Claudio Della Volpe
Non è un post su un elemento; è un modo di celebrare il 25 aprile; qualche anno fa è uscito un libro su Primo Levi (Sergio Luzzato PARTIGIA Una storia della Resistenza pp.373, Mondadori, Milano 2013, poi tradotto in inglese nel 2016 Primo Levi’s Resistance: Rebels and Collaborators in Occupied Italy by Sergio Luzzatto 2016 | ISBN: 0805099557 | English | 304 pages | EPUB | 1.2 MB) in cui a partire da un passo famoso di Oro (uno dei racconti del Sistema periodico) si cerca di ricostruire una storia, la storia di come il gruppetto partigiano di Levi venisse catturato pochi giorni dopo aver giusitiziato due giovani resisi responsabili di qualcosa che Levi non chiarisce mai.
In realtà nemmeno il libro di Luzzato chiarisce cosa esattamente successe; tuttavia avanzando dubbi, anche legittimi, finisce per indebolire non tanto la figura di Levi , di cui però cerca ripetutamente di smontare l’attendibilità, ma la scelta di “salire in montagna”, scelta fatta da centinaia di migliaia di italiani di ogni fede politica. Di resistere cioè al fascismo, giunto al terzo anno di guerra ormai con le ossa rotte e un paese a pezzi.
Non sono in grado di rispondere sul tema specifico, né lo stesso Luzzatto ci riesce, avanza dubbi più che fornire certezze.
Ma non vorrei che si buttasse il bambino con l’acqua sporca. L’antifascismo è una delle basi culturali su cui è costruita l’Italia del dopoguerra; probabilmente non basta; occorre andare oltre perchè poi il fascismo non cadde dal cielo.
E potrebbe ricadere.Ho dunque pensato di riportare qui alcuni brani di Levi tratti da Oro e da una poesia che Luzzato interpreta e lasciare a voi le ardue sentenze, anche perchè oggi si direbbe, il cherry picking non è buona politica; Levi è affidabile o no? Levi è reticente o no? Il fascismo può tornare o no?
Buon 25 aprile.
Nota I testi qui sotto riportati sono disponibili tutti su Internet senza problemi; spero a nessuno venga in testa di denunciarmi per averli riportati, senza alcuno scopo di lucro.
Oro, Primo Levi, Il Sistema Periodico, Opere Vol. 2 pag 849 e sgg.
…il fascismo aveva operato su di noi, come su quasi tutti gli italiani, estraniandoci e facendoci diventare superficiali, passivi e cinici.
Sopportavamo con allegria maligna il razionamento e il freddo nelle case senza carbone, ed accettavamo con incoscienza i bombardamenti notturni degli inglesi; non erano per noi, erano un brutale segno di forza dei nostri lontanissimi alleati facessero pure. Pensavamo quello che tutti gli italiani umiliati allora pensavano: che i tedeschi e i giapponesi erano invincibili, ma gli americani anche, e che la guerra sarebbe andata avanti cosi per altri venti o trent’anni, uno stallo sanguinoso ed interminabile, ma remoto, noto soltanto attraverso i bollettini di guerra adulterati, e talvolta, in certe famiglie di miei coetanei, attraverso le lettere funeree e burocratiche in cui si diceva “eroicamente, nell’adempimento del suo dovere”. La danza macabra, su e giù lungo la costa libica, avanti e indietro nelle steppe d’Ucraina, non sarebbe finita mai.
Ciascuno di noi faceva il suo lavoro giorno per giorno, fiaccamente, senza crederci, come avviene a chi sa di non operare per il proprio domani. Andavamo a teatro ed ai concerti, che qualche volta si interrompevano a mezzo perché suonavano le sirene dell’allarme aereo, e questo ci sembrava un incidente ridicolo e gratificante; gli Alleati erano padroni del cielo, forse alla fine avrebbero vinto e il fascismo sarebbe finito: ma era affare loro, loro erano ricchi e potenti, avevano le portaerei e i “Liberators”. Noi no, ci avevano dichiarato “altri” e altri saremmo stati; parteggiavamo, ma ci tenevamo fuori dai giochi stupidi e crudeli degli ariani, a discutere i drammi di O’Neill o di Thornton Wilder, ad arrampicarci sulle Grigne, ad innamorarci un poco gli uni delle altre, ad inventare giochi intellettuali, ed a cantare bellissime canzoni che Silvio aveva imparato da certi suoi amici valdesi. Di quello che in quegli stessi mesi avveniva in tutta l’Europa occupata dai tedeschi, nella casa di Anna Frank ad Amsterdam, nella fossa di Babi Yar presso Kiev, nel ghetto di Varsavia, a Salonicco, a Parigi, a Lidice: di questa pestilenza che stava per sommergerci non era giunta a noi alcuna notizia precisa, solo cenni vaghi e sinistri portati dai militari che ritornavano dalla Grecia o dalle retrovie del fronte russo, e che noi tendevamo a censurare. La nostra ignoranza ci concedeva di vivere, come quando sei in montagna, e la tua corda è logora e sta per spezzarsi, ma tu non lo sai e vai sicuro.
Ma venne in novembre lo sbarco alleato in Nord Africa, venne in dicembre la resistenza e poi la vittoria russa a Stalingrado, e capimmo che la guerra si era fatta vicina e la storia aveva ripreso il suo cammino. Nel giro di poche settimane ognuno di noi maturò, più che in tutti i vent’anni precedenti. Uscirono dall’ombra uomini che il fascismo non aveva piegati, avvocati, professori ed operai, e riconoscemmo in loro i nostri maestri, quelli di cui avevamo inutilmente cercato fino allora la dottrina nella Bibbia, nella chimica, in montagna. Il fascismo li aveva ridotti al silenzio per vent’anni, e ci spiegarono che il fascismo non era soltanto un malgoverno buffonesco e improvvido, ma il negatore della giustizia; non aveva soltanto trascinato l’Italia in una guerra ingiusta ed infausta, ma era sorto e si era consolidato come custode di una legalità e di un ordine detestabili, fondati sulla costrizione di chi lavora, sul profitto incontrollato di chi sfrutta il lavoro altrui, sul silenzio imposto a chi pensa e non vuole essere servo, sulla menzogna sistematica e calcolata. Ci dissero che la nostra insofferenza beffarda non bastava; doveva volgersi in collera, e la collera essere incanalata in una rivolta organica e tempestiva: ma non ci insegnarono come si fabbrica una bomba, né come si spara un fucile.
Il brano su cui si basa il libro di Luzzatto è più avanti:
Fra noi, in ognuna delle nostre menti, pesava un segreto brutto: lo stesso segreto che ci aveva esposti alla cattura, spegnendo in noi, pochi giorni prima, ogni volontà di resistere, anzi di vivere. Eravamo stati costretti dalla nostra coscienza ad eseguire una condanna, e l’avevamo eseguita, ma ne eravamo usciti distrutti, destituiti, desiderosi che tutto finisse e di finire noi stessi; ma desiderosi anche di vederci fra noi, di parlarci, di aiutarci a vicenda ad esorcizzare quella memoria ancora così recente. Adesso eravamo finiti, e lo sapevamo: eravamo in trappola, ognuno nella sua trappola, non c’era uscita se non all’in giù”.

Aldo Piacenza, il capo partigiano di Levi, uno dei custodi del “segreto brutto” https://www.lastampa.it/2013/07/31/cultura/addio-ad-aldo-piacenza-custode-del-segreto-brutto-di-levi-APYUL1qaV1xRVtHyuEcEaO/pagina.html
Ancora un’altra parte di Oro, quella finale che dà il titolo al racconto:
…Faceva molto freddo. Bussai alla porta finché venne il milite che fungeva da sbirro, e lo pregai di mettermi a rapporto con Fossa; lo sbirro era proprio quello che mi aveva picchiato al momento della cattura, ma quando aveva saputo che io ero un «dottore» mi aveva chiesto scusa: l’Italia è uno strano paese. Non mi mise a rapporto, ma ottenne per me e per gli altri una coperta, e il permesso di riscaldarci per mezz’ora ogni sera, prima del silenzio, vicino alla caldaia del termosifone. Il nuovo regime ebbe inizio la sera stessa. Venne il milite a prelevarmi, e non era solo: con lui c’era un altro prigioniero di cui non conoscevo l’esistenza. Peccato: se fosse stato Guido o Aldo sarebbe stato molto meglio: comunque, era un essere umano con cui scambiare parola. Ci condusse nel locale caldaia, che era fosco di fuliggine, schiacciato dal soffitto basso, ingombrato quasi per intero dalla caldaia, ma caldo: un sollievo. Il milite ci fece sedere su una panca, e prese posto lui stesso su una sedia nel vano della porta, in modo da ostruirla: teneva il mitra verticale fra le ginocchia, tuttavia pochi minuti dopo già sonnecchiava e si disinteressava di noi. Il prigioniero mi guardava con curiosità: – Siete voi, ribelli? – mi chiese, Aveva forse trentacinque anni, era magro e un po’ curvo, aveva i capelli crespi in disordine, la barba mal rasa, un grosso naso a becco. La bocca senza labbra e gli occhi fuggitivi. Le sue mani erano sproporzionatamente grosse, nodose, come cotte dal sole e dal vento, e non le teneva mai ferme: ora si grattava, ora le strofinava una sull’altra come se le lavasse, ora tamburellava sulla panca o su una coscia; notai che gli tremavano leggermente. Il suo fiato odorava di vino, e ne dedussi che era stato arrestato da poco; aveva l’accento della valle, ma non sembrava un contadino. Gli risposi tenendomi sul generico, ma non si scoraggiò: – Tanto quello dorme: puoi parlare, se vuoi. Io posso fare uscire notizie; poi forse esco fra poco.
Non mi sembrava un tipo da fidarsene molto.
– Perché sei qui? – gli chiesi?
– Contrabbando: non ho voluto spartire con loro, ecco tutto. Finiremo col metterci d’accordo, ma intanto mi tengono dentro: è male, col mio mestiere.
– E’ male per tutti i mestieri!
– Ma io ho un mestiere speciale. Faccio anche il contrabbando, ma solo d’inverno, quando la Dora gela; insomma, faccio diversi lavori, ma nessuno sotto padrone. Noi siamo gente libera: era così anche mio padre e mio nonno e tutti i bisnonni fino dal principio dei tempi, fino da quando sono venuti i Romani.
Non avevo capito l’accenno alla Dora gelata, e gliene chiesi conto: era forse un pescatore?
– Sai perché si chiama Dora? – mi rispose: – Perché è d’oro. Non tutta, si capisce, ma porta oro, e quando gela non si può più cavarlo.
– C’è oro sul fondo?
– Si, nella sabbia: non dappertutto, ma in molti tratti. E’ l’acqua che lo trascina giù dalla montagna, e lo accumula a capriccio, in un’ansa sì, in un’altra niente. La nostra ansa, che ce la passiamo di padre in figlio, è la più ricca di tutte: è ben nascosta, molto fuori mano, ma ugualmente è meglio andarci di notte, che non venga nessuno a curiosare. Per questo, quando gela forte come per esempio l’anno scorso, non si può lavorare, perché appena hai forato il ghiaccio se ne forma dell’altro, e poi anche le mani non resistono. Se io fossi al tuo posto e tu al mio, parola d’onore, ti spiegherei anche dov’è, il nostro posto.Mi sentii ferito da quella sua frase. Sapevo bene come stavano le mie cose, ma mi spiaceva sentirmelo dire da un estraneo. L’altro che si era accorto della topica, cercò goffamente di rimediare:
– Volevo dire insomma che sono cose riservate, che non si dicono nemmeno agli amici. Io vivo di questo, e non ho altro al mondo, ma non cambierei con un banchiere. Vedi, non è che d’oro ce ne sia tanto: ce n’è anzi molto poco, si lava tutta una notte e si tira fuori uno o due grammi: ma non finisce mai. Ci torni quando vuoi, la notte dopo o dopo un mese, secondo che ne hai volontà, e l’oro è ricresciuto; è così da sempre e per sempre, come l’erba nei prati. E così non c’è gente più libera di noi: ecco perché mi sento venire matto a stare qui dentro. Poi, devi capire che a lavare sabbia non sono capaci tutti, e questo dà soddisfazione. A me, appunto, mi ha insegnato mio padre: solo a me, perché ero il più svelto; gli altri fratelli lavorano alla fabbrica. E solo a me ha lasciato la scodella, – e, con la enorme destra leggermente inflessa a coppa, accennò al movimento rotatorio professionale.
– Non tutti i giorni sono buoni: va meglio quando c’è sereno ed è l’ultimo quarto. Non saprei dirti perché, ma è proprio così, caso mai ti venisse in mente di provare.
Apprezzai in silenzio l’augurio. Certo, che avrei provato: che cosa non avrei provato? In quei giorni, in cui attendevo abbastanza coraggiosamente la morte, albergavo una lancinante voglia di tutto, di tutte le esperienze umane pensabili, e imprecavo alla mia vita precedente, che mi pareva di avere sfruttato poco e male, e mi sentivo il tempo scappare di fra le dita, sfuggire dal corpo minuto per minuto, come un’emorragia non più arrestabile. Certo, che avrei cercato l’oro: non per arricchire, ma per sperimentare un’arte nuova, per rivisitare la terra l’aria e l’acqua, da cui mi separava una voragine ogni giorno più larga: e per ritrovare il mio mestiere chimico nella sua forma essenziale e primordiale, la «Scheidekunst», appunto, l’arte di separare il metallo dalla ganga.
– Non lo vendo mica tutto, – continuava l’altro: – ci sono troppo affezionato. Ne tengo un po’ da parte e lo fondo, due volte all’anno, e lo lavoro: non sono un artigiano ma mi piace averlo in mano, batterlo col martello, inciderlo, graffiarlo. Non mi interessa diventare ricco: mi importa vivere libero, non avere un collare come i cani, lavorare così, quando voglio, senza nessuno che mi venga a dire «su, avanti». Per questo soffro a stare qui dentro; e poi, oltre a tutto, si perde giornata.
Il milite diede un crollo nel sonno, e il mitra che teneva fra le ginocchia cadde a terra con fracasso. Lo sconosciuto ed io ci scambiammo un rapido sguardo, ci comprendemmo al volo, ci alzammo di scatto dalla panca: ma non facemmo in tempo a muovere un passo che già il milite aveva raccattato l’arma. Si ricompose, guardò l’orologio, bestemmiò in veneto, e ci disse ruvidamente che era tempo di rientrare in cella. Nel corridoio incontrammo Guido e Aldo, che, scortati da un altro sorvegliante, si avviavano a prendere il nostro posto nell’afa polverosa della caldaia: mi salutarono con un cenno del capo.
Nella cella mi riaccolse la solitudine, il fiato gelido e puro delle montagne che penetrava dalla finestrella, e l’angoscia del domani. Tendendo l’orecchio, nel silenzio del coprifuoco si sentiva il mormorio della Dora, amica perduta, e tutti gli amici erano perduti, e la giovinezza e la gioia, e forse la vita: scorreva vicina ma indifferente, trascinando l’oro nel suo grembo di ghiaccio fuso. Mi sentivo attanagliato da un’invidia dolorosa per il mio ambiguo compagno, che presto sarebbe ritornato alla sua vita precaria ma mostruosamente libera, al suo inesauribile rigagnolo d’oro, ad una fila di giorni senza fine.
E questa invece è la poesia a cui si ricollega Luzzato, si vedano gli ultimi versi.
Dove siete, partigia di tutte le valli,
Tarzan, Riccio, Sparviero, Saetta, Ulisse?
Molti dormono in tombe decorose,
Quelli che restano hanno i capelli bianchi
E raccontano ai figli dei figli
Come, al tempo remoto delle certezze,
Hanno rotto l’assedio dei tedeschi
La’ dove adesso sale la seggiovia.
Alcuni comprano e vendono terreni,
Altri rosicchiano la pensione dell’Inps
O si raggrinzano negli enti locali.
In piedi, vecchi: per noi non c’e’ congedo.
Ritroviamoci. Ritorniamo in montagna,
Lenti, ansanti, con le ginocchia legate,
Con molti inverni nel filo della schiena.
Il pendio del sentiero ci sara’ duro,
Ci sara’ duro il giaciglio, duro il pane.
Ci guarderemo senza riconoscerci,
Diffidenti l’uno dell’altro, queruli, ombrosi.
Come allora, staremo di sentinella
Perche’ nell’alba non ci sorprenda il nemico.
Quale nemico? Ognuno e’ nemico di ognuno,
Spaccato ognuno dalla sua propria frontiera,
La mano destra nemica della sinistra.
In piedi, vecchi, nemici di voi stessi:
La nostra guerra non e’ mai finita.
da “Ad ora incerta”, 23 luglio 1981
Commenti sul libro di Luzzatto.
http://www.liosite.com/poesia/primo-levi-partigia/
http://www.gadlerner.it/2013/04/16/primo-levi-e-lossessione-di-sergio-luzzatto/
https://www.doppiozero.com/materiali/fuori-busta/sergio-luzzatto-partigia
https://www.lindiceonline.com/focus/storia/partigia-il-clamore-e-i-suoi-effetti-collaterali/
http://www.leparoleelecose.it/?p=11105#_ednref5
Per il testo parziale di Oro si veda:
http://www.spaziodi.it/magazine/n0606/vd.asp?id=1860
http://www.minieredoro.it/Primo%20Levi%20racconto%20oro%20e%20Dora.htm
audio di commento su Oro:
https://www.youtube.com/watch?v=jAk1FDU3rP0