Matteo Guidotti:
“Dual Chemistry”: l’impiego duplice della Chimica
“Non ci sono molecole cattive: ci sono solo uomini malvagi.”
Sir Roald Hoffmann (premio Nobel per la Chimica nel 1981)
Il dilemma dell’impiego “buono” o “cattivo” di ogni nuovo prodotto dell’ingegno ha accompagnato l’Umanità fin dai suoi albori. Gli esempi riportati da Luigi Campanella e da Vincenzo Balzani riguardano le importanti sfide che la Chimica del XXI secolo si trova ad affrontare, ma una nuova questione etica può sorgere ad ogni singolo nuovo passo del progresso scientifico, poiché l’applicazione tecnologica che se ne può trarre può imprescindibilmente avere una ricaduta favorevole o avversa sulle sorti del genere umano.
Un’icona di questo eterno dilemma è la scena conclusiva del film di Stanley Kubrick “2001 Odissea nello spazio” in cui compare il primate che, presa consapevolezza della possibilità di creare dagli oggetti che lo circondano gli strumenti che gli consentiranno di elevarsi dallo stato animalesco, pensa di rivolgere per la prima volta un osso contro i suoi avversari, come nuovo e letale strumento di offesa. Allo stesso modo, la Chimica che – citando Berthelot – “crea i suoi oggetti” non ha potuto, né potrà esimersi dal rischio di vedere le proprie conquiste più importanti impiegate per fini malvagi, stravolgendo completamente le più nobili e fulgide aspettative iniziali.
Grandi scienziati e grandi chimici hanno vissuto in passato con travaglio interiore questa visione manicheista delle loro scoperte, tanto da imporre talvolta a se stessi un blocco “etico” alla loro creatività o addirittura da portare alla distruzione dei loro risultati più brillanti. Si pensi alla crisi interiore in cui sono piombati molti ricercatori che hanno partecipato al progetto Manhattan, tra cui anche Albert Einstein, per lo sviluppo della prima bomba atomica; a Guglielmo Marconi, che ha distrutto buona parte dei suoi ultimi risultati sulle radiazioni elettromagnetiche ad elevata potenza, tra cui, pare, anche un prototipo di radar, per evitare preoccupanti asservimenti al regime fascista; ma anche, per parlar di chimici, ad Alfred Nobel e alle sue contrastanti scoperte nel campo degli esplosivi o, ancora, a Fritz Haber, personalità combattuta tra i grandi successi della Chimica industriale e le terribili responsabilità nella progettazione delle camere a gas dei lager nazisti.
E’ cruciale dunque che l’innegabile presenza di queste zone d’ombra nel cammino del progresso scientifico non ne impedisca lo sviluppo in modo aprioristico e che non si verifichino dei freni preventivi per puro timore di un futuribile impiego deviato della nuova scoperta. Così come nel campo della tutela dell’ecosistema si è gradualmente passati da una Chimica irrispettosa dell’ambiente, ad una Chimica del disinquinamento e, in seguito, ad una Chimica sostenibile, per “prevenire, anziché curare”, allo stesso modo, nell’ambito del rapporto tra Chimica ed Etica, è auspicabile che si passi da uno studio delle contromisure per minimizzare i danni causati da un uso deliberato di sostanze chimiche nocive, ad uno studio della cosiddetta “dual Chemistry”, ad un’analisi dell’impiego duplice della Chimica, per valutare, per quanto possibile, anticipatamente i potenziali sviluppi positivi e negativi e per poter esercitare un controllo preventivo sugli aspetti più pericolosi che ne potrebbero derivare.
Su questo nuovo modo di agire, si era a lungo dibattuto nel 2007, proprio nel nostro Paese, a Torino, in occasione del 41° Congresso Mondiale della IUPAC e da queste considerazioni su dual Chemistry e dual use, è scaturito un nuovo protocollo di azione ancora oggi impiegato dall’Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche, (l’organismo sopranazionale con sede all’Aia per l’attuazione della Convenzione internazionale sul bando delle armi chimiche). Si ha infatti una periodica revisione delle liste di tutte le sostanze chimiche proibite o fortemente regolamentate, a causa del loro potenziale uso come aggressivo chimico bellico, per far sì che gli elenchi non siano fissi e chiusi, ma aperti ed aggiornabili, in funzione dei nuovi composti chimici sintetizzati o delle nuove linee-guida dettate dai vari enti di controllo nazionali o dal diritto internazionale. In tal modo, questa Convenzione non invecchia, ma rimane al passo con i tempi e può beneficiare di un continuo benefico apporto della comunità scientifica di tutto il mondo. Una visione altrettanto dinamica sarebbe desiderabile per molti settori in cui il dialogo (o il conflitto) tra Chimica ed Etica è molto serrato, non solo per ciò che riguarda il caso esemplare delle armi chimiche.
Si tratta di una sorta di valutazione del ciclo di vita “etico” di una scoperta scientifica, di una molecola o di un nuovo ritrovato, una prospettiva che dev’essere man mano aggiornata in funzione dell’avanzamento delle altre discipline e delle eventuali applicazioni tecniche e tecnologiche disponibili a livello di ricerca pura o di sviluppo industriale.
In tutto questo, la Chimica e i chimici giocano un ruolo essenziale, che non può essere rimpiazzato né dai filosofi della Scienza, né dai politici, né da altre figure che, pur avendo adeguate competenze e conoscenze etiche o sociali, non hanno una visione scientifica e tecnica sufficientemente omnicomprensiva per poter trattare con obbiettività e approfondimento tali problematiche.
Vorrei integrare questo interessante post con la, per certi versi sconvolgente, considerazione conclusiva della “lectio magistralis” di Hoffman al 41° congresso IUPAC. L’introduzione di un «Codice etico» tra chi fa ricerca è per Hoffmann non solo utile ma necessaria: «Gli scienziati non sono nati con l’etica, né la scienza è neutrale dal punto di vista etico. Ritengo che corsi di etica o, ancora meglio, gruppi di discussione, basati su casi concreti, dovrebbero far parte della formazione di ogni scienziato». E chi dovrebbe introdurre le norme a cui attenersi? «Credo in un’etica che nasce dal dialogo e dal confronto tra esseri umani, non in regole imposte dall’alto», ha spiegato il professore. Una morale interiore che lo ha portato a compiere un’affermazione estrema (e piuttosto impopolare, a suo dire, tra la maggioranza degli scienziati): «Alcune ricerche non dovrebbero essere fatte».