La storia del verde brillante

Roberto Poeti

La intensa attività sperimentale di Carl Scheele(1742-1786)  ha abbracciato i campi della chimica organica e di quella inorganica, ottenendo risultati incredibili nella sua breve esistenza ( è morto all’età di quaranta anni), avendo a disposizione come laboratori i  retrobottega delle farmacie in cui ha lavorato. Vi sono scoperte di Scheele che hanno avuto un grande  impatto, come per esempio la scoperta dell’ossigeno sullo sviluppo della chimica, le sue ricerche sul fosforo nell’industria dei fiammiferi svedese, o le sue indagini sulla fotochimica dei sali di argento  sullo sviluppo della  fotografia ecc. Ma c’è un risultato sperimentale di Scheele, non tra i più importanti come rilevanza scientifica , che però  ha avuto più impatto sull’arte, la moda e in generale il costume.  Si tratta della invenzione del  colorante verde che ha preso poi il nome verde di Scheele.  Il legame tra i pigmenti e Scheele è stato  il risultato inaspettato  di ricerche che avevano un fine diverso. Già nel 1770, nel tentativo di ottenere soda direttamente dal sale comune, un campo che è sempre stato allettante per un chimico, Scheele aveva mescolato litargirio (una delle forme naturali dell’ossido di piombo II) in polvere con una soluzione acquosa di cloruro di sodio, e la soluzione di soda caustica formata era stata carbonatata con esposizione all’aria. Nel  procedimento veniva ottenuta una modesta quantità di soda , insieme a ossicloruro di piombo che si presentava di un bel colore giallo. Il pigmento ottenuto venne brevettato nel 1801 in Inghilterra, molti anni dopo la morte di Scheele, da James Turner, un produttore di sostanze chimiche, conosciuto poi come  Giallo di Turner.

Questo pigmento giallo ha lasciato tuttavia scarse tracce nell’arte di quel tempo , la sua sensibilità alla luce e ai fumi di zolfo ne ha limitato l’uso ed è stato sostituito dai pigmenti giallo cromo. Cinque anni  dopo la sintesi del pigmento giallo, Scheele, mentre era intento a sperimentare sui composti dell’arsenico, ottiene un pigmento verde, chiamato in seguito verde di Scheele. È una scoperta che non sembra  essere il frutto anch’essa di un piano preordinato. Ma la sua risonanza sembra questa volta maggiore rispetto al primo pigmento, tanto che l’Accademia Svedese  delle scienze lo invita a pubblicare negli atti della stessa accademia un resoconto della sua scoperta. Scheele lo farà solo dopo tre anni, vincendo la sua proverbiale refrattarietà a pubblicare le sue ricerche. Lo fa con una nota breve rivolgendosi all’accademia  con la  consueta cortesia e modestia.

Memoria di Scheele :

Di seguito è la traduzione integrale della sua memoria dalla lingua svedese. Le unità di misura per pesi e volumi che utilizza  erano quelle in uso nella  Svezia prima dell’introduzione del Sistema Internazionale. Sono state convertite nel S.I.

Traduzione:

Accademia reale svedese delle scienze   1778                          

 Preparazione  di un nuovo colore verde di Carl Wilhelm Scheele 

Che si riesca a malapena a concepire l’aiuto della Chimica nella preparazione dei colori per la pittura, e che con il suo aiuto si scoprano ancora nuovi colori, è una verità della quale nessuno dubita. Per assecondare la richiesta dell’Accademia delle Scienze, e cioè che il colore verde, che ho scoperto nei miei esperimenti con l’arsenico, così come il suo metodo di preparazione, dovessero diventare più familiare al pubblico; ho l’onore di essere dello stesso avviso , ancora di più , perchè  ho scoperto che  il colore non solo è utile, così per  un colore ad olio simile all’acqua, ma anche che ora, dopo tre anni, non è cambiato minimante.

Due skålpund [  1 skålpund = 0,425 kg]  di vitriolo di rame blu [ solfato di rame] vengono sciolte in un bollitore di rame sul fuoco, con 6 kannor di acqua pulita [1 kannor = 2.6 litri] ; quando il vitriolo si è sciolto , il bollitore viene tolto dal fuoco.

Quindi, in un altro bollitore di rame, si sciolgono 2 skålpund di cenere bianca secca e 22 lod [1 lod = 0.013301 kg] di arsenico bianco in polvere * in 2 kannor di acqua pura sul fuoco; quando tutto è disciolto, questa liscivia viene filtrata attraverso il lino in un altro recipiente. Un po’ alla volta questa liscivia arsenicale viene versata nel contenitore  della  soluzione del suddetto vetriolo di rame mescolando continuamente con un cucchiaio di legno. ** Quando tutto è stato aggiunto, la miscela  viene lasciata inalterata per alcune ore, mentre il colore verde si deposita  al fondo; quindi si versa via il liquido limpido [surnatante] e si versano ancora alcune brocche d’acqua calda, che vengono poi ben mescolate; quando la vernice si è depositata di nuovo, l’acqua limpida viene versata via; si prosegue altre due volte allo stesso modo, versando dell’acqua calda. Dopo che la vernice è ben lisciviata,*** tutto viene versato su un panno di lino teso e, quando l’acqua è sgocciolata, la vernice viene stesa in piccoli grumi su carta grigia e asciugata a fuoco leggero. Della quantità specificata si ottiene 1 skålpunde 13 lod [ totale 0.560 Kg ], di bel colore verde.

* È sempre più sicuro polverizzare da soli l’arsenico intero che acquistare lo stesso precedentemente in polvere, perché capita che il supporto sia mescolato con gesso grattugiato. Si può esserne convinti, se ne si mette un pizzico su un fuoco ardente: se poi fuma completamente spoglio, senza che nulla venga lasciato indietro, allora tale arsenico è puro.

** Vista la effervescenza che qui si produce , il bollitore in cui viene contenuta la miscela non dovrebbe essere troppo piccolo, ma dovrebbe poter ospitare 16  kannor [ circa 35 L]

*** Tutta l’acqua con cui è stata lisciviata la vernice contiene un po’ di arsenico; quindi dovrebbe essere portato  in un luogo tale , che dopo  il bestiame non può avervi accesso

Carl Wilhelm Scheele  – 1778

I rapporti ponderali presenti nella memoria:

La formula più rappresentativa possiamo assumere che sia:

Il composto insolubile arsenito acido di rame II non è il solo componete del verde di Scheele, la cui composizione tende a variare a seconda delle modalità della preparazione.

 Alcune puntualizzazioni

Il bellissimo verde smeraldo conquistò l’Europa dell’ottocento. Occorre però fare due precisazioni prima di parlare dell’impiego e delle conseguenze che derivarono dall’uso indiscriminato del pigmento. La prima è legata ad alcune affermazioni che troviamo in alcuni blog circa il ruolo di Scheele nel commercializzare il suo pigmento e trarne profitto. Niente è più lontano dalla verità. Scheele ha condotto una esistenza di scienziato schivo da onori, tutta dedica alla ricerca, rifiutando posizioni remunerative. Egli è morto molto prima che il suo pigmento venisse diffuso. La  seconda precisazione riguarda la tossicità del pigmento di cui egli è consapevole e avverte nelle nota ** che le acque di lavaggio devono essere scaricate in luoghi non accessibili agli animali !

L’esplosione del verde

Nell’ottocento abbiamo una rivalutazione del colore verde. Fu Goethe, per primo, nella sua “Teoria dei colori”, a considerare la tinta verde “rasserenante” e a raccomandarne l’impiego nei locali destinati al riposo e al convivio. La sua diffusione venne favorita migliorando le caratteristiche del verde di Scheele agli inizi  dell’ottocento.  Venne prodotto il verde di Vienna o verde Parigi ( due dei tanti nomi che prenderà il verde di Scheele modificato) che era acetato arsenito di rame(II), Cu(C2H3O2)2·3Cu(AsO2)2, di tonalità simile al pigmento di Scheele, ma più resistente alla luce.  Il nuovo pigmento fu immediatamente commercializzato e adottato praticamente in tutti i rami dell’industria. Il pigmento verde brillò nei vestiti alla moda delle donne, gilet, scarpe, guanti e pantaloni, nelle candele, come vernice nei giocattoli per bambini e perfino nell’industria dolciaria con le bellissime foglie di zucchero verde appoggiate sulle torte glassate e nella carta parati.  

Il verde di Scheele divenne così popolare che poteva essere trovato in tutta la Gran Bretagna e in gran parte del continente per tutto il diciannovesimo secolo. Era così popolare che si diceva che la Gran Bretagna vi fosse immersa. La tossicità dell’arsenico era volutamente ignorata, la raccomandazione di Scheele che accompagnava la preparazione del suo pigmento era stata inutile. Scheele aveva immaginato che il suo colore avrebbe abbellito la tavolozza dei pittori . Non immaginava certo l’uso esteso che ne avrebbe fatto l’Inghilterra vittoriana e a seguire l’Europa e l’America.

Il verde nella pittura

Nella  pittura  l’uso del pigmento verde venne impiegato nelle loro tavolozze da artisti esponenti del movimento romantico agli inizi dell’800 come Georg Friedrich Kersting (1785 –1847) fino a esponenti dell’impressionismo come Monet e Renoir  e del post- impressionismo come Gauguin, Cezanne e Van Gogh.

Ma , come abbiamo visto, il suo uso andò ben oltre il campo della pittura.

Il verde nella carta da parati

 Il quadro precedente di Georg Kersting, Donna che ricama, fotografa efficacemente la moda del tempo: nelle case della borghesia   le pareti dei salotti  e dei  soggiorni erano colorate di verde Scheele. Soprattutto la carta da parati verde divenne molto popolare all’epoca e, quando il movimento romantico iniziò a prendere piede, divenne ancora più di moda addobbare il soggiorno o il salotto con scene di viti di fragole stilizzate e tulipani verdi dalla testa svolazzante. Il fiorente mercato della carta per pareti, dove dominava il verde, era la causa del contatto più diffuso con il pigmento, si stima che nel 1858 ci fossero cento milioni di miglia quadrate di carta da parati verde Scheele nella sola Gran Bretagna.

 I fiori di carta .

Ma , come abbiamo visto, il suo uso andò ben oltre il campo della pittura. Nel fiorente mercato di fiori finti di carta, il pigmento verde divenne quanto mai prezioso. Molti produttori facevano affidamento sul lavoro minorile per arricciare i petali, cucire i fiori e svolgere altri compiti che richiedevano piccole mani abili. Questi lavoratori di fiori si avvelenavano lentamente  a causa del loro contatto con il pigmento verde e per inalazione della polvere, spolverando le foglie artificiali con il verde per farle sembrare più realistiche. Si tratta di una delle più severe malattie professionali che si ricordi nell’800.


MAKING ARTIFICIAL FLOWERS, NEW YORK, 1912

Voci inascoltate

Già nel 1839, il chimico tedesco Leopold Gmelin aveva notato che le stanze umide tappezzate con il colore producevano un acido tossico. Nel 1891, il medico italiano Bartolomeo Gosio confermò che l’umidità delle pareti delle case e le muffe che nascevano nella pasta per carta da parati metabolizzavano l’arsenico per produrre un gas velenoso, poi identificato nel 1933 dal chimico Frederick Challenger che lo riconobbe come trimetilarsina.

La morte di Napoleone e l’arsenico nei suoi capelli

Nel 1961 una analisi condotta su un campione di capelli di Napoleone rinveniva una concentrazione di arsenico molto alta . Il risultato metteva in discussione la morte per cause naturali e si prospettava l’ipotesi dell’avvelenamento. È sorto così un animato dibattito sulle cause della morte di Napoleone. I  risultati di uno  studio interdisciplinare, pubblicato in  Advances in Anatomic Pathology  March 2011, dal titolo The Medical Mystery of Napoleon Bonaparte An Interdisciplinary Expose pone fine alla diatriba. Lo studio si avvale del punto di vista del gastroenterologo, del patologo , e soprattutto la determinazione dell’arsenico nei campioni di capelli di Napoleone e dei suoi familiari, tramite Analisi per attivazione neutronica, NAA. I risultati raggiunti escludono l’avvelenamento per arsenico dell’imperatore .

 Ma allora perché la concentrazione di arsenico nei capelli di Napoleone è in tutti i casi molto più alta rispetto ai valori comuni oggi ? L’imperatore ha condiviso i gusti e le tendenze del suo tempo:  amava il colore verde e i suoi  abiti, le tappezzerie e le pareti dei suoi salotti  sfoggiavano spesso questo colore. Ma questo colore era il verde Scheele a base di arsenico e Napoleone ne ebbe ampia esposizione. Infine, la maggior parte dei cosmetici e delle polveri per capelli a quel tempo contenevano arsenico e Napoleone fece un uso abbondante di polvere per capelli. Pertanto, il potenziale di contaminazione diretto e indiretto dei capelli dell’imperatore era molto alto.

La scarsa coscienza del pericolo

Per tutto il diciannovesimo secolo, ci sono state innumerevoli segnalazioni di malattie e decessi correlati all’uso del pigmento. Le persone deperivano frequentando stanze verdi o quando venivano accese  candele verdi. È difficile immaginare oggi come un uso di composti di arsenico così diffuso non abbia provocato una presa di coscienza del suo pericolo. Possiamo pensare che poiché i sintomi da avvelenamento con verde all’arsenico, che iniziavano con mal di testa, sonnolenza e problemi gastrointestinali, non erano acuti, ma restavano latenti per molto tempo e si manifestavano gradualmente, facevano perdere il nesso causa – effetto. I sintomi più visibili dell’avvelenamento acuto da arsenico – nausea, vomito, diarrea e dolore addominale – potevano essere facilmente confusi con altre malattie comuni dell’epoca (p. es., colera e polmonite).  La polvere del pigmento o il gas  che si sprigionavano dalla carta da parati dei salotti della buona borghesia non si evidenziavano poi concretamente. Nei giovani lavoranti, che venivano impiegati nella lavorazione  dei fiori finti, i sintomi erano più acuti, ma la medicina del lavoro doveva ancora nascere, così come la tutela sindacale.

L’inerzia dell’industria 

 Per ultimo, ma non meno importante, erano sorte tante attività che  impiegavano il pigmento verde e le  alternative non erano pronte. Un caso emblematico è il produttore di stoffe e carta da parati  William Morris (1834 –1896), artista e scrittore britannico che, tra i principali fondatori in Inghilterra del movimento delle Arts and Crafts, è considerato antesignano dei moderni designer ed ebbe una notevole influenza sull’architettura del suo tempo. Continuò a usare sia il verde di Scheele che il verde Parigi nella sua linea  estremamente  popolare di carta da parati, tappeti e tessuti. William Morris  era molto scettico riguardo alle affermazioni secondo cui l’arsenico poteva essere pericoloso.

 Intorno al 1870, Morris si piegò alle pressioni dell’opinione pubblica e iniziò a utilizzare verdi senza arsenico nei suoi laboratori.

Quando i governi europeo, britannico e americano hanno iniziato a regolamentare l’arsenico, la vivida carta da parati verde era già passata di moda.

L’arsenico per essere più belle

Ma c’è un altro motivo che ostacolava  l’associazione dell’arsenico a un pericolo. Insolitamente per un veleno, l’arsenico ha avuto molti altri usi comuni nel corso della storia, dopo la sua scoperta.

 L’arsenico era un trattamento comune per la pelle fino all’inizio del XIX secolo. Nel periodo vittoriano, l’arsenico veniva assunto come integratore per uso interno per migliorare la carnagione con il risultato di una pelle bluastra e traslucida. I medici vittoriani ed edoardiani lo prescrivevano per l’asma, il tifo, la malaria, il dolore mestruale, la sifilide, la nevralgia e come rimedio non specifico. Il manifesto seguente del 1896 pubblicizza cialde e saponi a base di arsenico per la bellezza della pelle !

L’ultimo atto di questa storia

È improbabile che molti dei prodotti verde Scheele o Parigi siano ancora in circolazione. Tuttavia, Victoria Finley scrive in The Brilliant History of Colour in Art, “Ancora nel 1950 l’ambasciatrice degli Stati Uniti in Italia, Clare Boothe Luce, si ammalò di avvelenamento da arsenico. La CIA sospettava dei sovietici e ha inviato una squadra a Roma per indagare. Alla fine hanno scoperto che il soffitto della sua camera da letto era decorato con pigmenti pieni di arsenico. Nella stanza sopra era stata installata una nuova lavatrice. Il suo sussulto aveva rilasciato polvere di arsenico, che lei respirava mentre dormiva”.

Clare Boothe Luce, ambassador to Italy, with husband Henry Luce (1954)

Riferimenti

Scheele C.W. Preparazione di un nuovo colore verde. Kongl. Vetenskaps  Academiens Handlingar 1778 Vol.XXXIX.

https://cameo.mfa.org/wiki/Turner%27s_yellow

The soda process, and proposed improvements. The Chemical News and Journal of Physical Science, Vol. XXVII 1873; 164

Ball P. William Morris made poisonous wallpaper. Nature. 2003

Meharg A.A. Science in culture: The arsenic green. Nature. 2003

https://www.focus.it/cultura/curiosita/verde-arsenico-timore-mistero

Forshufvud S, Smith H, Wassen A. Arsenic content of

Napoleon I’s hair probably taken immediately after his death. Nature. 1961;192:103–105.

Lugli A, Clemenza M, e altri. The Medical Mystery of Napoleon Bonaparte.

An Interdisciplinary Expose. Adv Anat Pathol 2011;18:152–158

Gli elementi della tavola periodica: Arsenico, As.

Mauro Icardi

L’arsenico è un semimetallo. La parola Arsenico deriva dal termine persiano “Zarnik” ossia “ornamento giallo”. In seguito in greco antico il termine venne mutato in “Arsenicon”. Elemento n° 33 della tavola periodica; esiste in tre forme allotropiche: giallo, nero e grigio; la forma stabile è un solido cristallino grigio-argento, fragile, che si appanna velocemente in aria e ad alte temperature brucia per formare una nube bianca di triossido di arsenico. La forma cristallina gialla e una forma amorfa nera sono inoltre conosciute. Si può trovare in minerali quali l’arsenopirite (FeAsS), il solfuro giallo AS3S,l’ossido di arsenico o arsenolite (As2O3).

(Arsenopirite)

Non è estratto come tale perché deriva dalla raffinazione dei minerali di altri metalli, come rame e piombo. La produzione mondiale di arsenico, sotto forma del relativo ossido, è intorno a 50.000 tonnellate all’anno. La Cina è il paese esportatore principale, seguito da Cile e Messico.
E’ un elemento conosciuto ed usato fin dai tempi degli antichi romani. Gli assassini a quel tempo erano soliti utilizzarlo spalmato sui fichi, per compiere i loro delitti, in quanto i suoi composti sono praticamente insapori. E probabilmente a quel momento si può far risalire la cattiva reputazione di cui gode ancora oggi. In realtà l’uso come veleno, che ebbe il suo massimo favore nel Medio Evo, perse di importanza con l’evoluzione delle tecniche analitiche atte a determinarlo anche in tracce. Ma nonostante tutto è ricordato nella commedia, e poi nel successivo film di Frank Capra “Arsenico e vecchi merletti”, come sinonimo stesso di veleno.Credo che nella memoria di molti sia rimasto anche il capitolo de “Il sistema periodico” di Primo Levi, dove si racconta di come un giovane arrogante e sleale, non trovi di meglio che contaminare, proprio con l’arsenico, mezzo chilo di zucchero che regala ad un suo diretto concorrente. Il concorrente in questione è un altro ciabattino, onesto e signorile. Costui, insospettito dall’inaspettato regalo visto la rivalità che li divide, si recherà al laboratorio da poco aperto da Levi in società con l’amico Alberto Salmoni per farlo analizzare. Le suggestioni letterarie e storiche dell’Arsenico non sono finite, e lo stesso Levi lo ricorda, appena ha lo ha identificato come il contaminante dello zucchero: “ Ecco il precipitato giallo di solfuro, e l’anidride arseniosa, l’arsenico insomma, il Mascolino, quello di Mitridate e di Madame Bovary”.

Emma Bovary, protagonista del romanzo di Gustave Flaubert si suiciderà proprio ingoiando arsenico.

Mascolino invece ci rimanda all’etimologia derivante dal greco dove “Arsen” cioè maschio si riferirebbe alle proprietà ed alla potenza farmacologica di questo elemento. L’arsenico ed i suoi composti nel passato hanno avuto grande importanza in campo medico come farmaci. Composti organici dell’arsenico venivano impiegati per curare la sifilide e la tripanosomiasi, ma l’interesse delle terapie arsenicali è considerevolmente diminuito con l’avvento degli antibiotici. Anche in Italia si è utilizzata come curativa l’acqua arsenicale della valle anzasca.

https://ilblogdellasci.wordpress.com/2015/01/09/la-sorgente-miracolosa-della-valle-anzasca/

L’arsenico è stato molto usato in passato come erbicida, insetticida, conservante del legno, rodenticida e antiparassitario zootecnico. L’arseniuro di gallio viene usato come alternativa al silicio nella realizzazione di circuiti integrati.

Oggi l’arsenico è stato classificato dalla IARC (Agenzia Internazionale per la ricerca sul Cancro) come elemento cancerogeno certo per l’uomo. Il comitato di esperti di Fao ed OMS ha proposto una dose di riferimento per l’assunzione di Arsenico fissando un valore pari a 3 microgrammi/kg per chilo di peso corporeo che può provocare un rischio supplementare rispetto al rischio standard dello 0,5% in più di contrarre tumore al polmone. Ne abbiamo parlato in questo articolo del nostro blog dedicato anche la caso Bangladesh e alle riduzioni dei limiti accettabli nelle acque potabili.Per quanto riguarda il settore idrico l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) consiglia una concentrazione massima di 10 microgrammi litro nell’acqua destinata al consumo umano. Sebbene l’arsenico si possa trovare nelle acque superficiali, le acque sotterranee sono la principale fonte di arsenico nell’acqua. È quindi normale riscontrarne la presenza in acque provenienti da fonti collocate in particolare nelle zone di maggiore concentrazione, come Lombardia, Alto Adige, Campania, Toscana e Lazio. Anche vulcani e microrganismi liberano nell’atmosfera grandi quantità di arsenico. Ciò su cui non sembra esserci un accordo è l’incidenza che l’attività umana esercita su questi valori (si veda la nota in fondo). Alcuni ritengono che essa sia irrilevante, soprattutto per quanto riguarda la contaminazione delle falde acquifere. Altri, considerando anche la già citata capacità dell’arsenico di muoversi attraverso gli elementi (aria, acqua, terra), ritengono che l’alterazione di alcuni sistemi naturali abbia ampliato il ciclo dell’arsenico, provocandone la dispersione anche laddove questo elemento non è mai stato presente.

Il ciclo globale dell’Arsenico è mostrato qui sotto :

Referenze o file da consultare:

https://www.inail.it/cs/internet/docs/quaderno-arsenico.pdf?section=attivita

https://www.google.com/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=12&ved=2ahUKEwiuubWO_5ngAhXNyqQKHYIQDrkQFjALegQIBBAC&url=https%3A%2F%2Fwww.springer.com%2Fcda%2Fcontent%2Fdocument%2Fcda_downloaddocument%2F9783319543543-c1.pdf%3FSGWID%3D0-0-45-1608645-p180676916&usg=AOvVaw15riYwKo3RG5tskXfiKi73

In questo recentissimo articolo di H. Masuda Progress in Earth and Planetary Science (2018) 5:68 https://doi.org/10.1186/s40645-018-0224-3 scaricabile liberamente qui appresso

https://progearthplanetsci.springeropen.com/track/pdf/10.1186/s40645-018-0224-3

trovate una rappresentazione quantitativa del ciclo dell’arsenico che riporto qui sotto (tratta da Matschullat J (2000) Arsenic in geosphere – a review. Sci Total Environ 249:297–312 ) con analisi molto dettagliate:Come si vede, nonostante alcune incertezze,  anche in questo caso le cifre della produzione umana sono enormi anche se inferiori a quelle totali del ciclo naturale.

https://efsa.onlinelibrary.wiley.com/doi/epdf/10.2903/j.efsa.2009.1351  (segnalato da Rosangela Marchelli)

Quando l’arsenico si beveva a fiumi.

Claudio Della Volpe

Uno dei motivi per cui l’acqua in bottiglia ha successo è che in alcuni casi le acque delle sorgenti del sindaco hanno problemi naturali non da inquinamento; per esempio molte sorgenti vicine alle grandi montagne o in zone vulcaniche contengono una piccola percentuale del tutto naturale di arsenico (ma anche di fluoruri o di altri ioni fra i quali boro e vanadio). Fino a qualche anno fa sia le acque minerali che alcune acque del sindaco avevano “le deroghe” per certi componenti fra i quali proprio l’arsenico, cosa che è durata fino al 31-12-2012 in Italia (in realtà è andata avanti in qualche forma fino al 2013-2014).

Potete leggere un vecchio articolo de Le Scienze del 2010 che conteneva molti dati. Nel 2014 un documento dell’ARPA Lazio confermava e approfondiva la situazione in Lazio.

Nella zona dove abito io, il Trentino, la cosa è stata relativamente comune ed è stata affrontata prima diluendo le acque di alcune sorgenti con altre e poi con specifici apparati depurativi (la depurazione si effettua comunemente ossidando l’As e adsorbendolo su idrossido di ferro, in pratica ruggine, presente in filtri di speciale costruzione, in cui l’acqua da trattare viene fatta passare). Al momento la nostra acqua del sindaco é del tutto a norma, As < 10 μg/l  (microgrammi per litro). Ciò che colpisce è la storia di questi limiti e la situazione che si è generata in alcune parti del mondo; è una storia che vale la pena di essere raccontata questa dei limiti dell’arsenico.

Le norme UE parlano di un un aumento del livello di rischio di insorgenza di tumori; il Comitato congiunto di esperti della FAO/OMS (JECFA) ha proposto una dose di riferimento fissandola a 3 microgrammi/ Kg di peso corporeo al giorno, che provoca un rischio supplementare, rispetto al rischio standard, dello 0,5% di tumori ai polmoni. Sono considerati test significativi gli aumenti di insorgenza di 4 fenomeni: tumori alla vescica, ai polmoni, alla pelle e lesioni cutanee (iper e ipopigmentazioni, cheratosi, melanosi). Le norme si riferiscono ad Arsenico totale anche se As+3 è molto più pericoloso di As+5.

L’arsenico è un elemento la cui tossicità è conosciuta da tempo lunghissimo; l’arsenico è conosciuto nei suoi effetti fin dal “calcolitico” ed è stato isolato da Alberto Magno nel 1250; usato come componente di cosmetici e di altri materiali ha una vasta eco letteraria; chi non ricorda i casi della letteratura?

Per esempio ne “Il Conte di Montecristo”, l’arsenico è uno dei protagonisti del romanzo: il suo uso e i modi per resistere all’avvelenamento da arsenico, all’”acqua tofana” (che conteneva anche Pb) inventata a Palermo nel 1640, usata dall’avvelenatrice, la signora di Villefort, per proteggere i diritti di suo figlio contro la figlia di primo-letto del procuratore del re, Valentine, e il cui uso viene supportato dal Conte proprio per stimolare i peggiori istinti della donna e, dunque, realizzare la sua vendetta contro Villefort.

Potrei citarne altri.

Insoma si sa che l’arsenico è velenoso; ma i suoi effetti a basse dosi, che Dumas ritiene salubri e difensivi, in grado di garantire da avvelenatori improvvisati, sono stati compresi solo dopo molti anni di studi.

Oggi si sa che anche basse e costanti dosi di arsenico possono indurre tumori, diabete e molte altre malattie (Environ Health Perspect; DOI:10.1289/ehp.1510209).

Prima del 1958 non c’erano limiti dell’arsenico nelle acque potabili: la storia di questi limiti può essere rintracciata nei documenti dell’OMS[vedi altri riferimenti] ed è mostrata nel grafico seguente:

In 50 anni i limiti sono quindi scesi di 20 volte mettendo in crisi ripetutamente le scelte fatte dai vari governi; nel 1987 poi lo IARC ha definito l’As come cancerogeno di gruppo 1, dunque stabilito che c’é pericolo di tumore nel consumo di arsenico; e negli ultimi anni si sta concludendo che anche a queste dosi altre malattie come il diabete, di cui è in atto una epidemia mondiale, possono essere indotte dal suo uso. E’ un caso importante, stabilisce che nel tempo come società umana impariamo gli effetti delle sostanze “NATURALI” sul nostro organismo e che tali sostanze non sono di per se “BUONE A PRESCINDERE”, come taluno immagina.

«O natura, o natura, / perchè non rendi poi / quel che prometti allor? perchè di tanto / inganni i figli tuoi?» (G. Leopardi, A Silvia, 1828)

L’italia è stata messa in mora ripetutamente per la difficoltà che ha avuto nel ridurre i valori di As in alcuni dei suoi acquedotti; ci sono zone del paese, come il centro Italia, l’alto Lazio, Viterbo, ma anche Latina, per esempio dove le sorgenti arseniacali sono frequenti; d’altronde l’Italia è terra vulcanica, recente, spinta dal profondo dalla zolla africana; se si eccettua la Sardegna tutto il territorio italiano è zolla africana; anche il Trentino dove vivo io è geologicamente zolla africana, terra di movimenti tellurici profondi e duraturi; tutta la terra italica sotto la geosutura della linea Insubrica è zolla africana, soggetta alla spinta verso Nord; le rocce che emergono contengono arsenico, le Alpi come l’Himalaia sono una catena montuosa sorta dallo scontro fra due placche tettoniche che hanno portato allo scoperto zone profonde. In un bel lavoro del 2005[Atti Acc. Rov. Agiati, a. 255, 2005, ser VIII, vol V, B: 59-94] il collega Fuganti del mio Dipartimento ha analizzato la composizione delle rocce della Val d’Adige

La geosutura insubrica.

concludendo che quantità significative di arsenico sono presenti nelle rocce della val d’Adige e sono rilasciate nelle acque in alcuni casi ai limiti o sopra i valori oggi ritenuti sicuri.

Analisi di questo tipo consentono poi di intervenire attivamente per la salvaguardia della qualità delle acque potabili.

Il problema è generale.

Luca Lucentini, 3 corso regionale sui prodotti Fitosanitari, nov. 2017

In questa slide Lucentini che è Direttore del Reparto di Igiene delle Acque Interne dell’Istituto Superiore di Sanità, è coautore di Linee Guida sulla qualità delle acque potabili dell’Organizzazione mondiale della Sanità ci mette in guardia dal considerare come scontati certi fatti: la tossicità dell’arsenico e la necessità di controllarne la concentrazione è stata maturata tutto sommato lentamente e recentemente. Quando sono nato io (1950) questa coscienza non c’era.

Esistono casi in cui l’intervento umano si è risolto in un enorme problema; consideriamo la questione acque potabili in Bangladesh; si stima che decine di milioni di persone (da 20 a 35) siano esposte all’intossicazione da arsenico di falda in quel territorio; come si è arrivati a questo risultato drammatico? (fra l’altro quando vedrete la prossima volta qualcheduno del Bangladesh che scappa verso l’Europa, casomai dalle nostre parti, potreste immaginarvi perchè lo fa). Come forse ricorderete il Bangladesh si separò dal Pakistan a maggioranza islamica nel 1971, e questo evento spostò milioni di persone di religione induista dall’attuale Pakistan al Bangladesh. La pressione sulle povere risorse del paese si accrebbe.

La storia è raccontata in questo articolo di Human Rights Watch (https://www.hrw.org/report/2016/04/06/nepotism-and-neglect/failing-response-arsenic-drinking-water-bangladeshs-rural).

Fino ad allora l’agricoltura si era basata su una irrigazione che usava le acque superficiali, fortemente inquinate; la nuova situazione peggiorò le cose incrementando problemi di acque inquinate da scarichi fecali.water research 44 (2010) 5789e5802

Per risolvere il problema le organizzazioni internazionali spinsero verso l’uso di acqua estratta da pozzi non dai fiumi; tuttavia nessuno si rese conto che le acque estratte dai primi 10-20 metri erano fortemente inquinate da arsenico per motivi naturali. O meglio nei primi 10-20 metri l’arsenico era molto più disponibile; d’altronde per motivi di costo la maggior parte dei pozzi si fermava a quella profondità.water research 44 (2010) 5789e5802

Racconta The Guardian, 23/5/2006

In 1990 the BGS obtained a commission from the UK government’s aid agency, then known as the Overseas Development Agency , to survey deep wells dug in the previous decade. Samples from the wells were taken to BGS laboratories to test for toxic elements. BGS argues that its report did not give the water a clean bill of health for drinking, but the report’s author indicated in a published paper in 1994: “The groundwaters are … suitable for crop irrigation and domestic usage.”

BGS è il British Geological Survey, una organizzazione governativa inglese, la quale NON condusse un test per l’arsenico.

In quel medesimo 1994 cominciava a venir fuori il problema

Questo scatenò una causa da parte di una ONG bengalese contro il governo di sua maestà; la risposta tardò ad arrivare e quando arrivò fu molto deludente:

Lord Hoffman’s ruling at the time was that the relevant agencies, such as the BGS, in cases like this were ‘liable only for the things they did and the statements they made, not for what they did not do‘. (trovate i dettagli di questa storia qui)

La conclusione della BBC:

Correspondents say that if successful the legal action could have cost the British taxpayer millions of dollars in compensation.water research 44 (2010) 5789e5802 water research 44 (2010) 5789e5802

Nel frattempo milioni di pozzi entrarono in funzione, distribuendo acqua con tassi di arsenico da decine a centinaia di volte superiori alla norma OMS; ancora oggi in Bangladesh è legale acqua con 50 microgrammi di arsenico per litro; e ancora oggi decine o centinaia di migliaia di pozzi pompano acqua da bassa profondità con tassi altissimi di arsenico.

L’OMS parla di un caso di avvelenamento di massa, il maggiore mai visto nella storia umana recente e forse in tutta la storia, che ha come condizione base la Natura, come condizione storica interventi umanitari poco accorti ed è aggravato dalla sovrappopolazione, dalla povertà, dalla lotta politica e religiosa in un paese che è da sempre ultimo in tutte le graduatorie del mondo.

La chimica si intreccia così drammaticamente con la salute e la vita di decine di milioni di uomini.

Altri riferimenti.

http://www.enkiwater.it/valori-di-arsenico-nelle-acque-minerali/

 

Lana per la depurazione

Mauro Icardi

La lana è un materiale che sta facendo il suo ingresso nel settore della depurazione delle acque. La ricerca nel settore si sta orientando verso nuove soluzioni che riescano a coniugare effetti depurativi elevati con costi contenuti. Oltre a questo si sperimentano soluzioni che superino i limiti degli impianti di trattamento tradizionali. Da un punto di vista chimico la fibra della lana è un polimero di origine proteica ed è costituita da cheratine ossia da macromolecole risultanti dall’unione di più amminoacidi legati tra loro tramite un legame peptidico. Da un punto di vista spaziale le catene cheratiniche sono disposte a elica a formare una struttura tridimensionale.

La lana di pecora sarda è entrata a fare parte di una serie di prodotti utilizzati per il disinquinamento in situ di idrocarburi. In particolare quello dovuto a sversamenti accidentali. Il prodotto presentato nel 2016 è frutto di una collaborazione tra l’Università di Cagliari (dipartimenti di Scienze Biomediche e di Ingegneria Sanitaria) e la società Geolana. Il principio di funzionamento è quello di lavorare la lana creando delle microcelle adatte ad essere adoperate come habitat da microrganismi in grado di degradare i prodotti petroliferi. Il prodotto può poi essere confezionato sotto forma di “salsicciotti “ assorbenti (forma piuttosto diffusa anche per prodotti a base di enzimi) che vengono posti come barriere assorbenti nelle aree marine da bonificare.

Il principio in ultima analisi ricorda quello dei sistemi a biomassa adesa sia di vecchia concezione (biodischi) che di quelli più recenti (MBRR- Moving-Bed Biofilm Reactor). Va anche ricordato che negli anni si sono sperimentati diversi sistemi di filtrazione per esempio di aria proveniente da locali di trattamento di fanghi con l’utilizzo di biofilitri. Il materiale di riempimento poteva essere costituto da corteccia di alberi, ma anche da gusci di cozze, che negli anni si sono utilizzati in diversi impianti di depurazione proprio per questo scopo.

http://www.infonodo.org/node/12115

Ritornando alla lana e al suo recupero, destinandola alla depurazione delle acque, una notizia recente è stata pubblicata pochi giorni fa, il 10 Gennaio 2018 sul quotidiano “La Stampa”.

La notizia si riferisce a sperimentazioni in corso presso il centro ricerche Smat a Torino. Il titolo dell’articolo è : “Così gli scarti delle lane rendono l’acqua più sicura”.

Scarti della lavorazione della lana, opportunamente trattati come precisato dalla società per bocca del suo presidente Paolo Romano, utilizzati per la rimozione di metalli.

In particolare si tratterebbe di produrre delle cartucce di lana pressata per sostituire processi di osmosi inversa. Questo per diminuire i costi e per facilitare le manutenzioni, che a loro volta incido dal punto di vista economico. Per quanto riguarda i risultati, relativamente all’arsenico l’articolo indica una riduzione di concentrazione da valori iniziali pari a 2000 microgrammi/litro, fino ad arrivare ad una concentrazione di 10 microgrammi litro.

Nell’articolo è indicata anche l’intenzione di estendere le sperimentazioni su altri metalli, quali zinco, nichel, cadmio e cromo esavalente.

In attesa di notizie più precise, credo occorra ricordare alcune cose. Normalmente nelle acque superficiali l’arsenico è presente nella forma pentavalente, come in AsO43-, cioè lo stato ossidato +5.

Su questa forma il trattamento ad osmosi inversa riesce a trattenere fino al 90% dell’arsenico. Ma è inefficace per il trattamento dell’arsenico in forma ridotta come in AsO33- , cioè lo stato ossidato +3. Occorre quindi essere sicuri che tutto l’eventuale arsenico in questione sia eventualmente ossidato a pentavalente. In caso contrario occorre prevedere di utilizzare ossidanti usualmente impiegati (permanganato di potassio, acqua ossigenata o reattivo di Fenton.)

Nei processi di osmosi inversa occorre per eliminazione di arsenico occorre verificare il problema dello sporcamento delle membrane. Ho trattato il problema dal punto di vista dell’osmosi. Potrebbe essere utilizzata eventualmente la tecnica dell’adsorbimento, ma non mi è chiaro come si potrebbero utilizzare allumina o idrossido di ferro sullo strato di lana che fungerebbe da letto di riempimento. Perché per esempio utilizzando allumina occorre a volte addizionare l’acqua di acido e successivamente neutralizzarla per la rigenerazione del filtro di adsorbimento.

In letteratura si trovano lavori sperimentali che trattano della rimozione dell’arsenico con metodi di questa concezione.

Modificando la struttura delle piume di pollo e verificando sperimentalmente che la cheratina risulterebbe particolarmente efficace nell’assorbimento dell’arsenico.

(RSC Adv. , 2013,3,20800)

Un altro lavoro sperimentale di ricercatori italiani che indica come efficienti agenti di rimozione dell’arsenico nelle acque di falda la chitina ed il chitosano. Ipotizzandone anche l’uso in medicina come nano particella naturale, per i veicolare il triossido di arsenico nei tessuti, ad uso chemioterapico.

(Mars. Drugs 2010 , 8,1518-1525; doi: 10.3390/md 8051518)

Sarà interessante verificare in ogni caso il procedere di questa sperimentazione torinese. Se risulterà promettente sarà un deciso passo in avanti verso recupero di materiali e diminuzione di rifiuti. E in ultima analisi il rilancio di tecniche di filtrazione che a loro tempo furono le prime (ed è intuitivo pensarlo) utilizzate nella purificazione delle acque.

Altra considerazione da fare: utilizzare le materie seconde, studiarne le potenzialità nell’ottica dell’applicazione concreta dell’economia circolare.

Le “seccature” di Seveso e Manfredonia: una riflessione.

Claudio Della Volpe

Nel 1976 mi sono laureato e dunque quell’anno me lo ricordo positivamente; finalmente avevo concluso un iter di studio e di crescita anche umana che mi hanno reso quel che sono, un chimico che è impegnato sulla barricata di un ambiente sostenibile e di una scienza democratica.

Mi ero iscritto nel 1968 e sarebbe stato impossibile per chiunque in quegli anni bollenti rimanere alla finestra mentre il mondo intero scendeva in piazza chiedendo una società nuova e rendendosi conto che, in fondo, era possibile.

I sogni e gli stimoli di quel tempo hanno fatto i conti con la realtà quotidiana, ma non sono mai morti.

Anzi non moriranno mai.

Per me che ero il primo della mia famiglia a laurearmi, ma credo per chiunque, Napoli era allora un crocevia di cultura e di innovazione; dove si seguivano le lezioni di Paolo Corradini, le conferenze di Liguori, di Prigogine, o di Enzo Tiezzi, dove ti prendevi il caffè discutendo (e non solo) di politica con Ennio Galzenati e Emilio Del Giudice, ti laureavi con Guido Barone, la sera passavi da Vittorio Elia o da Pina Castronuovo; gli studenti indicati come esempio si chiamavano Francesco Lely, il giorno della laurea avevi come compagno di prova Enzo Barone.

Insomma la chimica e la scienza napoletane non avevano nulla da invidiare a nessuno e costituivano un perenne stimolo culturale e scientifico.

Proprio in quell’anno di grazia 1976 ci furono due episodi che segnarono il clima dell’ambientalismo, della chimica, della scienza e che determinarono poi per anni a venire l’idea di chimica e di scienza del grande pubblico e vorrei ricordarli brevemente con voi: uno lo conoscete certamente, Seveso, l’altro di pochissimo successivo, forse non lo ricordate, ma è egualmente importante, Manfredonia.

Seveso è stato analizzato ripetutamente e magistralmente sulle pagine di C&I; ricordo qui brevemente due articoli che vi consiglio di leggere a questo riguardo e che sono scaricabili liberamente; uno di Ferruccio Trifirò che trae le lezioni tecniche dell’evento e l’altro di Jorg Sambeth, direttore tecnico della Givaudan-Roche che scrisse anche un libro sui retroscena di quell’evento, “Zwischenfall in Seveso”, purtroppo mai tradotto dal tedesco; nell’articolo Sambeth trae le lezioni strategiche da Seveso le stesse che ha esposto più ampiamente nel libro. Zwischenfall significa si incidente, ma nel senso proprio di contrattempo, seccatura, inconveniente che ti fa perdere tempo.

Ma anche per chi non conosce il tedesco e non può leggere il testo c’è una intervista rivelatrice in italiano che trovate qui.

Dottor Sambeth, perché ha preso la decisione di raccontare l’incidente con un libro.
«Innanzitutto – spiega – per ragioni personali: io ho voluto tirare fuori tutto dalla mia coscienza, come in un confessionale. L’incidente ha coinvolto tanta gente che ha sofferto. In secondo luogo, volevo dire alla mia famiglia e ai miei amici che cosa realmente è accaduto. C’è una terza ragione: raccontare alla gente, e soprattutto ai giovani, in che situazione mi ero trovato e che cosa non bisogna fare. Infine – sorride – c’è un quarto motivo: ho sempre voluto scrivere un libro. Avevo bisogno di una trama, e qual è una trama migliore di quella di Seveso?»

Quando visitò per la prima volta lo stabilimento di Seveso.
«Nel giugno del 1970. Ed ebbi subito l’impressione che sullo stabilimento non era stato investito abbastanza. Il reattore per il triclorofenolo, quello che poi sarebbe scoppiato, era abbastanza moderno. Una macchina non elegante, ma non così mal messa come il resto dello stabilimento, che era un disastro».
Intanto, però, si produceva triclorofenolo.
«La produzione era in corso da tempo ma la Roche non aveva ancora fatto nessuna ricerca documentaria sui possibili rischi e sugli incidenti precedenti. L’intero progetto per la produzione di triclorofenolo era sbagliato, non appoggiava sulla ricerca. La Roche non mi aveva detto niente, non so se per negligenza, stupidità o presunzione». «Il reattore era pronto ad esplodere Tutti sapevano, ma decisero di tacere»

Il rischio che la produzione di triclorofenolo potesse portare alla sintesi di diossina era noto da tempo, ma alla Givaudan non c’era alcun piano. Questo ribadisce Jorge Sambeth, l’ex direttore tecnico della Givaudan
«Nel 1971 – spiega – fummo un mio collaboratore ed io a leggere su Nature dell’incidente in Inghilterra durante il quale venne prodotta diossina a una temperatura di circa 230 gradi. E subito mandai all’Icmesa una copia di quel testo, con una disposizione precisa: mai superare i 170°. Di quella lettera c’è anche copia, è stato uno dei miei documenti di difesa più importanti».
Come controllavate la temperatura del reattore di Seveso?
«Con un impianto esterno di raffreddamento ad acqua. O, al limite, immettendo nel reattore acqua fredda da una cisterna di 3 mila litri. Con l’acqua la reazione non poteva continuare. Era assolutamente normale che, talvolta, la temperatura si alzasse di qualche grado sopra i 170. Negli anni prima dell’incidente era successo due o tre volte, ma la situazione rimase sempre sotto assoluto controllo proprio grazie all’immissione di acqua».
Non c’erano tuttavia strumenti automatici di controllo della temperatura e della pressione.
«No, non erano previsti perché il personale era per tutto il tempo lì davanti a controllare il processo».
L’Italia, allora, era considerata in Svizzera come un paese da Terzo Mondo?
«Assolutamente sì. Se c’erano ispezioni, si poteva dire: stiamo facendo, stiamo facendo. L’anno prossimo, l’anno prossimo. Si ammodernavano tutti gli impianti del mondo, quello italiano no. Questo non lo voglio negare».

Nel bene e nel male anche se solo un morto (ma decine di casi di cloracne migliaia di abbattimenti di animali e centinaia di miliardi di lire di allora di danni e spese per eliminare il terreno contaminato) fu effettivamente provocato dall’incidente, Seveso ha segnato le leggi e le persone; se oggi abbiamo una legislazione ambientale EUROPEA come quella che abbiamo lo dobbiamo all’evento Seveso. REACH ne è una conseguenza logica. Alcuni di quei miliardi furono usati per mantenere verifiche su ambiente e persone, perchè (nonostante tutto il bene che se ne possa dire) le diossine sono uno dei 12 POPs, ossia gli inquinanti ambientali persistenti banditi o controllati a livello mondiale.

Ultimo (ma non ultimo come qualità ed efficacia) ricordo il numero speciale di Sapere dedicato a Seveso e alle sue lezioni:

Eppure; eppure come la Roche svizzera considerava la Lombardia del 1976 “terzo mondo”, c’era un mondo che l’industria chimica italiana considerava “terzo mondo”: il sud dell’Italia.

L’incidente di Seveso avvenne il 10 luglio 1976; io mi ero laureato due mesi prima; il giorno dopo la laurea con alcuni amici carissimi (Cesare Fournier, Eugenio Chiaravalle, Enzo Santagada e quella che sarebbe diventata mia moglie Rita Cosentino) tutti giovani chimici, ci recammo in Puglia a cercare lavoro; la Puglia era la terra della campagna saccarifera che iniziava proprio allora, ma era anche una delle regioni del Sud che più stava cercando di riscattarsi da una atavica povertà e costruire una industria moderna. Quella volta andò buca e la vulgata è che ci scappò il soprannome di uno di noi (“Lenin”) giusto durante le presentazioni; ciò mise in sospetto l’incaricato delle assunzioni e fummo fregati; ma forse è una cattiveria.

Dopo qualche mese, 29 settembre, avvenne proprio in Puglia a Manfredonia un incidente chimico gravissimo.

Sul tema è difficile trovare notizie certe e assodate; c’è un libro in italiano, ma praticamente introvabile se non in biblioteca: I fantasmi dell’Enichem, Giulio Di Luzio, Ed Baldini Castoldi Dalai, 2003. C’è una tesi di Francesco Tomaiuolo (2005), ma si può scaricare solo a pagamento (che poi siano a pagamento le tesi degli studenti italiani fatte in università italiane è veramente un mistero per me: chi incamera i soldi pagati per le consultazioni su siti privati? Bah); ci sono parecchi articoli giornalistici che si trovano pubblicamente.

Fra gli altri segnalo l’articolo pubblicato qualche anno (2002) dopo su C&I (non ho l’elenco articoli pubblicato fra 1976 e 2000 su C&I): http://www.soc.chim.it/sites/default/files/chimind/pdf/2002_2_10_ca.pdf autore Mario Ghezzi; tuttavia su questo articolo, certamente ben basato dal punto di vista chimico, avanzo delle perplessità sull’approccio sociale e della salute. Interessante notare come la data dell’incidente nell’articolo citata più e più volte sia sbagliata (1984, 1974, ma in realtà l’incidente avvenne nel 1976 e questa trascuratezza è essa stessa una informazione, testimonia di quell’atmosfera che Sambeth chiama in tedesco Zwischenfall, contrattempo, seccatura, incidenti-seccatura per i proprietari e gli industriali chimici e forse anche per alcuni chimici industriali).

Bruno Zevi in un articolo apparso su «L’Espresso» del 3 dicembre 1967 dal titolo L’ENI a Manfredonia: una ghigliottina per il Gargano scrisse che quella scelta industriale fu un “atto masochistico”.

L’impianto Enichem è stato costruito alla fine degli anni ’60 nel comune di Monte sant’Angelo, a 1 km da Manfredonia. L’Anic, Azienda Nazionale Idrogenazione Combustibili, è stata l’azienda petrolchimica dell’ENI che fino al 1983 ha gestito le produzioni petrolchimiche del gruppo fino a confluire nell’EniChem e successivamente nel 2000 essere trasformata in Syndial. La scelta del posto, il litorale nei pressi di una città che viveva di pesca e agricoltura (facente parte del bacino elettorale di un politico di maggioranza e dirigente dell’ENI) è stata criticata per i rischi ambientali;( http://atlanteitaliano.cdca.it/conflitto/petrolchimico-enichem-di-manfredonia)

Su quei 160 ettari affacciati direttamente sul mare sorsero nel giro di qualche anno gli impianti per la produzione di urea e ammoniaca dell’ANIC e per la produzione altamente tossica di caprolattame della SCD (Società Chimica Dauna). La produzione fu avviata nel 1971,( http://www2.issm.cnr.it/demetrapdf/boll_12_2006/Pagine da demetra_imp 12_tomaiuolo.pdf)

In effetti già il 15 luglio 1972 ci fu una violenta alluvione e l’impianto rimase senza corrente non avendo un impianto elettrogeno; questo fece correre il rischio di malfunzionamento o perfino di esplosione (come a Seveso interrompere bruscamente una reazione chimica non è consigliabile); la commissione ministeriale formata dopo l’alluvione sottolineò che l’impianto era in una zona a rischio idrogeologico.

Comunque il ricatto lavoro-salute-ambiente è vecchio e forte. La fabbrica rimase dov’era.

Interessante notare quanto scrive Ghezzi sull’aspetto tecnico della fabbrica, che in certo senso ricorda le frasi di Sambeth su Seveso:

“l’ing. Gianmarco, veneziano e direttore della fabbrica Vetrocoke Azotati di Marghera, installata dalla Fiat e ceduta a Montecatini nel 1962, sviluppò negli anni Cinquanta un processo di abbattimento di anidride carbonica che impiegava una soluzione contenente sali assorbenti-desorbenti, per reazioni successive, di arsenico, più tardi sostituito da vanadio. Purtroppo detto processo non ebbe molta fortuna, risultò di difficile messa a punto a Marghera e causò gravi perdite di arsenico nei canali industriali di Marghera, che sono state oggi accertate e sono in via di bonifica. Non si capisce pertanto per quali motivi Anic negli anni Sessanta abbia commesso l’errore di impiegare nel progetto ammoniaca di Manfredonia il processo Gianmarco, visto che il mercato offriva processi migliori per il recupero di anidride carbonica da impiegare nel vicino impianto urea e che il suo impianto di Ravenna utilizzava il vecchio e collaudato lavaggio ad acqua: si è trattato probabilmente di un tentativo di aggiornamento tecnologico andato a male.”

Io un’idea la avrei, suggerita dalla lettura di Sambeth: forse perchè era meno costoso? Forse perchè nessuno avrebbe nel Sud affamato di lavoro di quegli anni protestato o controllato pur di avere un impianto sia pur vecchio o malposizionato: lavoro, lavoro, lavoro! Non si può vivere di bellezza. (O forse si?)

Racconta Tomaiuolo:

Il 26 settembre del 1976, poco prima delle 10 del mattino, un boato scosse la città, sulla quale si abbatté subito dopo una nube tossica dalla quale cominciò a cadere una fanghiglia giallastra molto leggera, che nel quartiere Monticchio – il più vicino allo stabilimento – in breve coprì ogni cosa. I bambini presero a giocare con quella che credevano neve fuori stagione. Nello stabilimento – specificamente nell’impianto per la produzione di ammoniaca – era scoppiata la colonna di lavaggio dell’anidride carbonica sprigionando nell’atmosfera decine di tonnellate di arsenico. Per fortuna l’incidente avvenne di domenica, quando erano presenti solo una ventina di operai in fabbrica. Ma la fortuna divenne disgrazia allorché i dirigenti dello stabilimento decisero di minimizzare l’accaduto consentendo agli oltre 1800 lavoratori di entrare normalmente in fabbrica l’indomani mattina. Quegli operai vennero contaminati da massicce dosi di arsenico e tra loro molti vennero adibiti a spazzare il pericoloso veleno a mani nude. Gli intossicati furono centinaia. Nelle campagne vicine allo stabilimento si assistette alla morte di migliaia di animali da cortile e anche in città si verificarono numerosi casi di intossicazione. Dell’incidente, che seguiva di pochi mesi quello di Seveso, se ne occuparono presto i giornali nazionali ed esteri. Fu inviato l’esercito a presidiare le aree contaminate mentre negli ospedali si eseguivano accertamenti clinici sommari sulla popolazione e sugli operai. Intanto venne costituita una commissione tecnico-scientifica per il disinquinamento, che decise di sottoporre i terreni contaminati a lavaggio con ipoclorito di calce e solfato di ferro, per ottenere l’ossidazione e l’insolubilizzazione dell’arsenico, evitando così che percolasse nella falda e quindi in mare. Le operazioni durarono poche settimane. La Procura aprì un’inchiesta che non arrivò mai neanche alla fase dibattimentale, poiché all’epoca era ancora troppo difficile stabilire un nesso di causalità tra esposizione ad arsenico e malattie tumorali.

L’arsenico, entrato ormai nella catena alimentare della popolazione di Manfredonia, ricominciò a far parlare di sé solo alcuni decenni più tardi, quando l’Organizzazione Mondiale della Sanità, effettuando uno studio di mortalità sulla popolazione nel periodo 1980-87, rilevò eccessi di tumori dello stomaco, della prostata e della vescica tra i maschi e della laringe, della pleura nonché di mieloma multiplo tra le donne. Così Manfredonia fu dichiarata area ad alto rischio cancerogeno e venne chiesta l’istituzione di un osservatorio epidemiologico permanente.

Lo stabilimento venne chiuso nel 1993; interessante il retroscena raccontato sempre da Tomaiuolo:

un procedimento giudiziario avviato nel 1988 dal pretore di Otranto portò al sequestro di due navi che l’Enichem utilizzava per il trasporto dei sali sodici – rifiuti tossici derivanti dalla produzione di caprolattame – che avrebbe dovuto scaricare nel Mar Libico. Il sequestro avvenne perché si accertò che lo scarico veniva abusivamente effettuato nel canale d’Otranto, provocando morie continue di pesci e delfini. L’azienda così, non potendo più smaltire gli scarti di lavorazione del caprolattame, che ammontavano a 198.615 tonnellate annue, decise la chiusura dell’impianto. L’economicità di gestione dell’intero sito industriale venne così a ridursi drasticamente e, in seguito al blocco europeo degli aiuti di stato all’Enichem, la società chiuse nel 1993 anche gli impianti per la produzione di ammoniaca.

Ora Ghezzi ha scritto che l’incidente di Manfredonia “non provocò alcun decesso, salvo quello della fabbrica e del contiguo stabilimento della Daunia”; rimane difficile credere che una ricaduta di materiale contenente arsenico per varie tonnellate (almeno 10) su una popolosa zona abitata non abbia avuto conseguenze mortali.

E’ pur vero che l’articolo di Ghezzi non era solo nell’approccio minimizzante: nel 1982 la rivista italiana “Medicina del Lavoro” ha negato ogni effetto sanitario sui lavoratori, sostenendo la tesi che l’arsenico elevato dipendesse dall’assunzione alimentare di crostacei.

Varie osservazioni. Già 30 anni fa l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC) ha valutato l’arsenico (As) e i composti arsenicali come cancerogeni per l’uomo e ha considerato nel 2004 la cancerogenicità certa dell’arsenico in acqua per uso umano

I livelli di arsenico rilevati nelle urine dei soggetti esposti a Manfredonia erano altissimi ben superiori a qualunque limite poi stabilito; attualmente (dopo il 2001) il limite dell’As nelle acque potabili è di 10ppb (10mg/litro o 10gamma/litro); era di 50 nel 1988; ora si consideri che nei lavoratori esposti dell’Enichem le analisi effettuate dalla Medicina del Lavoro di Bari rilevano concentrazioni di arsenico nelle urine degli operai comprese tra 2000 e 5000 gamma/litro, contro un limite di tollerabilità fissato in 100 gamma/litro e che all’ inizio del 1977, su proposta del prof. Ambrosi, viene innalzato prima a 300 e poi a 800 gamma/litro il limite di arsenico nelle urine degli operai oltre il quale scatta la messa a riposo (un pò come nel caso atrazina!!); non v’è dunque dubbio alcuno che i lavoratori esposti potessero essere soggetti all’azione tumorale dell’As; la stima dei morti per effetto diretto portata in giudizio fu di 17.

Il 4 marzo riprende la produzione di caprolattame, seguita da quella di fertilizzanti nell’autunno seguente, dopo la sostituzione della colonna esplosa. Il 60 % della produzione agricola e il 30 % di quella zootecnica viene distrutta. I braccianti hanno perso giornate lavorative, mentre il pesce del golfo per intere settimane è stato respinto dai mercati. Alcuni paesi europei hanno minacciato di non ritirare più glutammato monosodico prodotto dall’ Ajinomoto di Manfredonia, e uno di essi ha preteso che i carichi fossero accompagnati da certificati (M. Apollonio, Diecimila in corteo a Manfredonia. La Gazzetta del Mezzogiorno, 18 ottobre 1976)

Negli anni seguenti ci furono rinnovate proteste e anche un processo partito per iniziativa di un operaio, Nicola Lovecchio, poi morto di tumore, che si è chiuso solo nel 2011 senza condanna dell’Enichem. A Lovecchio è dedicato il libro di Di Luzio.

Nel 1995 il Dott. Maurizio Portaluri, radioncologo dell’ospedale San Giovanni Rotondo e attivista di Medicina Democratica, assieme all’ex operaio Nicola Lovecchio ha effettuato un’indagine epidemiologica dal basso, mostrando un eccesso di tumori per i lavoratori e denunciando venti anni di violazioni dei loro diritti. Ne è seguito un processo penale contro dodici persone in cui sono stati coinvolti centinaia di operai, numerose associazioni, il comitato di donne Bianca Lancia, il comune di Manfredonia (poi ritiratosi) e lo Stato Italiano. Durante il processo l’Enichem ha offerto soldi in cambio del ritiro delle parti civili. Il processo è finito nel 2011 con l’assoluzione totale dell’Enichem nonostante che anche le relazioni dell’ISS (Istituto Superiore di Sanità) e della stessa OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) riconoscessero nell’incidente del 1976 la causa dei tumori degli operai. Il comitato Bianca Lancia nel 1998 ha ottenuto una sentenza favorevole della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ma solo per “danni morali” dovuti alla mancanza di trasparenza nella gestione della fabbrica. Non c’è stato alcun riconoscimento del disastro ambientale. Dallo stesso anno Manfredonia è Sito di Interesse Nazionale per le bonifiche (CDCA).

Alla fine la Corte di Cassazione ha decretato l’inammissibilità del ricorso presentato dalla Procura di Bari che invece riteneva i vari dirigenti ENICHEM e medici del lavoro responsabili.

A differenza di Seveso, Manfredonia è rimasta senza colpevoli.

Una cosa che noto di passaggio; i lavori di bonifica del sito abbandonato dalla Enichem sono adesso condotti dalla Syndial, filiazione dell’ENI; la domanda è chi paga i lavori di bonifica per le sporcizie immesse in ambiente da Enichem? Noi o loro?

Ci sono due versi di canzoni della mia gioventù che mi risuonano in questo momento nelle orecchie, una è quella del pugliese Domenico Modugno

Sole alla valle, sole alla collina,
per le campagne non c’è più nessuno.
Addio, addio amore, io vado via

amara terra mia, amara e bella.

E gli risponde quella di Paolo Pietrangeli che risuonava per le strade del 68:

“Che roba Contessa all’industria di Aldo
han fatto uno sciopero quei quattro ignoranti
volevano avere i salari aumentati
gridavano, pensi, di essere sfruttati
e quando è arrivata la polizia
quei quattro straccioni han gridato più forte
di sangue han sporcato il cortile e le porte
chissà quanto tempo ci vorrà per pulire.”

documentazione: http://www.musilbrescia.it/minisiti/la_chimica_in_italia/contenuti/le_industrie_in_italia-casi_di_studio/7.Industria_e_ambiente_Il_caso_Seveso_Leoci_Nebbia_Notarnicola.pdf

Quel pasticciaccio dell’arsenico nell’energy drink.

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Mauro Icardi

Sta avendo un certo risalto la notizia pubblicata dal “Fatto quotidiano” ma anche da altre testate giornalistiche sia on line che cartacee, che riferiscono che in una bevanda “energizzante” sia stato rinvenuto arsenico inorganico contenuto nell’additivo E 331 (trisodio citrato) proveniente dalla Cina

La notizia merita un commento sul blog per diversi motivi.

Lata_de_Monster_Energy

Il primo motivo è il notevole ritardo con cui si è scoperta la contaminazione. Leggendo in rete sembra che sia il Belgio il primo paese che effettuando controlli abbia scoperto la contaminazione un anno fa, l’11 Luglio 2014. L’additivo era entrato nel mercato europeo attraverso l’Olanda

Dopo questa segnalazione passano 6 mesi e solo il 27 febbraio 2015  scatta l’allerta in tutto il mondo.  In Italia la prima segnalazione risale al 3 marzo 2015,  e poi ci sono stati 5 aggiornamenti di notifica.

Cercando in rete risulterebbe che l’additivo avesse una contaminazione di 5,5 mg/Kg di arsenico inorganico rispetto ad un limite massimo di 3 mg/kg. (Il limite per l’Arsenico negli additivi alimentari è normato dal regolamento UE 231/2012 che stabilisce le specifiche degli additivi alimentari.) Non è chiaro chi sia stato ad effettuare le determinazioni.

Il ministro della salute Lorenzin dichiara che secondo le autorità Olandesi “la possibilità di un rischio per alcune categorie di consumatori non può essere esclusa

Nello stesso tempo però lo stesso ministero cerca di rassicurare dicendo che l’additivo subisce una diluizione nella bevanda, e che in ogni caso occorre tenere conto delle quantità bevute giornalmente.

L’azienda produttrice della bevanda sollecitata dal “Fatto quotidiano” risponde con una breve nota che le bevande appartenenti ai lotti che sono stati ritirati dal mercato erano sicuri per il consumo.

Sembra di capire che i controlli di qualità in Cina siano stati carenti. E mentre in Italia sono previsti controlli sanitari a campione negli uffici di sanità di porti ed aeroporti, questi non sono previsti negli altri paesi dell’Unione Europea. E se pensiamo per esempio alle quantità di merci che entrano in Europa attraverso il porto di Rotterdam la cosa è ancor meno comprensibile. E singolare anche che l’Unione Europea abbia stabilito limiti per l’arsenico negli additivi alimentari, nelle acque destinate al consumo umano stabilendo il valore limite di 10 microgrammi/litro recepito in Italia con il D.Lgs 31 del 2 Febbraio 2011,mentre il regolamento CE 18881 del 2006 non contempla l’Arsenico tra le specie chimiche normate.

E’ auspicabile che la commissione europea introduca limiti per l’Arsenico inorganico per quegli alimenti che ne contengono di più. L’Efsa (Autorità Europea per la sicurezza alimentare) ha pubblicato nel 2014 uno studio (Dietary exposure to inorganic arsenic in the European population) .  Dopo i cereali e suoi derivati, sono stati individuati dall’EFSA, in ordine decrescente, i prodotti alimentari per usi dietetici speciali (alcune alghe sono ricchissime in arsenico inorganico), l’acqua in bottiglia, il caffè e la birra, il pesce e le verdure.

I limiti non sono ancora stati inseriti anche per le difficoltà analitiche connesse alla speciazione dell’Arsenico. Una sfida ulteriore per la chimica analitica.

L’arsenico è stato classificato dalla IARC (Agenzia Internazionale per la ricerca sul Cancro) come elemento cancerogeno certo per l’uomo. Il comitato di esperti di Fao ed OMS ha proposto una dose di riferimento per l’assunzione di Arsenico fissando un valore pari a 3 microgrammi/kg per chilo di peso corporeo che può provocare un rischio supplementare rispetto al rischio standard dello 0,5% in più di contrarre tumore al polmone.

L’Efsa ha evidenziato un rischio supplementare per i bambini rispetto agli adulti perché rispetto al loro peso corporeo consumano una quantità maggiore di cibo.

Ultima considerazione: si parla della quantità di arsenico rinvenuta nell’additivo E 331 prodotto in Cina. La quantità di 5,5 mg/kg. Dagli articoli non si evince niente altro. Non è chiaro né come né in che modo questa quantità così elevata sia finita nel prodotto. Si possono fare solo supposizioni che possono far pensare a procedure di lavorazione con scarsi controlli o pulizia, fino a suppore che in Cina la contaminazione ambientale sia arrivata a livelli impensabili per la stessa sopravvivenza degli abitanti.

Non ho reperito notizie più approfondite in rete o sui giornali. Ma tutta questa vicenda in primo luogo mi riporta alla mente altri tempi ed altri problemi (penso per esempio alla vicenda scoperta della cancerogenicità del colorante E 123 negli anni 70),e non può non farmi pensare alle dimensioni ormai fuori controllo delle criticità ambientali e degli inquinanti che abbiamo disperso ubiquamente nell’ambiente.

Sfide importanti per i chimici, ma in generale per ogni essere umano. Ed è necessario un lavoro continuo e capillare di informazione. Oltre ad una profonda riflessione sul nostro rapporto con questo pianeta e al suo sovrasfruttamento. I pozzi che devono assorbire i nostri scarti sembrano ormai saturi. E il nostro convivere con quantità sempre maggiori di inquinanti sembra essere un esperimento mal condotto. Un tentativo maldestro di mitridatizzazione planetaria.

 si veda anche: http://www.frodialimentari.it/index.php?option=com_content&view=article&id=9360:arsenico-nellenergy-drink-monster&catid=1333:consumatori&Itemid=45

Inquinanti emergenti nelle acque: qualche considerazione

a cura di Valentina Furlan* e Mauro Icardi*

Negli ultimi anni tra gli addetti alla gestione del ciclo idrico integrato (approvvigionamento,distribuzione,depurazione delle acque reflue)  si è iniziata a focalizzare l’attenzione sulla presenza di contaminanti definiti “emergenti”, riscontrati sia nelle acque destinate al consumo umano,sia nelle acque reflue. La provenienza di questi contaminanti è piuttosto varia. Il termine emergenti significa che sono composti sui quali si stanno approfondendo controlli e studi. Questo per due principali motivi: inserirli nelle tabelle dei limiti di emissione, se non ancora normati, e verificare quali possono essere le tecnologie più adatte per la loro rimozione.

Sono sostanze che  possono derivare da trattamenti di potabilizzazione delle acque (per esempio i cloriti),dall’incremento dell’uso di prodotti per la detergenza personale,  dall’uso di farmaci e dal consumo di droghe d’abuso. Gli effetti di questi prodotti sulle acque sono da diversi anni in fase di studio e di monitoraggio, vista la loro diffusione  capillare nell’ambiente.

I farmaci per esempio non vengono  metabolizzati completamente, e possono venire escreti tal quali,o come metaboliti attivi con le urine o le feci. Queste sostanze finiscono così nel flusso di acque fognarie destinate ai trattamenti di depurazione negli impianti centralizzati. Non riescono ad essere degradate adeguatamente .

La maggior parte degli impianti di depurazione presenti in Italia sono di tipo biologico. La fase principale del trattamento avviene in una vasca di ossidazione detta  a fanghi attivi. In questa vasca si sfrutta l’azione metabolica dei microorganismi che possono essere di diverso tipo,dai batteri ai protozooi ,e che sfruttano le sostanze organiche e l’ossigeno disciolti nel liquame per le loro necessità di sviluppo e riproduzione. In questo modo si formano fiocchi di fango facilmente eliminabili poi nella successiva fase di sedimentazione finale. E’ di tutta evidenza che se i microrganismi trovano nel liquame per esempio sostanze ad azione antibiotica, la loro attività può essere inibita o ridotta. In questo modo le sostanze non biodegradabili si ritrovano inalterate alla fine del processo di depurazione, e quindi finiscono per essere scaricate nei corsi d’acqua dove possono esplicare attività tossica. O interferire con il sistema endocrino dei pesci,e della fauna in generale.

Per ovviare a questo problema è necessario adottare trattamenti di tipo terziario, consistenti principalmente nei sistemi di filtrazione su membrana, che attualmente stanno cominciando a trovare impiego in alcuni depuratori consortili.  Il costo gestionale però  sta ancora limitandone la diffusione. La tecnica di filtrazione su membrana è,dal punto di vista gestionale, di più facile applicazione e gestione, rispetto per esempio ai sistemi di ossidazione avanzata. Questi ultimi se non correttamente condotti e gestiti possono portare alla formazione di intermedi di reazione più tossici dei prodotti di partenza.  Sono comunque sistemi utilizzati. Si possono utilizzare per questa tecnica anche le lampade uv, che però trovano maggior impiego per le disinfezione finale delle acque già sottoposte a sedimentazione finale, prima dello scarico nel corpo idrico. Questo perché uno dei principali fattori limitanti delle lampade uv, è la riduzione della capacità ossidativa delle lampade, a causa di problemi di sporcamento delle stesse.

L’adsorbimento su appositi materiali, quali filtri a carboni attivi è, nel settore del trattamento acque ancora uno dei maggiormente usati, sia nel trattamento delle acque reflue, sia in quello delle acque destinate al consumo umano. I filtri a carboni attivi riescono ad eliminare microinquinanti sia inorganici che organici,quali metalli pesanti,insetticidi e altri fitofarmaci.

Per quanto riguarda gli inquinanti emergenti nel settore delle acque destinate al consumo umano, l’attenzione nel tempo è stata focalizzata sia sui prodotti  intermedi della disinfezione, sia su inquinanti derivanti da particolari situazioni ambientali.

Nel primo caso si può citare il problema dei cloriti. I cloriti sono prodotti intermedi che si originano nel trattamento delle acque destinate al consumo umano con biossido di cloro, per garantirne la purezza microbiologica al punto di erogazione.  Se l’approvvigionamento  di acqua per uso potabile non viene effettuato da pozzi o da acque sorgentizie, ma da acque superficiali, questo tipo di trattamento è indispensabile, soprattutto se la rete di distribuzione è particolarmente estesa.

Ma i cloriti sono sospettati di poter produrre problemi di anemia nei bambini, e disordini nel sistema nervoso. Per questa ragione, in un primo momento il limite di questi composti nelle acque potabili era stato fissato a 200 microgrammi/litro. Ma ci si è accorti molto presto che era un valore troppo basso, e che si rischiava di non riuscire ad effettuare un’adeguata disinfezione dell’acqua. Giova ricordare che se l’acqua non è disinfettata adeguatamente può essere veicolo di problemi sanitari piuttosto gravi, quali colera, tifo, varie patologie dissenteriche di origine batterica. A seguito di verifiche effettuate dall’Istituto superiore di sanità, questo limite è stato innalzato al valore di 700 microgrammi/litro dal decreto del Ministero della salute del 5 settembre 2006, modificando il precedente valore di 200 microgrammi inserito in origine nel decreto legislativo 31 del 2001.

Le modifiche di questi valori di parametro, ovviamente seguono l’evoluzione delle ricerche e degli studi effettuati da diverse organizzazioni, prima fra tutte l’Organizzazione Mondiale della sanità. Le indicazioni sono poi di norma recepite dalle normative europee, e da quelle italiane.

Acqua_potabile

L’altro problema dovuto ad un inquinante, che forse non si può definire emergente in senso stretto, ma che ha avuto molto risalto  è quello dell’arsenico. Problema particolarmente grave nella zona di Viterbo, ma anche in altre zone d’Italia. E su questo problema occorre fare chiarezza, per diversi motivi.

L’arsenico che si può trovare nelle acque destinate ad uso potabile, può derivare da inquinamento ambientale, o da dissoluzione naturale . In Lombardia concentrazioni significative di Arsenico si possono riscontrare per esempio nella zona nord della provincia di Varese e nelle zone di Cremona e Mantova.

La tossicità dell’Arsenico, e gli effetti negativi sulla salute sono ben noti da tempo. L’ingestione di acqua contenente arsenico può provocare gravi patologie, quali cancro a pelle, polmoni, fegato, effetti neurotossici, iperpigmentazione.

Le acque inquinate da Arsenico possono subire opportuni  trattamenti. Le forme principali dell’Arsenico solubilizzato sono quelle ossidate  di arseniati (As+5) o ridotte di arseniti (As+3).

Si può quindi rimuovere l’arsenico con vari processi

-Coagulazione/precipitazione  con  coagulanti quali solfato di alluminio, solfato ferrico, cloruro ferrico. Questi processi necessitano di una preossidazione alla forma As+5

. In assenza di questa fase il rendimento che solitamente è pari al 90% si riduce drasticamente fino al 10%. Uno degli svantaggi di questa tecnica è la produzione di fanghi di risulta che necessitano di essere poi avviati allo smaltimento.

– Ossidazione , principalmente con ozono, cloro,permanganato di potassio, che permettono di ottenere rendimenti di rimozione fino al 95%. In questo tipo di processi non risultano controindicazioni evidenti. Occorre ovviamente procedere con molta cura ed accuratezza alla gestione del processo per evitare il rilascio di sottoprodotti di reazione.

– Processi di adsorbimento su vari materiali quali idrossidi di ferro, allumina attivata. Questi processi prevedono controlli per verificare la necessità di rigenerazione dei letti di filtrazione. Gli idrossidi di ferro sono meno influenzati dallo stato di ossidazione dell’Arsenico, mentre l’allumina ha maggiore affinità per la forma  arseniato rispetto all’arsenito, che necessita anche in questo caso di preossidazione. I rendimenti di rimozione sono dell’ordine del 90-95%.

– Scambio ionico con resine sintetiche anioniche caricate “forti”, che riescono a rimuovere solo le specie ioniche dell’As+5 ma non quelle dell’As+3 perché non caricate. I problemi gestionali  di questa tipo di tecnica sono principalmente lo sporcamento (fouling), la presenza di ioni competitivi, il rilascio di eluati.

Anche in questo caso il rendimento di rimozione può arrivare al 90%.

-Processi di ultrafiltrazione a membrana, che devono però essere preceduti  da precipitazione.  Questi processi non richiedono una fase preossidativa, anche se risultano maggiormente efficaci sulla forma ossidata dell’Arsenico. Si possono verificare problemi di incrostazione in presenza di acque dure, ed intasamenti in caso di presenza di sostanze colloidali.

Per concludere si può dire che la risorsa acqua, che diventa ogni giorno più scarsa, soggetta ad inquinamenti di vario tipo, necessita di adeguate politiche di gestione e tutela.

Che è necessario che gli addetti , ma anche i semplici cittadini si rendano conto di quelle che sono le problematiche per la gestione di questo bene prezioso.

E che la chimica svolge un ruolo importante e fondamentale in questo settore. Non soltanto fornendo prodotti per il trattamento, ma anche fornendo le basi fondamentali per la conoscenza dei processi che riguardano la risorsa acqua.

Ed insieme agli aspetti di chimica delle acque, occorre porre molta attenzione agli aspetti  riguardanti e contaminazioni e  i processi biologici e biochimici delle acque. Non dimenticando quelli che possono essere i problemi di altri inquinanti emergenti  attinenti alla biologia, quali la giardia lamblia.

acquabenecomune

L’acqua va gestita, va difesa e non deve essere sprecata. Ma bisogna che sia conosciuta, per evitare che anche in questo ambito la tecnologia e la scienza siano soppiantate dalle ormai onnipresenti bufale.

Questo è uno dei compiti più importanti a cui ci dobbiamo applicare.

per saperne di più:

http://www.europarl.europa.eu/news/it/news-room/content/20130701IPR14760/html/Acque-di-superficie-nuove-sostanze-chimiche-da-monitorare

http://www.acqualab.it/innovazione/files/20080522-Verlicchi-Dondi-LARA_H2O.pdf

http://www.greenreport.it/news/acqua/inquinamento-delle-acque-i-nuovi-standard-di-qualita-ambientale-dellue/

http://it.wikipedia.org/wiki/Acqua_potabile

*Mauro Icardi e Valentina Furlan sono tecnici di laboratorio in una azienda che si occupa di gestione integrata della acque in provincia di Varese.