Armaroli e la grande onda.

Claudio Della Volpe

Recensione di  Emergenza Energia- Non abbiamo più tempo

Nicola Armaroli  Ed. Dedalo-Le grandi Voci   Pag 96 luglio 2020

Sono ben contento di fare questa recensione, perché pare che il Covid ci abbia tolto dalla testa tutte le altre preoccupazioni eccetto quella biologica e quella economica; ma non è così.

Come ironicamente mostrato nella vignetta che riprende la “grande onda” di Hokusai, ci sono una serie di grandi onde che ci aspettano e il libretto di Nicola Armaroli ci aiuta a rimettere le cose in prospettiva. La vignetta che cito è ironica fino ad un certo punto, in realtà è abbastanza ben fatta.

Come potete vedere è rovesciata rispetto all’originale di Hokusai; ma c’è una ragione; nella cultura giapponese le opere si guardano da destra  a sinistra e dunque si vede prima l’uomo, le barche di pescatori in lotta contro il mare per sopravvivere, e solo dopo la grande onda; così nella vignetta, che si rivolge ad un lettore occidentale che legge da sinistra a destra, si rovescia il tutto, e rimane prima il genitore (o forse un messaggio politico-pubblicitario) che dice di lavarsi le mani e poi tutto andrà bene e subito dopo a destra un gruppo di mostruose onde di dimensione crescente che invaderanno la realtà umana di lì a poco.

Attenzione però, per molti aspetti il messaggio che ci arriva da Nicola Armaroli è diverso da quello della vignetta; Nicola ci dice con chiarezza che non abbiamo più tempo, e dunque sottintende che possiamo e dobbiamo agire per affrontare la questione energetica ed ambientale che ne consegue.

Dunque le onde gigantesche potrebbero smorzarsi e di parecchio, a patto però di prendere decisioni gravi, importanti, come abbiamo fatto e stiamo facendo per affrontare il virus. La domanda dunque a cui Nicola cerca di rispondere, proprio a partire dal sottotitolo, è: cosa è l’equivalente del distanziamento e delle mascherine e del vaccino nel caso della questione energetica?

In questo blog abbiamo scritto più volte che la pandemia non è un caso, un cigno nero, è un fenomeno che si è già presentato e ripetutamente nella nostra storia e che si sapeva si sarebbe ripresentato ancora a causa della modalità sempre più invasiva con la quale ci inseriamo nei cicli naturali.

Ma la medesima riflessione vale per le questioni climatiche o per i cicli degli elementi.

Si tratta di un libro breve, meno di 100 pagine, scritto in stile colloquiale, del tutto amichevole si legge velocemente; ma attenzione, questa apparente semplicità potrebbe ingannare, nel senso che a tratti si densifica improvvisamente e in poche frasi sintetizza o concentra concetti non banali.

In qualche modo nello stile o meglio sotto lo stile di Nicola il divulgatore si avverte un altro Nicola, lo scienziato originale e spesso profondo.

Fin dall’introduzione l’autore si pone due scopi:

Lo scopo di questo libro è affermare con forza che non esiste più alcun margine di discussione. La scienza ha già dimostrato che la crisi climatico-ambientale è causata dall’uomo ed è figlia di due problemi: un sistema energetico decrepito, da cambiare con urgenza, e un sistema economico malato, basato sul falso presupposto che la Terra sia un deposito inesauribile di risorse ed una discarica di rifiuti senza limiti.”

Il primo di questi scopi viene abbondantemente raggiunto con una analisi serrata che si svolge a partire dai primi capitoli che riprendono temi cari all’autore: cosa è l’energia, quanta ne usiamo e ne abbiamo a disposizione. L’analisi si sviluppa poi con una descrizione di ciò che è successo nel mercato del petrolio fino a ieri l’altro.

Subentrano poi le conseguenze dell’uso massiccio dei fossili: la descrizione dei meccanismi del riscaldamento globale e anche di alcune comuni bufale che cercano di criticare i risultati scientifici: per esempio che le variazioni della concentrazione di gas serra sono troppo piccole per avere gli effetti che invece hanno.

Qui a pag. 40 per esempio c’è una delle frasi dense che dicevo prima: “La buona notizia è che lo scioglimento dei ghiacci dell’Artico non comporta un aumento del livello dei mari perché il ghiaccio ha un volume maggiore dell’acqua”

Questo è un modo certamente originale di descrivere le conseguenze della fusione del pack artico che lascia un istante perplessi; è giusto certamente, ma apre uno squarcio in un modo non comune di affrontare la questione. Chiaro che se il ghiaccio avesse una densità maggiore dell’acqua e fondesse, il mare aumenterebbe di livello; invece avendolo inferiore vi galleggia e la conseguenza è che il livello dei mari complessivo è del tutto insensibile a questa particolare fusione; fuso o meno il pack, il livello non cambia, nell’altro caso invece aumenterebbe. Sono d’accordo, ma vi assicuro che ci ho messo qualche minuto, ero abituato ad un altro approccio. Questo è utile per evitare la classica dimostrazione di fisica elementare, che però richiede qualche riga di algebra, mentre qua l’autore, in modo ripeto originale, ce la risparmia.

A questo punto parte la seconda parte, l’equivalente del lockdown o del vaccino: cosa possiamo fare in questa situazione, ossia usare l’energia solare.

Questo è l’argomento più caro all’autore che parte veloce nella descrizione entrando nel merito delle varie alternative energetiche, chiarendone le differenze ed i limiti e tratteggiandone le prospettive. In uno dei capitoletti riprende anche la critica al nucleare di fissione.

C’è un capitolo che si vede viene dalla vita vissuta di una persona che ha cercato di vivere concretamente un altro modo di gestire la propria energia a casa e nella mobilità.

Qua mi sarebbe piaciuto forse un modo meno personale di valutare le cose; personalmente non ho alcun dubbio che la singola auto elettrica sia meno “inquinante” climaticamente  ed ambientalmente; mi chiedo però se sia questo il punto di vista che risolve anche il secondo punto posto dall’autore, ossia quello del sistema economico; il nostro sistema economico impone un futuro di miliardi di auto private elettriche; tali miliardi di auto quanto sono sostenibili? In altre parole il sistema economico è malato perché esistono milioni di auto private fossili e dunque guarirebbe con milioni di auto private elettriche o perché esistono milioni di auto private? La casetta individuale ben isolata che alimenta il risparmio energetico e l’auto personale (nella figura di pag. 75) è una soluzione sulla scala dei miliardi di uomini? Il sistema economico malato lo è proprio dal punto di vista sociale, non tecnico e dunque ci sono forse aspetti che si potevano indicare e mettere in discussione, cosa che l’Autore d’altronde aveva già fatto per esempio nel testo scritto a quattro mani con Vincenzo Balzani (Energia per l’astronave Terra).

Nell’ultimo capitolo intitolato “non sarà una passeggiata” Armaroli introduce una serie di aspetti problematici della transizione energetica come la disponibilità di risorse per la produzione dei nuovi manufatti, il ritorno energetico, l’EROEI e la disparità sociale; lo fa densamente, ogni parola pesa, ma  ovviamente in un libretto come questo non si poteva parlare di tutto.

Tuttavia proprio qui, alla fine della lettura, che lascia la voglia di leggere altro, sarebbe stato utile indicare qualcosa per approfondire le problematiche, una serie di consigli di lettura.

In ogni modo ripeto non si può scrivere tutto in meno di 100 pagine; ben venga dunque questa agile e brillante  confutazione dei paradossi del mondo fossile, utile per chi voglia farsi un’idea  aggiornata della situazione e forse adatta al mondo che ha prodotto twitter, poche parole ma dense.

Cos’è un elemento chimico?

Roberto Zingales*

Recensione

E. Scerri & E. Ghibaudi (eds) – What is a chemical element? Oxford University Press, 2020
pag 272, £65

Il concetto di elemento chimico è così familiare a chi si occupa di Scienze, come pure ai profani, e persino a qualche studente, da far ritenere superfluo formularne una definizione, o considerare con attenzione quelle riportate nei libri di testo. In particolare, esso rappresenta lo strumento concettuale fondamentale con il quale i chimici interpretano la composizione e le trasformazioni delle sostanze materiali, usandolo routinariamente e, direi, disinvoltamente, senza soffermarsi sulla necessità di darne una definizione rigorosa.

Questo, invece, diventa tanto più importante quanto più la Chimica si interfaccia con altre aree di ricerca, come la Fisica o la Filosofia, che si muovono in ambiti diversi e su differenti piani di complessità, e, soprattutto, nell’ambito didattico, dove occorre condividere con gli studenti idee e concetti che devono essere quanto più è possibile, semplici, chiari, e definiti in maniera esatta, esauriente, priva di ambiguità.

La questione potrebbe essere risolta rapidamente, definendo gli elementi come gli ingredienti dei quali sono fatte tutte le cose, rimandando, in maniera intuitiva, all’ambito gastronomico, a quei componenti che, come il lievito, pur non essendo sensibilmente identificabili nelle pietanze, tuttavia, conferiscono loro specifiche proprietà. Anche se diretta ed efficace, questa definizione lascia aperte, però, alcune questioni fondamentali, come quella di stabilire dei criteri per identificare, caratterizzare e riconoscere ciascun elemento.

I filosofi greci sono stati i primi a elaborare il concetto di elemento perché, per spiegare la composizione delle sostanze e le loro trasformazioni, hanno scelto di ricorrere all’ipotesi che, al di sotto della sua varietà e complessità, la Natura nasconda un ordine unificante, un substrato comune, eventualmente articolato in uno o più semplici costituenti elementari. Nel corso dei secoli, il concetto ha subito una notevole e continua evoluzione, mentre ai metodi di indagine della Natura puramente speculativi si aggiungevano quelli empirici e poi sperimentali.

Di conseguenza, l’iniziale concezione astratta è stata gradualmente sostituita, da una visione più materiale, che considera gli elementi come costituenti reali delle sostanze composte, isolabili con metodi analitici, e ricombinabili in nuovi composti, senza subire alterazione, soprattutto nella loro identità e nel loro peso. Questa caratteristica ha causato non poche difficoltà, specialmente perché l’ apparenza delle sostanze naturali è molto diversa da quella degli elementi dai quali sono ritenute composte.

Lo stesso Lavoisier, che pure ha formulato la prima definizione rigorosamente operazionale di elemento, e lo ha decisamente privato di ogni attributo metafisico, riportandolo sul piano materiale delle sostanze semplici, termine ultimo dell’analisi chimica, riteneva che le qualità dei composti siano determinate da quali elementi (principi) essi contengano. Il tipico esempio è quello dell’ossigeno, cui attribuiva l’origine delle proprietà acide di tutte le sostanze che lo contengono, tanto da attribuirgli un nome che, nella sua origine greca, esplicita questa convinzione, poi rivelatasi non corretta.

Tuttavia, l’ipotesi dell’invariabilità degli elementi nel corso delle trasformazioni chimiche fu usata da Lavoisier a supporto della legge di conservazione della massa, e, successivamente, da Dalton, come presupposto per associare a ciascuno di essi un differente atomo indivisibile, con un peso atomico definito e costante. Così, la non decomponibilità degli elementi, sancita a livello macroscopico dalla definizione operazionale di Lavoisier, era integrata, a livello microscopico, dalla indivisibilità dei loro atomi.

Occorse più di mezzo secolo perché la teoria atomica giungesse a piena maturazione, con l’accettazione delle differenze tra atomo e molecola e tra peso equivalente e peso atomico, e di un metodo oggettivo per la determinazione di quest’ ultimo. Alla fine, i tempi erano maturi per tentare un nuovo approccio al concetto di elemento e di classificare tutti quelli (vecchi e nuovi) che erano considerati tali.

Sotto questo aspetto, un ruolo determinante l’ha giocato il chimico russo Dimitri Mendeleév, che, solo dopo aver riconsiderato attentamente il concetto di elemento, ha potuto individuare la legge di periodicità (1869), ed assegnare a ciascun elemento un posto, all’interno dello schema di distribuzione, relativo al sistema periodico. Il passaggio fondamentale del suo processo speculativo è stato l’ aver posto una netta distinzione tra il corpo semplice, osservabile, riconoscibile dalle proprietà chimiche e fisiche che lo caratterizzano, e l’elemento, che è responsabile di queste proprietà, ma non ne possiede nessuna, a parte il peso atomico.

Secondo questa doppia prospettiva, l’elemento è sia un componente reale, concreto delle sostanze, la cui realtà materiale è espressa dal peso atomico, sia un ente astratto, immutabile, che si manteneva come tale nel corso delle trasformazioni chimiche (reazioni). Attraverso questo processo di astrazione, Mendeleév è stato in grado di individuare correttamente le relazioni reciproche tra i diversi elementi, sulle quali costruire un efficace schema di distribuzione, che gli ha consentito, inoltre, di prevedere le proprietà delle sostanze semplici corrispondenti a quelli ancora da scoprire.

L’elemento era perciò identificato dalla posizione occupata nello schema di distribuzione (tabella periodica), e nessun nuovo elemento poteva essere accettato se non vi avesse trovato un posto: questo spiega le difficoltà concettuali che, per anni, hanno impedito di riconoscere la scoperta dei gas nobili.

All’inizio del XX secolo, gli enormi progressi della Fisica nucleare hanno portato a scoperte fondamentali, che hanno aggiunto nuove difficoltà alla formulazione del concetto e della definizione di elemento: la scoperta degli isotopi di uno stesso elemento (con pesi atomici leggermente, ma significativamente, differenti) ha tolto al peso atomico lo status di parametro caratterizzante, mentre quella del nucleo atomico e della sua struttura, se ha demolito il principio della indivisibilità dell’atomo, ritenuta strettamente connessa al concetto di elemento, come ultimo componente della materia, nello stesso tempo ha consentito di individuare nel numero di protoni in ciascun nucleo (numero atomico) il parametro individuale caratteristico di ciascun elemento, che lo distingue dagli altri.

La differenza fondamentale tra la sostanza semplice, definita operativamente da Lavoisier, e l’entità immutabile che costituisce sia la sostanza semplice che i suoi composti, fu ribadita nel 1931, dal chimico austriaco Friedrich Paneth, che riprese la concezione duale di Mendeleév: riteneva l’elemento il termine ultimo dell’ analisi chimica, concreto, dotato di qualità (la sostanza semplice di Lavoisier), e, contemporaneamente, anche un’entità trascendentale (sostanza basica), che non manifestava nessuna qualità, ma era presente, immutabile, sia nella sostanza semplice che nei suoi composti.

Numerose altre definizioni sono state proposte, ma l’ambiguità legata alla natura duale dell’elemento permane: la definizione ufficiale della IUPAC fa riferimento, contemporaneamente, al piano microscopico (nucleo con lo stesso numero di protoni) e a quello macroscopico (sostanza semplice, i cui atomi hanno lo stesso numero di protoni), mentre le proposte più recenti continuano ad oscillare tra astrazione, l’elemento è un’entità immateriale, priva di proprietà fisiche e chimiche (Robert Luft, 1997), e materialità, l’elemento è una classe di nuclei aventi lo stesso numero atomico (William Jensen, 1998).

E’ evidente che ancora molta strada deve essere percorsa per arrivare a una definizione che sia priva di ambiguità, non dia adito ad equivoci, e tenga conto dei notevoli progressi nella conoscenza della struttura della materia, e che questo deve essere un cammino condiviso da chimici, fisici, filosofi, epistemologi, e quanti altri possano contribuire  a fare chiarezza.

In questo contesto, il volume dal titolo What is a chemical element?, edito da Eric Scerri e Elena Ghibaudi, pubblicato a inizio 2020 da Oxford University Press, si pone come un tentativo di affrontare, se non superare, questi problemi. Il libro si compone di 14 capitoli, ciascuno di un autore diverso (inclusi gli editori), nei quali la questione posta nel titolo è affrontata secondo differenti punti di vista, quello dello sviluppo storico del concetto di elemento, quello filosofico, quello epistemologico, quello didattico.

Questa impostazione è sicuramente efficace, perché consente al lettore di affrontare la questione da diverse prospettive, m presenta lo svantaggio di generare numerose ripetizioni, che, forse, avrebbero richiesto una maggiore coordinazione, per non costringere a una lettura sinottica dei diversi capitoli.

Considerati curricula e pubblicazioni precedenti dei due editori, è evidente che Scerri e Ghibaudi avrebbero potuto scrivere da soli questo libro, arricchendolo con gli approfondimenti tratti dalla letteratura, realizzando così un prodotto altrettanto ricco, ma sicuramente più omogeneo, e quindi di più agevole lettura, comprensione e assimilazione dei suoi contenuti profondi. Tuttavia, la scelta di coinvolgere nella stesura del volume differenti colleghi, lasciandoli liberi di svolgere l’ argomento secondo le proprie competenze e inclinazioni, dimostra grande onestà intellettuale da parte degli autori, e arricchisce il contenuto di sfumature, sottigliezze e particolari, che lo svolgimento unitario non avrebbe potuto garantire.

Come dichiarato da Scerri già nel primo capitolo, il libro non si pone come un punto di arrivo, né intende fornire una risposta conclusiva (che forse non esiste), anche se ne presenta parecchie, formulate dai diversi autori; piuttosto, vuole essere il punto di partenza di una discussione quanto più ampia e approfondita, alla quale fornisce i presupposti essenziali, esponendo in maniera chiara, puntuale e, per quanto possibile, esaustiva, i termini della questione.

A chi è destinato il libro? Probabilmente, non a quei chimici, che hanno scelto di impegnarsi a tempo pieno nell’attività di ricerca, e puntano ad incrementare sempre più la propria produttività industriale o accademica: essi continueranno, senza disagio, a usare il termine e il concetto di elemento, perfettamente consapevoli del suo significato, e di quali informazioni intendono trasmettere utilizzandolo, certi che gli altri chimici lo recepiranno in maniera corretta.

In fondo, come affermato dal chimico francese Georges Urbain (1925), i chimici si contentano di una definizione per uso interno: l’elemento chimico è un’ idea, una categoria astratta, costruita dai chimici per gli scopi inerenti alla loro disciplina, il cui aspetto distintivo è il numero atomico (pagina 267 del libro), e il chimico inglese Fredrick Soddy aggiunge (1918): la nozione di elemento è chimica, per cui non dobbiamo farci distogliere dal fatto che esso è associato a una miscela isotopica, che non è né semplice né elementare: quello che è importante è che l’elemento è unico nel suo carattere chimico, e che tutto questo non influenza affatto o minimizza l’importanza pratica della concezione degli elementi chimici, come concepiti prima della scoperta degli isotopi (pagina 267 del libro).

Invece, questo libro apre al chimico nuove prospettive e pone nuove problematiche, come, per esempio, quella di riconoscere lo status di elemento a quelli superpesanti, il cui tempo di vita estremamente breve e l’esiguità del numero di atomi che se ne ottengono, rende problematica, se non impossibile, la loro caratterizzazione chimica. Se si vuole inserire anche questi elementi nel sistema periodico, occorre prima considerare questi aspetti e riformulare, di conseguenza, il criterio di accettazione di nuovo prodotto come elemento.

Per tutto questo, il libro costituisce un prezioso strumento di approfondimento e di riflessione per gli storici e gli epistemologi della Chimica e della Scienza, per chi si interessa di Filosofia, per tutti coloro che ritengono ormai superato e anacronistico il tentativo di tenere separate le culture umanistica e scientifica, che, invece, devono interfacciarsi e confrontarsi continuamente, e per tutti coloro che intendono arricchire il proprio essere chimici con una riflessione profonda sui concetti fondamentali della propria disciplina, e rileggere sotto nuova luce tutte le proprie attività, passate, presenti e future.

Soprattutto, il libro è strumento fondamentale di crescita per tutti coloro che insegnano la Chimica a tutti i livelli, perché, come essi sanno, è estremamente importante fornire agli studenti concetti chiari, corretti non ambigui, che possano accompagnarli nel futuro professionale, evidenziando attraverso quali faticosi, e non sempre lineari, procedimenti si sia arrivati, o si cerchi di arrivare, alla loro formulazione. Perché, come dice Farzad Mahootian, docente di Filosofia della Scienza alla New York University, a pagina 156 del libro, di una scienza, impariamo molto di più dal processo di formazione dei suoi concetti, che non dai concetti stessi.

Nel libro, l’insegnante non troverà la formula magica che gli consenta di enunciare in maniera conclusiva il concetto di elemento, ma piuttosto tutte le informazioni, le obiezioni, gli spunti di riflessione, necessari a organizzare il proprio lavoro, e aiutare gli studenti a recepirlo in maniera corretta.

E’ ovvio che chi, come me, ha una formazione solo scolastica e basilare di Filosofia, Logica o Epistemologia, troverà qualche capitolo di non facile lettura o non pienamente comprensibile; tuttavia, la lettura dell’intero volume, gli permetterà di ritrovarsi, di ricostruire e arricchire il concetto di elemento consolidato negli anni della professione, eliminando i fraintendimenti, rendendolo consapevole di quanto ricco e profondo esso sia, qualità che spesso sfuggono a tutti coloro che continuano a ritenere separati e non conciliabili il campo delle Scienze e quello della Cultura umanistica.

*Roberto Zingales è nato a Palermo il 13.05.1951. E’ professore associato di Chimica Analitica dal 1992. Ha insegnato: Chimica Analitica Qualitativa, Chimica Analitica, Storia della Chimica, Equilibri Chimici. E’ componente del Seminario di Storia della Scienza della Facoltà di Scienze MM. FF. e NN dell’Università di Palermo, componente del Collegio di Dottorato in Storia e Didattica della Matematica e della Fisica, nonchè Responsabile scientifico del Museo e della Biblioteca storica del Dipartimento di Chimica.

Recensione. Salvare il pianeta per salvare noi stessi. Energie rinnovabili, economia circolare, sobrietà

Claudio Della Volpe

Recensione.

Vincenzo Balzani – Salvare il pianeta per salvare noi stessi. Energie rinnovabili, economia circolare, sobrietà

Collana apocalottimismo Edizioni Lu.Ce. euro 14    p.126 (2020)

Una nota iniziale; pochi giorni fa abbiamo presentato, per la penna di Margherita Venturi una recensione su un libro di Fabio Olmi contenente 10 interviste immaginarie ad altrettanti scienziati (5 del passato e 5 viventi) sul tema della transizione energetica e del riscaldamento climatico; il titolo del libro è molto simile a questo di oggi ma si tratta di due  libri completamente diversi; questo di oggi è una raccolta di tre testi (o quattro se consideriamo anche l’interessante e dotta introduzione dell’editore) due dei quali scritti da Vincenzo Balzani per la Chimica e l’Industria (vedi in fondo) e riuniti qui in un unico  scritto ed una conferenza famosa di molti anni fa di Giacomo Ciamician, La fotochimica dell’avvenire nella sua versione originale in inglese. Il tema è sempre la transizione energetica, ma il taglio è diverso.

Il libro che vi presento oggi, tutto di scuola bolognese in un certo senso, è un agile (forse fin troppo) testo che passa in rassegna i temi principali della transizione e le sue modalità nella parte scritta da Balzani e che ricorda un momento fondamentale della storia della Chimica, l’idea che la fotochimica abbia un grande avvenire, nel testo della conferenza del 1912 di Ciamician, avvenire sia dal punto di vista energetico che dei materiali.

Comincio da questa conferenza che pur essendo stata scritta oltre un secolo fa illustra idee estremamente moderne. L’editore ha preferito riportare il testo originale nonostante sia disponibile in traduzione italiana anzi credo sia stato scritto in italiano e poi tradotto al tempo. E’ una scelta che sottolinea l’internazionalità dell’autore e l’importanza della sua visione già nel 1912, ma che forse ne riduce un po’ la fruibilità.

Per chi non l’avesse mai letto la seconda parte è squisitamente fotochimica, sulle reazioni che si potrebbero ottenere per via fotochimica, ma la prima è quella più interessante per i temi della sostenibilità : si sostiene il punto di vista che i fossili non sono eterni, che diventeranno sempre più difficili da estrarre (un concetto sottile questo che oggi si esprime quantitativamente con l’EROEI)

Si deve ricordare che in alcuni luoghi i depositi di carbone possono diventare praticamente inutili ben prima del loro esaurimento”

e che dunque occorrerà passare ad una forma di energia primaria differente, quella solare che fra l’altro è disponibile in quantità gigantesca.

Ovviamente Ciamician non può parlarci di fotovoltaico perché alla sua epoca il fenomeno era poco più di una curiosità sperimentale, scoperta nella prima metà dell’800 e la comprensione teorica era ancora di là da venire; la teoria dell’effetto fotoelettrico è del 1905 e la sua dimostrazione sperimentale del 1916.

Altrettanto ovviamente Ciamician non si pone problemi di limiti (e come potrebbe?) la popolazione della sua epoca era di poco superiore al miliardo e mezzo di persone, esistevano ancora luoghi del pianeta mai raggiunti o raggiunti da poco (l’impresa di Amudsen al Polo Sud era di nemmeno un anno prima) anche se occorre dire che all’epoca tutto il mondo era diviso già compiutamente in zone di influenza e di lì a pochissimi anni sarebbe iniziata la prima guerra mondiale.

Una cosa che si ricorda poco della conferenza di Ciamician è che egli esorta anche ad una visione che oggi definiremmo di chimica verde, ossia propone che sia possibile usare come sorgenti di sostanze chimiche di base alcuni prodotti vegetali e che addirittura con una opportuna gestione (non credo genetica) si possano ottenere prodotti utili da piante comuni:

Non perché io voglia attribuire a questi studi una qualche importanza pratica, ma perché essi, provano come si possa intervenire direttamente nella vita  delle piante e modificare in un certo senso i processi chimici che in esse si compiono. In una serie di esperienze dirette a determinare la funzione fisiologica dei glucosidi, noi siamo riusciti a farli produrre a piante che naturalmente non ne contengono. Così ad es. abbiamo potuto, con opportune inoculazioni, costringere il mais a fare la sintesi della salicina. E più recentemente, occupandoci della funzione degli alcaloidi nelle piante, ci è stato possibile modificare la produzione della nicotina nel tabacco in guisa da ottenere un notevole aumento, oppure una diminuzione dell’alcaloide in esso contenuto. Questo è l’inizio; ma non sembrapossibile che con opportuni sistemi di coltura ed interventi si possa arrivare a fare

produrre alle piante in copia maggiore di quanto non lo facciano normalmente, quelle sostanze che sono utili alla vita moderna e che noi ora con così gravi artifici aver importanza il timore di sottrarre i campi alla produzione delle materie alimentari per favorire quella industriale. Un calcolo anche approssimativo dimostra che sulla terra v’è largamente posto per tutto e per tutti, massime quando le colture sieno debitamente perfezionate ed intensificate ed adattate razionalmente alle condizioni del clima e del suolo. Ciò costituisce appunto il problema dell’avvenire.

Come vedete dunque una miscela di punti di vista che oggi in parte sono realizzati ma (proprio per questo) il cui “problema” non è stato del tutto risolto.

Diverso il caso del testo di Vincenzo Balzani, a noi contemporaneo e che per molti aspetti è la naturale evoluzione della prima parte del testo di Ciamician.

Il suo sottotitolo è: Energie rinnovabili, economia circolare, sobrietà mentre il titolo originale è stato leggermente modificato per sottolineare che siamo proprio noi la parte debole del pianeta, quella che rischia di più.

In questo sottotitolo sta la forza del testo, cioè nel suo legare i due elementi tecnici, tecnologici ad una scelta sociale; nel comprendere da subito che la scienza e la tecnica da sole non ci salveranno; è la posizione che abbiamo scelto anche per questo blog, è la nostra posizione: gli scienziati devono uscire dalla loro torre, dai loro laboratori e fare politica, anzi fare POLITICA, tutto maiuscolo, basandosi sulla scienza ovviamente ma senza scordare la situazione sociale e politica dell’umanità.

Proprio per questo anche un testo agile, breve, solo 110 pagine che non si può dunque pretendere che dica tutto né che sia privo di punti su cui si potrebbe approfondire è assolutamente di utile e importante lettura.

Su alcuni punti non nascondo che ci vorrebbe un approfondimento: per esempio sull’effettiva sostenibilità dell’energia geotermica o mini-idroelettrica oggi messe spesso in discussione; sul concetto del picco del petrolio, quello del petrolio tradizionale è passato già nel 2005; sui problemi che vengono dalla limitatezza delle risorse minerarie necessarie allo sviluppo delle rinnovabili e dunque le questioni che discendono da una distribuzione sostanzialmente uniforme dell’energia solare ed eolica, ma disuniforme delle risorse minerarie e delle competenze tecniche necessarie al suo uso.

Ma ripeto non si può pretendere un trattato da quello che è un testo di divulgazione ma anche di battaglia che critica per esempio i comportamenti delle nostre aziende energetiche, pur facendo una differenza di valutazione fra le strategie dei Eni ed ENEL. La prima continua a seguire ahimè il tracciato fossile, solo spennellato di pallido verde, mentre l’ENEL dopo aver abbandonato la prospettiva nucleare, che il testo giustamente stigmatizza, sembra aver preso più seriamente il processo di transizione energetica (attenzione: a parte la questione centrali a carbone ovviamente!).

I capitoli più densi sono certamente gli ultimi tre in cui si analizzano nel sesto le varie energie rinnovabili nel settimo le loro prospettive mentre nell’ottavo lo sguardo si allarga ad una prospettiva più ampia di “transizione” che cerca di connettere tutti i discorsi precedenti; questi sono i punti salienti del testo.

La “transizione” è vista dunque come un processo complessivo non solo tecnologico che obbliga a cambiamenti importanti anche dal punto di vista finanziario ed economico; in questo ottavo capitolo c’è uno spazio specifico per la scienza ed il suo ruolo. Scrive Vincenzo:

La scienza ha fatto e continua a fare la sua parte per promuovere e sostenere la transizione energetica. Ha denunciato e combattuto le falsità propagate dalla lobby dei combustibili fossili, ha dimostrato la correlazione fra aumento della temperatura del pianeta ed emissioni di CO2, continua ad indagare sui vari fenomeni collegati al cambiamento climatico nel tentativo di controllarli…… La scienza, soprattutto, ha generato due tecnologie, fotovoltaico ed eolico, che sono oggetto dei più rapidi sviluppi industriali di sempre e che possono risolvere, con il contributo marginale di altre tecnologie, il problema che abbiamo innanzi.

Per quanto riguarda i combustibili fossili, sarebbe bene che non ci fossero più progressi scientifici né nella ricerca di nuovi giacimenti, destinati a rimanere inutilizzati, né nella loro estrazione, per non causare ulteriori danni, come sta accadendo con il metodo fracking, e neppure nel megalomane tentativo di sequestrare e imprigionare le emissioni di CO2 con metodi inefficaci, pericolosi ed energeticamente dispendiosi (CCS). Se vogliamo salvare il pianeta, la strada da percorrere è soltanto una: smettere al più presto di usare i combustibili fossili.

Se una cosa ci ha insegnato la pandemia è che mai la crisi climatica è stata trattata a livello sociopolitico come una vera crisi; le crisi muovono decisioni immediate, grandi finanziamenti, cambiamenti immediati di strategia; nulla di tutto questo per la crisi climatica, che ha mosso grandi discorsi, qualche firma, ma poco di concreto; è quanto rilevano in un recente lettera aperta spedita a tutti i leader e capi di stato europei il 16 luglio us, alcuni scienziati e varie personalità fra cui Greta Thurnberg. Dice la petizione:

 

E’ ora più chiaro che mai che la crisi climatica non è mai stata trattata come una crisi, né dai politici, dai media, dalle imprese, né dalla finanza. E più a lungo continueremo a fingere di essere su un percorso affidabile per ridurre le emissioni e che le azioni necessarie per evitare un disastro climatico sono disponibili all’interno del sistema attuale – o in altri termini che possiamo risolvere una crisi senza trattarla come tale – tanto più tempo prezioso perderemo.

Il testo di Balzani è la prova che ci sono scienziati che fanno il loro mestiere: maestri di scienza e di vita.

Se avete dubbi a comprare il libro considerate che costa meno dell’accesso per un giorno al solo articolo di Ciamician.

Nota.

I due articoli di Balzani sono stati pubblicati su

La Chimica e l’Industria Newsletter 7/ottobre 2018 La Chimica e l’Industria – 2018, 5( 7), ottobre

SALVARE IL PIANETA: ENERGIE RINNOVABILI, ECONOMIA CIRCOLARE, SOBRIETÀ – PARTE PRIMA Vincenzo Balzani pag. 4-20

 

La Chimica e l’Industria Newsletter 8/novembre 2018 La Chimica e l’Industria – 2018, 5(8), novembre

SALVARE IL PIANETA: ENERGIE RINNOVABILI, ECONOMIA CIRCOLARE, SOBRIETÀ – PARTE seconda Vincenzo Balzani pag 4-28

un terzo testo uscì sulla versione cartacea n.5 di C&I del medesimo anno come riassunto.

Photochemistry of the future, G. Ciamician

Science  27 Sep 1912: Vol. 36, Issue 926, pp. 385-394 DOI: 10.1126/science.36.926.385

 

Recensione.“Salviamo il pianeta” di Fabio Olmi

Margherita Venturi

 

Recensione. “Salviamo il pianeta” di Fabio Olmi, PM edizioni, 164p, 15,2 euro, 2020

Salviamo il pianeta è l’ultima fatica dell’amico e collega Fabio Olmi. Il libro ha una splendida prefazione di Vincenzo Balzani e scrivere qualcosa in più o di nuovo su questa opera è veramente difficile, per cui aggiungo solo alcune considerazioni personali.

Il libro mi è arrivato direttamente da Fabio e, aprendolo, nella prima pagina ho trovato una dedica scritta di pugno dall’autore con la sua bellissima calligrafia “A Margherita con un grosso abbraccio, Fabio”. Questo mi ha fatto sentire ancora più in sintonia con l’autore, se mai ce ne fosse stato bisogno, perché con lui da sempre condivido non solo l’amore per la Chimica, ma anche l’interesse per le tematiche ambientali; non a caso quindi mi ha regalato il suo libro!

Infatti, le tematiche ambientali e il problema della sostenibilità, considerato in tutte le sue sfaccettature, sono il fulcro di questo libro. Nulla di nuovo uno potrebbe dire, cosa sicuramente vera, ma nuovo e originale è il modo con cui Fabio li ha affrontati: si tratta di interviste “virtuali” a scienziati autori di dieci libri pubblicati fra il 1972 e il 2019; cinque di questi libri tracciano la nascita e lo sviluppo delle idee ecologiste, mentre gli altri cinque, i più recenti, presentano la situazione odierna e i tanti problemi da risolvere.

Mi ha affascinato in modo particolare l’attualità dei cinque libri “più vecchi” e questo mi ha permesso di fare due considerazioni.

La prima è che i grandi scienziati e i grandi libri “non muoiono” mai perché sanno vedere ben oltre il loro tempo. A questo proposito basta pensare a Giacomo Ciamician che, nella sua conferenza La fotochimica dell’avvenire tenuta a New York nel lontano 1912, sostiene con grande lungimiranza la necessità di abbandonare i combustibili fossili (lui ovviamente parla di carbone) per passare all’energia solare.

La seconda considerazione è invece più triste e critica: se le preoccupazioni che si ritrovano in quei libri degli anni settanta e ottanta del secolo scorso sono ancora di grande attualità, vuol dire che le parole degli scienziati, autori di quei libri, non sono state ascoltate (vedi appunto Ciamician) e molto c’è ancora da fare per risolvere i problemi ambientali, cosa che appare molto chiaramente dalle interviste agli autori dei libri più recenti.

Volutamente non dico nulla su quali libri sono stati selezionati e presentati (cosa che Fabio illustra bene nell’introduzione alla sua opera) per stuzzicare la curiosità dei potenziali lettori; dico solo che in queste interviste virtuali Fabio non si sottrae dall’esporre il suo parere personale sempre rigoroso, preciso e corredato da informazioni scientificamente affidabili. Ottimi sono anche i box disseminati in tutto il libro che approfondiscono temi scottanti, quali, ad esempio, la biodegradabilità della plastica, l’impiego delle biomasse a scopo energetico, e chiariscono concetti difficili, come le caratteristiche e il funzionamento di un termovalorizzatore, la cattura della CO2 e tanti altri.

È un libro che si legge benissimo ed è adatto al cittadino curioso, sensibile ai problemi relativi all’ambiente, ma per la rigorosità scientifica, è anche una guida perfetta per gli insegnanti che desiderano, o meglio che ben presto dovranno, trattare con i loro studenti le tematiche legate all’educazione ambientale. Fabio, da ottimo docente quale è stato, sottolinea: … molti dei temi propri dei curricula di chimica, biologia e fisica possono essere sviluppati affrontando argomenti di interesse ambientale in chiave interdisciplinare, tenendo però presente la necessità di trattare questi argomenti dopo che sono stati sviluppati i concetti di base delle tre discipline. Quindi, sottolinea, cosa sulla quale sono totalmente d’accordo, che l’educazione ambientale deve essere insegnata da docenti di estrazione scientifica, anche se l’interazione con docenti di altre aree del sapere è fondamentale. Fabio aggiunge inoltre che: Con questo non voglio dire che non si debba affrontare anche a livelli scolari più bassi la situazione ambientale, ma sembra opportuno limitarsi a questi livelli a trattare soggetti adeguati con modalità opportune (ad esempio il problema dei rifiuti, del riutilizzo circolare e del loro smaltimento finale). Ulteriore aspetto didattico interessante è che il saggio termina con dei suggerimenti di lettura: si tratta di tre testi adatti per i vari livelli scolastici. A questo proposto ringrazio Fabio per aver ricordato fra essi “Energia, risorse, ambiente” che Vincenzo Balzani ed io abbiamo scritto proprio per sensibilizzare i giovani verso i problemi ambientali.

Concludo dicendo che il libro di Fabio è uscito durante il lockdown dovuto alla pandemia COVID-19 e periodo più adatto non si poteva trovare. Infatti, molti scienziati attribuiscono al degrado del nostro pianeta, argomento centrale di questo saggio, il motivo della diffusione del virus. Lui stava bene nelle foreste e negli animali selvatici, ma noi gli abbiamo fatto attorno terra bruciata: l’eccessiva antropizzazione del suolo, il cambio climatico, l’accumulo dei rifiuti, l’inquinamento di ogni comparto del pianeta, la perdita di biodiversità e chi più ne ha più ne metta hanno creato la giusta condizione affinché il virus potesse fare il salto animale-uomo e si moltiplicasse.

Quindi, la lezione che si può trarre dalla diffusione del COVID-19 è salviamo il pianeta, come dice Fabio, per salvare l’umanità, aggiungo io. A tutti quelli che sono ancora scettici al grido di allarme degli scienziati, e ora anche di molti giovani con in testa Greta Thunberg, dico che salvare il pianeta non è un atto di altruismo nei confronti della nostra madre Terra è, al contrario, un atto di egoismo perché solo così l’umanità potrà sopravvivere.

Recensione. “Chimica al femminile” di Rinaldo Cervellati

Margherita Venturi

Recensione. Chimica al femminile, Rinaldo Cervellati, ed. Aracne, 2019 p.308 euro 21 (il solo pdf euro 12)

Conosco Rinaldo Cervellati praticamente da sempre e, praticamente da sempre, apprezzo il suo rigore nella ricerca scientifica e la sua sensibilità nei rapporti umani. Ebbene questo è il Rinaldo autore di “Chimica al femminile”: appare evidente il suo rigore nella ricerca delle fonti, dei dati riportati e del contesto storico e traspare ovunque il suo coinvolgimento emotivo quando descrive la vita delle scienziate. Non sembra quasi un libro scritto da un uomo e questo, detto da una donna, è un gran complimento.

Il mondo della scienza, e in particolare della chimica, è un mondo popolato fondamentalmente da uomini, o meglio è così che deve apparire, vuoi per retaggi storici, vuoi per pregiudizi che stentano a morire.

Ai miei studenti universitari, maschi e femmine più o meno in numero uguale e frequentanti una laurea magistrale in chimica, da alcuni anni racconto la seguente storiella. Un bambino è in macchina con il padre; avviene un tremendo incidente e il padre muore, mentre il bambino, in condizioni disperate, viene portato all’ospedale; deve essere operato d’urgenza, ma il chirurgo di turno, dopo aver guardato il bambino, con angoscia dice: non lo posso operare, è mio figlio! Alla fine della storia domando: come è possibile? Ricevo le risposte più fantasiose, maliziose e stravaganti (il padre non è morto; l’uomo morto non è il vero padre del bambino) e ben difficilmente la risposta più banale: il chirurgo è la madre del bambino. Il motivo deriva dal fatto che lo stereotipo è quello di un chirurgo necessariamente uomo e anche le donne ne sono convinte, come dimostra l’eterogeneità del mio pubblico di studenti, fra l’altro già grandi e con una buona preparazione scientifica alle spalle.

Un altro esempio eclatante, sempre riferito alla mia esperienza personale, riguarda la Tavola Periodica parlando della quale spesso chiedo: chi ha contribuito a popolarla? Chi ha scoperto gli elementi ordinati in questo documento? Ci sono donne scienziate che hanno lavorato in quest’ambito? Oltre al nome di Marie Curie, a cui a volte si aggiunge quello di Marguerite Perey, non viene fuori null’altro. E non potrebbe essere diversamente, perché le tante donne che hanno contribuito a far crescere la Tavola Periodica non sono state riconosciute, o peggio sono state volutamente dimenticate.

Il libro di Rinaldo è un omaggio proprio alle scienziate dimenticate e a quelle che hanno subito gravi torti. Sono in totale 41 storie, una più bella e triste dell’altra, anche se in ciascuna emergono la determinazione e la forza di volontà che caratterizzano il sesso femminile (immeritatamente chiamato sesso debole, ma forse questa è un’invenzione degli uomini). Nonostante avessi già avuto modo di leggere alcune delle monografie che ritroviamo nel libro, proprio in questo blog nella serie “Scienziate che avrebbero dovuto vincere il premio Nobel”, a cura di Rinaldo, il piacere della lettura è rimasto intatto e il coinvolgimento è stato sempre molto forte.

Come dicevo, si tratta di una carrellata di “eroine” della chimica e ogni storia ha suscitato in me sentimenti diversi.

Per esempio, ammirazione e tenerezza è ciò che ho provato per Julia (Yulija) Vsevolodovna Lermontova; ammirazione per i primati che è riuscita a raggiungere (è stata la prima donna russa e la terza donna europea ad aver ottenuto il dottorato), ma anche per i suoi interessi di ricerca: siamo nella seconda metà del 1800, le donne non sono ben accette, eppure lei si dedica ad una chimica “pesante”, ancora oggi appannaggio quasi esclusivo degli uomini, come la sintesi di idrocarburi, la composizione del petrolio caucasico e le tecnologie per migliorare la fertilità del suolo. La tenerezza, invece, l’ho provata leggendo che i genitori, benché non capissero la sua scelta di dedicarsi alle scienze, non la ostacolarono e permisero a Julia di aver accesso alla letteratura specializzata e di compiere esperimenti in casa (mi ha ricordato l’atteggiamento dei miei genitori e un pezzo della mia infanzia quando facevo i primi esperimenti in casa usando il Piccolo Chimico).

E poi, ancora, ammirazione e stima sono stati i sentimenti che ho provato per Ida Noddak, che lavorando assieme a Walter Noddack (direttore dell’istituto e suo futuro marito), riempì la casella 75 della Tavola Periodica con l’elemento renio. Ammirazione per i molti ostacoli che Ida dovette superare, sia dal punto di vista accademico (sempre all’ombra del marito), che da quello economico (in Germania le donne sposate non potevano aver uno stipendio); stima per la determinazione con cui osò criticare Fermi, quando nel 1934 annunciò di aver ottenuto l’elemento 93, bombardando con neutroni l’uranio. Ida suggerì che si trattasse della rottura del nucleo dell’uranio, ma la comunità dei fisici la stroncò, giudicando questa ipotesi inaccettabile e addirittura ridicola (tanto ridicola e inaccettabile da rivelarsi cinque anni dopo assolutamente vera) e, molto probabilmente, fu proprio per questa sfrontatezza che la Noddak, nonostante fosse stata candidata la Premio Nobel quattro volte, non lo ebbe.

Ammirazione e rabbia sono, invece, le sensazioni contrastanti che ha suscitato in me la storia di Lise Meitner; l’ammirazione è dovuta, oltre ai traguardi raggiunti (è stata la seconda donna in Austria ad ottenere il dottorato in Fisica e la prima donna in Germania a ricoprire la cattedra di Fisica), alla grande fermezza con cui ha portato avanti la sua ricerca; a Berlino, appena arrivata, dovette lavorare, spesso senza stipendio, in una carpenteria adattata a laboratorio per misure di radioattività, dal momento che le donne non potevano frequentare gli istituti universitari; poi dovette esiliare in Svezia a causa delle leggi razziali, ma anche qui proseguì instancabile i suoi studi sul processo di fissione dell’uranio, stabilendone le basi teoriche e continuò, seppure da lontano, la collaborazione con Otto Hahn, cominciata ai tempi di Berlino. Lise ebbe sempre un grande affetto e stima per Hahn; la cosa, però, non fu reciproca, perché quando Hahn ebbe il premio Nobel “per la sua scoperta della fissione dei nuclei atomici pesanti” non ebbe neanche il buon gusto di citare l’importante contributo della Meitner a questa scoperta. La rabbia che provo è per i veri motivi che hanno portato all’esclusione della Meitner dal premio (emersi quando i documenti a lungo secretati dei lavori del Comitato Nobel divennero pubblici): pregiudizi disciplinari, ottusità politica, ignoranza e fretta. La Meitner, quindi, fu esclusa perché era donna e perché era ebrea; sugli ultimi due punti preferisco non esprimermi (la rabbia raggiunge le stelle).

La storia di Clara Immerwahr, moglie di Fritz Haber, e quella di Rosalind Franklin mi hanno invece lasciato in bocca un’amara tristezza, perché sono le due “eroine” di questo libro più fragili, vittime di uomini egoisti e ambiziosi.

Clara è stata sopraffatta dal marito che, interrompendo la sua carriera scientifica, l’ha relegata al ruolo di collaboratrice silenziosa; il silenzio, infatti, ha accompagnato tutta la breve vita di Clara che, non avendo il coraggio di dire al marito che la sua ricerca sui gas nervini era una “perversione degli ideali della scienza”, ha preferito suicidarsi.

Anche Rosalind ha avuto una vita breve e, come Clara, non è riuscita ad imporsi e a dichiarare pubblicamente il grande sopruso subito. I suoi dati cristallografici sono stati, infatti, usurpati da tre colleghi, Watson, Crick e Wilkins, che li hanno usati per risalire alla struttura a doppia elica del DNA. Certamente una scoperta importantissima da Premio Nobel e, infatti, i tre colleghi hanno avuto il premio e sono diventati famosi; peccato che si siano dimenticati di citare il lavoro fondamentale di Rosalind. Solo di recente questa triste storia è stata resa nota, quando Rosalind era morta: non solo non ha condiviso il Nobel, ma non ha neanche avuto il piacere di ricevere il giusto tributo dalla comunità scientifica; un grande e incolmabile debito che la scienza avrà sempre nei confronti di questa ricercatrice.

E potrei andare avanti, ma è giusto che scopriate da soli le tante storie raccontate da Rinaldo.

Concludo dicendo che questo libro dovrebbe essere letto fondamentalmente dagli “uomini” per metterli di fronte ad una realtà che può apparire scomoda, ma che bisogna conoscere: chi ignora la storia rischia sempre di ripeterla, ha detto giustamente il nostro autore.

Però, poiché mi piace essere giusta, aggiungo una considerazione; in ambito accademico le cose stanno leggermente migliorando e le donne cominciano ad avere un timido riconoscimento del loro valore (io sono una delle fortunate perché ho lavorato in “un’isola veramente felice”, dove la discriminazione di sesso non è mai esistita). Quindi ci sono anche uomini “illuminati”; ce ne sono stati in passato, ad esempio Mendeleeev si è adoperato per aprire l’istruzione alle donne, e ce ne sono oggi, ad esempio Roald Hoffman, premio Nobel per la Chimica nel 1981 ha detto: amo troppo la scienza per privarla dell’intelligenza delle donne.

TRA FRONTIERE E CONFINI. Recensione

Eleonora Aquilini*

Recensione:  di INSEGNARE E APPRENDERE CHIMICA

 

Il libro di Valentina Domenici “Insegnare e apprendere chimica”(Mondadori, 2018, p.XIV-338 euro 23.80), è sicuramente una novità di rilievo per chi si occupa di didattica della chimica.

Mancava, infatti, un testo di riferimento che facesse il punto sulle teorie e le pratiche che costituiscono il panorama della didattica nazionale e internazionale. Uno strumento importante per studenti che affrontano per la prima volta il problema dell’insegnamento della chimica, per insegnanti di scuola in servizio e per insegnanti universitari. Il libro, nella prima parte che consta di tre capitoli, mostra i vari passaggi che ci portano verso l’insegnamento della disciplina prendendo in esame diversi aspetti: la natura della chimica, il suo insegnamento oggi, il suo apprendimento lungo tutto l’arco della vita, le buone pratiche e i casi di studio.

Valentina Domenici

Ognuno di questi aspetti costituisce una parte del libro che viene analizzata in chiave didattica con un’ampia bibliografia, sicuramente preziosa per il lettore. La prima parte individua lo statuto epistemologico della chimica, la sua storia e il ruolo del suo linguaggio nell’insegnamento, dando un quadro dei capisaldi entro i quali muoversi per ragionare di didattica. La seconda parte del libro viene introdotta dal capitolo 4 che prende in esame l’insegnamento della chimica a scuola e all’università; questa è una novità di non poco conto in quanto, solitamente, la didattica viene considerata un mezzo, un modo per trasporre il sapere accademico ufficiale, dato per scontato e che non si discute, al mondo della scuola. Qui si ragiona alla pari, prendendo la didattica della Chimica come problema comune. Sappiamo tutti, infatti, che se vogliamo cambiare il modo d’insegnare usuale, prevalentemente trasmissivo e “autoritario”, come sostiene Kuhn[1], la discussione su come e cosa s’insegna deve nascere anche in ambito accademico. Allora, il capitolo 4 getta proprio un ponte fra scuola e università, disegna un interregno, una proficua zona di confine, promettente per gli sviluppi di tutta la scuola. A questo riguardo, a proposito cioè di quanto può essere efficace la contaminazione fra campi diversi, viene in mente la distinzione fra frontiera e confine che Richard Sennett delinea in L’uomo artigiano. Facendo riferimento alle pareti e alle membrane cellulari che si differenziano per la maggiore possibilità di scambio con l’esterno delle seconde rispetto alle prime, Sennett scrive: “In tutti gli ecosistemi naturali si possono trovare strutture analoghe alla parete e alla membrana cellulari. Gli ecosistemi hanno frontiere, che assomigliano alle pareti della cellula, e hanno confini che assomigliano alla membrana cellulare. Le frontiere possono delimitare un territorio da difendere, come il territorio abitato da un gruppo di leoni o da un branco di lupi, o la zona controllata da una banda e proibita alle altre … Il confine ecologico, invece, è un luogo di scambio, dove gli organismi diventano più attivi. Tale è la linea costiera di un lago: al bordo di acqua e terra gli organismi possono trovare molti altri organismi di cui nutrirsi”[2]. Sennett ricorda poi come, in ambito antropico, le mura delle città medioevali, nate come frontiere, si siano trasformate in confini attivi, quando ai loro bordi, sono nati piccoli mercati clandestini, o si siano popolati di proscritti e altri vagabondi[3]. Secondo Sennett, la sfida di noi esseri umani è trasformare le frontiere in confini, ossia luoghi di scambio, resistenze porose. Seguendo questa singolare chiave di lettura, diversi sono i luoghi di scambio che vengono evidenziati soprattutto nella terza parte del libro di Valentina, quella che è intitolata “L’apprendimento della Chimica lungo l’arco della vita (Lifelong learning)”: la chimica nella vita di ogni giorno, la comunicazione della scienza, l’immagine della chimica, i contesti non formali, i musei scientifici. In questi casi la disciplina viene a patti con altre strutture di pensiero (si pensi all’Etica), con altre organizzazioni (si pensi ai complessi museali), e modifica se stessa, cambia rotta, o chissà, preferisce tacere. Questi sono tutti ambiti in cui la chimica si confronta, si contamina con altre realtà diventando meno formale e forse più fruibile dai cittadini. L’autrice mette poi in luce, nell’ultima parte del libro, le possibilità, offre prospettive, documentando ciò che già esiste e riportando le buone pratiche, le piste di lavoro che sono sperimentazioni attuate nei diversi ordini di scuola e riflessioni su concetti fondanti per la disciplina. È evidente in questa, come nelle altre parti del libro, la passione e la competenza con le quali Valentina affronta le varie tematiche e come sa documentarle. Sicuramente questo è un libro importante per gli studenti che si stanno preparando all’insegnamento e per tutti i docenti, compresi quelli universitari, un riferimento, uno strumento che accompagnerà costantemente il nostro lavoro.

*Eleonora Aquilini, vive a Pisa e insegna Chimica nella scuola secondaria di secondo grado. Dal 1995 svolge attività di ricerca didattica nel “Gruppo di ricerca e sperimentazione didattica in educazione scientifica” del CIDI di Firenze. Attualmente è vicepresidente della divisione didattica della Società Chimica Italiana. È co-autrice del volume Leggere il mondo oltre le apparenze e ha scritto numerosi articoli riguardanti la didattica della Chimica e delle Scienze.

[1] Thomas S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino,1999.

[2] Richard Sennett, L’uomo artigiano, Feltrinelli, Milano, 2009, pag. 217.

[3] Ibidem, pag. 218.

“Scienza, quo vadis?”. Recensione.

Claudio Della Volpe

Scienza, quo vadis? Tra passione intellettuale e mercato.

Gianfranco Pacchioni, 11 euro Ed. Il Mulino

Recensione

La collana de Il Mulino Farsi un’idea è forse una delle più azzeccate scelte editoriali degli ultimi anni; libri brevi, compatti, ma densi, che svelano ed approfondiscono, attraverso esperti/protagonisti, aspetti critici della società moderna.

Anche il libro di cui vi parlo oggi fa parte di questa classe; 140 pagine per raccontare, anche attraverso le proprie esperienze personali, ma anche con tanti dati ben fondati e riassunti, il cambiamento che la Scienza ha vissuto e sta ancora vivendo negli ultimi 100 anni.

L’autore, Gianfranco Pacchioni, chimico teorico, è Prorettore all’Università di Milano Bicocca dove è stato direttore del Dipartimento di Scienza dei materiali. Per le sue ricerche ha ricevuto numerosi premi internazionali di prestigio, ha anche pubblicato altri libri su temi divulgativi.

Il titolo fa riferimento ad una famosa locuzione di origine apocrifa (che da il titolo anche ad un romanzo di fine ottocento che procurò al suo autore il premio Nobel per la letteratura nel 1905); la frase sarebbe stata pronunciata da Pietro che fuggiva da Roma incontrando il simulacro di Gesù; la risposta di Gesù avrebbe convinto Pietro a tornare sui suoi passi lasciandosi crocifiggere.

Dopo aver letto il libro ci si convince proprio di questo: che l’autore voglia indurre ad un ripensamento (o almeno ad una riflessione critica) chi fa scienza. Ma certo non per farsi crocifiggere!

La struttura del libro è agile e ben impostata; lo stile amichevole, ho trovato poche parole difficili e quelle poche usate senza boria. Insomma grande leggibilità.

L’argomento è diviso in 8 parti e ciascuna di esse è trattata con riferimento ad un esempio concreto il più delle volte tratto dall’esperienza personale dell’autore.

I temi dei primi capitoli, almeno apparentemente, sono quelli che potremo definire meno controversi; ma non è vero. Probabilmente lo sono per chi nella scienza ci lavora, ma non ho dubbi che ci siano molte persone e anche parecchi politici che non sarebbero d’accordo; per esempio sull’importanza della scienza di base, delle ricerche dettate essenzialmente dalla curiosità e non dall’interesse applicativo; purtroppo l’idea che certi tipi di ricerche non servano se non a chi li fa è molto comune e la ignoranza della storia della ricerca aiuta questa misconcezione, che di fatto è anche alla base di parecchi grandi finanziamenti; se non ci sono aziende interessate pare che i grandi progetti europei non abbiano senso; mi permetto di dissentire.

L’autore secondo me giustamente fa notare che praticamente tutte le grandi scoperte degli ultimi anni sono frutto di questo tipo di ricerca curiosity driven, spinta dalla curiosità, ed hanno avuto effetti enormi sulla nostra società.

L’altro argomento che pure pare scontato ma non lo è, almeno per il grande pubblico, mentre appare evidente a quelli della mia generazione (che è poi quella di Pacchioni) che lo hanno vissuto e che potrebbero portare esempi simili a quelli del libro è il grandissimo cambiamento della ricerca negli ultimi 50 anni (la cosa potrebbe non essere così evidente per i giovani ricercatori). Chi è abituato a fare un plot in pochi secondi con Excel o Kaleida potrebbe non capire che i due lavori all’anno di una volta implicavano tanto impegno quanto i venti lavori annui di alcuni di oggi. Siamo passati da una attività di nicchia, quasi artigianale ad attività di fatto industriale cambiando molti dei modi concreti di operare e coinvolgendo meccanismi complessi e difficilmente gestibili.

E’ cambiata non solo la dimensione delle cose, ma anche la velocità della produzione e (a volte) la sua qualità, e di più alcuni dei metodi di controllo della qualità (come si potrebbero chiamare in gergo industriale i processi di peer review) si dimostrano inadeguati, difficili da adattare alle nuove dimensioni. Questo ha favorito lo svilupparsi di una serie di meccanismi fraudolenti, la cui dimensione e la cui importanza sono spesso correlati con le dimensioni e l’importanza applicativa della scienza. Abbiamo ricordato di recente il caso poliacqua, che però attenzione non fu una frode, fu una incomprensione, un errore; ben diverso dal caso recente di Hendrik Schön, una vera truffa, raccontato da Pacchioni. In entrambi il metodo scientifico e il confronto fra pari sono stati si capaci di rivelare il problema, ma in entrambi si sono dimostrati lenti, probabilmente troppo. E questo della lentezza è dopo tutto uno dei temi del testo.

Ho apprezzato la illustrazione ben fatta dei vari termini che si usano in ambito scientifico che spesso né il grande publico né i giornalisti comprendono appieno: dalla valutazione della ricerca ai meccanismi specifici come il peer review, l’impact factor, etc. con una analisi critica del loro significato.

Qui val la pena di una citazione per la quale ringrazio Rinaldo Cervellati:

Richard R. Ernst (Premio Nobel per la Chimica, 1991) ha scritto:

And as an ultimate plea, the personal wish of the author remains to send all bibliometrics and its diligent servants to the darkest omnivoric black hole that is known in the entire universe, in order to liberate academia forever from this pestilence. And there is indeed an alternative: Very simply, start reading papers instead of merely rating them by counting citations. (Chimia, 2010, 64, 90)*

*rivista ufficiale della Swiss Chemical Society

Pacchioni appare combattuto fra le due visioni diverse della Scienza che emergono dall’analisi storica che egli stesso compie; ne vede aspetti negativi e a volte positivi; e non è il solo. La parte interessante di questa analisi è anche nel denunciare il legame di queste contraddizioni con le altre maggiori contraddizioni della nostra società: riferendosi ad esse Pacchioni scrive:

in un mondo che evolve in queste direzioni, non si può pretendere che la scienza resti un’isola felice e incontaminata, una sorta di porto franco totalmente immune da processi involutivi

Però ecco, se posso dare un contributo critico, qui mi sarei aspettato un passo avanti, un saltino che altri colleghi come Balzani o Armaroli, egualmente bravi sembrano aver fatto: la Scienza può indicare un cammino proprio sulla base dei contenuti che scopre nell’evoluzione tecnica, naturale, sociale ed economica dell’Umanità; per esempio la insostenibilità dei meccanismi di mercato e di crescita infinita è palese, la necessità di un mondo organizzato su basi diverse, più umane e non economicistiche è dimostrabile a partire dalla distruzione dell’ecosistema che la chimica e le altre scienze rivelano.

Dunque una riforma, chiamiamola così, della scienza è possibile insieme ad una riforma del meccanismo economico iperproduttivistico e di crescita continua che l’economia, come è misconcepita ora, tenta di imporci. Non più ricambio organico fra uomo e natura, ma un fondamento autoreferenziale di crescita quantitativa a tutti i costi che si vuole applicare anche alla scienza.

Il libro pone essenzialmente delle domande a cui suggerisce una parziale risposta; e porre domande giuste è dopo tutto il compito dello scienziato, porre domande prima che fornire risposte. Quella che mi ha colpito di più è : Siamo troppi? Che da il titolo al capitolo 6; domanda a cui l’autore non fornisce una risposta ma per la quale fornisce molto materiale, anche non comunemente disponibile sui numeri dei ricercatori nel mondo. Pone anche il problema della definizione dell’attività di ricerca e dello scienziato; ci sarebbe da approfondire di più il senso di questa crescita.

Una chiave di risposta per esempio la suggerisce il collega Luca Pardi del CNR (si veda il recente Picco per capre, ed. Lu.Ce di L. Pardi e J. Simonetta); man mano che ogni iniziativa umana si sviluppa diventa sempre più difficile farla funzionare bene: crescono la complessità ma anche le resistenze interne, la dissipazione; o se volete il costo entropico del sistema aumenta; teoricamente potete organizzare sempre più, ma avete bisogno di dissipare sempre più energia per tenere in piedi l’organizzazione; ma questa è una ipotesi che fanno altri.

Del tutto condivisibile la rivendicazione della slow science che è ormai diventata movimento e che conclude la parte creativa del volume, di una scienza non preoccupata della velocità e della quantità, ma solo dei contenuti e della correttezza etica, e che proprio per questo si dà i tempi che le servono. Anche se qui ci avrei aggiunto la necessità di facilitare le interazioni fra settori; rivendicare solo la specializzazione può far travisare le cose; in Italia abbiamo addirittura la follia di avere una tumulazione dei contenuti scientifici in circa 400 tombette chiamate settori disciplinari, che esistono solo da noi e che, quelli si, sono da eliminare quanto prima.

Anche perchè è anche lo scambio e il contatto fra settori diversi che crea nuove idee e concezioni e modelli.

In coda al testo una ampia bibliografia molto utile per coloro che volessero approfondire i temi discussi dall’autore. Anche solo per questo il libro dovrebbe entrare nella bibiliotechina di ogni scienziato critico.

Recensione. Energia per l’astronave Terra. 3 ed.

Claudio Della Volpe

Energia per l’astronave Terra. Nicola Armaroli e Vincenzo Balzani. Terza edizione. Zanichelli maggio 2017 296 pag. 13.90euro

 

La prima cosa da dire su un testo che in 10 anni ha già visto un’altra riedizione e numerose ristampe è che è un testo di successo; e lo è a ragion veduta.

Scritto in modo leggibilissimo, semplice, ma nel contempo rigoroso, completo ed aggiornato; se analizzate con un minimo di sguardo critico le edizioni vedrete che si è passati dalle 217 pagine della prima alle quasi 300 della terza; il corredo delle citazioni e dei documenti è diventato amplissimo, il che presuppone un intenso lavoro di aggiornamento personale e professionale, ma anche una passione travolgente. Nel 2009 ha vinto il premio Galileo per la divulgazione scientifica.

Il titolo è rimasto immutato, ma il sottotitolo ha segnato quell’aggiornamento di prospettiva che gli autori giustificano pienamente nell’introduzione alla terza edizione.

Si è passati da un testo essenzialmente illustrativo della situazione ad un approfondimento delle prospettive italiane e infine con questa terza edizione a quelle mondiali; come giustamente dicono gli autori:

…”le cose cominciano a cambiare e a dirlo sono i numeri. Da qualche anno il contributo relativo dei combustibili fossili alla domanda energetica mondiale ha iniziato a diminuire…….Nel 2016 la potenza da eolico e fotovoltaico ha sfiorato 800GW, coprendo il 5% della domanda elettrica globale.”

Dunque la transizione è iniziata, “è un processo inevitabile e ormai irreversibile”.

Gli autori sono anche convinti di una cosa basilare che avevano già espresso altrove:

Per fissare la barra verso l’unico futuro possibile occorrono anche buon senso, sobrietà, collaborazione e responsabilità”.

In altri termini non è questione solo di tecnologia, ma di cambiamenti sociali per realizzare quell’era delle rinnovabili che fa da sottotitolo all’ultima edizione.

Il libro è diviso in 10 capitoli ed è arricchito da un paragrafo sulle fonti dei dati, da uno intitolato “15 miti da sfatare” e concluso da una serie di informazioni puntuali ma non così ben conosciute; infine c’è un indice analitico che potrebbe risultare utile in un uso didattico del testo.

1 edizione pag. 217 Agosto 2008

2 ediz. pag. 288 Ottobre 2011

 

 

 

Quali sono i punti principali?

La prima parte introduce il concetto di energia e fa una stima molto accurata della situazione attuale dei consumi e delle risorse, come dei limiti nella stima dei combustibili fossili.

Segue un capitolo dedicato all’analisi dei danni climatici ed ambientali dovuti a questo uso ed al fallimento mondiale ormai acclarato del settore nucleare.

Dal 6 capitolo si affronta il tema delle energie rinnovabili e delle loro caratteristiche e dei loro limiti mentre negli ultimi due si affronta invece il tema della transizione energetica e dei problemi tecnici e sociali che tale transizione pone sul tappeto.

Alcuni punti che mi hanno colpito e vi riporto qui alcune frasi chiave:

State leggendo un libro; chiudete gli occhi e rimanete immobili per qualche secondo. Forse, penserete, in queste condizioni non si consuma energia. Non è vero:…..”

 

“Quanti candidati mettono al primo punto dei loro programmi elettorali la creazione di piste ciclabili sicure? Sarebbe un investimento straordinario per la qualità della vita e le casse pubbliche (ma non per il PIL) : meno inquinamento, meno obesità, meno strade rotte, meno costi per il sistema sanitario nazionale”.

 

“La transizione energetica richiede un cambiamento parziale dei nostri stili di vita, ma questo non significa che vivremo peggio: semplicemente vivremo in modo diverso. I cambiamenti maggiori riguarderanno probabilmente l’alimentazione e il nostro modo di muoverci e di viaggiare. Per intenderci: meno carne, meno frutta fuori stagione e più trasporti pubblici.”

 

“A livello internazionale le disuguaglianze , le guerre per le risorse e i cambiamenti climtici stanno causando migrazioni epocali. La nostra è la prima generazione che si rende conto di questa situazione di crisi e quindi è anche la prima – qualcuno dice che potrebbe essere l’ultima- che può e deve cercare rimedi.”

 

“E sembra quasi che la Natura si diverta a far dipendere le tecnologie energetiche più avanzate da risorse poco abbondanti, in particolare metalli rari ……Occorre perciò un cambiamento radicale del paradigma economico e industriale: infatti i “rifiuti” devono diventare preziose “risorse secondarie”.

 

“…la transizione non può essere guidata soltanto dal mercato e dallo sviluppo tecnologico: servono anche scelte politiche illuminate e tecnicamente fondate, che stanno faticosamente iniziando a emergere.”

 

Ovviamente nessun libro è perfetto; tutto è perfezionabile, ma diciamo che dopo due update questo testo mantiene e migliora le proprie qualità: chiarezza, completezza, semplicità, difficile trovare di meglio.

Come altri libri questo è un testo che considero contemporaneamente scientifico e militante. Non vi sembri questo un ossimoro, una contraddizione.

Oggi la scienza è in campo: deve schierarsi, anche socialmente, se vuole mantenere la propria coerenza e la propria immagine di strumento di liberazione umana. Se le scienze naturali arrivano a conclusioni che sono conflittuali con alcuni dei più frequenti luoghi comuni della ideologia economica, se le scienze naturali falsificano le ideologie della crescita continua e del libero mercato, che farebbe ricchi tutti, le loro conclusioni acquistano un dirompente significato sociale.

E questo è uno dei più importanti risultati di questo libro.

Fantascienza?

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Mauro Icardi

(Due avventure narrative di Primo Levi nella lezione di Francesco Cassata)

Recensione, Fantascienza? – Science Fiction? Francesco Cassata ed. Giulio Einaudi p.288 euro 22 2016

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Il libro “Fantascienza?” di Francesco Cassata docente di storia della scienza presso l’università di Genova è tratto dalla settima lezione Primo Levi. Come le altre sei precedenti queste lezioni si tengono sotto l’egida del Centro Internazionale di studi Primo Levi e approfondiscono temi e interessi che riguardano lo scrittore torinese.

Le lezioni vengono poi pubblicate dall’editrice Einaudi in volumi bilingue (Italiano ed inglese). Le precedenti lezioni hanno toccato ed approfondito temi dell’opera di Levi che sono ben noti ai suoi lettori, agli studiosi e ai critici. Per esempio la prima lezione “Sfacciata fortuna” non può non far pensare al periodo che Levi trascorse nel Laboratorio del lager, dopo avere sostenuto l’esame di chimica di fronte al dottor Pannowitz. Levi viene aggregato al commando chimico e si sottrae così ai lavori più pesanti. Lavora in un ambiente riscaldato che lo preserva dai rigori dell’inverno in Auschwitz. Paradossalmente anche l’essersi ammalato negli ultimi giorni prima dell’arrivo delle truppe russe in marcia verso Berlino, lo salva dalla tremenda marcia di evacuazione del lager, a cui i tedeschi costringono i prigionieri sopravvissuti. Levi lo racconterà nel capitolo “Storia di dieci giorni” che conclude “Se questo è un uomo”.

“Raccontare per la storia” la terza lezione di un ciclo iniziato nel 2010, rimanda immediatamente alla poesia “Alzarsi” (in polacco Wstawac) contenuta nel volume di poesie “Ad ora incerta”. In questa poesia si esprime l’esigenza insopprimibile di sopravvivere non solo per ritornare, ma anche per assolvere al dovere morale di raccontare e testimoniare l’esperienza della prigionia e della deportazione:

Sognavamo nelle notti feroci
Sogni densi e violenti
Sognati con anima e corpo:
Tornare; mangiare; raccontare.
Finché suonava breve sommesso
Il comando dell’alba:
«Wstawac’».

La settima lezione si è tenuta presso la sede del centro studi a Torino il 27 ottobre dello scorso anno, e si occupa di approfondire una fase totalmente diversa dello scrittore torinese, anche se come poi si vedrà, i legami ed i riferimenti con l’esperienza della deportazione non mancano neanche tra le pieghe dei racconti di genere fantascientifico di Levi. Ma le conclusioni di questa lezione e del libro che ne è stato tratto suggeriscono una lettura diversa.

Il titolo “Fantascienza?” di questo volume delle lezioni Primo Levi riprende la fascetta editoriale che corredava la prima edizione di “Storie naturali pubblicato nel 1966 con lo pseudonimo di Damiano Malabaila. Il nome racconterà poi Levi viene scelto casualmente: è il nome che compare sull’insegna di un esercente davanti a cui passa giornalmente per recarsi al lavoro.

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Non è forse noto a tutti, ma Levi inizia a scrivere racconti di questo genere già nel 1946 quando lavora alla Duco di Avigliana, ed è impegnato nella risoluzione di problemi “chimico polizieschi” quali l’impolmonimento di vernici antiruggine, o nella stesura di una relazione tecnica relativa al fenomeno della puntinatura di alcuni smalti.

Il racconto “I mnemagoghi” che aprirà il volume “Storie naturali” viene scritto proprio in quel periodo, e verrà pubblicato sul quotidiano “L’Italia socialista” nel 1948.

La formazione del chimico qui si riconosce immediatamente. Il racconto parla di due medici: il giovane Dottor Morandi che inviato in un piccolo paese di montagna a sostituire l’anziano Dottor Montesanto, viene coinvolto da quest’ultimo nell’esperienza sensoriale di annusare delle boccette in cui sono contenute particolari essenze odorose. Montesanto spiega la cosa in questo modo:

“ Alla questione delle sensazioni olfattive, e dei loro rapporti con la struttura molecolare, ho dedicato anche in seguito molto del mio tempo. Si tratta, a mio parere, di un campo assai fecondo, ed aperto anche a ricercatori dotati di mezzi modesti.

Il Dottor Montesanto ha sintetizzato e raccolto in boccette questi mnemagoghi (suscitatori di memorie).

Il racconto, il primo di “Storie naturali” ci ricorda quello che Levi sosteneva a proposito del senso dell’olfatto (“Guai se un chimico non avesse naso”) ma ci parla anche di sensazioni odorose legate a ricordi particolari. Sensazioni che però non hanno un impatto emotivo univoco. L’odore che per una persona può essere gradevole e legato a momenti lieti, ad altri può provocare disgusto o indifferenza. L’oggettività di un odore in provetta si disperde nelle memorie soggettive.

Il libro di Francesco Cassata spiega con tantissimi rimandi collegamenti ed esempi la genesi dei quindici racconti contenuti nelle “Storie naturali”, e dei successivi venti pubblicati nel 1971 in “Vizio di forma”.

Il primo libro di genere fantascientifico di Levi viene visto dall’autore come uno sforzo di ritorno alla realtà e a una forma di evasione dalla sua veste ufficiale sia di testimone dell’olocausto, che professionale come direttore tecnico di una fabbrica di vernici. Levi non vuole limitarsi a questo. Ma nello stesso tempo Auschwitz non rappresenta soltanto la terribile esperienza del suo passato ma anche un punto di osservazione, una sorta di prisma etico e cognitivo per riflettere sulla distorsione della razionalità, e per analizzare i tanti “vizi di forma” del presente e del futuro.

Francesco Cassata in questo libro ci guida nell’analisi dei racconti. In alcuni di essi quali “Angelica farfalla” e “Versamina” possiamo trovare legami con i terribili esperimenti che i medici nazisti conducevano nei Lager sui prigionieri. Ma allo stesso tempo sono presenti temi squisitamente scientifici che riguardano nel primo racconto il ciclo vitale incompleto dell’anfibio Axolotl che si riproduce allo stato larvale senza completare il suo ciclo evolutivo, e nel secondo il rovesciamento dei comportamenti cioè la trasformazione attraverso appunto la molecola che nel racconto è chiamata versamina (una molecola immaginata dallo scrittore torinese che la immagina derivata dall’acido benzoico) capace di trasformare le sensazioni di dolore fisico in piacere.

Nei racconti di storie naturali è sempre presente il meccanismo (ben conosciuto dai chimici) dell’errore.

In qualche caso anche cercato come in “Alcune applicazioni del mimete” dove l’incauto e pasticcione Gilberto usa questa macchina (un duplicatore tridimensionale) per ottenere una copia di sua moglie.

Nel saggio di Cassata troviamo anche i riferimenti alle basi scientifiche di ogni racconto. Il duplicatore tridimensionale è immediato che possa far pensare alla tecnica delle stampanti 3 D (escludendo è ovvio la duplicazione di esseri viventi).

Il secondo libro di racconti fantascientifici di Levi (l’autore però tendeva a definirli dei divertimenti delle stranezze o delle favole) esce nel 1971. Avrebbe dovuto secondo l’autore intitolarsi in maniera diversa (“Ottima è l’acqua” come il racconto che chiude la raccolta), ma dopo qualche riunione di redazione alla casa editrice Einaudi si scelse come titolo “Vizio di forma” con l’intenzione di connettere questo secondo libro di racconti al primo, quasi come un seguito.

vizio di forma

Ma i due libri sono solo apparentemente uguali. In realtà dal punto di vista letterario e stilistico differiscono. I racconti contenuti in “Storie naturali” lasciano trasparire il senso dell’ironia e del grottesco, mentre “Vizio di forma” ha un modo di scrittura più pessimista.

“Storie naturali” risente molto di più di una fiducia, di un ottimismo legato all’Italia del grande sviluppo economico successivo al dopoguerra. I racconti sono stati scritti in un periodo di tempo di una ventina di anni a partire dal 1946 e sono più eterogenei.

Quelli di “Vizio di forma” invece in un periodo di tempo più breve, dal 1967 al 1970, quando si inizia a percepire che l’età dell’oro è finita e che i problemi globali planetari si stanno affacciando alla ribalta.

Lo stesso Levi lo ricorda nel 1979 nella prefazione al libro di Luciano Caglioti “I due volti della chimica”.

Non era giunto il momento di fare i conti planetari, e di mettere un freno, se non ai consumi, almeno agli sprechi, ai bisogni artificialmente provocati, ed all’inquinamento dell’aria, dell’acqua e del suolo?

“Vizio di forma” viene scritto negli anni in cui l’ambientalismo scientifico si va affermando tra la fine degli anni Sessanta ed il decennio successivo. In questo libro la riflessione sul rapporto tra popolazione, ambiente e risorse economiche è il filo conduttore di ben otto racconti, dei venti che compongono il libro.

Tornando al libro di Francesco Cassata dedicato a questi due libri diversi di Levi è interessantissimo il paragrafo “Equilibri omeostatici ed ecologia” in cui si parla dell’opposizione fondamentale su scala planetaria di due forze contrapposte: l’entropia e l’omeostasi. Due concetti noti soprattutto a scienziati e tecnici. Levi ne scrive in un breve saggio del 1983 uscito nel Notiziario della Banca Popolare di Sondrio.

Scienziati e tecnici sono coloro che combattono “la vecchia battaglia umana contro la materia”.

Nel saggio di Cassata si suggerisce che queste due visioni si possono confrontare leggendo due racconti. Uno è “Carbonio” che chiude “Il sistema periodico” nel quale Levi racconta il meccanismo della sintesi clorofilliana e quello del ciclo biogeochimico del carbonio.

Il secondo racconto è invece “Ottima è l’acqua” che chiude viceversa proprio “Vizio di forma, nel quale il racconto della modificazione impercettibile ma continua della viscosità dell’acqua finisce per impedire agli uomini persino di lacrimare, e rappresenta il trionfo del disordine e del caos.

Non è casuale il confronto perché la stesura di “Carbonio” è databile tra il 1968 e il 1970, lo stesso periodo della scrittura dei racconti di “Vizio di forma”.

Nella parte finale del saggio Cassata da conto di come la critica giudicò i due libri stabilendo un nesso di continuità con l’esperienza del Lager, in maniera da interpretare come fallimentare questa esperienza letteraria dello scrittore.

Ma la conclusione è che vedere in questi due libri di racconti di Levi solo la trasfigurazione allegorica di Auschwitz è riduttivo. E personalmente sono in pieno accordo con questa affermazione.

In chiusura del saggio sono da questo punto di vista significative le parole pronunciate da Norberto Bobbio nel 1988 in occasione di uno dei primi convegni successivi alla scomparsa di Levi. In quella occasione rimproverò Ruggero Pierantoni, ricercatore di cibertenica e biofisica del CNR che fece un’intervento dedicato a “Il sistema periodico” con queste parole: “Lei non ha capito ciò che ci unisce tutti qua dentro: non si può parlare di Primo Levi dimenticando che è stato ad Auschwitz”.

Forse può sembrare un’intollerabile presunzione ma le parole di Bobbio non mi convincono.

Nessuno potrà mai dimenticare l’esperienza umana di Levi ad Auschwitz, come nessuno potrà non riconoscere il valore letterario di “Se questo è un uomo”, libro che colpisce alla prima lettura per lo stile. Dove non una sola parola è fuori posto, dove la descrizione di una delle pagine più atroci della storia del novecento viene fatta con una sensazione di pacatezza e di senso di giustizia che escono dalle pagine del libro andando incontro al cuore e alla ragione di chi le legge.

Ma trovo riduttivo e ingiusto non conoscere “l’altro” Levi. Autore di moltissimi saggi di grande valore divulgativo e scientifico.

Autore di due libri di racconti fantascientifici (ma abbiamo visto che il termine è riduttivo) che sono anche anticipatori di realtà poi narrate successivamente. Il Torec di “Trattamento di quiescenza” che permette di vivere esperienze sensoriali tramite un casco è l’antesignano della realtà virtuale narrata anche in film come “Strange days”, uscito nel 1995

Nella “Bella addormentata nel frigo” si parla di ibernazione ed il pensiero va agli astronauti ibernati sull’astronave Discovery di “2001- Odissea nello spazio”.

Io ho sempre trovato interessanti questi due libri, senza mai considerarli delle opere minori.

Così come ho trovato stimolante ed interessante il libro di Francesco Cassata che nel concludere si augura che la lezione (e conseguentemente il libro) servano come stimolo ad una ricerca critica e ad uno studio più approfondito di queste due opere di Levi.

Invito che mi sento di rivolgere non solo ai critici letterari ma possibilmente ad un pubblico più ampio, anche a chi legge le pagine del nostro blog.

Perché Primo Levi ha ancora tanto da dirci, non solo come testimone autorevole e di grande dignità e autorevolezza di testimone dell’olocausto. Ma come scrittore, saggista e divulgatore scientifico.

E devo dire che Cassata ci fornisce con questo libro stimoli e chiavi di lettura importanti.

Così come suggerisco la lettura di questi due libri di Levi, che a mio parere completano ed integrano l’opera dello scrittore.

 

Primo Levi: “Io che vi parlo”. Recensione.

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Mauro Icardi

“Primo Levi io che vi parlo. Conversazione con Giovanni Tesio” è un libro recentemente uscito per la casa editrice Einaudi nella collana super ET. Il libro riporta le conversazioni che Giovanni Tesio registrò nella casa di Corso Re Umberto 75 a Torino, dove il chimico-scrittore trascorse praticamente tutta la sua vita dopo il rientro dalla deportazione.

Si tratta di due conversazioni registrate il 17 e 26 Gennaio e una il successivo 8 Febbraio del 1987. Sarebbero dovute servire per la scrittura di una biografia autorizzata. Che non si realizzò a causa della morte dello scrittore nell’Aprile dello stesso anno.

La lettura è certamente consigliata. Mostra aspetti dello scrittore torinese che non erano ancora completamente conosciuti o svelati. Allo stesso tempo conferma l’immagine che nei suoi libri  Levi ha dato di sé. Soprattutto degli anni della giovinezza e dell’adolescenza, anni nei quali la timidezza lo rende estremamente  impacciato soprattutto nelle relazioni con le ragazze sue coetanee, compagne di ginnasio o dell’università.

io che vi parlo

Levi parla di questo, svela anche le difficoltà nei rapporti con il padre, di carattere decisamente opposto, un bon vivant come lui stesso lo definisce e lo ricorda.

Racconta di essere sempre stato un’instancabile curioso, curioso di tutto, e di come questa curiosità lo porterà a studiare chimica che gli sembra essere la chiave migliore per le risposte che cerca. La inizia a studiare grazie ai libri che il padre, accanito lettore come lui, gli procura. Conduce esperimenti elementari con i materiali che trova in casa, per esempio la cristallizzazione di sali. Pone domande maliziose alla sua insegnante di scienze al ginnasio, per coglierla in fallo perché conosce già la chimica meglio di lei.

Nel libro si approfondiscono alcuni aspetti di  temi che troviamo in altri suoi libri, in particolare ne “Il sistema periodico” e altri episodi totalmente nuovi.

Primo_Levi

La realizzazione della a sua tesi di laurea con le difficoltà dovute alla sua condizione di ebreo, in un Italia dove erano state promulgate le leggi razziali.  Il tentativo di iniziare l’attività di produzione di soluzioni titolate insieme all’amico Alberto Salmoni  subito dopo aver conseguito la laurea, utilizzando un locale del vecchio mattatoio di Torino messo a disposizione dal padre di Alberto, che nel “Sistema periodico” non viene narrata.

Alberto Salmoni è il personaggio che nel  racconto “Stagno” viene chiamato Emilio, con cui Levi tenterà per poco tempo la strada della libera professione di chimico, prima di venire assunto nella fabbrica di smalti per fili elettrici in cui lavorerà fino al pensionamento.

Nel libro ci sono molte altre cose che Levi racconta, anche relative al suo ruolo di direttore tecnico alla Siva. Ne esce un ritratto completo con aspetti nuovi e poco conosciuti.  Si comprendono meglio anche cose molto intime che Levi fatica a elaborare a più di quarant’anni di distanza, come per esempio la scomparsa di Vanda Maestro, la donna con cui venne catturato durante la breve e sfortunata esperienza di partigiano, e che da Auschwitz non ritornò. E il particolare legame che aveva con lei.

Da notare anche la particolare  attenzione con cui Giovanni Tesio pone le domande, facendo attenzione e non risultando mai troppo invadente, cosa che permette a Levi di parlare con naturalezza.

Il libro si legge quasi d’un fiato. Una lettura a cui non si può rinunciare se si  apprezza  questo scrittore che si definiva un centauro per via della sua dualità. Un chimico ed uno scrittore.

Anzi un chimico-scrittore dove il trattino che separa i due sostantivi ci ricorda i legami tra gli atomi in una molecola nelle rappresentazioni che ci sono note.

Chiudo con una mia piccola opinione molto personale. Forse il più grande scrittore del novecento.

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E’ APERTA LA RACCOLTA DI FIRME PER LA PETIZIONE ALLA IUPAC per dare il nome Levio ad uno dei 4 nuovi elementi:FIRMATE!

https://www.change.org/p/international-union-of-pure-and-applied-chemistry-giving-name-levium-to-one-of-the-4-new-chemical-elements