Nell’Antropocene, l’epoca geologica attuale fortemente caratterizzata dalle attività dell’uomo, la Chimica ha il compito di custodire il pianeta e aiutare a ridurre le diseguaglianze mediante l’uso delle energie rinnovabili e dell’economia circolare.
Il riciclo di plastiche diverse mescolate negli stessi rifiuti è piuttosto difficile, non solo per il lavoro richiesto per separarle ma soprattutto perché la mescolanza risulta inadatta a un adeguato riciclo.
Per ottenere una migliore miscelazione della plastica, i ricercatori guidati dai proff. Eugene Y.-X. Chen della Colorado State University e Sanat Kumar e Tomislav Rovis della Columbia University hanno incorporato molecole reticolanti come parte del processo di riciclaggio [1]. Il risultato è una plastica riciclabile più resistente da polimeri comuni, tra cui polietilene a bassa densità e polietilene ad alta densità. Afferma Chen: quando vengono combinati per il riciclaggio, diversi tipi di plastica tendono a formare chiazze invece di mescolarsi uniformemente, tuttavia l’aggiunta del 5% in peso di crosslinker a base di bis-diazirina (fig. 1) uniforma le macchie.
Figura 1. Bis-diazirina
La Bis-diazirina è una molecola derivata dall’unione di due diazirine[2] legate insieme il cui carattere essenziale sono gli anelli N−N−C ipertensionati. Quando, com’è il caso, i due radicali alchilici sono fluorurati potrebbe esserci il carattere PFA ma forse non deciderebbe la natura ultima della sostanza. Il composto è prodotto da Sigma Aldrich−Merck ma non è disponibile in Italia.
Questa sostanza/miscela non contiene componenti considerati sia persistenti, bioaccumulabili che tossici (PBT), oppure molto persistenti e molto bioaccumulabili (vPvB) a concentrazioni di 0.1% o superiori.
La bis-diazirina reticolante può letteralmente attivare le catene polimeriche e collegarle insieme, per formare un copolimero multiblocco”. Le estremità della molecola linker si impigliano nelle catene polimeriche, mentre una reazione chimica reversibile al centro utilizza un tioestere, un disolfuro o un’anidride acida per legare insieme le catene polimeriche (fig. 2).
Figura 2. Le immagini al microscopio elettronico a scansione (SEM) mostrano che le plastiche miste senza un reticolante formano macchie quando combinate (in alto), rendendo la plastica riciclata debole e fragile. L’aggiunta di reticolanti a base di bis(diazirina) costringe i polimeri a riunirsi in modo più fluido. Credit: Nature.
Questa strategia ha funzionato con diversi tipi di plastica, inclusi sacchetti di plastica e bicchieri colorati.
Afferma Susannah Scott, chimica dei polimeri, (Università della California, Santa Barbara): “Un problema con il riciclaggio dei rifiuti di plastica è il costo della separazione, che può essere proibitivo rispetto al valore della plastica riciclata. L’aggiunta di reticolanti potrebbe ridurre parte di questa necessità di separare la plastica prima del riciclaggio, il che potrebbe ridurre i costi.” Tuttavia, potrebbero esserci ancora problemi con la stabilità a lungo termine quando gli scienziati combinano polimeri biodegradabili con quelli non biodegradabili.
Chiaramente si tratta tuttora di esperimenti in laboratorio che potrebbero avere sviluppi interessanti per il riciclaggio delle materie plastiche.
M.L. Lepage et al. A broadly applicable cross-linker for aliphatic polymers containing C–H bonds. Polymer Chemistry, Science, 2019, 366, 875–878. DOI: 10.1126@science.aay6230
F. J. de Zwart, J. Bootsma, B. de Bruin, Cross-linking polyethylene through carbenes. Polymer Chemistry, Science, 2019, 366, 800. DOI: 10.1126@science.aaz7612
[1] Tradotto e adattato da L. K. Boerner, Crosslinkers force mixed plastics to blend., C&EN, April 27, 2023
[2] Le diazirine sono una classe di molecole organiche costituite da un carbonio legato a due atomi di azoto, che sono uniti tra loro con doppio legame, formando un anello simile al ciclopropano, dove gli atomi H sono sostituiti da gruppi radicali areni o alchilici (R). Sono state scoperte nei primi decenni del 2000 e sono largamente utilizzate come marcatura dei recettori, negli studi sui substrati enzimatici e nelle ricerche sugli acidi nucleici. Da alcuni ricercatori australiani e canadesi è stato sviluppato un tipo di colla in grado di unire fra loro materiali in polietilene. http://it.scienceaq.com/Chemistry/1002085355.html
I chimici organici hanno dimostrato che il composto 1,2,3-cicloesatriene (figura 1) partecipa rapidamente a una vasta gamma di reazioni di cicloaddizione, addizione nucleofila e inserimento di legami σ, consentendo ai ricercatori di costruire architetture molecolari complesse in pochi passaggi.
Fig. 1. 1,2,3-cicloesatriene
Gli isomeri del benzene hanno catturato l’immaginazione dei chimici organici per decenni e gli studi su strutture tese insolite come il Dewar-benzene (scoperto nel 1963) e il prismano (scoperto nel 1973), si sono dimostrati fondamentali per la comprensione della teoria della risonanza e dell’aromaticità (figura 2).
Fig. 2 Dewar-benzene e prismano. Credit: AV Kelleghan et al. Nature 2023.
Allo stesso modo, i parenti ad alta energia del benzene come il benzino[2] e l’1,2-cicloesadiene hanno suscitato un notevole interesse, la loro propensione a reazioni promosse dalla deformazione li rende preziosi intermedi sintetici.
L’1,2,3-cicloesatriene (sintetizzato nel 1990) non ha ricevuto lo stesso grado di attenzione. A differenza dei doppi legami coniugati alternati del benzene, le tre olefine contigue dell’1,2,3-cicloesatriene mancano di qualsiasi aromaticità stabilizzante e la struttura ad anello tesa, risultante dalla distorsione della geometria lineare naturale del carbonio ibridato sp, ha portato molti a credere che questo isomero fosse semplicemente troppo instabile per essere sinteticamente utile.
Frederick West, chimico organico dell’Università di Alberta (Canada) afferma: ”Se dovessi provare a costruire questa specie con modelli in plastica, li romperei sicuramente. La deformazione angolare estrema che subisce questo intermedio lo rende altamente reattivo e il rilascio di deformazione nel prodotto finale rende le sue reazioni altamente favorevoli dal punto di vista termodinamico.”
Fig. 3 In precedenza era stato fatto poco lavoro con gli 1,2,3-cicloesatrieni, rendendolo un obiettivo interessante da valutare più ampiamente come reagente. Credit: AV Kelleghan et al. Nature 2023.
Gli studi DFT (Density Functional Theory) eseguiti da Neil Garg e dal suo gruppo all’Università della California (Los Angeles) hanno evidenziato l’entità di questo effetto di deformazione: l’angolo di legame interno dell’1,2,3-cicloesatriene era di ben 11° più ampio di quello del benzene, rappresentando circa 50kcal/mol di energia di deformazione (circa quattro volte la deformazione trovata nel ciclopropano) e molto simile all’angolo interno del benzino. I modelli elettronici hanno rivelato ulteriori somiglianze con il benzino, suggerendo che l’1,2,3-cicloesatriene mostrerebbe un profilo di reattività elettrofila simile e subirebbe una varietà di reazioni di intrappolamento.
Fig.4 Gli studi DFT hanno rivelato che l’1,2,3-cicloesatriene è, ovviamente, sottoposto a enormi sollecitazioni e quindi è altamente reattivo. Credit: AV Kelleghan et al. Nature 2023.
Il gruppo ha utilizzato un metodo sperimentato negli anni ’90 per generare l’intermedio reattivo 1,2,3-cicloesatriene da un precursore silil triflato, controllando la reazione introducendo una varietà di agenti di intrappolamento. Dopo un’eliminazione per formare il triene, le reazioni con dieni, immine, acetali chetenici e nucleofili hanno prodotto una vasta gamma di addotti ad anello, ciascuno contenente sostituenti reattivi per consentire ulteriori manipolazioni. “Quello che vediamo è principalmente la reattività del triene come sistema π, dove il legame medio C=C viene aperto in vari processi di cicloaddizione, lasciando gli altri due alcheni presenti nel prodotto come 1,3-dieni.
Garg ha quindi presentato una serie di reazioni di intrappolamento con l’analogo dimetil triene e ha utilizzato un gruppo sililico polarizzante per dimostrare la prevedibile regioselettività delle reazioni nucleofile in sistemi asimmetrici.
Diego Peña, un chimico organico all’Università di Santiago de Compostela (Spagna): commenta: “Questo è un lavoro eccellente che evidenzia il potenziale degli intermedi ciclici deformati nella sintesi organica. Un ovvio passo successivo sarebbe quello di esplorare la reattività dell’1,2,3-cicloesatriene in altre reazioni tipiche di intermedi ciclici deformati, ad esempio reazioni di inserimento di legami, trasformazioni catalizzate da metalli e sintesi asimmetrica. Inoltre, sarebbe interessante confrontare la reattività di questo anello a sei membri con i corrispondenti derivati dell’anello a cinque e sette membri.”
Il gruppo spera che il suo lavoro ispiri altri a esplorare e sfruttare il potenziale sintetico di questi reagenti ad alta energia in futuro.
Bibliografia
A.V. Kelleghan et al, Strain-promoted reactions of 1,2,3-cyclohexatriene and its derivatives. Nature, April 2023, DOI: 10.1038/s41586-023-06075-8
[1] Tradotto e adattato da: V. Atkinson, Benzene’s forgotten isomer takes centre stage in organic synthesis., ChemistryWorld, 2 may 2023
[2] Il benzino è una molecola altamente reattiva nelle sintesi organiche. L’esistenza del benzino fu postulata nel 1940 e confermata sperimentalmente nel 1953. Rispetto al benzene contiene un legame π in più ma è sempre aromatica, le evidenze spettroscopiche mostrano un legame dalle caratteristiche intermedie tra un doppio e un triplo legame.
Negli ultimi anni del blog ho riportato le biografie di più di quaranta scienziate che hanno dato fondamentali contributi allo sviluppo delle scienze chimiche e discipline affini dalla metà del XIX secolo alla metà del XX, da Martha Annie Whiteley a Rachel Carson, da Ida Noddack a Rosalind Franklin, raccogliendole poi in un volume cronologico. Oggi vorrei fare un omaggio a Justine Siegemund, un’ostetrica e scrittrice della fine del 1600 che è forse stata la prima a fornire indicazioni precise sul parto in un libro-manuale su di esso e le sue possibili complicazioni. Oggi le donne partoriscono generalmente in appositi reparti medici ospedalieri e ciò è stato probabilmente reso possibile anche dal lavoro di Siegemund.
Nata a Rohnstock in Bassa Slesia (oggi Roztoka in Polonia), figlia del pastore luterano Elias Diettrich, rimase orfana a quattordici anni. Diciannovenne, nel 1655 sposò il contabile Christian Siegemund ma la coppia rimase senza figli per i quarantadue anni di matrimonio, sostenendosi a vicenda nelle loro carriere professionali. A 21 anni, Siegemund soffrì di prolasso uterino, diagnosticato erroneamente. Questa dolorosa esperienza la spinse a istruirsi in ostetricia. Iniziò a praticare nel 1659, quando le fu chiesto di assistere un caso di travaglio ostruito dovuto a un braccio fetale fuori posto. Fino al 1670 fornì servizi di ostetricia gratuiti alle donne povere della sua zona. La base di clienti paganti crebbe fino a includere famiglie di mercanti e nobili.
Figura 1. Justine Siegemund
Siegemund fu chiamata dai medici di Luise, duchessa di Legnica, per un tumore cervicale, che rimosse con successo, tuttavia Martin Kerger, il suo ex supervisore, l’accusò di praticare parti non sicuri. I colleghi di Kerger alla facoltà di medicina di Francoforte, si schierarono con Siegemund e le stesse dichiarazioni di Kerger dimostrarono che gli mancava la conoscenza professionale basata sull’esperienza pratica delle anatomie riproduttive e del parto delle donne.
Nel 1683 Federico Guglielmo I di Brandeburgo la nominò ostetrica di corte e in tale veste aiutò Maria Amalia di Brandeburgo a partorire quattro figli. Nel 1696, alla corte di Augusto II re di Polonia, fu l’ostetrica di Cristiana di Brandeburgo-Bayeruth assistendola al parto del futuro Augusto III di Polonia. Allo stesso tempo assistette ad altri parti nell’area di Berlino.
A Lipsia, Andreas Petermann la accusò di reati simili a quelli che Kerger aveva già avanzato, ma data la sua esperienza professionale Siegemund riuscì ancora una volta a superare questa sfida alla sua reputazione.
Siegemund usava raramente i prodotti farmaceutici o gli strumenti chirurgici dell’epoca per la sua pratica.
Secondo il diacono di Berlino, dove Siegemund morì il 10 novembre 1705, aveva fatto nascere circa 6.200 bambini.
Ma ciò che la rese famosa fu la pubblicazione, nel 1690 del libro in tedesco: Die chur-Brandeburgische Hoff-Wehe-Mutter, das ist: ein Hoechst-noethiger Unterricht, von schweren und unrecht-stehenden Geburten, in einem Gespraech vorgestellet (Un’ostetrica alla corte di Brandeburgo, cioè una lezione quanto mai necessaria sui parti difficili e problematici, sotto forma di conversazione). Il libro è noto nel mondo anglofono per lo straordinario lavoro di ricerca e di editing scientifico di Lynne Tatlock (The Court Midwife, 2005, University of Chicago Press, Chicago, 2005). L’opera originale è disponibile sul sito della biblioteca Wolfenbüttel.
Il libro di Justine Siegemund è composto da circa 300 pagine ed è presentato sotto forma di un dialogo tra l’apprendista ostetrica Christina e l’autrice. Quest’ultima utilizza così un formato molto di moda all’epoca, il dialogo[1], con uno scopo chiaramente educativo, poiché desidera soprattutto formare ostetriche “ignoranti”.
Figura 2 Frontespizio del libro di Siegemund edizione 1723
Il libro contiene molti esempi tratti dalla sua esperienza e non evita le ripetizioni. La didattica, tuttavia, non è ovviamente l’unico obiettivo di questo libro. Justine Siegemund pubblica verbali di processo, testimonianze (indubbiamente a suo favore) di persone che hanno assistito a parti problematici. In tal modo, sembra volersi giustificare e mettere a tacere i calunniatori.
Il volume fornisce informazioni non solo sul modo in cui l’ostetricia si è evoluta verso la fine del XVII secolo, ma anche sulla categoria socio-professionale delle ostetriche, sulle pratiche e le norme intorno alla nascita, sulla rappresentazione che alcune ostetriche potevano avere delle partorienti.
Le rappresentazioni pittoriche le hanno permesso di farsi una prima idea precisa dell’anatomia femminile e dei problemi che la posizione del feto può porre. Questo è probabilmente il motivo per cui insistette per includere alcune incisioni nel libro. Voleva che fossero di alta qualità e il più precise possibile. Le incisioni embriologiche e anatomiche sono dell’anatomista Regnier de Graaf (1641-1673) e del medico, anatomista e drammaturgo Govard Bidloo (1649-1713), che aumentarono l’utilità pratica del volume. Tuttavia, i feti vengono ancora visti fluttuare nell’utero anche quando la gravidanza volge al termine.
Figura 3 Incisioni dal libro di Justine Siegemund
Il carattere irrealistico delle rappresentazioni non significa che le ostetriche, o i medici, ritenessero che i feti potessero galleggiare in uteri sproporzionati. Per la sua grande esperienza, Siegemund sa perfettamente che il feto finisce per essere stretto nel grembo di sua madre.
Seguì anche per dodici anni un tirocinio pratico insieme a un’altra ostetrica. Affermò di aver lavorato con i più poveri senza pretendere uno stipendio. Questo argomento, sottolineato più volte, le permise di evidenziare il suo sacrificio mentre trattava con i potenti per la pubblicazione della sua opera. Nel 1689, Siegemund viaggiò da L’Aia a Francoforte sull’Oder e presentò la sua bozza di manuale alla facoltà di medicina di Francoforte sull’Oder, che approvò la sua documentazione medica.
Nel libro, Siegemund descrive le pratiche del suo tempo. Così, apprendiamo che le ostetriche si spalmavano le mani con birra o burro prima di esaminare la cervice delle partorienti e che spesso c’erano diverse ostetriche per assistere una donna durante il parto.
I destinatari del suo lavoro sono le ostetriche. Si rifiuta di incolpare le ostetriche ignoranti e si propone di istruirle su come diagnosticare potenziali complicazioni durante il parto e su come porre rimedio alla situazione. D’altra parte, si ribella alle “levatrici” che persistono nella loro ignoranza quando avrebbero a disposizione uno strumento di apprendimento.
Proponendo processi che non fanno parte del sapere tradizionale delle ostetriche, teme che queste ultime abbiano una reazione di rifiuto nei confronti del suo lavoro, che tuttavia considera salvavita. Questa autodidatta ha inventato una tecnica per rimuovere i tumori dall’utero senza aprire lo stomaco dei pazienti, offrendo loro così una migliore possibilità di sopravvivenza. Rimuove il grumo circondandolo con un nastro e poi lo taglia. Usa un nastro simile per girare il feto nell’utero se il parto va male: “dovresti legare un nastro a un piede e muoverlo delicatamente in questo modo”. Ha anche inventato una manipolazione apparentemente ancora usata oggi in caso di placenta previa (quando la placenta non è posizionata nella parte superiore dell’utero come dovrebbe, mettendo così in grave pericolo la vita della madre e del bambino). Questa è una posizione nuova in un momento in cui affidarsi a Dio in situazioni apparentemente senza speranza era un atteggiamento diffuso e raccomandato dalle autorità religiose.
Alla fine del XVII secolo, le ostetriche come Siegemund non volevano incorrere nell’ira di medici scontenti che avrebbero potuto privarle del loro sostentamento. Così Siegemund sostiene di non essere in grado di distribuire farmaci, essendo la prescrizione delle cure una prerogativa dei medici. Ammette che potrebbe, se necessario, somministrare alcuni farmaci, ma solo in caso di emergenza o per evitare inutili viaggi dai medici oberati di lavoro. Probabilmente spera di essere perdonata per aver ecceduto i suoi diritti se è per aiutare i medici che sembra semplicemente sostenere.
Il libro è sistematico e basato sull’evidenza nella sua presentazione di possibili complicazioni del parto, inclusi problemi come sistemazioni scadenti, problemi al cordone ombelicale, placenta previa e la loro gestione. Nel testo, Siegemund ha presentato una soluzione al feto capovolto, a quei tempi una situazione spesso catastrofica che portava alla morte del bambino e potenzialmente della madre. Ha elaborato un intervento a due mani per ruotare il bambino nell’utero, assicurando un’estremità con un’imbracatura. È anche accreditata (insieme al medico ostetrico François Mauriceau 1637-1709) di aver trovato un metodo per affrontare un’emorragia della placenta perforando il sacco amniotico.
Dopo la morte di Siegemund, il volume subì numerose ripubblicazioni, tra cui Berlino (1708) e Lipsia (1715 e 1724), con modifiche che includevano citazioni ginecologiche maschili. Le ripubblicazioni nel 1723, 1741, 1752 e 1756 includevano anche resoconti dei casi Kerger e Petermann.
Opere consultate
S. Chapuis-Després, La sage-femme aux petites mains, Prendre Corps, Hipoteses, 12/03/2015, aggiornato 02/10/2015 https://corpsgir.hypotheses.org/146
J. Glausius, How sketches of the womb have empowered and oppressed women over the ages, Nature2023, 616(7957), 431-432.
[1] Famosissimi il “Dialogo sui due Massimi Sistemi” di Galileo (1564-1642) e di René Descartes (Cartesio 1596-1650) “Sur la Methode” pour bien conduire sa raison et chercher la verité dans les Sciences”.
Lo scorso 13 aprile, su Chemistry World (newsletter della Royal Society of Chemistry), Vanessa Seifert, ricercatrice in filosofia della scienza, ha scritto un breve saggio su questo argomento[1] che qui traduco adattandolo.
Figura 1. Vanessa Seifert
Il saggio inizia affermando che il primo chimico nella storia è stata Tappūtī-bēlat-ekalle, donna a capo di un gruppo di profumiere nell’antica Assiria, intorno al 1200 a.C. Sono state infatti scoperte tavolette con le sue ricette di profumi che descrivono, tra le altre cose, come effettuare processi chimici di base, tipo l’estrazione a caldo e la filtrazione [1].
Figura 2. Copertina del libro citato in [1]
Ricordando il giorno della donna nella scienza, quali sarebbero i modi sfaccettati in cui questa giornata possa promuovere l’uguaglianza delle donne, specialmente nell’ambito della chimica? Ricordare le storie di donne come Tappūtī-bēlat-ekalle aiuta a chiarire il fatto che i loro contributi alla chimica sono stati costantemente trascurati. La semplice informazione al pubblico su questi dettagli storici è preziosa in quanto ci aiuta a rivedere i nostri preconcetti sulla presenza delle donne nella chimica. Tuttavia, rivela anche un altro problema: perché tali dettagli non sono stati incorporati nella storia della chimica e nei libri di testo per l’insegnamento? A sua volta, questo fa sorgere un’altra domanda. Su quali basi riconoscere attori specifici nella ricostruzione storica di una scienza? C’è una buona ragione per cui Robert Boyle è celebrato come il “padre della chimica”, mentre Tappūtī-bēlat-ekalle è ampiamente trascurata?
Tali domande non hanno una risposta semplice in quanto richiedono la definizione dei criteri con cui identifichiamo qualcuno come storicamente importante. Ad esempio, è sufficiente la scoperta di un nuovo fatto chimico? È necessario ricoprire una posizione accademica o di ricerca in un’istituzione consolidata o produrre una quantità sostanziale di pubblicazioni molto citate? I premi Nobel o altri riconoscimenti prestigiosi sono buoni indicatori? Oppure è necessario essere attivi nella propria comunità scientifica, prendere parte a conferenze internazionali, redigere o recensire riviste scientifiche, acquisire fondi e così via?
Più andiamo indietro nella storia della chimica, più è difficile applicare tali criteri. Tuttavia, anche nei casi in cui possono essere applicati, vediamo che il ruolo delle donne nella chimica non è riconosciuto allo stesso modo di quello degli uomini. Ci sono diversi esempi di donne che hanno contribuito alla ricerca scientifica ma non sono state riconosciute in quanto i loro mariti o supervisori si sono presi il merito. Marie Lavoisier è un esempio calzante. Ci sono altre che, nonostante il loro lavoro, non hanno acquisito una posizione accademica, o a cui sono stati offerti solo incarichi amministrativi o di segreteria o hanno ricevuto una retribuzione inferiore rispetto ai loro colleghi. La biochimica Gerty Cori ne è un esempio: le università volevano solo assumere suo marito Carl, nonostante lavorassero insieme e avessero ottenuto insieme un premio Nobel. Alla fine si stabilirono nella Washington University School of Medicine, che offrì a suo marito la cattedra di farmacologia e a lei il ruolo di assistente di ricerca. Inoltre, ci sono casi di plagio (l’esperienza di Rosalind Franklin ne è un esempio tipico) in cui pubblicazioni o risultati di ricerche sono stati attribuiti a figure che detenevano posizioni di potere più elevate.
Tali storie ci aiutano a capire i modi precisi in cui le donne (e altri gruppi di persone sottorappresentati) sono stati trascurati o esclusi dalla pratica scientifica. In generale, questa discussione fa parte della cosiddetta “critica della scienza” che viene perseguita all’interno della storia femminista e della filosofia della scienza. Questo campo è stato istituito intorno agli anni ’70 e illumina i diversi modi in cui le donne (e di conseguenza altri gruppi minoritari) sono state costantemente sottovalutate all’interno della scienza. Ciò include l’esame dei modi in cui la scienza mantiene i pregiudizi sessisti nelle sue teorie e pratiche, nonché i modi in cui viene invocata per stabilire l’inferiorità delle donne.
Le cose non vanno così male come tempo fa, tuttavia, la pratica scientifica è ancora strutturata in modo tale da escludere in pratica le donne dalla scienza. Ad esempio, la moda esistente di determinare il successo accademico in termini di h-index (che misura il numero di citazioni per pubblicazione) indebolisce molte donne, in particolare le madri, nella loro ascesa a posizioni accademiche più elevate. Questo perché le donne sono più propense degli uomini a prendere delle interruzioni professionali per motivi come il congedo di maternità, con conseguenti h-index più bassi [2].
Da tutto ciò non si deve dedurre che l’intera storia della chimica così come è presentata nella sua forma attuale sia completamente fuorviante o falsa. L’obiettivo è contribuire a una storia più equilibrata ed equa e superare i pregiudizi esistenti nei confronti di gruppi di persone sottorappresentati. Che ci piaccia o no, è ancora difficile lavorare come chimico per una donna, una persona di colore o una persona LGBTQ+. Ricordare le donne nella storia della chimica ogni marzo è una preziosa opportunità per riconoscere e superare questo problema, non solo a beneficio di questi gruppi sottorappresentati, ma anche a vantaggio della chimica stessa. Dopotutto, come disse una volta James Clerk Maxwell, “…in Science, it is when we take some interest in the great discoverers and their lives that it becomes endurable, and only when we begin to trace the development of ideas that it becomes fascinating” (nella scienza, è quando ci interessiamo ai grandi scopritori e alle loro vite che diventa sopportabile, e solo quando iniziamo a tracciare lo sviluppo delle idee che diventa affascinante) [3].
Desidero infine ricordare che recentemente ho pubblicato un libro con le biografie di più di 40 donne (dalla metà del XIX al XX secolo) che hanno dato contributi fondamentali alle scienze chimiche, dal titolo Chimica al femminile, Aracne, Roma 2019.
Bibliografia
[1] H. Wills, S. Harrison, E. Jones, F. Lawrence-Mackey, and R. Martin, eds. Women in the History of Science: A Sourcebook. UCL Press, 2023. https://doi.org/10.2307/j.ctv2w61bc7
Circa 30 anni fa, quando Andrew Bocarsly, professore di chimica alla Princeton University, pubblicò il suo primo studio sull’uso dell’elettrochimica per convertire l’anidride carbonica (CO2) in prodotti utili generò un interesse quasi nullo. Infatti, in quei giorni del 1994 non si parlava molto di gas serra e cambiamenti climatici. Dice Bocarsly: “Ero solito iniziare ogni discorso spiegando in dettaglio perché ridurre le emissioni di CO2 fosse un’ottima cosa da fare, perché non tutti avevano accettato l’idea anche solo 10 anni fa. Oggi sostengo che la CO2 sta avendo un impatto negativo sull’ambiente e dobbiamo davvero fare qualcosa al riguardo.”
Oggi, molti scienziati e ambientalisti riconoscono che i livelli di CO2 nell’atmosfera stanno aumentando rapidamente e che questo gas serra sta influenzando negativamente l’ambiente.
Dal 1982 al 2022, il livello atmosferico globale medio di CO2 è aumentato di oltre il 20%, da circa 340 ppm a 420 ppm. La maggior parte dell’aumento proviene da attività umane, come l’impiego di combustibili fossili nel trasporto e nell’industria. Nel 2021, le emissioni globali di CO2 causate dall’uomo ammontavano a circa 39,3 miliardi di tonnellate, secondo l’Organizzazione meteorologica mondiale.
Solo 3 o 4 anni fa c’era molta tensione agli incontri sulla CO2 tra i ricercatori che sostenevano di sequestrare la CO2 in profondità nel terreno e quelli che sostenevano che il modo migliore era di convertirla in altri prodotti chimici. Nel giugno 2022, il consenso tra i partecipanti alla 19a Conferenza internazionale sull’utilizzo dell’anidride carbonica a Princeton, era che nell’atmosfera c’è così tanta CO2 che un approccio singolo, sequestro o utilizzo, potrebbe risolvere il problema.
Estrarre una parte di CO2 dall’atmosfera e trasformarla chimicamente in qualcosa di utile sarebbe un grande vantaggio rispetto al sequestro del gas sotto terra, afferma la prof. Laura Gagliardi, direttrice del Center for Theoretical Chemistry dell’Università di Chicago. La chimica di conversione può essere guidata dall’elettricità o dal calore. Entrambi i processi di riduzione della CO2 verrebbero eseguiti in presenza di un catalizzatore per minimizzare l’apporto energetico richiesto. Secondo Gagliardi l’elettrocatalisi può essere più “verde” della catalisi termica, ma proprio come il pensiero sul sequestro rispetto all’utilizzo di CO2, per ridurre i livelli di gas serra si devono considerare entrambe le opzioni.
Riduzione elettrochimica
La riduzione della CO2 in un una cella elettrochimica, offre diversi vantaggi rispetto a quella termica. L’elettroriduzione può essere alimentate da elettricità rinnovabile, ad esempio dall’energia eolica e fotovoltaica che è in rapida crescita e più competitiva in termini di costi. A differenza dei reattori termici, che in genere riducono la CO2 facendola reagire con idrogeno ad alta temperatura e alta pressione, le celle elettrochimiche generalmente funzionano a temperatura ambiente e pressione atmosferica.
Quindi le celle possono essere relativamente semplici, piccole e poco costose rispetto ai reattori termici, che devono essere grandi per essere convenienti. Inoltre, la reazione termica richiede calore e una fornitura di idrogeno gassoso, entrambi solitamente provenienti da processi basati su combustibili fossili che emettono molta CO2. Il problema con l’elettroriduzione è che ha una bassa efficienza energetica e un controllo insufficiente della sua chimica. Nonostante questo problema, il concetto di elettroriduzione continua ad attrarre nuovi talenti, tanto che oggi il campo è pieno di attività: scienziati nel mondo accademico e industriale in diversi paesi stanno esaminando ogni parte della cella. Lo scopo è migliorare le prestazioni del processo, adattando le celle per ottenere composti utili e dare il via a un eventuale sviluppo commerciale.
Molti ricercatori stanno ottenendo molecole con più di un atomo di carbonio, direttamente nelle celle elettrochimiche.
Decidere quali prodotti ottenere, molecole con uno, due, tre o più atomi di carbonio, dipende principalmente da fattori economici, come il costo dell’elettricità e l’efficienza del processo. Nel caso dell’etilene, l’efficienza energetica dell’elettroriduzione è di circa il 25%; affinché il processo sia commercialmente utilizzabile dovrebbe arrivare al 50-60%.
La CO2 entra in una cella elettrochimica sul lato del catodo, dove interagisce con un catalizzatore, spesso un materiale particellare supportato su quell’elettrodo. La maggior parte del lavoro sulle celle elettrochimiche si concentra sul catalizzatore perché è ciò che dà inizio alla reazione, controlla l’energia e guida i reagenti per formare i prodotti. Piccoli cambiamenti nella composizione del catalizzatore possono avere un forte effetto sulle prestazioni della cella e sulla distribuzione del prodotto. In uno studio in questo senso, il gruppo di Sargent ha collaborato con Zachary Ulissi della Carnegie Mellon University, e ha utilizzato metodi quantistici per cercare catalizzatori in lega di rame per produrre etilene. I calcoli indicavano leghe rame-alluminio, quindi il team ne ha realizzate e testate una serie. Ha scoperto che l’efficienza faradica, una misura di quanto gli elettroni guidano la reazione desiderata, in questo caso CO2 a etilene, era dell’80%, superiore al 66% per il rame puro [1], figura 1.
Fig. 1 Preparazione di una cella elettrochimica per l’elettroriduzione di CO2. Nothwestern University
In uno studio correlato, il gruppo di Sargent insieme ai ricercatori dell’Università della Scienza e della Tecnologia di Pechino hanno cercato modi per adattare il rame per produrre catalizzatori che inducano la reazione di riduzione a ottenere alcoli multicarbonici rispetto all’etilene. Hanno scoperto che il rame insieme a ossido di bario forma etanolo e 1-propanolo in un rapporto di 3:1, che è 2,5 volte più selettivo del rame puro [2].
La personalizzazione dei catalizzatori è un modo per migliorare le prestazioni delle celle. Un altro modo è ridisegnare la cella. Questo è ciò che hanno fatto Zhu, Wang e i colleghi della Rice University. I prodotti liquidi offrono vantaggi rispetto ai gas perché possono essere trasportati e immagazzinati più facilmente e possono avere densità di energia più elevate. Ma i liquidi generalmente si accumulano nella soluzione elettrolitica della cella e devono essere separati e purificati, il che è costoso. Così il team della Rice ha sostituito il tradizionale elettrolita liquido, che trasporta gli ioni tra il catodo e l’anodo, con uno solido, un copolimero solfonato poroso e conduttore di ioni (figura 2 in basso).
Fig. 2 Le celle H (chiamate per la forma della cella con due grandi camere) e le celle a flusso (chiamate per il flusso di reagenti lungo canali simili a serpenti) usano l’elettricità per convertire l’anidride carbonica in prodotti chimici. In entrambe le celle, la CO2 entra nel dispositivo e fluisce verso un catodo rivestito con un catalizzatore, che riduce il gas a intermedi che vanno a formare monossido di carbonio, etilene e altri prodotti. Per completare la reazione, l’acqua in una soluzione elettrolitica subisce ossidazione all’anodo mentre gli ioni fluiscono attraverso una membrana conduttiva. Adattato da Nat. Sustain./Yang H. Ku/C&EN/Shutterstock
Per testare il progetto, il team ha installato una cella con un catalizzatore di nanoparticelle di bismuto che converte la CO2 in acido formico, che viene utilizzato in grandi quantità come detergente e nella produzione chimica e tessile. La reazione ha formato formiato e ioni idrogeno, che si sono combinati nell’elettrolita solido, generando molecole di acido formico. Il team ha fatto scorrere un flusso di gas inerte attraverso l’elettrolita e ha raccolto il prodotto condensato con una purezza quasi del 100% [3].
Le celle convenzionali hanno un altro difetto: il catalizzatore di rame si degrada gradualmente, il che porta a scarse prestazioni e bassa selettività per l’etilene.
Meenesh Singh, un ingegnere chimico dell’Università dell’Illinois spiega che la forma attiva del catalizzatore è un ossido di rame. Ma la tensione della cella necessaria per ridurre la CO2 riduce anche l’ossido di rame, trasformandolo lentamente in rame metallico inattivo. La soluzione di Singh consiste nel far oscillare il potenziale elettrico, passando rapidamente da una piccola tensione negativa, che genera etilene, a una piccola tensione positiva, che rigenera l’ossido di rame [4].
Un altro componente della cella che può avere margini di miglioramento è l’elettrolita. Le soluzioni acquose, alcaline o acide, sono standard. Ma non sono l’unica opzione. Buxing Han e colleghi, dell’Accademia Cinese delle Scienze, hanno valutato un gran numero di liquidi ionici come elettroliti per l’elettroriduzione della CO2.
Gli elettroliti liquidi ionici possono fornire molti vantaggi rispetto agli elettroliti acquosi, possono avere una maggiore conducibilità e stabilità elettrica, e possono essere utilizzati su una finestra elettrochimica più ampia o su un più ampio intervallo di tensione. I liquidi ionici sono più costosi degli elettroliti standard ma possono essere usati ripetutamente e quindi rendere più facile la separazione dei prodotti.
Qinggong Zhu, un collaboratore di Han, sottolinea che la CO2 è altamente solubile in liquidi ionici, il che favorisce velocità di reazione elevate, al contrario la solubilità della CO2 nelle soluzioni acquose è piuttosto bassa, il che porta a una scarsa efficienza della sua conversione.
Han e colleghi hanno recentemente compilato un’ampia revisione dei liquidi ionici utilizzati per l’elettroriduzione della CO2 [5].
La commercializzazione su larga scala dell’elettroriduzione di CO2 non avverrà dall’oggi al domani, ma l’entusiasmo per la tecnologia sta crescendo rapidamente.
Afferma Bocarsly: “Fino a 10 o 20 anni fa, le persone erano molto scettiche sul fatto che saremmo mai stati in grado di convertire la CO2 in qualcosa di utile che non fosse così costoso che nessuno sarebbe stato interessato ad acquistare. I tempi sono cambiati e le persone stanno iniziando a pensare che sia commercialmente fattibile. Si può discutere sulla bassa efficienza di un prodotto multicarbonio o di un altro, ma questo significa che sai già come farlo. Non c’è dubbio che ciò accadrà”.
Ovviamente le affermazioni di Bocarsly sono quantomeno ottimistiche, c’è anche la questione della sostenibilità ambientale sulla valutazione del ciclo della vita (LCA). A questo proposito Roberta Gagliardi su ilfattoquotidiano.it del 14 marzo scorso scriveva un post dal titolo: I carburanti bio e sintetici sono poco sostenibili, rimandare le e-car danneggerà solo l’industria.
Articolo tradotto, adattato e ridotto da M. Jacoby, Turning carbon dioxide into a valuable re source, C&EN, March 5, 2023.
Bibliografia
[1] M. Zhong et al., Accelerated discovery of CO2 electrocatalysts using active machine learning., Nature, 2020, 581,178–183.
[2] Aoni Xu et al., Copper/alkaline earth metal oxide interfaces for electrochemical CO2-to-alcohol conversion by selective hydrogenation., Nature Catalisys, 2022, 5,1081–1088.
[3] Lei Fan et al., Electrochemical CO2 reduction to high-concentration pure formic acid solutions in an all-solid-state reactor., Nature Communications, 2020, 11, 3633.
[4] Aditya Prajatapi et al., CO2-free high-purity ethylene from electroreduction of CO2 with 4% solar-to-ethylene and 10% solar-to-carbon efficiencies., Cell Reports Physical Science, 2022, 3, 101053. DOI:10.1016/j.xcrp.2022.101053
[5] D. Yang, Q. Zu, B. Han, Electroreduction of CO2 in Ionic Liquid-Based Electrolytes., Innovation, 2020, DOI: 10.1016/j.xinn.2020.100016
In questo post traduco, adattandolo, un articolo-review di Mark Peplow, pubblicato su C&EN news il 5 febbraio scorso.
I laboratori di ricerca sulle macchine molecolari aumentano di anno in anno, tanto che si può quasi udire il ronzio immaginario di questi dispositivi su scala nanometrica.
Negli ultimi due decenni, i ricercatori hanno assemblato una stupefacente serie di molecole con parti mobili che agiscono come macchinari in miniatura. Hanno realizzato motori con pale rotanti, pompe che raccolgono molecole dalla soluzione, assemblatori molecolari che mettono insieme peptidi e in grado di leggere i dati memorizzati su fili di nastro molecolare. Tra i pionieri in questo campo troviamo l’italiano Vincenzo Balzani,https://www.scienzainrete.it/contenuto/articolo/pietro-greco/balzani-pioniere-delle-macchine-molecolari-premiate-stoccolma
Jean-Pierre Sauvage, J. Fraser Stoddardt e Bernard L. Feringa che hanno ottenuto il premio Nobel per la chimica 2016.
Cosa possono fare questi dispositivi? Sebbene le applicazioni siano ancora relativamente lontane, i ricercatori stanno iniziando a vedere come le macchine molecolari potrebbero essere sfruttate per compiti utili. Ad esempio i motori molecolari possono flettere le nanofibre o riorganizzare i cristalli liquidi, che possono essere utilizzati per creare materiali reattivi e “intelligenti”.
Ora i ricercatori si stanno ponendo domande più profonde: come funzionano le macchine e come possiamo migliorarle? Le risposte, dicono alcuni, arriveranno studiando la cinetica e la termodinamica di questi sistemi per capire come l’energia e le velocità di reazione li fanno funzionare. Affrontare questi fondamenti potrebbe aiutare il campo a superare un approccio in qualche modo basato su tentativi ed errori alla costruzione di macchine e sviluppare invece un insieme più robusto di principi di progettazione.
I ricercatori stanno già iniziando a mettere a punto i combustibili chimici che guidano alcune macchine molecolari. Stanno anche costruendo macchine molecolari autonome che richiedono meno intervento da parte dei loro operatori umani, fintanto che è presente una scorta di carburante scelta con cura. Ma questa attenzione ai carburanti sta anche suscitando accesi dibattiti sui principi fondamentali del funzionamento di queste macchine. I motori sono forse il tipo più iconico di macchina molecolare. In genere operano attraversando un ciclo ripetuto di reazioni chimiche che modificano la forma della molecola e provocano il movimento, ad esempio la rotazione attorno a un legame o il movimento lungo una traccia. Per evitare che il motore si muova inutilmente avanti e indietro, i ricercatori hanno anche bisogno di un meccanismo che assicuri che si muova in una sola direzione.
Il primo motore molecolare rotativo sintetico completamente funzionante è stato presentato nel 1999 da Ben Feringa, dell’Università di Groningen. L’innovativo motore di Feringa conteneva due voluminosi gruppi chimici collegati da un doppio legame carbonio-carbonio. I gruppi ruotavano attorno a questo asse attraverso una serie di isomerizzazioni indotte dalla luce ultravioletta e dal calore. La chiralità della molecola motrice assicurava che i gruppi ingombranti potessero schiacciarsi l’uno accanto all’altro quando si muovevano in avanti nel ciclo ma non all’indietro [1].
Sulla sua scia sono seguiti dozzine di altri motori guidati dalla luce e sono stati sfruttati per una varietà di compiti, come la produzione di gel sensibili alla luce e il movimento di muscoli artificiali. La luce è una fonte di energia comoda e regolabile e non produce prodotti di scarto.
Fig.1 Questo motore autonomo contiene un anello (blu) che si muove in senso orario attorno a un binario circolare in quattro fasi. I siti di riconoscimento (verdi) ostacolano l’anello, mentre i gruppi ingombranti (rossi) ne impediscono l’avanzamento. Le molecole di carburante (sfere rosse) aggiungono questi gruppi bloccanti, che possono essere rimossi per produrre scorie (sfere arancioni). Copyright: Nature.
Tuttavia, per coloro che cercano di comprendere e imitare le macchine molecolari biologiche, come le proteine motrici che aiutano a trasportare il carico all’interno delle cellule, la luce non è sufficiente. La biologia ha utilizzato con successo pompe e motori molecolari per miliardi di anni, ma generalmente li guida con sostanze chimiche come l’adenosina trifosfato (ATP) piuttosto che con la luce. Per i chimici, quel precedente rappresenta una sfida irresistibile per lo sviluppo di macchine molecolari sintetiche alimentate da processi chimici.
Nel 1999, T. Ross Kelly del Boston College ha compiuto un passo importante verso tale obiettivo sviluppando un prototipo di motore alimentato a fosgene in grado di ruotare di 120° [2]. Sei anni dopo, Feringa costruì un motore rotativo ad azionamento chimico in grado di completare un giro completo attorno a un singolo legame C–C formando e rompendo un lattone che collegava le due unità del motore. Un agente riducente chirale fungeva da combustibile, aprendo il lattone e assicurando che il motore ruotasse in un’unica direzione [3].
I ricercatori hanno ora una serie di altre strategie di rifornimento [4]. Alcuni impiegano una serie di passaggi di protezione e deprotezione che aggiungono o rimuovono gruppi chimici pesanti dalla macchina. Altri variano il pH per far compiere a una macchina un ciclo completo. Un terzo approccio, sviluppato negli anni ’90, dipende da reazioni di ossidazione e riduzione.
La maggior parte di questi dispositivi azionati chimicamente si affida ai loro manipolatori umani per aggiungere il giusto tipo di carburante o altri reagenti in ogni punto del ciclo della macchina.
Ancora più importante, non è così che funzionano le macchine biomolecolari. Nuotano in un mare di molecole di carburante come l’ATP, le raccolgono ogni volta che ne hanno bisogno e operano ininterrottamente. Raggiungere quel tipo di autonomia nelle macchine molecolari sintetiche è un obiettivo importante per il settore.
A differenza dei fotoni, i combustibili chimici forniscono un modo per immagazzinare e trasportare una fonte di energia concentrata a cui le macchine molecolari possono accedere su richiesta [5]. David Leigh (University of Manchester) ritiene che se le macchine possono accedere a una fonte di energia secondo necessità, potrebbero avere una gamma più ampia di applicazioni rispetto ai sistemi non autonomi.
Nel 2016, Leigh ha pubblicato una pietra miliare nella spinta all’autonomia delle macchine. Afferma: “È stato il primo motore autonomo guidato chimicamente”. Il motore è costituito da un anello molecolare che può muoversi su una pista circolare. Ci sono due regioni, chiamate siti di riconoscimento, sui lati opposti della pista, che possono mantenere l’anello in posizione mediante legami a idrogeno. Ciascun sito di riconoscimento si trova vicino a un gruppo idrossilico che reagisce con un combustibile, il cloruro di fluorenilmetossicarbonile (Fmoc-Cl). Questa reazione installa ingombranti gruppi Fmoc sul binario, bloccando il movimento dell’anello [6].
Ma la miscela di reazione contiene anche una base che aiuta a strappare i gruppi bloccanti, permettendo all’anello di passare. Il risultato è che i gruppi Fmoc entrano ed escono costantemente dai siti di ancoraggio idrossilici della traccia. Fondamentalmente, l’impedimento sterico assicura che la reazione per aggiungere un Fmoc avvenga circa cinque volte più velocemente nel sito di ancoraggio che si trova di fronte all’anello.
Da allora, Leigh ha utilizzato una chimica del carburante Fmoc in una pompa autonoma che raccoglie gli eteri dalla soluzione e li inserisce in una lunga catena di stoccaggio [7]. L’avvento di tali dispositivi autonomi ha suscitato entusiasmo, ma alimenta anche un dibattito di lunga data su come funzionino effettivamente le macchine molecolari guidate chimicamente. Ed è qui che le cose si complicano.
Per comprendere questo dibattito, si consideri la chinesina, una macchina biologica proteica che trasporta il carico all’interno delle cellule. La proteina ha due “piedi” che avanzano lungo binari rigidi chiamati microtubuli e il movimento è guidato dall’idrolisi dell’ATP in adenosina difosfato (ADP). Alcuni ricercatori hanno sostenuto che la rottura del forte legame fosfato nell’ATP innesca la chinesina mettendola in uno stato ad alta energia. Il rilassamento della chinesina da questo stato provoca un cambiamento conformazionale che spinge i “piedi” in avanti, uno dopo l’altro.
Questa interpretazione non è corretta, afferma Dean Astumian, un fisico dell’Università del Maine che ha svolto un ruolo chiave nel guidare il pensiero sul funzionamento dei motori molecolari: “Lo dico come un fatto deduttivo, non come un’opinione: i dati sperimentali mostrano che il movimento della chinesina è controllato dalle velocità relative delle reazioni reversibili che coinvolgono anche chinesina, ATP e i loro prodotti.”[8].
Fig. 2 Un combustibile carbodiimmide chirale e un catalizzatore chirale aiutano a garantire che questo motore autonomo ruoti in una direzione. Le frecce tratteggiate mostrano reazioni inverse che sono meno probabili nelle condizioni di reazione. Copyright: Nature
Astumian e altri sostengono che tutte le macchine molecolari guidate chimicamente sono governate dall’asimmetria cinetica in questo tipo di “dente di arresto” browniano. Al contrario, i colpi di potenza sono coinvolti nella guida di macchine guidate dalla luce: la luce eccita il dispositivo in uno stato di alta energia e il suo rilassamento provoca un grande cambiamento meccanico. Questa distinzione nel meccanismo ha importanti implicazioni.
Fig. 3 Il “dente di arresto” autonomo contiene un anello (nero) intrappolato su un binario lineare (grigio). Girando finemente il carburante della macchina, che installa un gruppo barriera (rosa) sul binario, i ricercatori possono migliorare le possibilità dell’anello di assestarsi nel sito di riconoscimento (verde) più lontano dalla barriera. Copyright: J. Am. Chem Soc.
Il modello di “dente di arresto” browniano è ampiamente accettato tra i macchinisti molecolari. Ma alcuni sottolineano che se il ruolo principale di una molecola di combustibile non è quello di fornire energia per far muovere un motore molecolare, non dovrebbe essere chiamata combustibile.
Alcuni ricercatori affermano che il carburante è semplicemente una comoda scorciatoia per qualsiasi reagente che aziona una macchina molecolare.
Per affrontare questo e altri problemi meccanicistici, i ricercatori hanno recentemente delineato una serie di modelli che descrivono la termodinamica e la cinetica alla base delle macchine molecolari. In aprile 2022, Leigh ha presentato un motore autonomo guidato chimicamente che è molto più efficiente del suo esempio del 2016. Il motore beneficia di una migliore reazione di alimentazione e di due fasi distinte che conferiscono ciascuna una certa asimmetria cinetica al suo ciclo di reazione. Il motore contiene una coppia di gruppi arilici che ruotano attorno a un legame singolo C–C formando e rompendo un gruppo di anidride a ponte. I ricercatori usano un combustibile chirale di carbodiimmide e un catalizzatore di idrolisi chirale, assicurando che il motore giri (principalmente) in una direzione [9]
Feringa afferma che il suo team sta effettuando calcoli di meccanica molecolare e altri approcci di modellazione per effettuare progetti di macchine e capire come diverse strutture e sostituenti potrebbero farli funzionare più velocemente e in modo più efficiente. A luglio, i ricercatori hanno mostrato un motore autonomo che funziona con carbodiimmide in ambiente acido ma ruota formando e rompendo un estere a ponte [10].
Leigh sta anche modificando i suoi carburanti per migliorarne le prestazioni. A settembre, il suo team ha dimostrato tale approccio su un “dente di arresto” autonomo che contiene un anello intrappolato su un binario lineare [11].
Per ora, tutte queste macchine autonome alimentate chimicamente sono dispositivi di prova che non svolgono compiti utili. Ma Leigh ci sta lavorando. In collaborazione con Katsonis dell’Università di Groningen, ad esempio, spera di manipolare i cristalli liquidi con i suoi motori alimentati chimicamente, cosa già ottenuta con i motori azionati dalla luce. Katsonis afferma che il progetto sta evidenziando una delle difficoltà per i sistemi alimentati chimicamente: come gestire i loro prodotti di scarto. I rifiuti chimici prodotti dalle reazioni di alimentazione possono alterare le condizioni di reazione come il pH o legarsi alla macchina in modi che ostacolano l’accesso a ulteriori molecole di carburante. Le molecole di scarto potrebbero essere riciclate in carburante, proprio come la natura trasforma l’ADP in ATP. Per raggiungere questo obiettivo, i ricercatori dovranno sviluppare una gamma più ampia di carburanti per macchine autonome.
Nel frattempo, un’altra fonte di energia sta venendo alla ribalta. Stoddart ha recentemente sviluppato un motore molecolare che utilizza un meccanismo redox azionato direttamente dall’elettricità [12]. Di fronte alla sana concorrenza della luce e dell’elettricità, le macchine autonome alimentate chimicamente ora devono dimostrare di poter svolgere una varietà di utili funzioni meccaniche, afferma Feringa: “Questa è la cosa più interessante e importante, e questa è la grande sfida”
Bibliografia
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[2] T. Ross Kelly, H. De Silva, R. De Silva, Unidirectional rotary motion in a molecular system, Nature, 1999, 401, 150-152.
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[5] S. Borsley, D.A. Leigh. BMW. Roberts, Chemical fuels for molecular machinery, Nature Methods, 2022, 14, 728-738.
[6] M.R. Wilson et al., An autonomous chemically fuelled small-molecule motor, Nature, 2016, 534, 235–240.
[7] S. Amano, S.D.P. Fielding, D.A. Leigh, A catalysis-driven artificial molecular pump, Nature, 2021, 594, 529–534.
[9] S. Borsley et al., Autonomous fuelled directional rotation about a covalent single bond, Nature, 2022, 604, 80–85.
[10] K. Mo et al., Intrinsically unidirectional chemically fuelled rotary molecular motors, Nature, 2022, 609, 293–298.
[11] S. Borsley et al., Tuning the Force, Speed, and Efficiency of an Autonomous Chemically Fueled Information Ratchet,J. Am. Chem. Soc., 2022, 144, 17241–17248.
[12] L. Zhang et al., An electric molecular motor, Nature, 2023, 613, 280–286.
Il primo a distinguere fra chimica inorganica e organica è stato Jöns Jakob Berzelius (1779-1848) nel 1806, per indicare quei composti che erano formati da quattro soli elementi – carbonio, ossigeno, idrogeno e talvolta azoto, perché sembravano sempre essere i prodotti di esseri viventi composti da sistemi complessi ma altamente organizzati. Il pensiero era che tali sostanze non potessero essere ottenute in laboratorio da materiali inorganici, e quindi era necessaria una “forza vitale” al di là della comprensione dei chimici per spiegare la loro esistenza, dottrina detta “vitalismo”.
Nel 1828, Friedrich Wöhler[1] (1800-1882) ottenne l’urea (un componente dell’urina) partendo da un composto inorganico, il cianato d’ammonio NH4CNO e scrisse una lettera a Berzelius di cui era stato allievo (figura 1):
Figura 1. Lettera di Wöhler a Berzelius e traduzione parziale: Caro Signor Professore, devo dirvelo, ho fatto l’urea senza bisogno di reni o di nessun animale, uomo o cane che sia…
Berzelius capì rapidamente che urea e cianato d’ammonio avevano la stessa composizione centesimale ma struttura diversa e coniò il termine “isomeri” e lo estese come concetto generale, comprendendo fulminati e cianati, acido tartarico e acido racemico.
Tuttavia l’enorme sviluppo della chimica organica si ebbe solo alcune decine di anni dopo, poiché Berzelius era convinto del vitalismo e Wöhler e Justus von Liebig (1803-1873), pur nutrendo seri dubbi, non si pronunciarono mai esplicitamente contro[2].
Il declino del vitalismo iniziò probabilmente agli inizi degli anni ’40 del XIX secolo, dovuto a Hermann Kolbe[3] (1818-1884) che fra il 1843 e il 1845 riuscì a ottenere acido acetico partendo da solfuro di carbonio e cloro, due sostanze inorganiche.
Nel frattempo, tuttavia, erano stati scoperti e riconosciuti diversi composti organici ricavati da piante, fra cui i terpeni[4] e nel 1825 il benzene dai residui oleosi del gas illuminante, da Michael Faraday (1791-1867).
A mettere ordine fra queste migliaia di sostanze ci pensò August Wilhelm von Hofmann.
Nato a Giessen, Granducato d’Assia, l’8 aprile 1818, figlio di Johann Philipp Hofmann, consigliere privato e architetto provinciale della corte di Darmstadt. Si iscrisse all’Università di Giessen nel 1836. Inizialmente intraprese gli studi di diritto e filologia. Potrebbe essersi interessato alla chimica quando suo padre ampliò i laboratori Giessen di Liebig nel 1839. August Wilhelm abbandonò diritto e filologia per studiare chimica sotto la guida di Justus von Liebig. Ottenne il dottorato di ricerca nel 1841. Nel 1843 divenne uno degli assistenti di Liebig, il rapporto con Liebig alla fine divenne personale oltre che professionale.
August Wilhelm Hofmann a) nel 1846 e b) in maturità
Il principe Albert, consorte della regina Vittoria, come presidente della Royal Society di Londra, era determinato a promuovere il progresso scientifico in Gran Bretagna. Nel 1845 propose di avviare una scuola di chimica pratica a Londra, il Royal College of Chemistry. Liebig fu contattato per un consiglio e raccomandò Hofmann alla direzione della nuova istituzione. L’istituto aprì nel 1845 con Hofmann come primo direttore. La situazione finanziaria della nuova istituzione era alquanto precaria, quindi Hofmann accettò l’incarico a condizione che fosse nominato professore straordinario a Bonn, con aspettativa di due anni, in modo da poter riprendere la sua carriera in Germania se l’incarico inglese non fosse andato bene. Nonostante questo inizio difficile, l’istituto ha avuto successo per un certo periodo ed è stato leader internazionale nello sviluppo di coloranti all’anilina. Molti degli uomini che vi studiarono diedero un contributo significativo alla storia della chimica.
Nel 1853, il Royal College of Chemistry entrò a far parte del Dipartimento Governativo di Scienza e Arte, sotto la nuova School of Mines, ricevendo dei finanziamenti governativi. Tuttavia, con la morte del principe Albert nel 1861, l’istituzione perse uno dei suoi sostenitori più significativi. Nel 1864 a Hofmann fu offerta una cattedra di chimica all’Università di Bonn e un’altra all’Università di Berlino e progettò edifici di laboratorio per entrambe le università, che furono costruite successivamente. Nel 1865 succedette a Eilhard Mitscherlich (1794-1863) all’Università di Berlino come professore di chimica e direttore del laboratorio chimico, mantenendo la carica fino alla sua morte nel 1892. Dopo il suo ritorno in Germania, Hofmann fu il principale fondatore della Società chimica tedesca e ne fu presidente per molti anni.
Il lavoro di Hofmann coprì un’ampia gamma della chimica organica. Egli e i suoi collaboratori hanno dato un importante contributo allo sviluppo di tecniche per la sintesi organica, che ha avuto origine nel laboratorio di Liebig a Giessen. Hofmann e John Blyth (1814-1871) furono i primi a usare il termine “sintesi”, nel loro articolo “On Styrole, and Some of the Products of Its Decomposition“[1], precedendo di alcuni mesi l’uso del termine da parte di Kolbe. Ciò che Blyth e Hofmann chiamavano “sintesi” consentiva loro di fare inferenze sulla costituzione dello stirolo (fig. 2).
Figura 2. Parte dell’articolo di Hofmann dove compare la parola “sintesi”
Un articolo successivo, “Sulla toluidina” di Muspratt (1821-1871) e Hofmann, descrisse alcuni dei primi “esperimenti sintetici” nel campo della chimica organica [2]. Sebbene l’obiettivo finale di tali esperimenti fosse produrre artificialmente sostanze presenti in natura, tale obiettivo non era praticamente raggiungibile in quel momento. Lo scopo immediato della tecnica era l’applicazione di reazioni note a una varietà di materiali per scoprire quali prodotti potevano essere formati. La comprensione del metodo di formazione di una sostanza è stato un passo importante per collocarla all’interno di una tassonomia in via di sviluppo delle sostanze. Questa tecnica divenne la base del programma di ricerca di Hofmann. Usò la sintesi organica come metodo di indagine, per aumentare la comprensione chimica dei prodotti di reazione e dei processi attraverso i quali si sono formati [3].
La prima ricerca di Hofmann, condotta nel laboratorio di Liebig a Giessen, fu un esame delle basi organiche del catrame di carbon fossile. Hofmann isolò con successo le sostanze precedentemente riportate da Friedlieb Ferdinand Runge (1794-1867), e mostrò che il kyanol era quasi interamente anilina, un prodotto di decomposizione del colorante vegetale indaco.
Nella sua prima pubblicazione (1843) dimostrò che una varietà di sostanze che erano state identificate nella letteratura chimica contemporanea come ottenibili dalla nafta di catrame di carbon fossile e dai suoi derivati erano tutte un’unica base azotata, l’anilina. Gran parte del suo lavoro successivo ha ulteriormente sviluppato la comprensione degli alcaloidi naturali.
Hofmann tracciò inoltre un’analogia tra anilina e ammoniaca, volendo convincere i chimici che le basi organiche potevano essere descritte in termini di derivati dell’ammoniaca. Hofmann convertì con successo l’ammoniaca in etilammina e nei composti dietilammina, trietilammina e tetraetilammonio. Fu il primo chimico a sintetizzare le ammine quaternarie. Il suo metodo per convertire un’ammide in un’ammina è noto come il riarrangiamento di Hofmann [4].
Mentre le ammine primarie, secondarie e terziarie erano stabili quando distillate ad alte temperature in condizioni alcaline, l’ammina quaternaria non lo era. Il riscaldamento dell’idrossido di tetraetilammonio quaternario produce vapore di trietilammina terziaria. Questa divenne la base di quella che oggi è conosciuta come l’eliminazione di Hofmann, un metodo per convertire le ammine quaternarie in ammine terziarie. Hofmann applicò con successo il metodo alla coniina, il veleno colinergico della cicuta, per ricavare la prima struttura di un alcaloide. Il suo metodo è diventato estremamente significativo come strumento per esaminare le strutture molecolari degli alcaloidi e alla fine è stato applicato a morfina, cocaina, atropina e tubocurarina, tra gli altri. Alla fine la coniina divenne il primo degli alcaloidi ad essere sintetizzato artificialmente [4].
Nel 1848, lo studente di Hofmann, Charles Blachford Mansfield (1819-1855), sviluppò un metodo di distillazione frazionata del catrame di carbon fossile e separò benzene, xilene e toluene, un passo essenziale verso lo sviluppo di prodotti dal catrame di carbon fossile.
Nel 1856, un altro studente di Hofmann, William Henry Perkin (1838-1907), stava tentando di sintetizzare il chinino al Royal College of Chemistry, quando scoprì il primo colorante all’anilina, la mauveina. La scoperta ha portato alla creazione di una vasta gamma di coloranti tessili artificiali, rivoluzionando il mondo della moda. Le ricerche di Hofmann sulla rosanilina, da lui preparata per la prima volta nel 1858, furono l’inizio di una serie di ricerche sulle materie coloranti. Nel 1863, Hofmann dimostrò che il blu anilina è un trifenile derivato della rosanilina e scoprì che diversi gruppi alchilici potevano essere introdotti nella molecola della rosanilina per produrre coloranti di varie sfumature di violetto, che divennero noti come “viole di Hofmann”.
Dopo il suo ritorno in Germania, Hofmann continuò a sperimentare con i coloranti, ottenendo infine il rosso chinolina nel 1887.
Hofmann studiò le basi azotate, compreso lo sviluppo di metodi per separare miscele di ammine. Lavorò con Auguste Cahours (1813-1891) su basi di fosforo tra il 1855 e il 1857. Con lui, nel 1857, Hofmann preparò il primo alcool alifatico insaturo, l’alcool allilico, C3H5OH. Nel 1868 esaminò anche il suo derivato, l’isotiocianato di allile (olio di senape), e studiò vari altri isocianati e isonitrili (isocianuri o carbilammine).
Hofmann sviluppò anche un metodo per determinare i pesi molecolari dei liquidi dalle densità di vapore.
Nel 1865, ispirato da Auguste Laurent (1807-1853), Hofmann suggerì una nomenclatura sistematica per gli idrocarburi e i loro derivati. Fu adottata a livello internazionale dal Congresso di Ginevra, con alcune modifiche, nel 1892 [5].
Probabilmente fu Hofmann il primo a proporre modelli molecolari in chimica organica, dopo l’introduzione della teoria della struttura chimica da parte di August Kekulé (1829-1896) nel 1858 e l’introduzione di formule strutturali stampate di Alexander Crum Brown (1838-1922) nel 1861. In un discorso alla Royal Institution di Londra il 7 aprile 1865 mostrò modelli molecolari di semplici sostanze organiche come metano, etano e cloruro di metile, che aveva costruito con palline di colore diverso collegate tra loro con sottili tubi di ottone (fig. 3).
Figura 3. Modello del metano di Hofmann
La combinazione di colori originale di Hofmann (carbonio = nero, idrogeno = bianco, azoto = blu, ossigeno = rosso, cloro = verde e zolfo = giallo) si è evoluta nella combinazione di colori in uso ancora oggi. Dopo il 1874, quando van’t Hoff[5] e Le Bel suggerirono indipendentemente che le molecole organiche potessero essere tridimensionali, i modelli molecolari iniziarono ad assumere il loro aspetto moderno.
A Hofmann si devono anche i termini alifatico e aromatico.
Nel libro Geschichte der Organischen Chemie, Berlin, 1920, di Carl Graebe, la nota 2 a pag. 277 riporta:
2) Den Namen aliphatisch hat A. W. Hofmann fur die Fettkörper in die Chemie eingenführt.
AW Hofmann ha introdotto il nome alifatico nella chimica dei corpi grassi.
Gradualmente, come si è detto, diversi composti collegati al benzene entrarono a far parte del lessico chimico e nel 1855 Hofmann introdusse il termine aromatico per distinguere la serie di acidi monobasici (capostipite l’acido benzoico) da quella dei bibasici (capostipite l’acido ftalico), fig.6 [6]:
Figura 6. Parte dell’articolo di Hofmann del 1855
L’aggettivo aromatico fu quindi introdotto da Hofmann per indicare le loro caratteristiche chimiche, non tanto perché i primi composti di questa classe a essere identificati possedessero odori caratteristici e intensi [7 pp. 2-3].
[2] J. S. Muspratt, A. W. Hofmann, On Toluidine, a New Organic Base. MCPS, 1845, 2, 367–383.
[3] C. M. Jackson, Synthetical Experiments and Alkaloid Analogues: Liebig, Hofmann, and the Origins of Organic Synthesis., in: Historical Studies in the Natural Sciences, Vol. 44, No. 4, 2014, pp. 319-363.
[4] T.A. Alston, The Contributions of A. W. Hofmann, Anesthesia & Analgesia, 2003, 96, 622–625.
[5] August Wilhelm Hofmann in Encyclopædia Britannica.
[6] A.W. Hofmann, On insolinic acid., Proceedings of the Royal Society. 1856, 8, 1–3.
[7] A.J. Rocke, It Began with a Daydream: The 150th Anniversary of the Kekulé Benzene Structure., Angew. Chem. Int.Ed.,2014, 53, 2–7.
[1] Di Wöhler si può trovare una breve biografia in: R. Cervellati, Friedrich Wöhler e Hermann Kolbe: dal primo composto organico sintetizzato da materiali inorganici alla prima sintesi totale, CnS-La Chimica nella Scuola, 2018, 2, 67-75.
[4] I terpeni sono biomolecole costituite da multipli dell’unità isoprenica (2-metil1,3-butadiene). Vengono prodotti da molte piante, sono i componenti principali delle resine e degli oli essenziali , miscele di sostanze che conferiscono a ogni pianta un caratteristico odore o aroma. Molti aromi usati nei cibi o nei profumi sono derivati da terpeni o terpenoidi naturali.
I ricercatori del NIST (National Institute of Standards and Technology, USA) hanno realizzato uno studio su quanto i prodotti di consumo di tutti i giorni contribuiscano al contenuto di particelle di plastica di dimensioni nanometriche nell’acqua [1].
Le microplastiche (diametro inferiore a 5 mm) e le nanoplastiche (diametro inferiore a 1 µm) sembrano essere ovunque: nell’acqua, nell’aria, nel cibo, nel sangue umano, nei tessuti polmonari e nelle feci. Ma cosa significhi la loro presenza per la salute umana e l’ambiente non è completamente chiaro.
Le autorità di regolamentazione stanno valutando i rischi delle microplastiche tenendo conto che queste particelle hanno composizioni complesse e dimensioni e forme variabili. I dati sull’esposizione sono molto limitati come pure gli studi tossicologici [2-4]. I ricercatori stanno iniziando a identificare le fonti e le composizioni delle microplastiche per condurre gli studi di tossicità necessari per comprendere gli effetti dell’esposizione sulla vita umana e sull’ambiente.
Perché è importante la caratterizzazione
La maggior parte degli studi tossicologici finora pubblicati hanno utilizzato perline di polistirene, facili da acquistare in diverse dimensioni e con vari gruppi funzionali, ma non rappresentative delle microplastiche che i ricercatori stanno trovando nell’ambiente.
Christie Sayes, professoressa di scienze ambientali alla Baylor University (Texas, USA), ha collaborato con i ricercatori dell’Agenzia per la protezione ambientale degli Stati Uniti, a Cincinnati, per analizzare le particelle di microplastica nei campioni d’acqua. Le particelle in quei campioni, così come in quelli realizzati nel suo laboratorio, tendono a essere frammenti frastagliati, dai lati taglienti, con bordi appuntiti (fig. 1).
Figura 1. Frammenti di microplastica
La composizione è un’altra sfida. I ricercatori hanno rilevato il polistirene ma anche molti altri polimeri: polietilene, polipropilene e poliammide. E le microplastiche raramente iniziano come un polimero puro. Contengono anche plastificanti, pigmenti e metalli.
Inoltre, uno dei modi in cui le microplastiche entrano nell’ambiente è l’invecchiamento atmosferico dalla radiazione ultravioletta dei detriti di plastica in frammenti sempre più piccoli nel tempo. Questo processo può cambiare la chimica della plastica. I materiali possono diventare meno idrofobici e rivestirsi di biomolecole, minerali e metalli. Questi contaminanti possono modificare le proprietà di una particella, come la sua carica o polarità. Le proprietà fisiche e chimiche dei nanomateriali ingegnerizzati[1] influenzano il modo in cui interagiscono con le cellule. Lo stesso sembra essere vero per le micro e nanoplastiche.
Alcune delle prime prove che la forma e la lunghezza dei nanomateriali influiscono sulla loro tossicità sono state pubblicate in un innovativo studio in vivo nel 2008, che ha dimostrato che i nanotubi di carbonio possono suscitare nei topi la stessa risposta patologica dell’amianto [5]. Martin Clift, professore di tossicologia delle particelle nella Swansea University Medical School (UK), ricorda un esperimento condotto diversi anni fa con i colleghi dell’Helmholtz Zentrum München che ha anche rivelato che la forma non è l’unico fattore di tossicità delle nano particelle [6].
I ricercatori hanno osservato che le nanoparticelle d’oro di forma diversa interagivano con le cellule in modo simile. Afferma Clift: “Quando abbiamo iniziato a guardare ai percorsi meccanicistici associati all’infiammazione, allo stress ossidativo e alla morte cellulare, quelli con il maggior numero di bordi hanno mostrato la maggiore tossicità. In questo esperimento, ciò che c’era sulla superficie delle particelle e il numero di bordi erano fattori. È una combinazione di proprietà fisico-chimiche e il modo in cui questi elementi interagiscono con cellule e tessuti che guida l’effetto biologico per qualsiasi nanomateriale ingegnerizzato”.
Uno dei risultati della nanotossicologia che continua a sorprendere alcuni ricercatori è l’importanza di ciò che è attaccato alle superfici delle particelle. I ricercatori hanno appreso che attaccare gruppi di ammine alle superfici delle particelle può suscitare una risposta biologica avversa più forte rispetto ad altri gruppi chimici, come i carbossilati. Le superfici caricate negativamente sembrano anche essere meno tossiche delle superfici caricate positivamente.
Fabbricare microplastiche
La maggior parte dei ricercatori caratterizza le proprie particelle di microplastica in base alle dimensioni. Ma la caratterizzazione delle impurità, come metalli, sostanze organiche ed endotossine, non è ancora stata completata.
I ricercatori si sono affrettati ad acquistare nanoparticelle ingegnerizzate disponibili in commercio per studi di tossicità, quindi le impurezze e la variabilità da lotto a lotto hanno reso difficile confrontare i risultati tra gli studi.
Nel tentativo di controllare meglio le proprietà dei nanomateriali utilizzati negli studi di tossicologia e di comprendere più esposizioni nell’ambiente reale, Demokritou ha istituito un centro per la ricerca sulla nanosicurezza ad Harvard nel 2016.
Il centro è stato in prima linea nella ricerca sulle interazioni dei nanomateriali ingegnerizzati emergenti con i sistemi biologici e sulle loro potenziali implicazioni per la salute. I ricercatori negli Stati Uniti e nell’Unione Europea usano i nanomateriali negli studi di tossicologia. Afferma Demokritou, direttore del centro: “Li produciamo in modo controllato, ci assicuriamo che non ci siano impurezze e li conserviamo in condizioni controllate. Ciò ci consente di avere una certa riproducibilità nei nostri dati sulla bioattività”.
Demokritou sta ora sviluppando un programma simile per le microplastiche. Lui e i suoi collaboratori stanno producendo particelle di micro e nanoplastiche che sono più rilevanti per l’ambiente rispetto alle perle di polistirene.
Dice Demokritou: “Il nostro obiettivo è sviluppare una sorta di libreria di microplastiche di riferimento che possiamo utilizzare per i nostri studi. Vogliamo scoprire le regole fondamentali della bioattività, come la struttura o le proprietà dei materiali influenzano i risultati sulla salute. Per fare ciò, devi avere un modo per controllare le proprietà” (fig. 2).
Figura 2. (a)” spaghetti” di microplastica; (b) micro e nanoplastiche di diverse dimensioni; (c) particelle di microplastiche al microscopio elettronico.
Potenziali rischi per la salute
Le persone sono esposte alle microplastiche principalmente dall’ingestione delle particelle nel cibo e nell’acqua, nonché dall’inalazione di particelle nell’aria. Utilizzando sistemi in vitro che simulano la digestione o l’inalazione, gli scienziati stanno iniziando a costruire un quadro di come le particelle di micro e nanoplastiche possono danneggiare l’intestino umano e le cellule polmonari.
Tuttavia non si possono testare subito questi miliardi di combinazioni di micro e nanoplastiche in vivo. Si deve iniziare con un approccio in vitro fisiologicamente rilevante e con gli approcci di tossicologia computazionale per avere un’idea della bioattività. I materiali che hanno dimostrato di avviare eventi molecolari associati a effetti negativi sulla salute possono poi essere ulteriormente studiati in vivo.
Demokritou e colleghi stanno utilizzando un modello in vitro dell’epitelio dell’intestino tenue per verificare se le micro e nanoplastiche interferiscono con la digestione e l’assorbimento dei nutrienti. Le particelle di microplastica possono raddoppiare la biodisponibilità di alcuni grassi e influenzare l’assorbimento dei micronutrienti, come le vitamine. Non sono stati condotti studi in vivo, ma il fatto che l’effetto sia stato osservato in vitro è piuttosto allarmante.
Sayes e i suoi colleghi di Baylor esaminano le particelle di microplastica nei campioni d’acqua raccolti dall’EPA e le particelle di plastica che fabbricano nel loro laboratorio per i loro effetti sulla tossicità delle cellule intestinali umane. Il loro sistema di test gut-on-a-chip incorpora le cellule epiteliali intestinali per studiare la vitalità cellulare, i macrofagi per l’assorbimento delle particelle e le cellule immunitarie per le risposte immunitarie. I ricercatori separano le particelle in base alle dimensioni: maggiori di 100 µm, da 1a100 µm e inferiori a 1 µm. Quindi espongono ogni gruppo al sistema gut-on-a-chip, nonché a tre ceppi di batteri che sono rilevanti dal punto di vista ambientale e fanno parte dell’intestino umano. In generale, le particelle da 1 a 100 µm hanno ridotto la vitalità delle cellule epiteliali intestinali e diminuito la crescita dei tre ceppi di batteri, ma la crescita batterica è aumentata in presenza di particelle più grandi.
Clift e Wright stanno collaborando per studiare come le microplastiche inalate influiscono sulla salute umana. “Aerosolizziamo micro e nanoplastiche attraverso una camera aerosol e le depositiamo sulle nostre colture in vitro del polmone inferiore per iniziare a comprendere il loro potenziale rischio per la salute umana.”
Il gruppo di Wright produce particelle di microplastica macinando manualmente polveri di plastica congelate di poliammidi e polietilene. I ricercatori raccolgono anche campioni d’aria da ambienti interni, come la palestra della loro università, per comprendere meglio le esposizioni dell’ambiente. Wright ha presentato alcuni risultati preliminari di questo studio alla riunione annuale della Society of Toxicology. Il lavoro deve ancora essere pubblicato, ma Wright afferma di aver trovato alti livelli di microplastiche nei campioni prelevati nella palestra.
I gruppi di ricerca, utilizzando diverse tecniche spettroscopiche, hanno identificato la maggior parte delle particelle come poliammidi (fig. 3).
Figura 3. Metodi per la fabbricazione di micro e nanoplastiche da polimeri come polietilene e poliammide da utilizzare negli studi di tossicità. L’obiettivo è quello di creare particelle che siano più rappresentative di ciò che è nell’ambiente rispetto alle perle di polistirene.
I ricercatori stanno appena iniziando a condurre studi di tossicologia meccanicistica per capire come si comportano le particelle di microplastica nei sistemi cellulari. In definitiva, sperano che il lavoro venga utilizzato per sviluppare modelli che aiutino a progettare materiali più sicuri in futuro.
Cambiare i comportamenti
Secondo il prof. Andrew Maynard, direttore del Risk Innovation Lab (Arizona State University): “Quando i ricercatori capiscono come si comportano le particelle di microplastica nei sistemi cellulari, possono creare modelli di tossicità. Quando viene prodotto un nuovo tipo di plastica che rilascia un tipo leggermente diverso di microplastica, si possono inserire le sue caratteristiche nei nostri modelli e ottenere un profilo di rischio di quel nuovo materiale”.
Tuttavia, mentre scienziati e agenzie di finanziamento potrebbero entusiasmarsi per le microplastiche nei prossimi 2-3 anni e spendere miliardi di dollari per ricercare le implicazioni sulla salute, Maynard è preoccupato che tra 10 anni, nulla sarà cambiato e nessuno parlerà di esse. Questo è quello che è successo con i nanomateriali ingegnerizzati.
Contrariamente a Maynard, Colvin (Brown University) ritiene che la ricerca sulla nanotossicologia abbia avuto un impatto sull’industria delle nanotecnologie. Una volta che gli scienziati hanno sollevato le potenziali implicazioni ambientali, sanitarie e di sicurezza dei nanomateriali, l’industria ha rallentato e cambiato marcia per evitare conseguenze negative.
Dice invece Maynard che “C’è l’opportunità per ottenere un corretto dialogo questa volta, ma non sono ottimista sul fatto che le autorità di regolamentazione affronteranno tutte le proprietà rilevanti delle microplastiche. Una decina di anni fa stavamo discutendo sul fatto che dobbiamo guardare a ciò che è fisiologicamente importante, ma molte normative si basano ancora sulla ‘massa di materiale che finisce nell’ambiente o su ciò a cui gli individui sono esposti’. Un tale approccio non è basato sulla scienza, perché non ti dice nulla sui meccanismi di come queste cose causano danni. Ma è un modo molto, molto grezzo per mantenere le concentrazioni abbastanza basse da non vedere danni significativi o “sostanziali”.
La FDA USA ad esempio, stabilisce dei limiti alla massa totale di un polimero che può migrare dagli imballaggi alimentari. Tutti i campioni misurati dai ricercatori del NIST, comprese le tazze da caffè usa e getta, hanno rilasciato masse di particelle di plastica al di sotto dei limiti normativi della FDA. Ma le particelle erano di 30-100 nm, una dimensione che potrebbe avere effetti sulla salute che non derivano da particelle di diametro maggiore.
Le micro e nanoplastiche sono ovunque, dice Demokritou. “E le esposizioni aumenteranno perché abbiamo già 6 miliardi di tonnellate di plastica nell’ambiente che si sta costantemente degradando, e l’industria sta mettendo in circolazione oltre 400 milioni di tonnellate di plastica ogni anno. I finanziamenti per progetti per colmare le lacune nei dati sono scarsi. Dobbiamo davvero lanciare un consorzio di sicurezza per micro e nanoplastiche simile a quello che abbiamo fatto con i nanomateriali e riunire molti gruppi e scienziati per affrontare queste domande fondamentali”.
Sostiene Maynard: “Le agenzie dovrebbero finanziare la ricerca su come le forme specifiche di microplastiche portano a rischi specifici. Abbiamo bisogno di una ricerca meccanicistica che leghi forma, dimensione e chimica a ciò che entra nell’ambiente, dove va e cosa fa quando ci arriva”.
Nota. Adattato e tradotto da: .
Bibliografia
[1] C.D. Zangmeister et al., Common Single-Use Consumer Plastic Products Release Trillions of Sub-100 nm Nanoparticles per Liter into Water during Normal Use.,Environ. Sci. Technol.2022, 56, 5448–5455. DOI: 10.1021/acs.est.1c06768
[2] A. McCormick et al.., Microplastic is an Abundant and Distinct Microbial Habitat in an Urban River.,Environ. Sci. Technol.2014, 48, 11863−11871.
[3] A. Dick Vertaak, H.A. Leslie, Plastic Debris Is a Human Health Issue., Environ. Sci. Technol.2016, 50, 6825−6826.
[4] M. Al-Sid-Cheikh et al., Uptake, Whole-Body Distribution, and Depuration of Nanoplastics by the Scallop Pecten maximus at Environmentally Realistic Concentrations., Environ. Sci. Technol.2018, 52, 14480−14486.
[5] C.A. Poland et al., Carbon nanotubes introduced into the abdominal cavity of mice show asbestoslike pathogenicity in a pilot study., Nature Nanotechnology, 2008, 3, 423-427
[1] Per nanomateriale ingegnerizzato si intende un materiale prodotto intenzionalmente e caratterizzato da una o più dimensioni dell’ordine di 100 nm o inferiori, o che è composto di parti funzionali distinte, interne o in superficie, molte delle quali presentano una o più dimensioni nell’ordine di 100 nm o inferiori, compresi strutture, agglomerati o aggregati che possono avere dimensioni superiori all’ordine di 100 nm ma che presentano caratteristiche della scala nanometrica. (Regolamento UE n. 2015/2283)
La barriera corallina è una formazione tipica dei mari e oceani tropicali, composta da formazioni rocciose sottomarine biogeniche costituite e accresciute dalla sedimentazione degli scheletri calcarei dei coralli, animalipolipoidi facenti parte della classeAnthozoa, phylumCnidaria. Per questo le barriere sono uno degli organismi più importanti per la biodiversità.
L’ossibenzone, un ingrediente attivo comune nelle creme solari, è noto per danneggiare le barriere coralline. La tossicità segnalata delle creme solari a base di ossibenzone per i coralli ha sollevato preoccupazioni circa l’impatto di questi prodotti, ampiamente usati dagli “eco” turisti, sui coralli già indeboliti da fattori globali di stress. Per questo alcuni Paesi e gli USA hanno vietato ai nuotatori di utilizzare creme solari che lo contengano. Circa l’11% delle creme solari contiene ossibenzone, un bloccante della radiazione ultravioletta UVA e UVB, secondo un rapporto del 2017 della Food and Drug Administration.
Un gruppo di ricercatori, guidato da William Mitch della Stanford University (fig. 1), ha chiarito il meccanismo dell’azione sui coralli.
Figura 1. Prof. William Mitch
I coralli metabolizzano l’ossibenzone per generare un composto tossico per gli organismi sotto l’azione dei raggi solari. Il gruppo ha studiato in dettaglio gli effetti dell’esposizione all’ossibenzone su due organismi modello della famiglia dei coralli: un anemone di mare e un corallo fungo [1]. Quotidianamente, il gruppo ha aggiunto ossibenzone in vasche di acqua di mare simulata, a livelli vicini a quelli di alcune zone della barriera corallina. Dopo 17 giorni, tutti gli anemoni di mare erano morti. Hanno scoperto che gli animali metabolizzano l’ossibenzone in coniugati glucosidici fototossici (fig.2)
Figura 2. Ossibenzone e suo glucoside
L’ossibenzone agisce assorbendo la radiazione UV, rilasciandone poi l’energia sotto forma di calore. Questa capacità è dovuta al gruppo OH sull’ossibenzone, spiega Djordje Vuckovic, dottore di ricerca nel laboratorio di Mitch. Una volta nello stato di alta energia, il gruppo OH è in grado di allontanare l’energia. Ma questo non è più possibile una volta che i coralli metabolizzano l’ossibenzone, continua Vuckovic. Il composto reagisce attraverso una reazione di glicosilazione, in cui l’OH viene deprotonato e una molecola di glucosio si aggiunge all’O-. Il nuovo coniugato ossibenzone glucoside può ancora assorbire la luce, ma non ha modo di rilasciare l’energia sotto forma di calore. Invece, il composto eccitato forma specie reattive dell’ossigeno. Ciò innesca una reazione radicalica, che causa danni alle cellule o ai tessuti. I coralli sostanzialmente convertono l’ossibenzone di una crema solare in ciò che è essenzialmente l’opposto, cioè una fototossina.
L’effetto visivo più evidente è la variazione di colore del corallo: da quello naturale a bianco (fig.3).
Figura 3. Corallo sbiancato al largo dell’isola di Huahine, Polinesia francese. Credit: Shutterstock
I risultati dello studio suggeriscono anche che i coralli che si sono sbiancati sono ancora più vulnerabili all’ossibenzone, afferma Vuckovic. Lo sbiancamento si verifica quando i coralli rispondono a stress come l’aumento delle temperature oceaniche, espellendo le alghe simbiotiche che vivono nelle loro cellule, e sono una delle principali fonti di cibo ed energia per i coralli. Questo esodo di alghe li fa diventare bianchi. Negli esperimenti del gruppo, gli anemoni di mare sbiancati sono morti circa 5 volte più velocemente di quelli sani. Il gruppo ha scoperto che le alghe simbiotiche degli anemoni assorbono i coniugati dell’ossibenzone glucoside, sequestrando la fototossina lontano dalle cellule degli animali quindi proteggendole.
Craig Downs, un biologo cellulare e molecolare che dirige l’Haereticus Environmental Laboratory, un laboratorio senza scopo di lucro, afferma che lo studio mette in evidenza la relazione tra inquinamento e cambiamento climatico: “L’inquinamento da creme solari può interagire con i fattori del cambiamento climatico per ridurre la resilienza delle barriere coralline”.
L’ossibenzone non dovrebbe essere presente nei filtri solari sicuri per i coralli o per la barriera corallina. Anche gli ingredienti della creme solari con strutture e meccanismi d’azione simili, come avobenzone, octisalato e octocrilene, possono danneggiare i coralli, ma sono necessarie ulteriori ricerche.
Nel dicembre 2021 appare sul JACS on line la sintesi di un poliarene a forma di infinito comprendente anelli di 12-benzene fusi consecutivamente formando un anello chiuso con un’energia di deformazione di 60,2 kcal·mol–1, chiamato infinitene dal gruppo di ricerca coordinato da H. Ito e K. Itami dell’Università di Nagoya (Giappone) [1].
Hideto Ito e Kenichiro Itami
L’infinitene (fig. 1) rappresenta un topoisomero[1] del [12]circulene ancora ipotetico, e la sua struttura può essere formalmente visualizzata come il risultato della “cucitura” di due subunità omochirali [6]elicene da entrambe le loro estremità.
Figura 1. Struttura infinitene
La sintesi ha compreso la trasformazione di un ditiaciclofano in ciclofadiene attraverso il riarrangiamento di Stevens[2] e la pirolisi del corrispondente S,S′-bis(ossido) seguito da fotociclizzazione. La struttura in figura 1 è un ibrido unico di elicene e circulene[3] con una formula molecolare di C48H24, che può essere considerato un isomero di kekulene, e [12]ciclacene.
L’infinitene è un solido giallo stabile con fluorescenza verde, solubile in comuni solventi organici. La sua struttura molecolare a forma di otto è stata confermata inequivocabilmente dalla cristallografia a raggi X (fig. 2).
Figura 2. Schema del twist dell’infinitene (C48H24)
L’impalcatura dell’infinitene è compressa con una distanza notevolmente ridotta (3,152–3,192 Å) tra i centroidi dei due anelli benzenici centrali e con distanza C···C più vicina di 2,920 Å. Le proprietà fotofisiche della molecola sono state chiarite mediante studi spettroscopici di assorbimento UV-vis e fluorescenza e da calcoli teorici in base alla teoria del funzionale densità [1].
Il gruppo dell’Università di Nagoya ha inoltre calcolato che l’aromaticità è confinata ai singoli anelli piuttosto che diffusa sull’intera molecola.
I lettori di C&EN hanno votato l’infinitene “Molecola dell’anno 2021”[4].
Tuttavia, la struttura della nuova molecola è piuttosto una sfida per il calcolo dell’aromaticità, la sua forma contorta significa che le semplici regole di conteggio degli elettroni come quelle di Hückel o di Möbius non sono valide.
Pertanto Mesías Orozco-Ic, Rashid R. Valiev e Dage Sundholm, della Facoltà di Scienza, University of Helsinki (Finlandia), hanno deciso di eseguire una propria analisi teorica. Il gruppo di ricerca ha utilizzato un pacchetto software di chimica quantistica, Turbomole[5], per simulare la risposta dell’infinitene a un campo magnetico esterno. I loro calcoli indicano che in un campo magnetico, gli elettroni delocalizzati fluirebbero lungo i due bordi della molecola in due percorsi non intersecanti, una caratteristica delle molecole aromatiche [2].
Man mano che i chimici sintetizzano strutture più contorte, questo tipo di calcoli potrebbe scoprire molecole aromatiche che non obbediscono alle semplici regole di conteggio degli elettroni.
Bibliografia
[1] Maciej Krzeszewski, Hideto Ito, Kenichiro Itami, Infinitene: A Helically Twisted Figure-Eight [12]Circulene Topoisomer., J. Am. Chem. Soc.2022, 144, 862–871. DOI: 10.1021/jacs.1c10807
[2] M. Orozco-Ic, R. R. Valiev, D. Sundholm, Non-intersecting ring currents in [12]infinitene., Phys. Chem. Chem. Phys., 2022, 24, 6404-6409. (open access)
[1] I topoisomeri o isomeri topologici sono molecole con la stessa formula chimica e connessioni di legame stereochimico ma topologie diverse. Esempi di molecole per le quali esistono topoisomeri includono il DNA, che può formare nodi, e i catenani.
[2] Il riarrangiamento di Stevens in chimica organica è una reazione organica che converte i sali di solfonio nei corrispondenti solfuri in presenza di una base forte in un riarrangiamento 1,2 .
[3] I circuleni sono macrocicli in cui un poligono centrale è circondato da benzenoidi. La nomenclatura all’interno di questa classe di molecole si basa sul numero di anelli benzenici che circondano il nucleo, che è equivalente alla dimensione del poligono centrale. Esempi che sono stati sintetizzati includono [5]circulene (corannulene), [6]circulene (coronene), [7]circulene, e [12]circulene (kekulene). Con il termine eliceni si indicano dei composti aromatici policiclici nei quali alcuni anelli benzenici sono disposti i maniera angolata, dando luogo ad una struttura molecolare di forma elicoidale.
[4] Laura Howes, Infinitene might be aromatic. Chem. & Eng. News, April 7, 2022
[5] TURBOMOLE è un programma di chimica computazionale ab initio che implementa vari metodi di chimica quantistica.