Scuola Salesiana.

In evidenza

Luigi Campanella, già Presidente SCI

Già in altre occasioni ho parlato dei Salesiani e della loro capacità di anticipare i tempi. È successo in occasione della raccolta differenziata, della nutraceutica, oggi avviene per il contrasto agli abbandoni scolastici.

Da quasi un secolo a Palermo i Salesiani accompagnano generazioni di studenti attraverso una gestione della scuola “circolare” fondata sulla responsabilità condivisa della comunità educativa. Già la sede, sopravvissuta indenne alla seconda guerra mondiale, rappresentava un impegno: trasformata da spazio di sollazzo di casati in decadenza in scuola ed oratorio. La visione antropocentrica della vita e lo studio dell’economia sono da sempre i suoi connotati primari

La secondaria di primo grado accompagna gli studenti alla scoperta del proprio talento attraverso il dialogo e la proficua relazione fra giovani ed educatori. Ogni allievo cresce attraverso una combinazione di formazione e di educazione alla vita, financo a farlo abituare sin dalle aule alla competizione concorsuale ed ai laboratori professionali. Molta attenzione è anche riservata alle lingue con full immersion nei relativi laboratori, ma in una visione non solo economica, ma anche culturale, così con uno sguardo ad esempio all’arabo, oltre ai tradizionali inglese, francese e spagnolo.

Villa Ranchibile, sede Istituto Salesiano Don Bosco di Palermo

Nella Scuola Secondaria di Secondo Grado multiculturalità, apertura e dialogo con Paesi vicini e lontani sono le coordinate. Sul piano delle software skills, ossia delle competenze trasversali spendibili in qualsiasi ambito di lavoro, è attiva una Sala Confezione Telegiornale. È poi previsto un tempo da dedicare alla lettura ed interpretazione dei social, da un punto di vista grafico e contenutistico. La sala robotica corrisponde perfettamente alle esigenze della didattica 4.0: il confronto continuo con le istituzioni accademiche garantisce la scelta professionale più idonea.

Due altre attività di certo qualificanti riguardano l’educazione al Teatro sia come spettatori che come attori e l’educazione alla legalità. L’alternanza Scuola Lavoro è realizzata in modo nuovo senza creare le fasi di confusione ed incertezza proprie del metodo nella forma attuale ed avviene sotto la guida di CNR, Agenzia delle Entrate, Istituti Finanziari.

Visite culturali, molto innovativa e moderna quella realizzata a Wall Street, e comunicazione sociale completano questo quadro formativo, al tempo stesso tradizionale ed innovativo.

Come si comprende una scuola diversa da quella tradizionale generalmente basata sulla monoculturalitá che funge da base per caratterizzare l’offerta, dimenticando però la multiculturalità che caratterizza la domanda è che se rispettata può fungere da incentivo a superare i momenti difficili e ridurre gli abbandoni.

C’è bisogno della fusione nucleare?

In evidenza

Vincenzo Balzani

(pubblicato su Avvenire-Bo del19 febbraio 2023)

Sia la fissione nucleare (scissione di un nucleo atomico pesante in nuclei più leggeri) che la fusione nucleare (unione tra nuclei leggeri per formare un nucleo più pesante) convertono piccole quantità di massa (m) in enormi quantità di energia (E), come schematizzato dall’ equazione di Einstein E=mc2, dove c indica la velocità della luce (300.000 km/s). Sia la fissione che la fusione nucleare sono state usate per creare armi di incredibile potenza sin dal 1950. La produzione di energia elettrica da fissione nucleare, realizzata per la prima volta nel 1954, è oggi usata in alcuni paesi fra molte polemiche, a causa dei numerosi problemi che la caratterizzano, quali la produzione di scorie radioattive pericolose per decine di migliaia di anni, che non si sa dove collocare.

Nel 1955 è stata preconizzata la possibilità di ottenere entro due decenni energia elettrica dalla fusione nucleare, risolvendo definitivamente il problema energetico su scala mondiale. Questa (fra due decenni …) è stata riproposta più volte dal 1955 ad oggi. In realtà, nonostante i grandi capitali investiti, finora non sono stati fatti passi significativi, a dispetto della spasmodica attesa di politici, economisti e mezzi di comunicazione.

L’episodio più eclatante è avvenuto il 13 dicembre scorso, quando i giornali di tutto il mondo hanno riportato che la National Ignition Facility (NIF) del Laurence Livermore National Laboratory (USA) aveva ottenuto un importantissimo risultato:  focalizzando l’energia di 192 laser su una sferetta contenente deuterio e trizio (due isotopi dell’idrogeno), si è provocata in pochi nanosecondi la loro fusione generando una quantità di energia (3,15 MJ), leggermente maggiore di quella iniettata dai laser nella sferetta (2.05 MJ).  Da notare, però, che i 192 laser hanno consumato circa 400 MJ, ai quali va aggiunta l’energia usata dalle altre apparecchiature utilizzate nell’esperimento.

Per applicazioni commerciali della fusione nucleare, oltre a generare più energia di quella consumata, si deve vincere un’altra sfida ancora più difficile: costruire un’apparecchiatura che funzioni non per pochi miliardesimi di secondo, ma in modo continuo. Oltre ad altri numerosi problemi tecnici difficili da affrontare, c’è anche quello che il trizio. Si tratta di un gas  radioattivo che non esiste in natura, decade con un tempo di semivita di soli 12 anni e si ottiene con una reazione nucleare di un isotopo del litio, dopo averlo arricchito dal 6% al 90% con un costosissimo processo.

Spendere miliardi di dollari nel tentativo di generare elettricità mediante un processo che molti scienziati giudicano irrealizzabile serve solo ad ostacolare il definitivo sviluppo delle energie rinnovabili che, con una frazione di quei finanziamenti, potrebbero risolvere gli ultimi loro problemi e fornire al pianeta energia elettrica senza provocare il cambiamento climatico, senza generare scorie radioattive e senza facilitare la costruzione di armi atomiche. Già, perché è bene ricordare che il compito primario del NIF e degli altri laboratori di questo tipo non è la produzione di energia, ma lo studio della fusione per scopi bellici.

Una nuova forma amorfa di ghiaccio

In evidenza

Diego Tesauro

E’ noto che l’acqua ha un diagramma di fase complesso (Figura 1), in quanto nella fase solida ha ben 20 fasi cristalline, molte delle quali scoperte anche recentemente (tre nuove fasi cristalline solo negli ultimi 5 anni).

Figura 1 Diagramma di stato dell’acqua e delle diverse forme di ghiaccio

Oltre alle forme cristalline, attualmente, si annoverano delle forme amorfe.

Il ghiaccio amorfo a bassa densità (LDA) è stato prodotto per la prima volta negli anni ’30 dal congelamento del vapore acqueo su una superficie molto fredda, a una temperatura inferiore a -150°C (1).

Il ghiaccio amorfo ad alta densità (HDA) negli anni ’80 è stato prodotto dalla compressione del ghiaccio Ih (la forma più diffusa nelle condizioni di pressione ambiente con la classica struttura solida esagonale) o dal LDA a basse temperature (2).

Il riscaldamento dell’HDA sotto pressione produce ghiaccio amorfo espanso ad alta densità (eHDA) o ad altissima densità (vHDA), come riportato nei primi anni di questo secolo.

Come suggeriscono i loro nomi, i ghiacci amorfi si distinguono principalmente per la loro densità, con LDA che ha una densità di 0,94 g cm–3 e gli HDA partono da 1,13 g cm–3 a pressione ambiente e 77 K. Queste due forme lasciano un “buco” nelle densità attorno alla densità dell’acqua liquida (1 g cm–3) che non è riempito da nessuna fase cristallina nota.

Questo divario, e la questione se i ghiacci amorfi abbiano stati liquidi corrispondenti al di sotto di un punto critico liquido-liquido (Tale punto denota condizioni di temperatura, pressione e composizione oltre le quali una miscela si separerà in due o più fasi liquide differenti), è un argomento di grande interesse per quanto riguarda la spiegazione delle numerose anomalie dell’acqua (3).

Inoltre lo studio dei ghiacci amorfi è di grande interesse perché è quello più abbondante nello spazio. Infatti se queste due forme di ghiaccio sono molto poco comuni sulla Terra, entrambe sono abbondanti ad esempio nelle comete, che come è noto dalla famosa definizione di Whipple sono “palle di neve sporca”, quindi corpi di ghiaccio amorfo a bassa densità.

A queste due forme si deve aggiungere una nuova forma di ghiaccio amorfo che andrebbe a colmare il vuoto intorno alla densità 1 g cm-1, come riportato da un articolo apparso su Science del febbraio ’23 (4).

Per poterlo ottenere questa nuova forma si è ricorsi alla macinazione a sfere, una tecnica consolidata per la produzione di materiali amorfi.  Al centro dei processi di amorfizzazione ci sono impatti cristallo-sfera che esercitano una combinazione di forze di compressione e di taglio sui materiali di partenza cristallini. Sebbene gli effetti di fusione locale siano stati attribuiti come origine dell’amorfizzazione la principale forza trainante del processo sembra essere l’introduzione di difetti di dislocazione. Per ottenere il ghiaccio amorfo con una densità intermedia tra LDA e HDA è stato raffreddato del ghiaccio Ih preventivamente a 77 k con azoto liquido con sfere di acciaio inossidabile. Per ottenere l’amorfizzazione, l’intero assemblaggio è stato agitato vigorosamente per 80 cicli di macinazione a sfere. Il ghiaccio appariva a questo punto come una polvere granulare bianca che si attaccava alle sfere di metallo. La caratterizzazione mediante diffrazione dei raggi X mostra massimi di picco a 1,93 e 3,04 Å–1. Un confronto con i modelli di diffrazione con gli altri ghiacci amorfi evidenzia che il ghiaccio amorfo ottenuto attraverso la macinazione a sfere è strutturalmente diverso. La corrispondenza più vicina in termini di posizioni delle molecole è l’HDA. Tuttavia, contrariamente all’HDA, il ghiaccio amorfo ottenuto non si trasforma in LDA a seguito di riscaldamento a pressione ambiente. Invece, i modelli di diffrazione raccolti, a seguito del riscaldamento, mostrano la ricristallizzazione a seguito di impilazione del ghiaccio disordinato (ghiaccio Isd) sopra i 140 K che successivamente si trasforma nel ghiaccio stabile Ih. L’identificazione sperimentale di MDA mostra che il poliamorfismo di H2O è più complesso di quanto precedentemente stimato a seguito dell’esistenza di più stati amorfi distinti.

Una domanda chiave è se l’MDA debba essere considerato come uno stato vetroso dell’acqua liquida. La natura vitrea di LDA e HDA è ancora dibattuta e una serie di diversi scenari si materializzano con la scoperta di MDA. Una possibilità degna di nota è che MDA rappresenti la fase vetrosa dell’acqua liquida, questa ipotesi sarebbe supportata dalle densità simili e dalle caratteristiche di diffrazione. Ciò non violerebbe necessariamente la ben nota ipotesi del punto critico liquido-liquido, ma MDA dovrebbe avere una temperatura di transizione vetrosa al di sopra del punto critico liquido-liquido. Di conseguenza, MDA rappresenterebbe acqua liquida prima che la separazione di fase in LDA e HDA avvenga a temperature inferiori al punto critico liquido-liquido. Coerentemente con questo scenario, MDA non mostra una transizione vetrosa al di sotto della temperatura di ricristallizzazione a 150 K nonostante l’esteso riscaldamento a una gamma di temperature diverse. Di conseguenza, MDA sarebbe metastabile rispetto a LDA o HDA a basse temperature e a tutte le pressioni.

In alternativa, potrebbe esistere un intervallo di pressione a basse temperature entro il quale MDA è più stabile di LDA e HDA. Tuttavia, a causa della cinetica generalmente lenta a basse temperature, i due scenari sono difficili da distinguere. Il riscaldamento dell’MDA a pressione ambiente non porta alla formazione di LDA e l’MDA è rimasto stabile dopo il riscaldamento alle condizioni p/T dell’eHDA. La compressione di MDA a 77 K, al contrario, mostra una transizione a HDA con una variazione graduale del volume a una pressione iniziale di ~ 1, 1 GPa. Coerentemente con la maggiore densità di MDA rispetto al ghiaccio Ih, la variazione graduale di volume è minore rispetto alla corrispondente transizione della stessa quantità di ghiaccio Ih. La pressione iniziale della transizione da MDA a HDA dopo la compressione è a una pressione più alta rispetto alla transizione da LDA a HDA a 0,5 GPa.

Un terzo scenario è rappresentato dal fatto che MDA non è un liquido vetroso, ma piuttosto uno stato cristallino fortemente tagliato che manca di connessione con la fase liquida. Qualunque sia la precisa natura strutturale di MDA, ci si aspetta che svolga un ruolo nella geologia del ghiaccio a basse temperature, ad esempio nei numerosi corpi planetari come i satelliti di ghiaccio del sistema solare. Infatti alcuni satelliti del nostro Sistema Solare, come uno dei 4 satelliti galileiani di Giove, Europa (Figura 2), e il satellite di Saturno Encelado (Figura 2), hanno superfici ghiacciate.

Zooming In On Enceladus (Movie)

Figura 2 Sopra il satellite Europa ripresa dalla sonda Galileo della NASA.Sotto la superficie di Encelado catturata dalla navicella spaziale Cassini della NASA.

Se due aree ghiacciate dovessero sfregare l’una contro l’altra, a causa delle forze di marea, potrebbero produrre ghiaccio amorfo di media densità, facilitando la transizione del ghiaccio Ih. Si riproduce quindi lo stesso processo a condizione che queste si verifichino in un intervallo di temperatura e pressione simile a quello verificato in laboratorio dai ricercatori. Le forze di marea all’interno delle lune di ghiaccio sono indotte dalle forze gravitazionali dei giganti gassosi. L’aumento della densità potrebbe creare spazi vuoti nella superficie, producendo interruzioni mentre il ghiaccio si rompe tutto insieme. Ci sarebbe un crollo massiccio del ghiaccio che comporterebbe implicazioni per la geofisica delle lune ghiacciate.

Questo potrebbe, a sua volta, avere implicazioni per la potenziale abitabilità da parte di esseri viventi degli oceani di acqua liquida che si trovano sotto le superfici ghiacciate di questi satelliti. Uno degli aspetti fondamentali è se si può avere un’interfaccia tra l’acqua liquida e le rocce. In queste condizioni potrebbe emergere la vita ed il ghiaccio amorfo potrebbe avere un ruolo che è da investigare.

Se confermata, la nuova forma di ghiaccio potrebbe quindi consentire studi sull’acqua in un modo che prima non era possibile. L’acqua liquida è un materiale strano ed ancora non ne sappiamo quanto vorremmo. Ad esempio, si pensa comunemente che l’acqua sia composta da due forme, acqua a bassa densità e acqua ad alta densità, corrispondenti alle varianti precedentemente note del ghiaccio amorfo.

La scoperta di un ghiaccio amorfo di media densità potrebbe sfidare questa idea.

1. E. F. Burton, W. F. Oliver, The Crystal Structure of Ice at Low Temperatures. Proc. R. Soc. Lond.153, 166–172 (1935).

2. O. Mishima, L. D. Calvert, E. Whalley, An Apparently First-order Transition Between Two Amorphous Phases of Ice Induced by Pressure. Nature 314, 76–78 (1985).

3. P.G. Debenedetti, F. Sciortino, G.H. Zerze Second critical point in two realistic models of water Science 369 (6501), 289-292 (2020) https://org.doi/10.1126/science.abb9796.

4. A. Rosu-Finsen, M.B. Davies, A. Amon, H. Wu, A. Sella, A. Michaelides, C.G. Salzmann, Medium-density amorphous ice. Science 379 (6631), 474-478 (2023). https://org.doi/10.1126/science.abq2105.

“Vermi” che si cibano di polistirene

In evidenza

Claudio Della Volpe

Abbiamo già introdotto anni fa l’idea che esistono enzimi nella biosfera in organismi macroscopici in grado di attaccare i legami della “plastica”; fu una brillante ricercatrice italiana, Federica Bertocchini, che però lavorava in Spagna, a scoprire per prima, nel 2017, questo fenomeno di cui abbiamo reso conto sul blog.

Da allora è cresciuta la conoscenza di questo fenomeno presentato da altri “vermi” o meglio larve di insetti i quali ospitano nel loro intestino dei microorganismi capaci di realizzare questa degradazione.

Nel caso della Bertocchini si trattava delle camole, le larve della Galleria mellonella, che si usano da sempre per la pesca e che vi assicuro hanno un ottimo sapore (le ho provate ad una presentazione degli insetti come cibo anni fa, erano molto dolci). Quelle larve erano in grado di mangiarsi i sacchetti di polietilene.

Anche il polistirene è degradabile nel medesimo modo; la cosa è stata scoperta da alcuni ricercatori cinesi; i medesimi avevano scoperto poco prima che il comune Tenebrio molitor, ossia il verme della farina era in grado di degradare la gomma degli pneumatici ed il polistirene; ed in effetti guardando bene la letteratura un gruppo di ricercatori che lavoravano fra Manchester e il Pakistan

Atiq, N., Ahmed, S., Ali, M. I., Andleeb, S., Ahmad, B., & Robson, G. (2010). Isolation and identification of polystyrene biodegrading bacteria from soil. African Journal of Microbiology Research, 4(14), 1537-1541. http://www.academicjournals.org/ajmr/PDF/Pdf2010/18Jul/Atiq%20et%20al.pdf

aveva scoperto nel suolo i batteri direttamente responsabili della degradazione del polistirene.

Guardando sia pur superficialmente la letteratura si trovano organismi e microorganismi capaci di degradare parecchie “plastiche”: polietilene, polistirene, gomma sintetica, e perfino il polivinilcloruro.

Scrivono i colleghi di Pechino:

Il polistirene (PS) è uno dei principali rifiuti di plastica accumulati nell’ambiente. In precedenza, abbiamo riferito che il verme della farina (Tenebrio molitor) era in grado di degradare e mineralizzare il polistirolo (schiuma PS)**. Questa scoperta ha suscitato la nostra curiosità di esplorare se altre specie di insetti avessero la stessa capacità dei vermi della farina. Qui, una larva di insetto, il superverme (Zophobas atratus), è stata recentemente dimostrata in grado di mangiare, degradare e mineralizzare PS. I supervermi potrebbero vivere con il polistirolo come unica dieta come quelli alimentati con una dieta normale (crusca) per un periodo di 28 giorni. Il tasso medio di consumo di polistirolo per ciascun superworm è stato stimato a 0,58 mg / die, 4 volte superiore a quello del verme della farina. Le analisi dell’ingerito, utilizzando la cromatografia a permeazione di gel (GPC), la spettroscopia a risonanza magnetica nucleare 13C cross-polarization/magic angle spinning nuclear magnetic resonance (CP/MAS NMR) allo stato solido e la spettroscopia termogravimetrica interfacciata con la spettroscopia infrarossa a trasformata di Fourier (TG−FTIR), hanno dimostrato che la depolimerizzazione delle molecole di PS a catena lunga e la formazione di prodotti a basso peso molecolare si sono verificate nell’intestino larvale. Un test respirometrico ha dimostrato che fino al 36,7% del carbonio di polistirolo ingerito è stato convertito in CO2 durante un periodo di prova di 16 giorni. La capacità di degradare il PS del superworm è stata inibita dalla soppressione antibiotica del microbiota intestinale, indicando che il microbiota intestinale ha contribuito alla degradazione del PS. Questa nuova scoperta estende gli insetti che degradano il PS oltre le specie all’interno del genere Tenebrio e indica che il microbiota intestinale del superworm sarebbe una nuova biorisorsa per la ricerca di enzimi che degradano la plastica.

Biodegradation and mineralization of polystyrene by plastic- eating superworms Zophobas atratus Yu Yang , Jialei Wang , Mengli Xia Science of The Total Environment  Volume 708, 15 March 2020, 135233

**Il risultato è stato pubblicato  qui: Aboelkheir, M.G., Visconte, L.Y., Oliveira, G.E., Filho, R.D., Souza, F.G., 2019. The biodegradative effect of Tenebrio molitor Linnaeus larvae on vulcanized SBR and tire crumb. Sci. Total. Environ., 649, 1075–1082.

La cosa importante è che la velocità di degradazione dei polimeri ad opera dei batteri in  ambiente artificiale o naturale è lenta, mentre le larve di questi insetti sono molto più veloci; nel loro intestino la cosa diventa talmente veloce che si realizza entro decine di minuti dal contatto con la camola e qualche giorno nel caso del verme della farina e del verme di cui parliamo oggi, il cosiddetto superverme, ufficialmente Zophoba atratus, ritratto nell’immagine qui sopra.

Colgo l’occasione per rispondere anche a chi mi fece notare allora che quando avevo scritto che il legame C-C non è così facile da demolire mi ero dimenticato che noi stessi degradiamo le catene degli acidi grassi.

La cosa è leggermente più complessa di come la metteva il mio critico (che era poi Gustavo Avitabile che ringrazio del commento):

Gli enzimi del metabolismo degli acidi grassi sono tutti mitocondriali, mentre la loro attivazione avviene nel citoplasma: è quindi necessario trasportare gli acidi grassi attivati nel mitocondrio. Nei mitocondri possono essere presenti degli acidi grassi ottenuti dal turnover  delle lipoproteine di membrana: per essi sarà necessaria una attivazione intramitocondriale (questa attivazione è stata utilizzata per confermare che i mitocondri sono l’evoluzione di batteri che, in principio, infettavano le cellule prive degli apparati deputati al metabolismo aerobico; i mitocondri, infatti, hanno un loro patrimonio genetico e sono quasi totalmente sufficienti, anche per la loro riproduzione).

In definitiva nel nostro DNA quegli enzimi non ci sono, ma in quello dei mitocondri che hanno il loro proprio DNA ci sono; e dunque gli antichi batteri che hanno dato origine agli organelli mitocondriali delle nostre cellule eucariote sono i veri contributori.

Inoltre se allunghiamo la catena (e/o escludiamo i terminali come la funzione carbossilica o esterea), la nostra capacità di metabolizzazione si interrompe; la semplice cera di candela che ha catene molto lunghe non siamo capaci di metabolizzarla affatto.

Cosa faremo di queste scoperte? Riusciremo ad usarle per chiudere o almeno cominciare a chiudere il ciclo della plastica?

Voi che ne dite?

Il cuoio e sue imitazioni

In evidenza

Biagio Naviglio**

Cuoio

Il cuoio, materiale naturale di origine animale, è stato utilizzato fin dall’inizio della storia dell’uomo; Infatti, esso è uno degli oggetti più antichi realizzati dall’uomo per proteggersi dagli elementi naturali. Gli uomini primitivi cacciavano gli animali per il cibo e usavano la loro pelle per fare il cuoio il quale veniva usato, inizialmente, per vestiti e tende.

Le peculiari caratteristiche del cuoio derivano, sostanzialmente, dal suo particolare intreccio fibroso il quale determina le proprietà di comfort e di benessere del portatore ed esalta quelle concernenti la praticità/durabilità e bellezza/eleganza; per tale motivo, quindi, si cerca di imitarlo in tutti i modi. A riguardo, la legislazione italiana tutela l’uso dei nomi, cuoio, pelli e pelliccia e di quelli da essi derivati o loro sinonimi; Infatti, il decreto legislativo 9 giugno 2020, n. 68 dal titolo “Nuove disposizioni in materia di utilizzo dei termini, cuoio, pelle e pelliccia e di quelli da essi derivati o loro sinonimi e la relativa disciplina sanzionatoria, ai sensi dell’articolo 7 della legge 3 maggio 2019, n. 37 – Legge europea 2018”, definisce:

Cuoio “termine generale per designare la pelle o il pellame di un animale che ha conservato la sua struttura fibrosa originaria più o meno intatta, conciato in modo che non marcisca. I peli o la lana possono essere stati asportati o no. Il cuoio è anche ottenuto da pelli o pellame tagliati in strati o in segmenti, prima o dopo la conciatura….Omissis”.

Nell’uso corrente, generalmente, si utilizzano i termini pelle e cuoio per indicare quanto segue:

il termine “cuoio” viene utilizzato più frequentemente per indicare la pelle conciata con tannini vegetali o più specificamente quella destinata a suola da scarpe (cioè un materiale più duro e meno flessibile/morbido); invece, il termine “pelle” o “pellame” si usa per indicare la pelle conciata con altri sistemi e destinata ad altri usi come ad esempio giacca in pelle, borsa di pelle, divano in pelle, ecc. (cioè materiale più morbido e flessibile).

In ogni caso, da un punto di vista legale e scientifico il termine “cuoio” sta ad indicare qualunque pelle conciata, indipendentemente dal tipo di pelle e dal tipo di concia.

Pertanto, in virtù della legislazione vigente, risulta ingannevole chiamare pelle/ cuoio un materiale che non sia di origine animale.

Termini come “pelle sintetica, similpelle, finta pelle, cuoio rigenerato, pelle vegana, ecc. sono fuorvianti ed ingannevoli nei riguardi dei consumatori in quanto includendo il termine “pelle” nel nome tali materiali sottintendono di avere la stessa origine naturale e le stesse caratteristiche della pelle autentica, ma in realtà non è così. D’altra parte, per la legislazione italiana, è vietata l’immissione e la messa a disposizione sul mercato di prodotti con il nome pelle che non sia di origine animale.

La sezione al microscopio di un cuoio di origine bovina è qui di seguito riportata:

L’evoluzione dei surrogati del cuoio ha subito dei cambiamenti a partire dall’avvento dell’industrializzazione, con la comparsa dei materiali sintetici derivati dal petrolio, fino ai tempi più recenti con lo sviluppo di materiali di origine vegetale oppure assemblati o sintetizzati mediante processi di bioingegneria.

Materiali sintetici

I materiali sintetici sviluppati ad imitazione del cuoio, denominati con terminologia diversa come ad esempio, finta pelle, similpelle, ecc, sono di solito derivati dal petrolio; sono, quindi, prodotti, completamente realizzati dall’uomo, ottenuti per sintesi chimica.

Tali materiali sono normalmente composti da un supporto tessile, generalmente poliestere, ricoperto da uno strato polimerico di PVC (Polivinilcloruro) o PU (Poliuretano).

“Ecopelle”

Il termine “ecopelle” si è diffuso nell’uso comune con il senso improprio di similpelle; è una denominazione coniata nei primi anni novanta  del 20° secolo per designare un materiale artificiale di aspetto simile alla pelle, prodotto con polimeri sintetici derivati dal petrolio e utilizzato nella confezione di capi d’abbigliamento, nei tessuti d’arredo e nel settore calzaturiero e della pelletteria, che ha progressivamente sostituito l’uso già affermato di similpelle e di vilpelle (sinonimo più comune del marchio registrato vinilpelle del 1961).

Con l’emanazione della norma UNI 11427 del 2011, aggiornata nel 2022, “Cuoio- Criteri per la definizione delle caratteristiche di prestazione di cuoi a ridotto impatto ambientale” la pelle ecologica autentica è definita nelle sue varie accezioni (ecopelle, ecocuoio, ecc.) come pelle conciata secondo le migliori pratiche di sostenibilità ambientale.

Di seguito si riportano immagini al microscopio di alcuni cuoi sintetici:

Rigenerato di fibre di cuoio”

Il decreto legislativo 9 giugno 2020, n. 68 definisce “rigenerato di fibre di cuoio” come il materiale con un contenuto minimo del 50% in peso di fibre di pelle secca, in cui la cute conciata è disintegrata meccanicamente o chimicamente in particelle fibrose, piccoli pezzi o polveri e, successivamente, con o senza la combinazione di legante chimico, trasformata in fogli.

“Pelle vegana”

Anche in questo caso risulta ingannevole chiamare un materiale “pelle vegana”, ma ciò avviene, spesso, per commercializzare dei materiali che si sostiene abbiano la bellezza, le qualità naturali e la durabilità della pelle.

Si può definire vegano qualsiasi materiale che non sia di origine animale. Negli ultimi tempi sono stati proposti sul mercato, ad esempio, materiali ricavati da fibre di foglie di ananas oppure da scarti della lavorazione del vino (vinaccia).

Naturalmente, anche in questo caso tali materiali sono combinati/rivestiti con polimeri di natura sintetica come ad esempio i poliuretani.

Una recente ricerca condotta da Ricercatori tedeschi ha evidenziato che i materiali alternativi al cuoio (sintetici e vegani) non hanno prestazioni paragonabili a quelle del cuoio; in sostanza il cuoio ha una durabilità maggiore e ciò favorisce una minore frequenza di acquisto del prodotto.

Le foto al microscopio ottico della superficie e della sezione del materiale ricavato dalle fibre di foglie di ananas sono qui di seguito mostrate:

Bibliografia

  1. Naviglio B., Difetti riscontrabili nella trasformazione della pelle in cuoio e nei manufatti, Ed. Dinamica Sas, marzo 2022
  2. Naviglio B., Cuoio: Unicità e Sostenibilità, Convegno AICC, Solofra (AV), giugno 2022
  3. Mahltig B, Borlandelli CM., Leather Types and Fiber-Based Leather Alternatives-An Overview on Selected Materials, Properties, Microscopy, Electron Dispersive Spectroscopy EDS and Infrared Spectroscopy, Ann Textile Eng Fashion Technol. 2022; 1(1)
  4. Meyer, M.; Dietrich, S.; Schulz, H.; Mondschein, A. Comparison of the Technical Performance of Leather, Artificial Leather, and Trendy Alternatives. Coatings 2021, 11, 226

**Dott. Chim. Biagio Naviglio

Chimico Industriale e-mail: biagio.naviglio@gmail.com http://www.biagionaviglio.com

Laureato in Chimica Industriale presso l’Università di Napoli “Federico II” nel 1980.

Già Primo Ricercatore e Responsabile dell’Area Ricerca e Sviluppo della Stazione Sperimentale per l’Industria delle Pelli e delle Materie Concianti (SSIP); già Responsabile della prevenzione, della corruzione e della trasparenza dell’Ente ( dipendente SSIP, 1 ottobre 1981 – 30 novembre 2019)

Dal 2016 al 2020 è stato Presidente dell’Ordine Regionale dei Chimici e dei Fisici della Campania.

Strafalcioni.

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Mauro Icardi

Forse “’L’altrui mestiere” che Levi amava di più era quello di le lingue, le loro origini e l’etimologia delle parole. Levi lo praticava per puro piacere personale, e girava spesso per casa con in mano un vocabolario o un dizionario. Spinto principalmente dal divertimento ma con una competenza che si salda con la passione. Molti articoli usciti sulla terza pagina del quotidiano “La stampa” hanno un taglio limpido e rapido. Non solo i due capitoli dedicati alla lingua dei chimici, ma anche quelli dedicati alle etimologie popolari, che producono modifiche particolari in parole che dovrebbero essere di uso comune.

Esiste un piccolo elenco di queste false equivalenze che lo scrittore ha raccolto: dai raggi ultraviolenti alle iniezioni indovinose, fino al verme sanitario e il mai dimenticato cloruro demonio.

Questi sono procedimenti nei quali le parole vengono deformate quasi per comprenderle meglio, renderle meno misteriose. Chi le pronuncia cerca di renderle più familiari, utilizzando questo espediente.

Ma la modifica non riguarda soltanto i termini tecnici o scientifici. Anche le parole originarie da altre lingue, che possono risultare difficili da pronunciare, vengono modificate con una certa fantasia.

Levi ne cita una che veniva pronunciata anche da mio padre e da mia nonna, ma che in generale si può sentire in buona parte del Piemonte. La parola è sanguis che altro non è che un tentativo di addomesticare la parola sandwich. Significa panino imbottito, in omaggio a John Montagu, quarto Conte di Sandwich, accanito giocatore di carte, che nelle lunghe sessioni di gare con gli amici, per non perder tempo, si sarebbe concesso solo veloci spuntini di fette di manzo tra due fette di pane tostato.

A mio padre risultava ostico anche il ketchup, sia come salsa, sia come parola da pronunciare che modificò in kachuf. Mio padre non amava avventurarsi in avventure gastronomiche, non amava hamburger e hot dog, si manteneva sui sentieri conosciuti e molto apprezzati della cucina piemontese.

Difficilmente riesco a trattenermi quando sento strafalcioni estremamente particolari, e che tendono a provocarmi un riso irrefrenabile. Mi è capitato di sentire elogiare Mike Tyson che con un pugno bene assestato aveva mandato gnoc out il suo avversario. Per il signore milanese purosangue il termine knock out era evidentemente ostico. Ma essendo un parente acquisito non era opportuno che dessi sfogo all’ilarità, ma risultò piuttosto difficile trattenere le risa. In un altro caso sentendo una signora lamentarsi, perché abitando vicino all’ospedale sentiva spesso le ambulanze che con le loro sirene spietate le disturbavano il sonno del giusto, confesso di non esserci riuscito. Il denominatore comune di tutto questo era quasi sempre la non più giovanissima età di chi le pronunciava. E questo dava alla situazione un qualcosa di quasi gioioso, umoristico.

Ma per molti anni invece uno strafalcione tecnico mi ha lasciato incapace di ogni reazione. Ha imbarazzato forse più me, piuttosto che il collega che lo pronunciava in maniera molto convinta.

La questione riguardava la cavitazione idrodinamica, ovvero ii fenomeno consistente nella formazione di zone di vapore all’interno di un fluido che poi implodono producendo un rumore caratteristico.

Ciò avviene a causa dell’abbassamento locale di pressione, la quale raggiunge la tensione di vapore del liquido, il quale subisce così un passaggio di fase a gas, formando bolle (cavità) contenenti vapore.

Per molti anni quando discutevamo di questo fenomeno lui insisteva a chiamare il problema con il termine di gravitazione delle pompe centrifughe. Ricordo di averlo corretto solo la prima volta che lo disse, poi vi rinunciai. In seguito conobbi un ingegnere che realizzava impianti industriali che si sentì dire da un committente che visionava il progetto: “Mi hanno detto che la pompa deve avere la centrifuga!” Io forse avrei risposto, “Certo, e anche il prelavaggio e l’asciugatura…”. Ma le regole di qualunque bon ton aziendale poco si prestano ad apprezzare l’umorismo. Sono cose che avvengono molto raramente, soprattutto in presenza di partner d’affari.

Vorrei concludere questo post invitando alla rilettura de “L’altrui mestiere” di Primo Levi.

Ma anche di un gradevolissimo libro dal titolo “Bolle, gocce e schiume- Fisica della vita quotidiana” di

F Ronald Young. Dove I fenomeni che avvengono nei liquidi come la turbolenza, la tensione superficiale, la formazione di bolle (e anche la cavitazione), sono spiegati in maniera divertente e con aneddoti molto interessanti.

L’inquinamento (è) di casa.

In evidenza

Luigi Campanella, già Presidente SCI

Ammettiamolo il caminetto rende un ambiente più intimo ed accogliente se a ciò aggiungi il freddo di questi ultimi giorni si comprende come i caminetti accesi siano aumentati di molto esponendo gli abitanti che ne usufruiscono a qualche pericolo. La SIMA, Società Italiana di Medicina Ambientale) il 12 novembre, ha pubblicato una serie di dati sui pericoli legati alle fonti alternative di riscaldamento domestico. In Italia, i camini aperti tradizionali rilasciano nell’atmosfera 3.679 tonnellate di PM10 ogni anno, cifra che scende a 2.401 tonnellate per quelli chiusi, mentre le stufe a legna sono responsabili di 2.651 tonnellate di PM10.

Oltre alle polveri sottili responsabili di patologie broncopolmonari e di cardiopatie i caminetti emettono idrocarburi policiclici aromatici, alcuni dei quali  classificati come cancerogeni dall’Istituto internazionale di ricerca sul cancro. A proposito di inquinamento indoor un ulteriore pericolo viene dal radon presente in molti materiali da costruzione delle nostre case. Il PM è un ottimo carrier del radon le cui emissioni sono capaci di modificare i processi biologici delle cellule tanto da essere considerato la seconda causa di tumore al polmone dopo il fumo di sigaretta. Questa è la ragione per cui di recente l’Istituto Superiore di Sanità ha prodotto una guida di raccomandazioni per proteggerci dal pericolo/rischio radon

Ventilazione degli ambienti, per un corretto ricircolo d’aria;

Sigillatura di crepe o fessure per evitare la penetrazione del gas in altre stanze o ambienti;

Aspirazione dell’aria interna per l’eliminazione dell’aria contaminata;

Pressurizzazione dell’edificio;

Isolamento di locali particolarmente colpiti (solitamente piani interrati, cantine, vespai).

Nei casi più gravi, interventi strutturali o di sostituzione dei materiali.

 Un altro punto debole della sicurezza in casa è rappresentato dalla cucina a gas da alcune recenti ricerche considerata fonte di inquinamento. I due gas prodotti maggiormente sono gli ossidi di azoto (valutati fino ad una concentrazione maggiore di quella misurabile in una strada molto trafficata) ed il monossido di carbonio. Ricambio d’aria e soprattutto vigile manutenzione sono gli strumenti più idonei a ridurre la produzione di questi gas entrambi cause  almeno di patologie respiratorie, per non parlare di danni ancora più gravi riscontrati soprattutto nel caso di bambini.

Una soluzione sarebbe passare alle piastre ad induzione che però è ancora relativamente poco adottata rispetto ai 100 milioni di cittadini che usano la cucina a gas.  C’è da osservare a latere che guardarsi da questi rischi e poi passare ore col cellulare acceso  non sembra prudente visto che anche in questo caso ci si espone a radiazioni. L’Ufficio federale tedesco per la protezione dalle radiazioni aggiorna costantemente online i dati attraverso un database che include tutti gli smartphone presenti sul mercato e i relativi indici SAR (Specific Absorption Rate), ovvero l’unità di misura che rappresenta la quantità di energia elettromagnetica assorbita dal corpo quando si utilizzano. Sebbene la Fondazione AIRC per la Ricerca sul Cancro confermi da tempo che non ci sia un nesso tra l’uso del cellulare, in particolare quelli di nuova generazione, e i tumori cerebrali, alcuni consumatori continuano a temerlo perché le vecchie generazioni di telefoni avevano fatto emergere criticità nel 10% dei soggetti che ne facevano un uso intensivo. Comunque, la radioattività proviene anche da fonti naturali, come è il caso delle radiazioni cosmiche e delle emissioni da parte degli elementi radioattivi della crosta terrestre e da questa difendersi sarebbe più difficile. Per nostra fortuna il campo magnetico ed il guscio dell’atmosfera si comportano come eccellenti scudi e riescono egregiamente a proteggere dall’azione dei raggi cosmici le forme di vita che popolano il pianeta terra.

Breve storia della candela.

In evidenza

Claudio Della Volpe

Non voglio scimmiottare il famosissimo testo di Faraday, del quale posseggo anche una copia originale, regalatami da un caro amico. No, voglio solo parlarvi delle candele e della loro storia tecnica, perché recentemente ho avuto modo di rifletterci più approfonditamente.

Avevo avuto un commento (di Gustavo Avitabile) sulla capacità di degradare i legami C-C e nel rispondere a questo in un recentissimo post sulla degradazione della plastica (che uscirà a breve), mi sono trovato a riflettere su esempi di comuni sostanze digeribili o meno fatte con quel legame. Ne riparleremo più avanti.

La combustione l’ho scritto tante volte, è più antica di Homo Sapiens Sapiens; già conosciuta da Homo Sapiens Erectus, probabilmente ha un milione di anni.

La tecnologia della combustione si è evoluta in modo lento ma costante; oggi sappiamo che la migliore e più efficiente combustione è “senza fiamma” (in inglese flameless) perché la fiamma è solo una superficie di reazione che emette luce e calore e una superficie è una discontinuità, un difetto che introduce irreversibilità e inefficienza; mentre un buon miscelamento è diffuso in 3D, non dà origini a fiamme ma a reazioni omogenee, veloci e controllabili; dunque alla fine, dialetticamente, l’ottimizzazione del fuoco ha portato al senza fiamma, dimostrando che la combustione senza fiamma è la più efficiente. Per questo si è dovuto aspettare il 1991: Flammenlose Oxidation von Brennstoff mit hochvorgewarmter Luft – Joachim Wunning Chem.-1ng.-Tech. 63 (1991) Nr. 12, S. 1243-124s 

Detto questo però, dato che per realizzarla occorre un reattore apposito, la cosa più semplice per secoli è stata di far bruciare in modo comodo materiali comuni e la candela è una di queste tecnologie, forse è stata la più sofisticata per secoli.Dopo la semplice combustione del legno si è ragionevolmente passati alle torce, eventualmente imbevute di materiali diversi (olio, grasso, cera di api), solo dopo alle lampade a combustibile liquido (ossia olio di varia origine) dotate di stoppino e infine alle candele.Le prime di cui abbiamo traccia sono egiziane; nella tomba di Tutankhamon (XIV secolo aC) sono stati trovati candelieri (o porta torce). Candele sono menzionate nella Bibbia (siamo nel X sec aC.) Queste primitive candele erano fatte immergendo tessuto intrecciato nel grasso animale. Il grasso era ragionevolmente più economico della cera delle api; a livello dell’olio usato nelle lampade con lo stoppino.D’altronde il simbolo della religione ebraica è un candeliere a 7 rami, chiamato Menorah. Candelabri sono descritti nell’Odissea e ornano la reggia di Alcinoo, re dei Feaci (nella odierna Corfù).Certamente ci sono state candele cinesi e giapponesi almeno dal II sec aC con un documentato uso di grasso di origine marina, grasso di cetaceo. Come anche candele indiane, che vedremo fra un attimo.Candela è parola romana, dal verbo candēre, ossia esser bianco, splendente; i Romani sapevano già fare le candele almeno dal V sec. aC.

https://www.smith.edu/hsc/museum/ancient_inventions/hsclist.htm

C’è una contraddizione apparente con la mitologia Romana che aveva bisogno delle vestali (Rea Silvia, la madre di Romolo e Remo era una vestale, una custode del fuoco) per mantenere acceso il fuoco, il che fa pensare ad una tecnologia molto più antica; ma forse la spiegazione sta nella interazione forte con la cultura etrusca che possedeva invece la tecnologia della candela. A questo riguardo la Treccani recita: Un’ampia e particolareggiata documentazione sui candelabri metallici forniscono invece le suppellettili delle antiche necropoli etrusche. Si sa che gli Etruschi furono egregi foggiatori di candelabri, e che le loro produzioni erano assai stimate anche fuori della regione. I più antichi candelabri etruschi di bronzo sono ritornati alla luce dalla necropoli arcaica orientalizzante di Vetulonia (secoli VII-VI a. C.): essi sono composti di un asse verticale di lamina, retto da quattro piedi in croce, piegati ad angolo e lisci, e sormontato da un motivo figurato o floreale in bronzo; l’asse sostiene, a distanze uguali una dall’altra, tre o quattro coppie di braccia appuntite. Da questo modello primitivo si sviluppano gli artistici candelabri etruschi dei secoli V e IV a. C., quali si ammirano specialmente nel Museo etrusco del Vaticano, in quello di Villa Giulia a Roma e nel Museo civico di Bologna.

Candelabro etrusco con menade danzante stimato 500aC. Che incredibile bellezza!

La cera delle api che bruciava con meno odore e fumo fu usata certamente, ma solo dalle classi più ricche o nelle situazioni di culto. Ed inoltre le candele furono prodotte per immersione nel sego (altra tipologia di grasso poco costoso il sego è un grasso alimentare ricavato per estrazione a caldo dalle parti grasse di equini, ovini, ma soprattutto bovini tanto che si parla comunemente di “sego di bue”. Il sego può essere prodotto a partire da qualunque pezzo di grasso, sottocutaneo o viscerale, ma viene generalmente prodotto dai depositi adiposi interni, come quelli che circondano il cuore e il rene dei bovini). Fonte: https://www.prezzisalute.com/Alimenti-Cucina/Sego.html come si può dedurre dalla forma irregolare e dal lungo stoppino delle candele romane almeno fino alla fine del medioevo quando, grazie ad una invenzione francese, entrò in funzione un metodo che usava stampi per la cera.

foto reperti antichi siti archeologici The ArchaeologistCandele di cera d’api del cimitero di Oberflacht, Germania, risalenti al VI o VII secolo d.C. Sono le candele di cera d’api più antiche sopravvissute a nord delle Alpi.

La combustione è abbastanza regolare in una candela ben fatta tanto da essere usata come segnatempo, come orologio e perfino come sveglia; come si vede dalla figura qua sotto, dove un chiodo che cade in un fondo di metallo può fare da campanello.

 La candela-sveglia Le candele “grasse”, di sego, non bruciavano così bene come le candele di cera. Una candela grassa era morbida, affumicata, fuligginosa, gocciolava sempre e non dava un odore gradevole (probabilmente a causa della formazione di acroleina). Lo stoppino era fatto di un filo vegetale, la cui estremità carbonizzata doveva essere tagliata (annodata) di volta in volta. Nei paesi non europei l’origine del combustibile era molto varia; sono documentate piante che producono materiali cerosi ma perfino animali, il più strano dei quali è certamente il pesce candela usato per estrarre il suo grasso poi usato per illuminazione dagli indiani americani nel I sec dC ma anche usato come tale; il pesce, che si chiama Osmeride ed è presente anche in Europa, veniva essiccato e messo su un bastone a forcella per poi accenderlo direttamente.Fra le piante ricordiamo il cinnamomo usato come sorgente di cera in India; la bollitura del cinnamomo era usata per le candele dei templi in India; il cinnamomo, una sua varietà, ma non è chiaro se la medesima, corrisponde alla moderna cannella. Il burro di yak si usava invece per le candele in Tibet.  Dal 1200 la produzione e la vendita di candele diventò una attività ufficiale che aveva una sua “gilda”, una corporazione, il che ci assicura che ci fosse una robusta tecnologia di supporto; per esempio la costruzione dello stoppino e le sue proprietà erano importanti, in quanto durante la combustione se lo stoppino non brucia bene fa accumulare i suoi residui nella parte concava che si forma alla sommità cambiando la velocità di consumo della candela; e così lo stoppino doveva essere costruito ed intrecciato in modo da consumarsi completamente durante il processo di combustione della cera o del grasso (stoppino autoestinguente sarà inventato solo più tardi); in alternativa esistevano dei dispositivi che venivano usati per spegnere la fiamma o per tagliare l’eccesso di stoppino non bruciato. I candelai, come altri artigiani giravano di casa in casa e costruivano le candele a partire dal grasso o dai materiali che residuavano dall’attività della famiglia richiedente o da prodotti che nei casi più fortunati venivano anche da lunghe distanze.Dice wikipedia: Nei paesi di lingua inglese il mestiere del candelaio è attestato anche dal nome più pittoresco di smeremongere (“venditore di grasso”), perché sovrintendeva alla fabbricazione di salse, aceto, sapone e formaggio. La popolarità delle candele è dimostrata dal loro uso nella Candelora e nelle festività di Santa Lucia.C’era anche un problema ambientale non banale; il sego bruciava con odore molto sgradevole ma anche l‘odore del processo di fabbricazione era così sgradevole che era bandito con ordinanza in parecchie città europee. Probabilmente l’origine dei sottoprodotti puzzolenti era la glicerina che era una componente ineliminabile dei grassi animali comuni.La stampa della candela in una forma predisposta era stata di fatto inventata dai cinesi che usavano la carta, già da molto tempo, quando un francese reinventò l’idea usando metodi di stampaggio diversi nel 1400.Da questo punto in poi la candela entra a pieno titolo nello sviluppo della manifattura e anche del moderno capitalismo.Infatti il successivo combustibile per candele fu l’olio di balena e di capodoglio, lo spermaceti, che era privo di cattivo odore in fase di produzione e di combustione, aveva una superiore durezza e durata; il grasso di balena fu uno dei primo combustibili mondiali, che portò all’ecocidio dei più grandi abitanti del mare ed alle epopee descritte nei romanzi come Moby Dick.

Molti altri concorrenti, come la colza, il cavolo (di cui abbiamo parlato altrove) e il vero e proprio albero della cera, propriamente detto, una pianta americana (in inglese bayberry) Myrica cerifera non diventarono mai seri concorrenti, pur occupando settori del mercato globale.

La cera di quell’albero era un residuo della bollitura dei suoi frutti; mentre invece le fibre di cotone si fecero strada via via come la forma dominante dello stoppino

.

Un’altra sorgente di cera molto specifica è un insetto denominato Ceroplastes destructor (white wax scale) un insetto dannoso per le piante attaccate che vengono ricoperte di materiale bianco come dall’immagine e che infesta varie piante fra cui il caffè, sfruttato per fare la cera in Asia.

Finalmente i chimici francesi Michel Eugène Chevreul (1786–1889) e Joseph-Louis Gay-Lussac (1778–1850) brevettarono la preparazione della stearina e dell’acido stearico nel 1825. L’enorme passo avanti fu l’eliminazione della glicerina libera e il poter disporre di un materiale omogeneo. Sempre di un grasso di origine animale si trattava ma molto puro. La candela a questo punto prese il nome di candela stearica. Chevreul nel 1823 aveva pubblicato un classico, Recherches chimiques sur les corps gras d’origine animale, che descriveva come egli avesse compreso la natura chimica dei grassi. Nel 1825 il brevetto riguardava la preparazione di candele di acido stearico. Le candele di Chevreul, diversamente da quelle di sego, erano dure, inodori e davano una luce brillante. Apparse nell’esposizione mondiale di Parigi del 1830, diventarono immediatamente la candela moderna.

Michel Chevreul giovane  e da vecchio fotografato da Nadal(1886). Morì a 102 anni dopo aver contribuito a costruire la chimica organica moderna, comprese la natura dei grassi, fondò la moderna teoria del colore ed aiutò Nadar a sviluppare la fotografia moderna.

La storia della candela culmina alla metà dell’800 insieme all’inizio dell’epopea petrolifera.

Nel 1834, Joseph Morgan, Inghilterra, brevettò una macchina che consentiva la produzione continua di candele in stampi usando un cilindro con un pistone mobile per espellere le candele mentre si solidificavano. Questa produzione meccanizzata più efficiente consentì alle candele di diventare una merce facilmente disponibile per grandi masse di persone.

Gli stoppini erano prodotti da fili di cotone strettamente intrecciati (piuttosto che semplicemente ritorti). Questa tecnica fa arricciare gli stoppini mentre bruciano, mantenendo l’altezza dello stoppino e perciò la fiamma. Poiché gran parte dello stoppino in eccesso è incenerito, questi stoppini sono detti “autosmoccolanti” o “autoconsumanti”.

Fino ad ora la cera era stata comunque di origine naturale ma la rivoluzione petrolifera avanzava a grandi passi. Nella metà degli anni 1850, James Young un chimico scozzese riuscì a distillare la paraffina dal carbone e dagli scisti bituminosi e sviluppò un metodo di produzione commercialmente praticabile.

La paraffina, costituita dalle sole catene idrocarburiche poteva essere usata per fare candele poco costose di alta qualità. È una cera bianco-bluastra, brucia senza odori sgradevoli; l’unico inconveniente era che le prime paraffine derivate dal carbone e dal petrolio avevano un punto di fusione molto basso. Questo problema fu risolto dall’aggiunta della stearina che è dura e resistente, con un intervallo di fusione conveniente di 54–72,5 °C. Verso la fine del XIX secolo, la maggior parte delle candele che erano fabbricate consistevano di paraffina e acido stearico (bastava il 10%).

Ci sarebbero molte altre cose da dire ma credo di essere stato abbastanza lungo e forse noioso dunque mi fermo qua, invitandovi a considerare la umile candela, già onorata formidabilmente da Faraday , come uno dei più avanzati ritrovati della chimica moderna e nel medesimo tempo come una spinta ad approfondire la medesima.

Un’ultima nota sempre a commento della degradabilità del legame C-C (siamo in molecole lineari)  mentre potremmo digerire una candela di sego, dubito noi si possa fare lo stesso con la paraffina; mi risulta che la paraffina, priva di “attacchi” sulla catena come gli acidi grassi sia , se pura, priva di tossicità, perfino utile nelle formulazioni farmaceutiche, ma sostanzialmente indigeribile anche dai potenti e volenterosi enzimi dei nostri mitocondri (non i nostri enzimi, i mitocondri hanno il loro DNA, sono vecchissimi ospiti), che metabolizzano gli acidi grassi a catena lunga.

La mia copia del libro di Faraday , donatami dall’amico, filosofo, ferroviere, ricercatore, divulgatore ed editore  PhD Luciano Celi (oggi al CNR di Pisa), edizioni Lu.Ce.

Testi consultati:1)The Chinese White Wax Insect B. SillimanThe American NaturalistVol. 5, No. 11 (Nov., 1871), pp. 683-685 (3 pages)

2)The chemical history of a candle  M. Faraday,  Ed by W. Crookes  1874 Chatto and Windus Londra

3) Flammenlose Oxidation von Brennstoff mit hochvorgewarmter Luft – Joachim Wunning Chem.-1ng.-Tech. 63 (1991) Nr. 12, S. 1243-124s

4) Candles FRANZ WILLHO ̈ FT, RUDOLF HORN, Ullmann encyclopedia of industrial chemistry  Vol. 6 p551-552 Wiley VCH 2012

Sitografiahttps://it.wikipedia.org/wiki/Storia_della_fabbricazione_delle_candelehttp://cyberlipid.gerli.com/description/simple-lipids/chevreul/life/https://it.wikipedia.org/wiki/Stearinahttps://en.wikipedia.org/wiki/Candlehttps://italiawiki.com/pages/natale/candela-storia-invenzione-medioevo-innovazione-tecnologica.html 

La situazione della depurazione in Italia: qualche considerazione.

In evidenza

Mauro Icardi

Il depuratore di Paestum- Capaccio è stato protagonista, nel febbraio 2018, di un incidente che ha causato uno dei più gravi fenomeni di inquinamento marino degli ultimi anni nel Mediterraneo. Dall’impianto fuoriuscirono circa 132 milioni di dischetti in plastica(in inglese carrier) che erano utilizzati come supporti per la crescita di biomassa adesa. La biomassa adesa, così come il fango di ossidazione, è la comunità microbiologica costituita da batteri e protozoi che depura le acque reflue. Nei mesi successivi a questo incidente i dischetti furono ritrovati, sospinti dalle correnti, fin sulle coste della Francia e della Spagna, oltre che nel Lazio, in Toscana, in Liguria, in Sicilia e sugli arenili campani.

Per questo incidente otto persone sono state rinviate a giudizio, con l’accusa di disastro ambientale e inquinamento doloso.

Da quanto ho potuto reperire facendo ricerche in rete, ho desunto che la vasca di ossidazione dove erano contenuti i rack con i dischetti, abbia subito un cedimento strutturale. In qualche caso ho letto che i responsabili della gestione avrebbero sovraccaricato questa vasca, che già presentava segni di ammaloramento, e questo aumento di portata sarebbe stato il fattore scatenante del cedimento.

Posto che l’inchiesta ed il processo (che mi risulta siano ancora in corso), dovranno appurare le responsabilità, ci sono alcune considerazioni che vorrei fare. La prima, piuttosto semplice, è che questo è probabilmente stato il più eclatante incidente occorso ad un impianto di depurazione. Nel momento in cui si verifica un cedimento strutturale, la mente corre al crollo del ponte Morandi, e alle altre decine di situazioni simili che si sono verificate in molte zone d’Italia. E qui la parola andrebbe data a chi è esperto di costruzioni. Si sa che i manufatti in cemento armato possono degradarsi con il tempo. Esiste quindi un problema di insufficiente o mancata manutenzione di questo tipo di costruzioni, che deve essere monitorato e risolto.

Quando si tratta di una vasca di ossidazione, il problema deve essere anche analizzato da un altro punto di vista, cioè quello progettuale. Ovvero un depuratore dovrebbe essere progettato in maniera modulare. Avere cioè delle vasche di equalizzazione, delle vasche di raccolta di maggior volume (chiamate in gergo vasche volano) che possano raccogliere eventuali sversamenti.

Se la portata di acque reflue è molto elevata e il depuratore è al servizio di una grande città, (penso agli impianti di Milano, Torino, Roma per fare un esempio) è usuale avere più linee di trattamento. In questo modo in caso di necessità di manutenzione di queste sezioni, (vasche di ossidazione, sedimentatori, ispessitori), una di esse può essere svuotata per effettuare gli interventi di riparazione o manutenzione, senza che le acque reflue confluiscano senza trattamento direttamente nel corpo idrico ricettore.

Ma a cosa servono i dischetti che sono fuoriusciti dal depuratore di Capaccio?

Un impianto di depurazione in condizioni normali di funzionamento riesce a garantire il rispetto dei limiti su BOD, COD e solidi sospesi senza particolari difficoltà. Diverso è invece il caso dei nutrienti per scarichi in aree sensibili. Le quali non rappresentano più solo i laghi, ma per esempio anche l’area del bacino del Po e che quindi vanno ad interessare impianti che precedentemente non sottostavano a limiti così restrittivi (per esempio per quanto riguarda il fosforo totale).
In generale, quindi, si prospetta la necessità di intervenire su un gran numero di impianti di depurazione per far fronte a due diverse esigenze: incrementarne la potenzialità (come carico trattabile), e migliorare le rese depurative (abbattimento in particolare dei nutrienti).

Nel caso in cui le caratteristiche del liquame influente non rappresentino un fattore inibente, (ad esempio in termini di pH, rapporto BOD/Azoto totale, presenza di sostanze tossiche, ecc.), le condizioni richieste, per conseguire la nitrificazione (ovvero la trasformazione dell’ammoniaca in un composto meno inquinante come il nitrato), sono essenzialmente un adeguato contenuto di ossigeno nel comparto di ossidazione e una biomassa ben strutturata nella quale esista una buona percentuale di batteri nitrificanti.
L’aggiunta di un sistema di coltura a biomassa adesa permette di migliorare la fase di nitrificazione.
Vi sono due distinte possibilità: un sistema ibrido che viene inserito nel preesistente bacino di ossidazione a fanghi attivi, ed un sistema separato che viene di solito inserito a valle della fase di sedimentazione finale per incrementare le rese di nitrificazione e quindi di abbattimento dell’ammonio.
Si tratta in pratica di fissare la biomassa nitrificante su supporti fissi aventi elevata superfice specifica (per esempio supporti in polietilene o in matrici di gel). Mi interessava precisare questa cosa. Può forse sembrare eccessivamente tecnica, ma gli articoli trovati in rete si limitavano a definire i dischetti dei filtri, e la definizione non è esatta, pur avendo un qualche fondamento.

Per una corretta progettazione dei depuratori è necessario effettuare diversi prelievi delle acque che saranno da sottoporre al trattamento, monitorando principalmente COD, BOD5 ,Composti azotati, Fosforo totale, tensioattivi. Una volta conosciuta la concentrazione media di questi parametri, occorre considerare i volumi di acque da trattare.

L’impianto dovrà essere in grado di fare fronte alle variazioni dovute alle precipitazioni. La condizione ideale per ottenere una gestione migliore sarebbe quella di separare le acque nere da quelle meteoriche. Questo per evitare repentine variazioni di portata che possono provocare eccessive diluizioni delle acque reflue, malfunzionamenti e allagamenti. Episodi a cui ho assistito personalmente. La modifica del regime delle piogge è ormai una situazione critica, per i depuratori e per le reti fognarie.  Oppure come già detto in precedenza dotare gli impianti di depurazione di adatte vasche di equalizzazione, per smorzare non solo le variazioni repentine di portata, ma anche per stoccare gli eventuali scarichi anomali costituiti da composti tossici o non biodegradabili.

Data l’ormai ubiqua e di fatto incontrollabile dispersione nell’ambiente di inquinanti emergenti, è di fatto indifferibile la necessità di adeguare gli impianti di depurazione più vecchi, dotandoli di un’efficiente sezione di trattamento terziario, oltre che a potenziare la sezione di ossidazione, non solo con un sistema per la crescita di biomassa adesa, ma anche con sistemi di depurazione più moderni.  Il sistema MBR (Membrane Bio Reactor) è un sistema di depurazione biologica delle acque che consiste nella combinazione del processo tradizionale di depurazione a fanghi attivi e di un sistema di separazione a membrana (generalmente microfiltrazione o ultrafiltrazione) che sostituisce il normale sedimentatore secondario.

Nel 2018 il servizio pubblico di depurazione delle acque reflue urbane, garantito da 18.140 impianti in esercizio, ha trattato un carico inquinante medio annuo di circa 68 milioni di abitanti equivalenti. Il 65,5% del carico inquinante civile e industriale è depurato in impianti con trattamento di tipo avanzato, il 29,5% in impianti di tipo secondario, il restante 5,0% in impianti di tipo primario e vasche Imhoff.

Sin dal 1991, attraverso una specifica Direttiva CEE, l’Europa chiede agli Stati membri l’adeguamento degliimpianti di trattamento delle acque reflue e del sistema fognario.  L’Italia è stata sanzionata con una procedura d’infrazione costata 25 milioni di euro per mancato adeguamento di 74 agglomerati urbani difformi. E altre procedure di infrazione sono in corso.

Se si considerano questi dati e si guarda alle disparità tra Nord e Sud, è evidente che la situazione dell’Italia è complessa e necessita di azioni integrate, coese, coerenti, non solo per garantire gli standard di depurazione su tutto il territorio. È necessaria una concreta politica del ciclo integrato delle acque, con investimenti adeguati sia del settore pubblico che di quello privato.

In quasi tutte le regioni d’Italia il percorso per arrivare alla definizione di un gestore unico a livello provinciale per la gestione del ciclo idrico integrato, è stato lungo ed estenuante.

La gestione unica che molte persone temono serve a razionalizzare gli investimenti. La realizzazione di un depuratore consortile di dimensioni più grandi, rispetto a dieci di piccola taglia semplifica la gestione e la conduzione. Queste sono cose che non tutti possono conoscere, io mi sento di dirle semplicemente perché ho sperimentato queste criticità lavorando sul campo. Chi legge queste righe non me ne voglia, ma ricordando il referendum del 2011 mi sono accorto che spesso intorno al tema acqua si fa molta confusione, e in qualche caso troppa demagogia. Non discuto il diritto all’acqua, e mi sono impegnato in prima persona contro la privatizzazione.

Ma vorrei ricordare che l’acqua non si trasporta, potabilizza, e infine si depura senza adeguati investimenti, programmazioni e senza ricerca. Ho concluso decine di volte i miei post con queste considerazioni e questi auspici. In Italia ci sono molti progetti di ricerca. Il tema acqua e soprattutto il tema fanghi è molto sentito dall’opinione pubblica. Ma mi preoccupa il fatto che troppo spesso l’informazione sia carente.  So che nelle scuole superiori ad indirizzo chimico, con il nuovo ordinamento si studia la depurazione delle acque. Mi piacerebbe anche ci fossero cittadini consapevoli e informati sul tema, che provassero a capire come funziona un depuratore. Ma non solo, anche come funziona questo pianeta.

Quindi mi permetto di dare i miei suggerimenti di lettura. Una bibliografia minima essenziale per avere le idee più chiare.

Ingegneria sanitaria ambientale. 

               D’Antonio Giuseppe Edizioni Hoepli

              Eugene P Odum Edizioni Piccin Nuova Libraria

  • Il grande bisogno

Rose George Edizioni Bompiani

  • I limiti alla crescita

D H Meadows – D L Meadows – J Randers – WW Behrens III Edizioni LU CE

Arte e Scienza

In evidenza

Luigi Campanella, già Presidente SCI

La Scienza ha sempre considerato lo studio della vita in età preistorica come un contributo fondamentale per capire la dinamica della società civile, delle trasmigrazioni, dello sfruttamento delle risorse naturali, del passaggio dall’individualismo alla società civile ed altri affascinanti temi. Sono molte le discipline che hanno contribuito a questi studi e fra queste, non solo storiche, anche la chimica che ha indagato su residui alimentari, sulle articolazioni degli insediamenti civili, sul rapporto fra patologie e qualità ambientale, sullo sfruttamento dei materiali naturali. In un recente volume di Carole Fritz “L’ Arte nella Preistoria” il testo conduce la stessa indagine attraverso lo studio archeologico di pitture ed opere in rilievo diffuse in tutto il globo.

La creatività dei primi gruppi tribali si è dimostrata una rivelazione attraverso immagini di grande valore non solo storico, tanto che per alcuni di essi si parla della loro capacità di ispirare geni del nostro tempo come Picasso. Le immagini ritrovate in Paesi americani, asiatici africani, ma anche, in misura minore, europei si riferiscono al mondo animale e vegetale, ma anche al mondo sociale perfino ai primi concetti di economia, di politica del lavoro, di ricerca della conoscenza.

Oggi in alcuni paesi questi siti vengono esaltati per un valore quasi spirituale, un ponte verso la metafisica celeste. Bisonti, cervi, leoni, giraffe, orsi, cavalli, ma anche sciamani, dee, ninfe che nella loro bellezza estetica confermano che l’arte è l’attività simbolica più preziosa dell’Homo Sapiens.

A volte queste immagini sono collocate in rocce sotterranee che inducono a chiedersi: ma perchè in un luogo così poco accessibile e visitato? La risposta più probabile è data dalla chimica che correla questa abitudine alla migliore qualità ambientale di anfratti protetti dagli eventi atmosferici e dalla incuria dell’uomo.

Quasi contemporaneamente al testo di Fritz ne è stato pubblicato un altro del genetista Guido Barbujani che integra quello di Fritz: questo, abbiamo visto di carattere socioambientale, quello di Barbujani più dedicato all’evoluzione dell’Homo Sapiens ed alle diverse scoperte di scheletri avvenute nel mondo.

L’ autore in 25 racconti descrive l’evoluzione dell’uomo. Ogni racconto si riferisce alla scoperta di uno scheletro da Oase 2, cranio preistorico di 37 mila anni fa, allo scheletro di Cap Blanc, dall’Africa al Brasile, dall’uomo di Cheddar, prime pelli bianche, occhi chiari, a Ötzi,il Sapiens italiano.

In molte di queste scoperte il livello di conoscenza è stato di certo accresciuto attraverso la chimica della datazione che riesce a superare i limiti del tempo che passa individuando segnali e marker che consentono di decifrare la nascita o l’età di un reperto. È vero che i metodi più affidabili, basati sugli isotopi radioattivi del carbonio, possono essere classificati come fisici, ma quelli sulla racemizzazione, sulla degradazione chimica indotta, sul valore dell’indice di depolimerizzazione, per certi aspetti la stessa dendrocronologia, di certo sono chimici.