Colture da riscoprire per una agricoltura più sostenibile?

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Angela Rosa Piergiovanni*

I nostri lontani antenati cacciatori-raccoglitori possedevano la capacità di sfruttare al meglio tutto ciò che la natura metteva a loro disposizione. Erano in grado di riconoscere ed utilizzare nel modo più vantaggioso una vastissima gamma di specie vegetali spontanee. Ad ogni specie era associato uno o più usi dal cibo a forme molto arcaiche di terapia, dalla estrazione delle fibre a quella dei pigmenti per il corpo o le prime forme di pittura e via dicendo. Nel corso dei millenni ma soprattutto con la nascita dell’agricoltura, circa 10.000 anni fa, e il conseguente sviluppo di contesti sociali sempre più complessi e evoluti tali conoscenze sono andate progressivamente perdute. Attualmente solo piccolissimi gruppi umani continuano a mantenere con la natura un approccio simile a quello dei cacciatori-raccoglitori mentre la gran parte di noi è incapace di riconoscere in contesti naturali le varie specie vegetali presenti e, a maggior ragione, di individuarne le potenzialità. Non è un mistero che la maggior parte della popolazione mondiale soddisfa i propri bisogni alimentari e non utilizzando un ristrettissimo numero di specie vegetali.

Le attuali sfide ambientali e la ricerca di nuove fonti “green” per le materie prime stanno riportando all’attenzione specie in passato coltivate per svariati utilizzi rivedendone però l’uso in chiave attuale. Una di queste specie è la camelina [Camelina sativa (L.) Crantz], una pianta erbacea sconosciuta ai più ma ben nota ai nostri antenati. Si tratta di una specie appartenente alla famiglia delle Brassicaceae la cui coltivazione (domesticazione è il termine tecnico) è iniziata nell’Asia centrale circa 4000 anni fa. Studi di archeobotanica hanno trovato evidenze della diffusione della sua coltivazione in una vasta area dall’Asia centrale all’Europa. Semi di camelina conservati in varie tipologie di contenitori sono stati riportati alla luce in contesti abitativi di epoche arcaiche durante scavi di antichi villaggi che localizzati dall’odierna Turchia sino ai paesi scandinavi. La coltivazione della camelina è stata praticata per un lungo arco temporale sino ai nostri giorni ma la superficie coltivata si è progressivamente ridotta fino a scomparire del tutto in molti paesi. La pianta ha un ciclo colturale breve (circa 100 giorni), non richiede particolari cure e negli ambienti italiani si presta alla semina sia autunnale che primaverile. L’importanza dei piccolissimi semi di camelina (1000 di essi pesano tra 1.0 e 1.8 g), è legato all’alto contenuto in olio tra il 35 e 45% del peso a seconda della varietà, dell’ambiente e dell’epoca di coltivazione. Proprietà questa particolarmente apprezzata dall’uomo come sembra suggerire il suo nome comune in inglese “gold of pleasure”.

Ovviamente l’alto contenuto in olio dei semi può avere una valenza limitata se si pensa a quante sono le specie erbacee attualmente coltivate nel mondo per produrre olio (girasole, colza, cartamo, ricino, crambe, ecc.). L’olio di camelina ha però dalla sua una composizione molto interessante essendo caratterizzato da un tenore in acidi grassi polinsaturi (PUFA, polyunsatured fatty acids) decisamente elevato, più del 50% dell’olio. Ancor più interessante è il profilo degli acidi grassi tra i quali prevale nettamente l’acido alfa-linolenico (32-40 % del totale) seguito dagli acidi linoleico e oleico. Come è noto, tutti questi acidi grassi insaturi hanno un’alta valenza nutrizionale. A tutto ciò va aggiunto per l’olio è estratto a freddo dai semi un altrettanto interessante contenuto in tocoferoli (400-800 mg kg-1). In realtà l’utilizzo dei semi di camelina non è limitato all’estrazione dell’olio, ma il panello residuale, essendo particolarmente ricco in proteine di buona qualità nutrizionale, può essere impiegato in zootecnia come parziale sostituto della soia nella formulazione dei mangimi. Sfortunatamente l’apporto di panello di camelina non può superare certe soglie a causa dei glucosinolati presenti in quantità non del tutto trascurabile. Tali composti, se presenti in quantità eccessiva nel mangime, gli conferirebbero un sapore sgradevole per gli animali. Positive sono invece le evidenze sperimentali raccolte in vari progetti pilota. Si è osservato come l’inclusione in quantità appropriate del panello di camelina nei regimi dietetici di varie specie animali (dal pollame ai pesci) produca una positiva modifica del profilo nutrizionale dei prodotti derivati ottenuti da questi animali. Ad esempio, è stato riscontrato un apprezzabile incremento degli omega-3 nelle uova di pollame nutrito con mangimi contenenti panello di camelina senza che ciò inficiasse lo stato di salute degli animali.

Al di là dell’uso per produrre biodiesel di seconda generazione l’olio di camelina può quindi essere impiegato come fonte di omega-3, in campo cosmetico, o come precursore di varie molecole in vari processi industriali. Altrettanto si può dire per il panello proteico un sottoprodotto utilizzabile sia in zootecnia, in parziale sostituzione della soia, che come fonte di molecole base per vari derivati industriali (ad es.: adesivi con diverse proprietà). La camelina offre quindi un ricco spettro di possibili applicazioni che varrebbe la pena di portare da una scala sperimentale a quella industriale.

Bibliografia

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Riaz et al. Animals 2022, 12, 1082. https://doi.org/10.3390/ani12091082

Si ringrazia la dr.ssa I. Galasso per le foto.

*Angela Rosa Piergiovanni, chimica è Ricercatore CNR dal 1990, dal 2010 in servizio presso l’Istituto di Bioscienze e Biorisorse (IBBR-CNR) di Bari con la qualifica di primo
ricercatore. Responsabile scientifico di unità di ricerca sui temi delle risorse genetiche, germoplasma e biochimica.

Angela R. Piergiovanni Istituto di Bioscienze e Biorisorse (CNR-IBBR) via Amendola 165/a 70126 Bari  e-mail angelarosa.piergiovanni at ibbr.cnr.it