metabolica è stato misurato dopo averli esposti a tre diversi substrati MRA utilizzando NaCl o NaClO4 come sale igroscopico. Gli esperimenti hanno mostrato che i M. soligelidi e i M. barkeri producevano metano rispettivamente a 4 °C e a 28 °C mentre i M. mazei non venivano riattivati metabolicamente attraverso la deliquescenza. Nessuna però delle specie produceva metano in presenza di perclorato mentre tutte le specie erano metabolicamente più attive nell’MRA contenente fillosilicati. Questi risultati sottolineano l’importanza del substrato, delle specie microbiche, del sale e della temperatura utilizzati negli esperimenti. Inoltre, quest’esperimento per la prima volta dimostra che l’acqua fornita dalla sola deliquescenza è sufficiente per reidratare gli archei metanogenici e riattivare il loro metabolismo in condizioni approssimativamente analoghe all’ambiente marziano vicino al sottosuolo
Lo stesso gruppo berlinese, più recentemente, ha condotto una prima indagine proteomica sulle risposte allo stress specifiche del perclorato del lievito alotollerante Debaryomyces hansenii e lo ha confrontato con gli adattamenti allo stress salino generalmente noti [3]. Le risposte agli stress indotti da NaCl e NaClO4 condividono molte caratteristiche metaboliche comuni, ad esempio vie di segnalazione, metabolismo energetico elevato o biosintesi degli osmoliti. I risultati di questo studio hanno rivelato risposte allo stress microbico specifiche del perclorato mai descritte prima in questo contesto. Anche se le risposte allo stress indotte in D. hansenii condividono diverse caratteristiche metaboliche, è stata identificata una glicosilazione proteica potenziata, il ripiegamento tramite il ciclo della calnexina e la biosintesi o rimodulazione della parete cellulare come misura contraria allo stress caotropico indotto dal perclorato, che generalmente destabilizza le biomacromolecole. Allo stesso tempo, i processi di traduzione mitocondriale sono sottoregolati sotto stress specifico del perclorato. Lo stress ossidativo indotto specificamente dal perclorato sembra giocare solo un ruolo minore rispetto allo stress caotropico. Una possibile spiegazione di questo fenomeno è che il perclorato è sorprendentemente stabile in soluzione a temperatura ambiente a causa del trasferimento di atomi di ossigeno che limita la velocità di riduzione. Per cui, quando si applicano questi adattamenti fisiologici, le cellule possono aumentare sostanzialmente la loro tolleranza al perclorato rispetto all’esposizione allo shock del sale. Questi risultati rendono probabile che i presunti microrganismi su Marte possano attingere a meccanismi di adattamento simili che consentano la sopravvivenza nelle salamoie del sottosuolo ricche di perclorato.
Lo scopo di questa attività di ricerca consiste quindi nel dimostrare come gli organismi estremofili potrebbero tutt’oggi essere presenti su Marte. Un qualunque esperimento da condurre sulla superficie del pianeta rosso alla ricerca della vita, è suffragato da ipotesi già validate sulla Terra. In astrobiologia infatti sono determinanti, per l’approvazione di missioni spaziali, dei risultati promettenti ottenuti in laboratorio. Questi poi potranno essere quindi verificati quando la missione Exomars potrà avere luogo, sembra comunque non prima del 2028. Inoltre la conoscenza di organismi in grado di vivere in condizioni estreme, che riteniamo improbabili, dimostrano come la vita possa svilupparsi anche in ambienti ostili ed avere eventualmente delle ricadute nello studio di processi biotecnologici.
References
1) J Jehlička, H G M Edwards, A Oren Bacterioruberin and salinixanthin carotenoids of extremely halophilic Archaea and Bacteria: a Raman spectroscopic study Spectrochim Acta A Mol Biomol Spectrosc 2013, 106, 99-103. https://doi.org/10.1016/j.saa.2012.12.081
2) D. Maus, et al. Methanogenic Archaea Can Produce Methane in Deliquescence-Driven Mars Analog Environments. Sci Rep 2020, 10, 6. https://doi.org/10.1038/s41598-019-56267-4
3) J. Heinz et al. Perchlorate-specific proteomic stress responses of Debaryomyces hansenii could enable microbial survival in Martian brines Environ Microbiol. 2022, 24, 5051–5065. https://doi.org/10.1111/1462-2920.16152
Figura 1 Il rover di ExoMars è intitolato a Rosalind Franklin i cui studi di cristallografia a raggi X. Sono stati fondamentali per risolvere la struttura del DNA e del RNA. Esplorerà il Pianeta Rosso. . Copyright: ESA/ATG medialab
Figura 2 Methanosarcina barkeri (sopra) e Methanosarcina soligelidi (sotto). Questi ceppi appartengono agli euryarchaeotearchaea che producono metano usando tutti I pathways metabolici per la metanogenesi
La Chimica aiuta moltissimo ad utilizzare nel modo più razionale ed efficace le risorse alimentari di cui disponiamo ed aiuta anche a gestire gli scarti alimentari secondo i principi dell’economia circolare. Purtroppo non può fare molto quando quantità rilevanti di cibo vengono smaltite nell’indifferenziata precludendo qualsiasi azione di recupero. Eppure i dati ci fanno capire che l’entità del fenomeno ne giustifica assolutamente il contrasto.
Una recente statistica quantifica lo spreco nel mondo nel 17% ed in Italia in 9 miliardi (0,5 % del PIL) pari a quasi 0,6 kg pro capite a settimana.
Il dato italiano è coerente con quello europeo, essendo solo il Regno Unito e la Germania, in significativo aumento di cibo sprecato, rispettivamente 1081 e 949 g a settimana pro capite. Sorprende rilevare che proprio dove potrebbe essere più facile contribuire al recupero, e cioè nelle case private, lo spreco sia massimo, vicino al 12%, contro il 5% delle mense ed il 2% dei rivenditori. Questa percentuale bassa però si ridimensiona quando si passa al valore assoluto: nei supermercati ogni anno si buttano 200.000 tonnellate di alimenti. Dati che appaiono ancor più drammatici rispetto a 2 milioni di famiglie ed il 19%della popolazione che vive in condizioni di povertà. Contro gli sprechi è attivo il terzo settore, ma anche la tecnologia e la ricerca. La prima con un’app che consente l’acquisto di una magic box con l’invenduto del giorno da ristoranti, bar, forni; la seconda con metodi sempre più automatizzati, sicuri ed economici che invogliano e stimolano il recupero degli scarti. Fra questi il compostaggio è un processo biologico assistito, dove i microrganismi scompongono le sostanze organiche complesse e le trasformano in compost: un terriccio organico, ricco di nutrienti per il suolo. Dunque, è un procedimento che simula quanto avviene in natura, dove ogni elemento alimenta la vita di qualcos’altro, in un ciclo continuo di rigenerazione.
Se si vuole contribuire a ridurre l’inquinamento e innescare processi di economia circolare, i vantaggi del compostaggio non sono più ignorabili. Aiuta il riciclo alimentare e garantisce la sostenibilità ambientale, poiché mantiene i rifiuti in un ambiente controllato, dove vengono trasformati in un prodotto utile. Il compost arricchisce il suolo, prevenendone l’erosione, consente di risanarlo dall’inquinamento e alimenta la biodiversità, attirando insetti, batteri e funghi che portano benefici per il raccolto. Ma non solo, riduce drasticamente il volume dei rifiuti umidi organici destinati alla discarica e contribuisce a ridurre l’effetto serra, mitigando la produzione di gas.
Ogni volta che sprechiamo alimenti, sprechiamo anche il terreno, l’acqua, l’energia e gli altri fattori di produzione utilizzati per produrre l’alimento che non consumiamo. Pertanto, ogni diminuzione dello spreco alimentare comporta effettivamente potenziali vantaggi per l’ambiente. Se riduciamo la quantità di alimenti che sprechiamo attraverso il sistema alimentare, avremo bisogno di minori quantità di acqua, di fertilizzanti e di terra, di un’inferiore capacità di trasporto, di minori quantità di energia, di una ridotta attività di raccolta di rifiuti e di riciclaggio e così via. Finalmente anche la politica si è accorta di questa situazione e per combattere sprechi e povertà ha proposto il reddito alimentare che sarà sperimentato nelle città metropolitane secondo quanto contenuto nella Legge di Bilancio. Un fondo di 1,5 milioni per il 2023 e di 2 milioni per il 2024 permetterà di dirottare verso i poveri pacchi di alimenti invenduti. Basterà prenotarli con un’app purché nella condizione di povertà e si potrà ritirare il pacco in una delle strutture previste.