Recensione. Clima 2050.

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Marco Taddia

La matematica e la fisica per il futuro del sistema Terra

di Annalisa Cerchi, Susanna Corti (Zanichelli, Bologna, 2022)

p. 168 euro 13

Un recente articolo di  Nature, datato 21 novembre 2022, dedicato agli aerosol atmosferici che rendono di cattiva qualità l’aria di alcuni tra i paesi più poveri e popolati della Terra (https://www.nature.com/articles/d41586-022-03763-9 e attribuisce loro una responsabilità precisa negli eventi estremi, aggiunge un’altra incognita ai temi climatici. Non si sa, purtroppo se tali aerosol sono destinati ad aumentare, diminuire o stabilizzarsi. L’incertezza a tale proposito, per quanto riguarda i prossimi 20-30 anni, è grande e non sappiamo se essi contribuiranno ad aumentare di 0,5°C la temperatura nel 2050. Se l’effetto degli aerosol si farà sentire è in dubbio, mentre per quanto riguarda il riscaldamento globale nel suo complesso le idee sembrano più chiare, anche dal punto di vista economico. Un report del Deloitte Center for Sustainable Progress diffuso durante il World Economic Forum di Davos (giugno 2022) ci ha informato https://www2.deloitte.com/xe/en/pages/about-deloitte/press-releases/deloitte-research-reveals-inaction-on-climate-change-could-cost-the-world-economy-usd-178-trillion-by-2070.html che senza intervenire sui cambiamenti climatici i costi sull’economia globale ammonterebbero nei prossimi 50 anni a ben 178 trilioni di dollari USA, ovvero un taglio del 7,6/ sul GDP nel 2070.

Le previsioni quindi non sono incoraggianti e lo sappiamo da anni. Alla fine di novembre dell’ormai lontano 2015, in vista dell’apertura della conferenza COP 21 (Parigi, 30 novembre-12 dicembre), commentando l’Annual Report della società DNV GL (https://www.dnv.com/Publications/dnv-gl-annual-report-2015-64621) , notoriamente uno dei più importanti enti di certificazione, i giornali ne traevano conclusioni piuttosto fosche prevedendo per il 2050 un mondo sotto pressione, con il 60% degli ecosistemi a rischio, temperature in aumento tra i 3 e i 6 gradi centigradi, mari più alti di un paio di metri, 200 milioni di ‘rifugiati climatici’, una domanda di energia elettrica aumentata del 57% e coperta ancora per l’81% dai combustibili fossili.  Tutto ciò per dire che vale veramente la pena interrogarsi, ricorrendo all’aiuto di chi conosce la scienza del clima, su un futuro che poi non è così lontano come sembra. Ci viene in aiuto questo libro, che giunge a proposito nella popolare collana ‘Chiavi di lettura’ dell’editore Zanichelli, a firma di Annalisa Cherchi e Susanna Corti che si intitola proprio ‘Clima 2050 – La matematica e la fisica per il futuro del sistema Terra’ (Bologna, 2022). I loro nomi sono una garanzia di competenza perché entrambe lavorano presso l’Istituto di Scienze dell’Atmosfera e del Clima (ISAC) del CNR e, nel febbraio 2018, sono state selezionate come Lead Author per il sesto rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change pubblicato ad agosto 2021. La Corti è anche Executive Editor di Climate Dynamics, rivista di Springer Nature. Il libro consta di sei capitoli che dopo aver chiarito la differenza fra meteo e clima, spiegato l’effetto serra e come si osserva il clima che cambia, si occupano nell’ordine del clima del prossimo futuro, di fisica e matematica del clima, di cambiamenti climatici e loro conseguenze e della collaborazione in atto a livello internazionale specialmente a livello IPCC.  Viene da dire, finalmente! Era ora che qualcuno che ci spiegasse in termini chiari e concisi, senza supponenza e con toni pacati, tutto ciò che può orientarci nella valutazione delle tante informazioni, talora contradditorie, che ci vengono fornite dai media. Sfogliando il libro, un paio di grafici che troviamo alle pp. 34 e 35 attirano subito l’attenzione del lettore. Il primo mostra l’andamento della temperatura media superficiale globale rispetto al periodo di riferimento, ovvero la differenza rispetto alla media 1850-1900. Si può notare che la tendenza al riscaldamento lineare negli ultimi cinquant’anni (0,15°C per decennio) è quasi il doppio di quella degli ultimi 150 anni. L’altro grafico mostra invece che le temperature osservate combaciano con quelle ottenute dai modelli solo se questi considerano le attività umane. In conclusione, gli elementi forzanti di origine naturale non sono sufficienti a spiegare il riscaldamento degli ultimi decenni. Le autrici ci spiegano che i modelli climatici completi si basano su leggi fisiche rappresentati da equazioni matematiche, qui riportate, che vengono risolte utilizzando una griglia tridimensionale del globo (fig. 7, p. 42). Nel cap. 5, relativamente alle conseguenze, aggiungono anche che il cambiamento climatico non riguarda tutte le parti del globo in modo uniforme ma piuttosto che è possibile identificare pattern caratteristici nel cambiamento di temperatura e precipitazioni.

    Il libro contiene anche un elenco delle fonti consultate, una parte intitolata ‘4 miti da sfatare’ e alcune pagine interessanti dal titolo ‘Forse non sapevi che’. Proprio tra i miti da sfatare, ad esempio che sia troppo tardi per agire contro il cambiamento climatico, le autrici lanciano un messaggio di speranza:   Non è assolutamente troppo tardi e non lo sarà per decenni. La nostra azione o inazione, determinerà quanto il mondo si scalda. A questo proposito ricordiamo che si è conclusa da poco la COP 27 di Sharm el-Sheikh con l’approvazione da parte dell’Assemblea Plenaria di un documento finale che presenta anche qualche aspetto positivo. Per quanto riguarda il riscaldamento globale l’obiettivo di contenerlo entro 1,5 gradi è stato mantenuto, così come è stata apprezzabile l’istituzione di un fondo per i ristori delle perdite e i danni dei cambiamenti climatici nei paesi più vulnerabili, mentre per altri aspetti i risultati sono stati deludenti. Si rimanda ad altri contributi apparsi sulla stampa per un esame più dettagliato dei risultati. Secondo Frans Timmermans, vicepresidente della Commissione Europea, essi non sono sufficienti a contrastare  i cambiamenti climatici e a mitigarne gli effetti. In particolare, il documento non dice niente sulla riduzione o eliminazione dei combustibili fossili. Si alternano quindi allarmi e speranze, studi e inchieste, previsioni e smentite con il risultato di confonderci talvolta le idee.

    Al termine della recensione di un libro denso di contenuti ma agile nella forma, che preferisce ai toni apocalittici e agli anatemi toni persuasivi, piace ricordare l’impegno, la passione e la  mobilitazione di tanti giovani tesa a sollecitare un’azione più decisa dei governi  in questo campo. Alcuni, lo hanno fatto anche con la musica e la poesia e, se volete ascoltare le loro voci, eccoli qui: https://www.youtube.com/playlist?list=PLNGYdFUDxjh0rpIwuhK3m1_p6vY1DxZDt.

Questa recensione è apparsa anche sul web journal del Gruppo 2003 per la ricerca scientifica al quale l’Autore collabora con regolarità

http://www.scienzainrete.it/autori/taddia/371         

Leggi e vivi felice

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo. a cura di Marco Taddia

Se chiedete in giro dove si trova la città di Incheon e perché, nel corso di quest’anno, è salita alla ribalta internazionale, può darsi che non da tutti avrete risposte precise. A parte gli specialisti e gli operatori economici, la gran parte di noi occidentali, anche di cultura media, ha una conoscenza molto approssimativa della geografia e della storia dell’Asia, men che meno della Corea. Ebbene, Incheon, o meglio la città metropolitana di Incheon, si trova sull’estuario del fiume Han ed è il porto più importante della costa occidentale coreana. Con più di due milioni e mezzo di abitanti è la terza città più grande della Corea, dopo Seul e Busan. Fu fondata nel 1883 e all’epoca contava meno di 5000 abitanti. Se pensiamo a quello che è diventata in meno di centocinquant’anni, abbiamo la misura della crescita di questa parte del mondo di cui, un po’ ingenuamente, conosciamo soprattutto le automobili e i gadget elettronici. Può darsi che alcuni di quelli a cui avete posto il quesito iniziale vi risponda giustamente che ad Incheon fu combattuta, nel settembre 1950, una storica battaglia tra una coalizione guidata dagli U.S.A., che si muoveva sotto l’egida delle Nazioni Unite, e le forze della Corea del Nord che avevano invaso il Paese. A questo punto però è probabile che la ragione dell’importanza odierna di Incheon sfugga a molti dei vostri interlocutori.

Incheon è stata proclamata dall’UNESCO capitale mondiale del libro per l’anno 2015 e pochi giorni fa (23 Aprile) si è celebrata la Giornata Mondiale del Libro e del Diritto d’Autore (World Book and Copyright Day, 2015). Il blog della SCI ha pubblicato per l’occasione un post di Laura Peperoni dedicato al Diritto d’Autore. A parte questa e poche altre eccezioni, l’evento, almeno in Italia, non ha destato particolare interesse. Questo è dovuto, almeno in parte, ai numerosi accadimenti delle ultime settimane che hanno avuto giusto e forte risalto sulle le prime pagine dei giornali. È naturale che le tragiche vicende dell’immigrazione, gli alti e i bassi dell’economia e anche la politica nazionale ricevano attenzione anche se, purtroppo, il ricambio delle notizie è così veloce da provocare una specie di assuefazione. In queste condizioni celebrare la Giornata del Libro sembra un lusso ma finisce di esserlo se si pensa che nel mondo ci sono 175 milioni di adolescenti, specialmente ragazzine e giovani donne, incapaci di leggere anche una sola frase. Il dato, davvero drammatico, è contenuto nel messaggio di Ms Irina Bokova, Direttrice Generale dell’UNESCO, diffuso per l’occasione. Vale davvero la pena di leggerlo interamente (http://www.unesco.org/new/en/wbcd), a cominciare dalle prime righe dove si dice: “World Book and Copyright Day is an opportunity to recognise the power of books to change our lives for the better and to support books and those who produce them”.

Occorre chiedersi se siamo ancora convinti che i libri abbiano il potere di cambiare in meglio le nostre vite ma soprattutto quanti giovani lo siano ancora. Può sembrare un’osservazione nostalgica ma sorgono parecchi dubbi in proposito se si osservano i viaggiatori dei treni o delle metropolitane nel corso dei loro spostamenti. In quanti hanno un libro in mano, sia pure in formato elettronico? L’attenzione è catalizzata dallo schermo dello smartphone, dagli sms e dai social networks. Qualche decennio fa era diverso e chi scrive ricorda bene la metropolitana di Londra, dove la maggioranza dei giovani trascorreva il tempo immersa nella lettura.

   A proposito di questi cambiamenti, domenica 19 Aprile, su “Il Fatto Quotidiano”, è comparso un bell’articolo a firma di Nando della Chiesa significativamente intitolato “Sulla metro solo telefonini. Il libro diventa clandestino”. Lascio a voi il piacere della lettura di un contributo che centra in pieno il tema qui sinteticamente trattato.

   Per finire, un ultima considerazione sul fatto che i libri cambino in meglio la vita. A parte la mia esperienza personale che lo conferma in pieno, vorrei citare una curiosità.

Molti libri dell’Ottocento si aprivano con un messaggio dell’Editore ai lettori che terminava con un incitamento-augurio abbastanza singolare, secondo la mentalità odierna: “…vivete felici!”.

Non c’era differenza, da questo punto di vista, tra i testi scientifici o divulgativi e gli altri:

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Ho tra le mani il “Catechismo di Chimica Elementare” di Horsley, tradotto da Gorini e pubblicato da Gnocchi (Milano, 1858). Rivolgendosi al “Ai benevoli lettori”, l’Editore dichiara che il suo unico scopo è di allettare, con tale “operetta”, la solerte gioventù allo studio della fisica e della chimica, “la cui importanza non v’ha chi ignori”. Prosegue poi quasi scusandosi, con i lettori più severi, per la modestia del proprio lavoro e conclude in questo modo: “ procurate di cavare dalla presente il miglior partito che per voi si possa , e vivete felici”.

Vale anche per noi.

  Questo articolo uscirà prossimamente anche sul web journal www.scienzainrete.it Il Gruppo 2003 per la ricerca.                

Come diminuire gli incidenti sul lavoro?

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Ferruccio Trifirò

 

Alcuni anni fa è uscito anche in Italia, tradotto per iniziativa di Federchimica, un libro di Trevor Kletz, considerato uno dei massimi esperti mondiali sul tema della sicurezza negli ambienti di lavoro. Il libro s’intitola “ L’errore umano visto dall’ingegnere” (Federchimica, 2008) ed è comparso nella collana editoriale “Rischio Tecnologico”.

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 Lo riprendiamo in mano, in occasione della Giornata mondiale per la salute e la sicurezza sul lavoro 2015, perché offre alcuni importanti elementi di riflessione.

Dopo un attento esame, il libro arriva alle conclusioni che molti incidenti avvenuti nell’industria chimica ed in altre attività lavorative, formalmente attribuiti ad errore umano degli operatori , sono dovuti in gran parte ad errori di progettazione e di organizzazione del lavoro.

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Esamineremo solo le diverse tipologie di errore umano degli operatori, l’ultimo anello della catena della sicurezza, quelle che causano il maggiore numero di incidenti. Il libro tratta, comunque, anche degli errori e delle responsabilità nell’insorgere di incidenti dei manager, dei progettisti, dei costruttori degli impianti, degli addetti alla manutenzione, degli operatori che intervengono sugli impianti e di chi gestisce i controlli automatici con i microprocessori.

Nel suo libro Kletz evidenzia le seguenti quattro tipologie di errori umani degli operatori, cause di molti incidenti: per svista, per sbagli, per inabilità fisica e mentale e per violazione delle procedure canoniche e, come si vedrà, quegli errori dei lavoratori dovuti, in realtà, ad errori dell’organizzazione del lavoro.

L’ errore per svista o disattenzione è quello dell’operatore che dimentica di vedere un segnale d’allarme o di eseguire una manovra semplice ben nota o che la esegue in maniera sbagliata. Per Kletz, per diminuire gli incidenti dovuti a questi errori, si deve intervenire essenzialmente sulla modifica dei processi e sul metodo di lavoro, affinché la disattenzione degli operatori, dovuta anche alla stanchezza, non abbia effetto sulla sicurezza e l’efficienza dei processi. Per evitare incidenti dovuti a disattenzione si possono, per esempio, realizzare interventi sul processo che comportino blocchi per impedire l’esecuzione di azioni errate o inserire degli allarmi che ne indichino l’accadere o dei sistemi che prevengano conseguenze gravi dovute ad errori. Inoltre si deve cercare di aumentare l’automazione dei processi e ridurre lo stress da stanchezza o da frustrazioni che possono portare a distrazioni. Comunque, bisogna dire, che oramai nell’industria chimica in questi ultimi vent’anni, attraverso un’automazione spinta dei processi, si sono diminuiti in maniera significativa questi tipi di errore, che possono essere presenti, invece, in altre attività lavorative.

L’errore per sbaglio, ossia per mancanza di conoscenza delle procedure corrette è dovuto alla poca formazione ed informazione. La formazione serve a fare capire le mansioni e creare la capacità di dare un giudizio critico, le informazioni servono a descrivere le procedure, ossia quello che gli operatori devono correttamente fare. Per minimizzare gli incidenti dovuti a questi errori occorre migliorare la formazione con i seguenti interventi: preparare il personale interno, ma anche quello esterno, informare il personale di eventuali modifiche effettuate nelle apparecchiature e nelle procedure, presentare istruzioni chiare, comprensibili e verificare che siano facili da leggere, assicurarsi che queste descrivano sempre la pratica lavorativa aggiornata, evitare di dare procedure contraddittorie e che non corrispondano al modo in cui i lavoratori eseguono il lavoro, abituare le persone a riconoscere uno sbaglio e ad agire di conseguenza ed istruire su incidenti realmente avvenuti.

Gli errori dovuti a mancanza di abilità fisica e mentale avvengono quando si richiede agli operatori di fare di più di quello che questi sono in grado di svolgere, perché le mansioni attribuite richiedono un’abilità psico-fisica superiore a quella che hanno. Per minimizzare questi tipi di errori occorre intervenire nella progettazione dell’impianto e nel metodo di lavoro. Esempi emblematici di questi tipi di errore sono la presenza di valvole di sicurezza che non si riescono ad aprire perché troppo dure o inaccessibili, oppure richieste di chiudere una valvola ad un operatore, quando suona un allarme, mentre sta compiendo altre operazioni e per questo può essere per lui difficile mentalmente o impossibile eseguire quest’operazione o attribuire incarichi difficili a persone anziane o incarichi troppo complessi. Anche questo tipo di errore nell’industria chimica è stato fortemente ridotto in questi ultimi anni con l’automazione dei processi, il miglioramento degli impianti e la semplificazione delle procedure operative.

L’ultimo tipo di errore è quello per violazione delle regole ossia per deliberata scelta di fare o di non fare una cosa. Questi errori sono dovuti ad una non corretta valutazione delle procedure proposte, a violazioni vere e proprie o ad esecuzioni di azioni non in conformità. Un esempio è il lavoro lasciato a metà, dovuto a leggerezza dei lavoratori, motivata da una lunga consuetudine. In questo tipo di errore l’operatore decide di non svolgere una mansione o decide di non svolgerla secondo le regole proposte. Dal punto di vista legale in Italia si parla, a questo proposito, di negligenza o di disubbidienza. Questi errori sono dovuti al fatto che alle volte le persone preferiscono fare affidamento sulla propria esperienza e capacità o suppongono di sapere cosa contengono le regole, le interpretano a modo loro oppure pensano che se fossero eseguite alla lettera le indicazioni non sarebbe possibile eseguire un lavoro. Esempi emblematici di questo tipo di errore sono il non indossare l’abbigliamento antinfortunistico od utilizzare strumenti non appropriati al lavoro. Per ridurre gli incidenti dovuti a questi errori occorre intervenire con più azioni nel campo della formazione come: semplificare i compiti e, se possibile, svolgere controlli severi e verifiche continue. Occorre accertarsi che le regole siano eseguite e coinvolgere le persone nella loro preparazione,spiegando (o meglio discutendo con chi le deve adottare) quali sono le conseguenze del non seguire le procedure dettate dal progettista, spiegare le motivazioni delle regole e delle procedure ed accertarsi che ognuno le abbia capite, oltre a descrivere alcuni incidenti avvenuti per non averle. Discussioni con gli operatori sono alle volte più utili che lezioni o invio di relazioni scritte.

     Nel libro si arriva alla conclusione che si possono ridurre gli incidenti nei posti di lavoro minimizzando tutti i tipi di errore descritti intervenendo sulla gestione del metodo di lavoro e riducendo la possibilità che questi errori possano provocare incidenti con una progettazione intrinsecamente più sicura. In aggiunta, per quanto riguarda gli sbagli, si deve intervenire attraverso una continua ed efficace preparazione del personale mentre per gli errori dovuti a violazioni si deve cercare anche di persuadere oltre che insegnare.

Per diminuire il rischio di incidenti nell’industria chimica occorre prima essere in grado di identificare il pericolo, cercare di eliminarlo, poi se non é possibile intervenire per ridurne le conseguenze, ridurre le probabilità che avvenga l’incidente. Anche se l’industria chimica é la penultima nella scala del numero di incidenti avvenuti, dopo quella del petrolio, è interessante leggere il libro di Kletz, dove si sottolinea il ruolo del’errore umano, come causa di incidenti. La filosofia che sta alla base del libro è quella divulgata nel corso degli anni dall’autore ed é fondata sull necessità di realizzare processi più intrinsecamente sicuri, sfruttando la chimica e l’ingegneria, proprio per eliminare negli impianti anche gli effetti negativi di eventuali errori umani.

I libri nella tempesta perfetta

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Laura Peperoni*

 Brevi considerazioni sul concetto di copyright

La Giornata Mondiale del Libro e del Diritto d’Autore che si celebra ogni anno il 23 Aprile (http://www.unesco.it/cni/index.php/news/316-giornata-mondiale-del-libro-e-del-diritto-dautore-2015), è un evento patrocinato dall’UNESCO per promuovere la lettura, la pubblicazione dei libri e la protezione della proprietà intellettuale attraverso il copyright, con l’obiettivo di valorizzare il contributo degli autori al progresso sociale e culturale dell’umanità (28 C/Resolution 3.18 del 15 novembre 1995)

“Costruire una Società della Conoscenza inclusiva attraverso l’informazione e la comunicazione “ è uno degli obiettivi chiave della strategia di medio termine dell’UNESCO. Adottando un simile obiettivo, gli Stati membri riconoscono che la conoscenza riveste un ruolo fondamentale per la crescita economica, lo sviluppo sociale, l’arricchimento culturale e l’affermarsi dei principi democratici. Per questo, tra l’altro, l’UNESCO ha potenziato il suo programma a favore dell’Open Access, rivolto a migliorare la comprensione delle strategie dell’Accesso Aperto, da intendersi, come sostiene Peter Suber (2012), un “rivoluzionario modo di accesso “ a importanti fonti d’informazione quali i prodotti della letteratura scientifica.

Il rapporto tra proprietà intellettuale, gestione dei diritti dell’autore, copyright, vie dell’Open Access e modelli free di accesso all’informazione rappresenta una questione aperta, in particolare in ambito accademico dove, come rileva Antonella De Robbio, “ il 90% delle produzioni intellettuali generate dal sistema ricerca internazionale è chiuso entro piattaforme editoriali con accesso a pagamento” e “i margini di profitto detenuti attualmente dagli editori commerciali sfiorano anche il 50%”.

 copyright

Ampliando lo scenario, ineludibile è il riferimento ai cambiamenti introdotti nelle modalità di accesso all’informazione e elaborazione /diffusione della conoscenza dalla rivoluzione tecnologica digitale in corso rispetto ai paradigmi assestatisi con la precedente rivoluzione tecnologica della medesima portata, l’introduzione della stampa a caratteri mobili. La congiuntura in cui attualmente si trova l’editoria appare caratterizzata da dematerializzazione della copia, abbattimento dei costi fissi di produzione, deverticalizzazione, decentramento e dispersione delle funzioni autorali, editoriali e bibliotecarie. In breve, come suggerisce Roberto Caso, il mercato delle copie tangibili appare investito dalla “tempesta perfetta” e il dibattito intorno a proprietà intellettuale e copyright si è trasformato in una discussione su controllo dell’informazione, delle idee e della conoscenza tra sostenitori del rafforzamento del controllo e fautori della completa cancellazione del diritto d’autore.

Per individuare natura e portata delle effettive forze in campo, potrebbe risultare interessante ripercorrere lo sviluppo del concetto di copyright/diritto d’autore nella prospettiva metodologica Law and Technology proposta da Roberto Caso, che analizza l’evoluzione giuridica alla luce del progresso tecnologico al fine di comprenderne le importanti implicazioni giuridiche, economiche e sociali.

E’ attraverso la stampa a caratteri mobili che, tra la fine del Quattrocento e gli inizi dell’Ottocento, il sistema dei privilegi librari, strumento di trasferimento di tecnologia, incentivazione economica, controllo del mercato e censura, si trasforma nel diritto soggettivo, cedibile mediante contratto, di esclusiva su un’opera dell’ingegno. Tra i privilegi monopolistici finalizzati al trasferimento di tecnologia figura quello riguardante le macchine per la stampa a caratteri mobili, che si estende successivamente anche ai prodotti delle macchine, i libri. Il detentore del potere costituito concede allo stampatore il privilegio di poter stampare in monopolio (per un periodo limitato di tempo) singoli titoli o intere collane. In cambio, lo stampatore versa le tasse di concessione e agevola la censura. Col tempo gli stampatori si organizzano in potenti corporazioni capaci di svolgere una penetrante azione di lobbying e di dar vita a veri e propri ordinamenti privati. A questo livello, la regolamentazione e la tutela si basano sul carattere materiale dell’attività, dirigendo l’azione rimediale alla distruzione della stampa/riproduzione per intero non autorizzata. Autori e tutela contro il plagio, inteso come appropriazione della paternità o imitazione della forma espressiva di un’opera altrui, non sono ancora contemplati.

Il privilegio librario si trasforma nel diritto esclusivo di pubblicare e mettere in commercio libri quando le rivoluzioni politiche in Europa e Stati Uniti tra Seicento e Settecento modificano gli assetti istituzionali e favoriscono lo sviluppo di libertà di commercio e libertà di stampa. In questo periodo si avviano le prime rivendicazioni degli autori e il decisore pubblico matura la scelta di limitare il copyright, non occupandosi dei diritti morali, temporalmente e in ampiezza.

Nel confronto tra i diversi sistemi giuridici, all’interno dei quali successivamente si svilupperanno i modelli rispettivamente di copyright e diritto d’autore, emergono elementi comuni. In alcuni casi gli intermediari del mercato della creatività strumentalizzano le ragioni degli autori reclamando per questi ultimi un diritto di esclusiva perpetuo, ma cedibile mediante contratto. In altri l’esclusiva dell’autore non viene rifiutata radicalmente, ma viene rivendicata una limitazione temporale come strumento per raggiungere il fine della diffusione della conoscenza. Inoltre, tutte le prime regolamentazioni occidentali non consentono di governare la complessità del passaggio dal privilegio degli stampatori al diritto di esclusiva degli autori, esteso non solo all’attività materiale, ma anche alla forma espressiva dell’idea.

Nell’Ottocento fino al secondo dopoguerra il copyright ha subito numerosi adattamenti alle sfide tecnologiche che si sono succedute. Ma la risposta all’innovazione tecnologica si è generalmente concretizzata nell’estensione in ampiezza e durata del diritto d’autore. Ciò perché nella misura in cui l’autore trae guadagno dalla vendita delle copie attraverso il meccanismo delle royalties, lo stesso autore rimane uno strenuo difensore del diritto di riproduzione, come testimoniato dalla stretta connessione tra sviluppo delle tecnologie riproduttive ed inasprimento del dibattito sul plagio.

Nel mondo delle copie tangibili, l’alleanza tra autori ed editori si basa su solide basi economiche: costi fissi elevati di produzione e costi marginali di riproduzione bassi, nonché verticalizzazione delle funzioni editoriali con annesse economie di scala. La scelta del legislatore è una scelta di equilibrio. L’esclusiva non è perpetua, copre solo la forma espressiva e non l’idea; dopo la prima vendita della copia, il titolare dell’esclusiva esaurisce il diritto di controllare l’ulteriore distribuzione di quella medesima copia; esistono margini di libertà della fruizione grazie a meccanismi come le libere utilizzazioni e il fair use. La limitazione del diritto d’autore si basa sulla fondamentale natura cumulativa e incrementale dell’informazione, che è anche alla base dell’esistenza di “isole di conservazione e di libertà dei testi”, le biblioteche, in cui è possibile accedere gratuitamente non solo alla conoscenza caduta in pubblico dominio, ma anche al sapere coperto dall’esclusiva autorale e dove si può scambiare conoscenza.

Con l’avvento della rivoluzione digitale si sono progressivamente registrate due modalità di evoluzione del copyright. Da un lato, l’estensione in durata e in ampiezza del diritto, l’utilizzo di nuovi contratti – le “licenze d’uso”- finalizzati a contrastare il principio di esaurimento del diritto d’autore e l’applicazione delle misure tecnologiche di protezione (Digital Rights Management). La logica economica che sta alla base di tale strategia giuridica prevede che, se la tecnologia rende possibile a costi di transazione bassi il controllo di ogni fruizione, a ogni fruizione deve corrispondere un prezzo e che il flusso possa essere controllato. Dall’altro lato troviamo la negazione del diritto di riproduzione e una diversa concezione del diritto di paternità; escludendo la “pirateria”, il riferimento è al software libero, alle licenze Creative Commons, all’Open Source e all’Open Access come movimenti per la difesa a oltranza del diritto di riproduzione.

Essendosi i modelli commerciali spostati progressivamente verso la fruizione “da remoto” dei contenuti (cloud) e la fornitura di contenuti (copie digitali) trasformata in fornitura di servizi, risulta evidente l’opportunità di una ridefinizione giuridica del diritto di riproduzione e una riflessione approfondita del ruolo di editori e biblioteche.

Il diritto d’autore europeo ha avviato la disciplina di alcuni aspetti dello sfruttamento on-line delle opere dell’ingegno, facendo riferimento alla nozione di diritto di comunicazione al pubblico intesa come “diritto di mettere a disposizione del pubblico”. Tuttavia, oltre al copyright/diritto d’autore è urgente una revisione della regolamentazione complessiva del controllo delle informazioni digitali, con riferimento a diritto della concorrenza, diritto dei contratti e diritto della privacy.

Infine, non si può tralasciare la dimensione costituzionale, nell’ambito della quale il diritto d’autore deve essere bilanciato con altri diritti fondamentali, e l’analisi dell’influenza che etica e norme sociali hanno sul dibattito intorno al copyright, evitando che le differenze generazionali inneschino ulteriori conflitti.

*Laura Peperoni è laureata in Filosofia  e si è perfezionata in gestione e direzione di biblioteca nel 2001. Dal 2004 è bibliotecaria presso l’Università di Bologna, dove attualmente coordina la Biblioteca Interdipartimentale di Chimica.

Per saperne di più:

  1. Caso, Alle origini del copyright e del diritto d’autore: spunti in chiave di diritto e tecnologia. Trento: Università degli Studi di Trento. Facoltà di Giurisprudenza, 2010 (The Trento Law and Technology Research Group. Research Papers Series; 2), http://eprints.biblio.unitn.it/1918/ (ultima consultazione: 22/04/2015)
  2. Caso, I libri nella “tempesta perfetta”: dal copyright al controllo delle informazioni digitali. Trento: Università degli Studi di Trento. Facoltà di Giurisprudenza, 2013 (The Trento Law and Technology Research Group. Research Papers Series; 14), http://eprints.biblio.unitn.it/4131/ (ultima consultazione: 22/04/2015)
  3. De Robbio, Accesso aperto e diritti: un difficile equilibrio tra tutele e libertà. Bibliotime, a. XVI, n. 3 (novembre 2013), http://www.aib.it/aib/sezioni/emr/bibtime/num-xvi-3/derobbio.htm (ultima consultazione: 22/04/2015)
  1. De Robbio, La gestione dei diritti lungo le vie dell’accesso aperto: prospettive a dieci anni di distanza, Bibliotime, a. XVII, n. 3 (novembre 2014), http://www.aib.it/aib/sezioni/emr/bibtime/num-xvii-3/derobbio.htm ((ultima consultazione: 22/04/2015)

Astri, spettri e giornali: il fondatore di Nature

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Marco Taddia

Anche se talvolta è incappata, come quasi tutte le riviste scientifiche odierne, in qualche infortunio legato alla deprecabile research misconduct di personaggi privi di scrupoli, non vi è dubbio che la rivista Nature sia tuttora sinonimo di elevato prestigio editoriale e che la pubblicazione dei risultati di una ricerca sulle sue pagine ne garantisca quasi sempre originalità e qualità. Forse non tutti sanno chi fu il fondatore e il suo primo editor. Si tratta dell’astronomo Joseph Norman Lockyer (1836-1920), giustamente onorato con il titolo di Sir dai Reali inglesi. Lockyer è ben noto, oltre che agli astronomi, anche a coloro che si occupano di analisi spettrale. Di quest’ultima parleremo, semmai, un’altra volta. Qui l’enfasi è posta sulla straordinaria avventura editoriale che intraprese e che continua tuttora, inserita nel racconto della sua vita.

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 Joseph Norman Lockyer, figlio di Joseph Hooley e Ann Norman, nacque a Rugby in Gran Bretagna nel 1836. Il padre era farmacista e chirurgo, con spiccati interessi scientifici. Dopo pochi anni la famiglia si trasferì a Leicester e in questa città Ann Norman morì prematuramente nel 1845. Nel 1849 Norman, rivelatosi di salute cagionevole, fu rimandato nel Warwickshire presso parenti della madre. Frequentò la Kenilworth school. Il padre morì nel 1855 e così Norman cercò la protezione di Lord Leigh. Nel 1856 ottenne un impiego presso il War Office di Londra e andò a vivere a Wimbledon. L’anno successivo sposò Winifred James. Intanto studiava per conto suo, coltivava i suoi interessi scientifici e cominciò le sue osservazioni astronomiche nel giardino dell’amico George Pollock che aveva acquistato da Thomas Cooke, esploratore e fabbricante di strumenti, un telescopio rifrattore. Conquistato dall’astronomia, Lockyer acquistò il suo primo telescopio nel 1861 e cominciò a dedicarsi con serietà a questi studi. Si dedicava anche alla traduzione di testi scientifici francesi. La traduzione del testo di Guillemin “Le ciel” fu un grande successo; ne seguirono altre due che gli permisero di sostenere meglio il bilancio famigliare. Nel 1862 aderì alla Royal Astronomical Society e l’anno dopo comincia a spedire alcuni lavori. All’inizio del 1865 si trasferì da Wimbledon a West Hampstead, più vicino a Londra. I suoi rapporti sociali si espansero e si diversificarono. Cominciò anche render conto delle sue osservazioni astronomiche su The Reader e London Review. La collaborazione con il primo gli fece incontrare Thomas Huxley, al culmine della notorietà. Influenzato da questi, Lockyer si adoperò per dare più spazio e regolarità all’informazione scientifica nello stesso giornale. Verso la metà degli anni ’60, Lockyer maturò probabilmente l’idea di un giornale esclusivamente scientifico. Intanto, nel 1868, dava alle stampe il suo primo libro, un testo popolare di introduzione all’astronomia “Elementary Lessons in Astronomy“. Il commento di Lord Farrer, uno dei suoi sostenitori fu: “Siamo deliziati dalla chiarezza e semplicità delle tue lezioni elementari e specialmente dall’assenza di controversie ed ipotesi“. Ripreso il progetto di un giornale scientifico settimanale, ne discusse con Mcmillan. Con il concorso di Huxley, Foster e Sharpey, nacque Nature. Il primo numero uscì nell’autunno del 1869.

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Lockyer fu editor del giornale fino a pochi mesi prima della morte. Nel 1870 Lockyer fu nominato segretario della Royal Commission on Scientific Instruction e, anche in questa veste, si adoperò per l’istituzione di un laboratorio di fisica solare nella zona londinese di South Kensington. Intanto continuava i suoi studi e le sue osservazioni astronomiche nell’ambito del College of Chemistry e pubblicava libri sull’astronomia e l’analisi spettrale. Nel 1881 divenne lecturer alla Normal School of Science e, nel 1887, primo professore di astrofisica. Lockyer sarà professore di astrofisica fino al 1901 e Direttore del Laboratorio di Fisica Solare fino al 1913. In tale anno il Laboratorio verrà trasferito da Londra a Cambridge. Lockyer si ritirerà con la moglie a Sidmouth, nella zona del Devon. Qui fondò un nuovo osservatorio solare che l’anno dopo la sua morte, avvenuta nell’agosto 1920, gli verrà intitolato. L’osservatorio esiste tuttora.

Per approfondire

Meadows A.J. , Science and controversy – A biography of Sir Norman Lockyer, Cambridge Mass., The MIT Press, 1972

Wilkins G. A., Sir Norman Lockyer’s Contributions to Science, Q.J.astr.Soc. (1994), 35, 51-57

Taddia M., Dai nani ai giganti: la spettroscopia stellare e le congetture di Norman Lockyer (1836-1920), ISA 2006, Giovinazzo (BA), 9-12 Aprile 2006

Up-Top: un nuovo approccio nella trasformazione dei materiali naturali

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Alessandro Ianiro**

Negli ultimi anni i biopolimeri naturali, tra i quali cellulosa, chitina ed amido, hanno fortemente attirato l’attenzione della comunità scientifica. L’ampia disponibilità a basso costo, la biocompatibilità e le ottime proprietà meccaniche candidano questi materiali a molti tipi di applicazioni e il loro potenziale è ben lontano dall’essere esaurito.

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Calamaro europeo (loligo vulgaris). Al suo interno è presente il gladio, detto anche penna, una struttura composta di chitina, proteine ed altro materiale biologico, avente la forma di una piuma.

Prendiamo ad esempio la chitina. Essa è il secondo biomateriale più abbondante della terra dopo la cellulosa e viene sintetizzata da una grande varietà di organismi, nei quali spesso assume una funzione strutturale. Nelle sue forme naturali è un materiale parzialmente cristallino e forma polimorfi che differiscono per l’orientazione relativa delle catene polimeriche. Quella presente nel guscio dei crostacei, ad esempio, è la forma α, caratterizzata da domini cristallini in cui le macromolecole sono disposte con orientazione antiparallela, mentre quella presente nelle penne di calamaro (forma b) è caratterizzata da una disposizione parallela delle catene polimeriche. Queste differenze strutturali, riflettendosi sulla capacità di formare legami a idrogeno inter-catena, sono in grado di influenzare sensibilmente il comportamento chimico-fisico del materiale.

Pur essendo un materiale dalle molteplici virtù come la resistenza meccanica e chimica, la biocompatibilità, la capacità di rimuovere inquinanti dall’acqua e di accelerare la cicatrizzazione delle lesioni cutanee prevenendo la proliferazione dei batteri, la chitina non trova larga applicazione industriale. L’ostacolo principale risiede nelle difficoltà di lavorazione dovute alla sua natura chimica. Va sottolineato il fatto che la chitina è un prodotto di scarto dell’industria alimentare ittica (quindi una materia prima a basso costo) con un elevato impatto ambientale, il cui riutilizzo potrebbe rappresentare sia un’opportunità economica, sia la soluzione ad un problema ecologico.

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Immagine in birifrangenza* con polarizzatori incrociati di due campioni di penna di calamaro (gladius), costituiti da chitina cristallina.

Uno dei punti di forza dei materiali naturali è la sofisticatissima struttura gerarchica, frutto di una sperimentazione durata milioni di anni: l’evoluzione. Questa organizzazione strutturale intelligente, che parte dalla scala molecolare e arriva fino alla scala macroscopica, conferisce ai biomateriali delle proprietà particolari ed innovative che l’uomo è ben lontano dal saper riprodurre.

Queste idee sono un fertile campo di attività di ricerca e anche presso l’Università di Bologna opera un Gruppo che si occupa di biomineralizzazione e biocristallografia, con l’obiettivo di utilizzare i biomateriali non come materia prima da trasformare, ma come nuovi materiali.

Questo approccio, denominato up-top, rappresenta la convergenza tra i classici approcci bottom-up e top-down, e prevede che la struttura nativa (bottom-up) non replicabile dall’uomo, venga preservata quanto più possibile. Per rendere questi materiali adattabili a differenti campi applicativi, vengono utilizzate tecniche chimiche e fisiche (top-down) per modificarne le proprietà nanometriche e micrometriche.

Così facendo è possibile unire le singolari caratteristiche dei materiali naturali alla modulabilità dei materiali sintetici, aprendo la strada a nuove applicazioni in campo tecnologico, biomedico ed ambientale.

Si ringrazia il Prof. Giuseppe Falini, per l’uso della seconda figura, ottenuta in laboratorio con il sistema dei due polarizzatori incrociati.

Per saperne di più

Fernandez J. G. and Ingber D. E. Bioinspired chitinous material solutions for environmental sustainability and medicine. Advanced Functional Materials, 23(36):4454-4466, 2013.

Fei-Chi Yang,a   Robert D. Peters,a   Hannah Diesa and   Maikel C. Rheinstädter, Hierarchical, self-similar structure in native squid pen, Soft Matter, 10:5541-5549, 2014

Alessandro Ianiro, Matteo Di Giosia, Simona Fermani, Chiara Samorì, Marianna Barbalinardo, Francesco Valle, Graziella Pellegrini, Fabio Biscarini, Francesco Zerbetto, Matteo Calvaresi, Giuseppe Falini, Customizing Properties of β-Chitin in Squid Pen (Gladius) by Chemical Treatments, Marine Drugs; 12(12): 5979–5992, 2014

**Alessandro Ianiro ha conseguito la laurea magistrale in Chimica presso l’Università di Bologna nel 2014.

Attualmente è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Chimica “Giacomo Ciamician” e i suoi interessi riguardano in maniera specifica la sintesi di nanomateriali ad attività fotocatalitica e la preparazione di materiali compositi derivati da fonti naturali, per applicazioni nel campo della medicina rigenerativa e della water remediation.

*Quando un cristallo birifrangente, sia esso monoassico (come la chitina) o poliassico, viene posto tra due filtri polarizzatori incrociati (aventi i piani di polarizzazione a 90°) in modo tale che l’asse ottico del cristallo non sia parallelo alla direzione di polarizzazione dei due filtri, questo può assumere colorazioni di diversa intensità e tonalità se illuminato da una sorgente posta prima del primo filtro polarizzatore. In questa configurazione infatti si ha che le componenti vettoriali dei due raggi rifratti dal cristallo parallele al secondo filtro polarizzatore non sono nulle e quindi sono in grado di emergere dal filtro. Tali componenti hanno una diversa fase, per cui la loro somma dà luogo ad interferenze di tipo costruttivo e distruttivo, causando la comparsa dei colori.

Piccola guida al linguaggio degli scienziati

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Marco Taddia

L’Istituto Federale per la Storia della Scienza, ovvero il blasonato ente americano meglio noto come FISH (Federal Institute for the History of Science), presenterà oggi alla stampa un documento destinato a suscitare scalpore. Nei giorni scorsi sono apparse alcune anticipazioni sul web e questo post si propone di riassumerle per preparare i chimici italiani al dibattito che, ne siamo sicuri, seguirà l’evento odierno. Il documento è stato rinvenuto negli archivi della FISH (Washington D.C.) e risale al 1665, quando furono fondate le prime riviste scientifiche europee (Journal des sçavans e Philosophical Transactions of the Royal Society). Si tratta, in sostanza, di un codice interpretativo che svela ciò che avete sempre desiderato conoscere in merito al linguaggio scientifico e, in particolare, ai “papers” che vi danno del filo da torcere quando volete ripetere le esperienze altrui.

Tutti coloro che hanno dimestichezza con la letteratura scientifica, non solo come autori ma anche come semplici lettori, sanno che la stesura degli articoli segue regole precise. Ogni periodico le riporta dettagliatamente nelle apposite “note” per gli autori e ad esse rimanda tutti coloro che aspirano a vedere pubblicati i rispettivi manoscritti. Talvolta queste istruzioni occupano più pagine in quanto si estendono alla precisazione minuziosa dei simboli, delle unità di misura, delle abbreviazioni e di tutto ciò che rende il testo fruibile dagli scienziati di tutto il mondo. La gran parte di queste indicazioni sono comuni a tutte le riviste, fatta eccezione per quella che riguarda i riferimenti bibliografici. Pare che un folletto pazzerello si sia divertito a introdurre le forme più varie di presentazione. Ad esempio, per quanto riguarda gli autori, qualcuno vuole il cognome prima dell’iniziale del nome, qualcun altro l’opposto, oppure il nome per esteso ecc… Gli scienziati che pubblicano anche su riviste dell’ area umanistica hanno un’altra sorpresa che la prima volta fanno molta fatica a digerire: l’elenco deve seguire l’ordine alfabetico dei cognomi. A parte queste divagazioni, per il resto gli articoli scientifici si assomigliano tutti. All’introduzione e alla parte sperimentale segue quella dedicata a “risultati e discussione”, poi si chiude con le conclusioni e la bibliografia. Un riassunto accompagna sempre il testo. Sembrerebbe tutto chiaro e facile ma c’è voluto molto tempo per giungere a questa forma di comunicazione scientifica. Chi fosse interessato ad approfondire l’argomento può ricorrere, se vuole, al testo di Charles Bazerman “Le origini della scrittura scientifica” (Transeuropa, 1991).

Con caratteristiche che rispondono a regole così precise, un articolo è tutt’altro che la narrazione di un’avventura del pensiero. La lettura non è in genere particolarmente eccitante, anzi si può dire che spesso risulti alquanto noiosa. I risultati di un lavoro durato mesi appaiono come il frutto di operazioni compiute da automi incapaci di emozioni. Anche la ricerca più interessante, riferita con frasi stereotipate, perde di smalto. Invece, la ricerca scientifica, per chi vi si dedica con vera passione e non solo con intenti carrieristici, è ben altro. Forse è il mestiere più bello del mondo. Vediamo allora di capire come si devono intendere quelle frasi (in corsivo il vero significato).

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È noto da lungo tempo…

(Non ho avuto voglia di controllare la fonte)

Non è stato possibile fornire una risposta definitiva a queste domande…

(L’esperimento non ha funzionato ma ho pensato di poterne almeno ricavare una pubblicazione)

Il sistema W-PO è stato scelto perché particolarmente adatto

(Nel laboratorio vicino al mio era già pronto per essere usato)

Tre campioni sono stati scelti per uno studio più approfondito…

(I risultati sugli altri campioni non avevano alcun senso e sono stati accantonati)

Accidentalmente deformato durante la preparazione

(Caduto per terra)

Vengono mostrati i risultati tipici

(Vengono mostrati i risultati migliori, cioè quelli che confermano l’ipotesi)

L’accordo con la curva prevista è soddisfacente (dubbio), accettabile (immaginario)

È convinzione generale

(Anche un paio di altre persone lo pensano)

Lavoro di grande interesse

(Lavoro fatto da un membro del nostro Gruppo)

Di dubbio significato

(Lavoro fatto da qualcun altro)

Ecc…

 Il vocabolario completo potrete richiederlo direttamente a FISH http://hoaxes.org/af_database/display/category/science

Resta da aggiungere che qualche indiscrezione circolava da anni nei laboratori USA come riportato da Gilbert e Mulkay in “Opening Pandora’s Box (Cambridge University Press, 1984). Anche in Italia se n’era parlato, come ci ricorda Guzzetti nel suo “La frode scientifica” (Liguori, Napoli, 2002).

Se conoscete qualche altra frase che si possa aggiungere al vocabolario per aggiornarne i contenuti al tempo presente fatecelo sapere.

Approfondimenti:

per un discorso serio sul tema: http://www.minerva.unito.it/Tecnici/Tecnici%202/sld001.htm

per tutto il resto:

pesce d'aprile

La scienza comincia sempre così

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Marco Taddia

Recensione a “Esperimenti scentifici da fare per gioco” di Ian Graham e Mike Goldsmith (Le Scienze, Roma, 2015/ Dorling Kindersley, London, 2011 – pp. 144, Euro 9,90)

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A volte si ha l’impressione che i nostri bambini siano più affascinati dalla realtà virtuale piuttosto che da quella fisica. Anche noi corriamo un rischio simile, talvolta ignari della mutazione di cui siamo vittime. Il fenomeno non è privo di conseguenze e il progressivo distacco dalla natura, di cui siamo parte integrante, ha sempre un prezzo. Anche un libro, nel suo piccolo, può aiutare i nostri ragazzi (e forse anche noi) a correggere il tiro, ristabilendo la corretta gerarchia fra natura e tecnologia, aiutando a scoprire la scienza. Non c’è da meravigliarsi se questo libro è stato inizialmente pubblicato nel Regno Unito e si è avvalso anche di prestigiose collaborazioni di stampo accademico come il Reach Out Lab dell’Imperial College. L’editoria anglosassone ha, per quanto riguarda la divulgazione scientifica, un passato a dir poco glorioso che risale almeno al secolo XIX, interessa anche la chimica e non è guardata con sufficienza dagli esperti.

Ma veniamo a qualche esempio, preso dall’edizione italiana, uscita per il mensile “Le Scienze” un paio di mesi fa. Alle pp. 82-83 vengono fornite le istruzioni per costruire uno spettroscopio con i mezzi che ciascuno può trovare in casa propria. Viene in mente subito la vicenda di Robert Wilhelm Bunsen (Gottinga, 1811 – Heidelberg, 1899), riconosciuto caposcuola della chimica tedesca del secolo XIX, più famoso per ciò che non ha inventato (il becco) piuttosto che per gli importanti risultati ottenuti nei diversi settori della chimica. Bunsen costruì il suo primo spettroscopio utilizzando una scatola di sigari. Anche per il resto, utilizzò ciò che aveva sottomano. Da un piccolo telescopio prese gli oculari e poi completò l’opera con un prisma. Ciò non gli impedì di condurre osservazioni che lo fanno ricordare, insieme al fisico Gustav Kirchhoff (Königsberg, 1824–Berlino, 1887), come padre della spettroscopia atomica analitica, portandolo a scoprire nuovi elementi chimici (cesio, rubidio).

Oggi, per costruire uno spettroscopio in casa, occorre procurarsi (udite, udite): un tubo di cartone preso da un rotolo di carta igienica, un po’ di carta nera, un vecchio CD registrabile, del nastro adesivo da pacchi, un po’ di cartone resistente e un po’ di cartoncino. Un paio di forbici e la colla completano l’elenco. Come procedere? Beh, dovete leggerlo sul libro. Sarete aiutati da belle immagini e anche dai consigli per eseguire le vostre osservazioni. Non mancano le precauzioni d’uso. Ad esempio, si raccomanda di non guardare luci forti oppure di non puntare direttamente lo spettroscopio verso il Sole. Ci sono poi tre piccoli box esplicativi. Uno spiega come funziona, l’altro riassume in breve la scienza degli spettri (riportando quello del carbonio e quello del mercurio) e l’ultimo accenna alle applicazioni in campo astronomico. Fra i simboli convenzionali che accompagnano l’esperimento (tempo di realizzazione, livello di difficoltà ecc…) , chiaramente spiegati all’inizio del libro, c’è quello in cui si raccomanda la presenza di un adulto. In realtà, può darsi che gli adulti si appassionino a questo libro e agli esperimenti ivi descritti quasi quanto i ragazzi.

Probabilmente anche loro, professori compresi, ne ricaveranno qualche spunto di riflessione. Il libro è diviso in cinque parti: il mondo dei materiali, forze e movimento, energia in azione, elettricità e magnetismo, il mondo naturale. Nella parte riguardante i materiali ci sono esperimenti ben noti a chiunque abbia assistito a dimostrazioni introduttive alla chimica. Uno dei più curiosi (e semplici) s’intitola “nuova vita all’argento” e, probabilmente, verrà copiato dalle mamme per restituire brillantezza e luminosità agli oggetti d’argento anneriti dai depositi superficiali di solfuro. Meno facile, c’è da scommetterci, sarà l’interpretazione del fenomeno elettrochimico ma si sa che occorre procedere per gradi! Nella seconda parte troviamo un esperimento da realizzare con una bibita frizzante. Introducendo nella bottiglia alcune mentine si genera un’eruzione spettacolare, dovuta a un fenomeno di nucleazione che concentra le bolle di diossido di carbonio in uno spazio ristretto, e che può raggiungere un’altezza considerevole. Meno facile da spiegare perché le bibite light, che non contengono saccarosio, danno getti più alti e violenti. Un altro esperimento, nella sezione natura, riguarda la creazione delle nuvole. Finalmente, i vostri bambini capiranno cosa sono quelle formazioni mutevoli nella forma e anche nel colore che corrono sulle loro teste, hanno ispirato poeti e, spesso, attirato la curiosità degli scienziati. Se talvolta li vedrete con lo sguardo rivolto al cielo invece che allo schermo dello smartphone, vorrà dire che l’esperimento è riuscito.

 

Gender Studies su donne e scienza

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

di Sandra Tugnoli Pattaro*

Sandra PattaroI gender studies hanno preso avvio nei paesi di lingua anglosassone (USA, Canada, Gran Bretagna) tra la fine degli anni ’60 e gli inizi degli anni ’70 del Novecento, con la ripresa dei movimenti radicali femministi, in concomitanza con istanze contro-culturali denuncianti il razzismo, il colonialismo, il capitalismo della cultura occidentale, nonché gli usi ed abusi della scienza. Furono anni in cui il disagio e il disappunto si espressero attraverso manifestazioni di piazza, come quelle dei movimenti studenteschi, in azione nelle maggiori università americane ed europee (il ’68), e attraverso posizioni epistemologiche, come quelle postempiristiche anarchico-radicali di Paul Feyerabend.

È importante tenere presenti le radici politiche della riflessione epistemologica femminista, perché esse aiutano a capire le ragioni per cui, ancor oggi, persino entro le sue formulazioni più mature, critiche e disincantate, rimane sullo sfondo ancor vivo l’originario atteggiamento di ostilità nei confronti della scienza, il quale forse rappresenta il maggiore ostacolo intellettuale a un sufficiente distacco emotivo nell’affrontare i temi teorici generali.

La posizione femminista presenta varie tendenze, spesso in contrasto fra loro, ma riconducibili a tre correnti principali[1].

La prima corrente è quella dell’empirismo femminista (feminist empiricism), secondo cui il sessismo e l’androcentrismo costituiscono limiti sociali correggibili attraverso una maggiore aderenza alle norme metodologiche esistenti nella ricerca scientifica. Si tratta di rigettare la “cattiva scienza”, non la scienza nel suo complesso.

La seconda corrente è quella del femminismo potremmo dire tout court (feminist standpoint), che s’ispira alla riflessione hegeliana sul rapporto padroni-schiavi e alla sua successiva elaborazione da parte di Marx, Engels e Lukács. Essa sostiene che la prospettiva femminista è in grado di assicurare un fondamento moralmente e scientificamente alternativo e preferibile alle interpretazioni dominanti della natura e della vita sociale.

La terza corrente è quella del postmodernismo femminista (feminist postmodernism), che, pur appellandosi a fonti filosofiche disparate come Nietzsche, Derrida, Foucault, Lacan, Feyerabend, Gadamer, Wittgenstein, Latour, oggi allarga il proprio contesto di azione, accomunando la questione femminista a quella di tutti i gruppi emarginati e periferici. Questa corrente auspica che a) la tradizione scientifica debba essere contestata e trasformata più di quanto non si sia usualmente fatto; e b) contestazioni e trasformazioni vengano alimentate dal basso (dai gruppi periferici) e non, come è avvenuto finora, dall’alto. Kuhn ci ha reso consapevoli del fatto che la scienza è un’istituzione sociale, così come le ricerche sulla tecnica che le tecnologie non sono neutrali. Gli studi di genere femministi hanno spesso denunciato tali limiti, in particolare gli standard di oggettività e l’idea di razionalità della scienza, portando la critica al cuore della scienza stessa: il metodo di ricerca. La critica si focalizza non sui pregiudizi, ma sugli assunti le pratiche le culture delle istituzioni e su certe filosofie della scienza.

Il postmodernismo femminista rispecchia l’evoluzione dei gender studies negli ultimo 40 anni. Dalla metà degli anni ’70 a oggi molte femministe sono, infatti, passate da un atteggiamento trasformista a uno rivoluzionario, mirando a una “rivoluzione intellettuale, morale, sociale e politica più radicale di quanto i fondatori delle moderne culture occidentali potessero aver immaginato”[2].

Ne è seguito un ribaltamento di quesito circa il rapporto gender/science: dalla “women question in science” (che cosa fare circa la posizione delle donne nella ricerca scientifica?) si è passati alla “science question in feminism” (è possibile usare a scopi di emancipazione scienze in apparenza intimamente legate ai progetti “occidentali”, “borghesi” e “maschili”?), cui segue l’ulteriore quesito: è preferibile considerare la donna all’opera entro un modello di scienza tradizionale di stampo maschile o una scienza che cambia completamente aspetto, rivoluzionata dalla riflessione critica femminista?

Sulla liceità del cambio di quesito e sulle risposte a l’uno o l’altro, le posizioni femministe registrano divergenze, tensioni e contraddizioni. Molte scienziate che hanno pagato sulla propria pelle la conquista di riconoscimenti istituzionali scientifici sono preoccupate delle conseguenze di un’eventuale riorganizzazione dell’intera gerarchia sociale della scienza per liberare la scienza dall’androcentrismo. Altre protestano che usi ed abusi della scienza nulla hanno che fare con le caratteristiche della “scienza pura”. Altre ancora sono scettiche sul valore delle denunce femministe circa le connotazioni sessuali della scienza e dell’epistemologia, critiche che paiono loro estranee alla pratica scientifica.

[1] Ricostruite da Sandra Harding, The Science Question in Feminism, Milton Keynes: Open University Press, 1986, pp. 24-29. Cfr. anche S. Harding, Sciences from Below: Feminisms, Postcolonialities, and Modernities, Chapell Hill (NC): Duke University Press, 2008.

[2] Harding, The Science, cit., p. 10.

*Sandra Tugnoli Pattaro è stata professore ordinario di Storia della scienza presso l’Università di Bologna. I suoi principali interessi di ricerca (su cui ha scritto monografie e svariati saggi) sono l’epistemologia e la metodologia scientifica; la filosofia della natura e la medicina nel ‘500; la rivoluzione chimica; scienza, bioetica e diritto; gender studies.

Confidenze e consigli di una top scientist.

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Marco Taddia

Una intervista a Maria Cristina Facchini, scienziata del clima

FacchiniMariaCristina_115_153_80L’elenco dei “Top Italian Scientists” della VIA-Academy (http://www.topitalianscientists.org ), derivato da Add-on Firefox e Google Scholar database (soltanto h-index >30), è un indicatore importante e periodicamente aggiornato dell’interesse che il lavoro dei ricercatori italiani suscita nella comunità scientifica internazionale. Non mancano le donne, anzi fra le prime dieci ne compaiono tre, tutte per la fisica. La prima della serie (5° posto assoluto) è Angela Barbaro-Galtieri che però lavora negli U.S. A. La Dott.ssa Maria Cristina Facchini (ISAC CNR – Bologna) occupa il 76° posto, nell’area del clima. E’ un ottimo risultato e così, approfittando di un’antica famigliarità, mi sono permesso di rivolgerle alcune domande per il blog della SCI.

Maria Cristina, anche se gli indicatori bibliografici non costituiscono criteri assoluti per esprimere il valore professionale di un ricercatore, il posto che ti sei guadagnata fra i primi 100 “Top Italian Scientists” non è cosa da poco. Che effetto ti fa?

Dal punto di vista personale sono molto orgogliosa perché ho sempre creduto nell’ enorme potenzialità di coniugare competenze fisiche a competenze chimiche nel campo delle scienze atmosferiche, fino a farle diventare una disciplina unica. La direzione della ricerca internazionale mi ha dato ragione. E’ stata premiata la mia appartenenza ad una comunità internazionale molto vasta che ha lavorato e lavora anche oggi in grandi progetti Europei ed internazionali.

Le aree cui appartengono i “top scientists” sono soprattutto: medicina, fisica, biochimica, farmacologia, neuroscienze e astrofisica. Specialmente la medicina, nelle diverse specialità e campi applicativi e, subito dopo la fisica, hanno conquistato la maggior parte delle posizioni. Secondo te, per quali motivi le ricerche italiane in campo medico e fisico ottengono maggiori riconoscimenti internazionali?

Questi settori hanno una più lunga e prestigiosa tradizione in Italia rispetto ad altri ed hanno di conseguenza numero di ricercatori, infrastrutture, programmi di ricerca e conseguenti risorse molto maggiori. Per questo motivo, fare parte della prestigiosa lista di “top scientists” appartenendo ad una disciplina sviluppatasi di recente e che conta un numero di addetti ancora molto limitato è per me motivo di maggiore orgoglio.

L’area che ti qualifica è quella del clima. Il fatto che, come chimico, ti occupi a fondo del clima, ossia un tema di enorme attualità, pensi che abbia influito a destare tanto interesse verso le tue pubblicazioni?

Il campo climatico ha indubbiamente avuto una grande esplosione negli ultimi due decenni e la mia carriera ha coinciso proprio con questa esplosione di interesse. Avere competenze di chimica (in particolare di chimica organica), ancora poco diffuse nell’ambito delle scienze atmosferiche, mi ha permesso di toccare ambiti inesplorati.   Sicuramente ho dovuto coltivare l’interdisciplinarietà, a volte ho avvertito con timore la “limitatezza” della mia formazione nell’esplorare i temi climatici.   Altre volte mi sono dovuta dimenticare di essere un chimico e studiando meteorologia, climatologia, modellistica, sono andata in crisi di identità: mi sono sentita incompetente non all’altezza… ma ora, guardando indietro, capisco che questa è stata una grande fortuna che ha stimolato molto la mia creatività scientifica.   Adesso preferisco definirmi uno scienziato dell’atmosfera e non un chimico dell’atmosfera, perché in queste nuove discipline chimica, fisica, matematica e biologia si sono fuse e non possono prescindere l’una dell’altra.

Per trovare qualcuno che compaia nell’area “chimica” vera e propria bisogna arrivare al 19° posto (Parrinello) poi, più oltre, seguono altri nomi noti a tutti (Balzani, Prato, Zecchina, Gatteschi, Adamo, Pacchioni ecc..). Forse la chimica “pura”, senza aggettivi, interessa meno di quella calata nei campi di studio che riguardano la salute dell’uomo e quella del Pianeta?

Credo sia più difficile fare nuove scoperte nei settori tradizionali della chimica dove la comunità scientifica è molto allargata. Sicuramente chi ha avuto la fortuna come me di innestare le proprie competenze in aree nuove e di grande interesse non solo scientifico ma anche sociale ne ha tratto vantaggio. La chimica è una disciplina ed un chimico tale rimane in qualsiasi ambito applichi le sue conoscenze. Mi piace far notare che i top scientists italiani che si occupano di clima sono solo quattro (due chimici, un fisico ed un agrario) e sono al loro interno molto interdisciplinari!

 

Veniamo ora a te e alla tua formazione. Che cosa ti ha spinto a scegliere il Corso di Laurea in Chimica? Quando ti sei laureata? Con quale tesi?

Ho scelto chimica quasi per caso, fino all’ultimo indecisa fra chimica ed astronomia provenendo da un liceo classico dove le materie scientifiche erano limitatamente approfondite . Mi sono laureata nel 1985 con una tesi in chimica analitica su composti organici in goccioline di nebbia. Ricordo di averla scelta perché l’idea di studiare i processi che avvengono nelle nubi (la nebbia è una nube al suolo) mi pareva si coniugasse meglio con il fascino che il cielo ha sempre esercitato su di me e fosse un modo di ricongiungermi alle mie antiche “aspirazioni astronomiche”.

Hai qualche ricordo curioso delle tue prime esperienze di laboratorio?

Sì, ricordo quanto mi piaceva smontare e rimontare l’HPLC del laboratorio di analitica e quando, in assenza del mio Relatore, Prof. Chiavari, che per alcuni mesi si recò in Somalia, chiedevo consigli a te che ti trovavi nel laboratorio di fronte al mio o al Prof. Tagliavini, al piano di sopra a chimica organica o al Direttore del Corso di Laurea, Prof. Ripamonti. Credo di aver imparato molto in quel periodo e di aver sempre recepito l’entusiasmo per la ricerca.

Dopo la laurea che posizioni hai ricoperto?

Sono stata per un lungo periodo (6 anni) precaria al CNR nell’Istituto di Fisica dell’Atmosfera. Poi disperata me ne sono andata dopo aver vinto un posto ad ARPA. Lì ho rimpianto per quattro lunghi anni il mondo della ricerca continuando a lavorare a pubblicando. Poi finalmente è uscito il primo e unico concorso al CNR dove si richiedevano competenze di Chimica dell’Atmosfera: l’ho vinto alla veneranda eta’ (allora, non al giorno d’oggi!) di 36 anni.

Hai avuto incarichi internazionali?

Si ho ricoperto vari incarichi internazionali: mi piace qui ricordarne uno perché mi ha riportato al mio Istituto di Chimica di Bologna . Due anni fa sono stata nominata in una commissione per selezionare il miglior Mentore Italiano, un premio assegnato dalla Rivista Nature in un paese ogni anno diverso. Ho avuto l’onore di premiare un mio adorato insegnante, il Prof. Balzani, che mi ha trasmesso tanto entusiasmo per la chimica. Questa opportunità mi ha riempito di gioia e di un senso di orgogliosa appartenenza ad una eccellenza del mondo accademico italiano, la Scuola di Chimica dell’Istituto Ciamician di Bologna.

Quali sono state le più importanti soddisfazioni della tua vita professionale?

Sicuramente due pubblicazioni, entrambe sulla rivista Nature, dove ho collegato le proprietà della materia organica presente nelle particelle di aerosol atmosferico alla microfisica delle nubi ed ai cambiamenti climatici. Quelli sono stati anni bellissimi in cui ho ricevuto fondi europei per continuare tali ricerche che hanno fatto la mia fortuna scientifica…. e pensare che entrambe le pubblicazioni sono nate da esplorazioni dettate da curiosità, al di fuori dei progetti finanziati!

Attualmente di che cosa ti occupi in maniera specifica?

Mi occupo di cambiamenti della composizione dell’atmosfera prodotti dalle attività umane, in particolare di aerosol organici e della loro interazione con l’acqua atmosferica (nubi, foschie, precipitazioni ). Ad esempio, studio gli aerosol naturali prodotti dal mare o dalle foreste per capire i cambiamenti che essi stanno subendo a contatto con sostanze emesse dalle attività antropiche e come questo modifica le loro proprietà climatiche (diffusione ed assorbimento della radiazione, processi di formazione di nubi).

Un paio d’anni fa ho letto sul web journal “Scienza in Rete” un tuo articolo dal titolo categorico: “Il clima cambia ed è colpa dell’uomo”. Sei ancora convinta che sia così?

Ne sono sempre più convinta, particolarmente dopo avere partecipato con altri 600 scienziati alla stesura del recente 5° Rapporto dell’IPCC, l’organismo delle Nazioni Unite che si occupa dello stato del clima della Terra. Spero che oggi possano convincersene tutti gli abitanti del Pianeta Terra!

Che cosa si dovrebbe fare?

Si dovrebbe abbandonare l’uso di combustibili fossili e dirigersi verso un uso integrale delle energie rinnovabili. Le tecnologie esistono, il resto è solo una questione di decisioni di politica economica. Credo che compito della mia generazione di scienziati sia chiarire ai cittadini che né il petrolio né i gas combustibili sono indispensabili per assicurare la crescita economica ma, al contrario, le energie rinnovabili sono la vera opportunità per le generazioni future.

Finiamo con una domanda personale che forse vorrebbero rivolgerti le studentesse che seguono il blog. Hai trovato particolari ostacoli, in quanto donna, nello sviluppo della tua carriera? Come sei riuscita a conciliare le esigenze della famiglia e quelle del lavoro?

All’inizio della mia carriera ho trovato qualche difficoltà a muovermi in un mondo allora prettamente maschile ma ora, fortunatamente, il panorama è molto mutato. Non ho una ricetta, solo alcuni componenti: un marito che mi ha sostenuto e mi ha aiutato a non soccombere ai sensi di colpa della “mamma Italiana” che abbandona la sua creatura al papà e alle baby sitters, una buona dose di entusiasmo e di autostima, mai rinunciare alla propria femminilità e…un po’ di fortuna, senza falsa modestia!

Hai qualche consiglio da dare a chi vorrebbe intraprendere la carriera del ricercatore?

Scegliere ciò che ci piace e ci incuriosisce, non stancarsi di studiare la propria materia ma continuare a leggere di tutto, giornali, romanzi d’amore, trattati di filosofia, qualsiasi cosa che ci lasci attaccati al nostro mondo. Credo sia importante non perdere la dimensione della nostra missione sociale, portare la scienza ad ausilio della società… e non smettere di voler comunicare la bellezza di questo lavoro a chi è giovane o a chi non ha avuto la fortuna di poterlo fare.

Grazie, Maria Cristina, per la cortese disponibilità. Buon 8 Marzo e buon proseguimento!