Elementi della tavola periodica. Le terre rare. Seconda parte

Rinaldo Cervellati

La prima parte di questo post è qui.

 

Fonti, usi e produzione

Le principali fonti di elementi delle terre rare sono i minerali monazite[1], bastnäsite e loparite e le argille lateritiche. Nonostante la loro elevata abbondanza relativa, i minerali delle terre rare sono più difficili da estrarre rispetto a fonti equivalenti di metalli di transizione (a causa in parte delle loro proprietà chimiche simili), ciò che rende questi elementi relativamente costosi.

Il loro uso industriale fu molto limitato fino allo sviluppo di tecniche di separazione efficienti, come lo scambio ionico, la cristallizzazione frazionata e l’estrazione liquido-liquido tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60.

Attualmente le cose sono molto cambiate.

Gli usi, le applicazioni e la domanda di elementi delle terre rare sono aumentati nel corso degli anni. A livello globale, la maggior parte dei REE è utilizzata per catalizzatori e magneti.

Altri usi importanti sono nella produzione di magneti, leghe, vetri ed elettronica ad alte prestazioni.

Magneti al neodimio

Ce e La sono importanti come catalizzatori e vengono utilizzati per la raffinazione del petrolio e come additivi diesel. Nd è importante nella produzione di magneti nelle tecnologie tradizionali e nelle basse emissioni di carbonio. Elementi delle terre rare sono utilizzati nei motori elettrici di veicoli ibridi ed elettrici, nei generatori per turbine eoliche, nelle unità a disco rigido, e nell’elettronica portatile (cellulari, microfoni, altoparlanti).

Cellulari smartphone

Ce, La e Nd sono importanti nella produzione di leghe e nella fabbricazione di pile a combustibile e batterie all’idruro di nickel. Ce, Ga e Nd sono importanti nell’elettronica e vengono utilizzati nella produzione di schermi LCD e al plasma, fibre ottiche, laser, nonché nell’imaging medica. Ulteriori usi sono come traccianti nelle applicazioni mediche, nei fertilizzanti e nel trattamento delle acque.

I REE sono stati usati in agricoltura per aumentare la crescita delle piante, la produttività e la resistenza allo stress apparentemente senza effetti negativi per il consumo umano e animale. Sono utilizzati a questo scopo fertilizzanti fosfati arricchiti con REE, una pratica ampiamente utilizzata in Cina. Vengono anche usati come additivi per mangimi per il bestiame, per produrre animali più grandi e un maggiore quantitativo di uova e latticini. Tuttavia, questa pratica ha comportato un bioaccumulo di REE nel bestiame e ha influito sulla crescita della vegetazione e delle alghe nelle aree agricole interessate. Inoltre, mentre non sono stati osservati effetti negativi alle attuali basse concentrazioni, gli effetti a lungo termine e l’accumulo nel tempo sono sconosciuti e ciò richiederebbe ricerche approfondite sui loro possibili effetti.

In sintesi, i dati del 2015 circa il consumo globale di REE sono i seguenti [7]: catalizzatori 24%, magneti 23%, lucidatura 12%, metallurgia 8%, batterie 8%, vetri 7%, ceramica 6%, pigmenti 3%, altro, compresa l’elettronica portatile 9%.

Un’inchiesta pubblicata sul settimanale L’Espresso il 21 marzo 2018 a firma Angelo Richiello, fa giustamente notare che “Poche persone sono consapevoli dell’enorme importanza che gli elementi delle terre rare hanno sulla loro vita quotidiana … oggi è quasi impossibile che un qualunque componente con un certo contenuto tecnologico non abbia tra i suoi costituenti una percentuale di terre rare, normalmente nell’ordine dello 0,1-5 per cento in peso (fatta eccezione per i magneti permanenti, che contengono circa il 25 per cento di neodimio), quantità che, sebbene minime, risultano fondamentali, poiché nessuno di questi dispositivi funzionerebbe allo stesso modo, o sarebbe significativamente più pesante, se non contenesse elementi del gruppo delle terre rare” [8].

Nonostante l’ampia diffusione dei minerali che li contengono nel Pianeta, la concentrazione dei REE è talmente bassa da rendere molto alti i costi di estrazione, economicamente giustificabili solo con manodopera a basso costo o sostenuta da interventi statali.

Lo ha capito molto bene la Cina, come si evince dal seguente grafico, che mostra la produzione globale di ossidi dei REE dal 1950 al 2000 in base al minerale da cui venivano estratti.

Il grafico mostra che fino al 1948 la maggior parte delle terre rare del mondo proveniva da giacimenti di sabbie monazitiche in India e Brasile. Negli anni ’50, il Sudafrica fu la principale fonte di terre rare, proveniente dai giacimenti monaziti di Steenkampskraal nella provincia occidentale di Città de Capo. Negli anni ’60 e ’80, la miniera di terre rare Mountain Pass in California ha reso gli Stati Uniti il principale produttore. Oggi, i depositi indiani e sudafricani producono ancora alcuni concentrati di terre rare, ma sono battuti dalle dimensioni della produzione cinese. Nel 2017, la Cina ha prodotto l’81% della fornitura mondiale di terre rare, principalmente dalla Mongolia interna, sebbene possieda solo il 36,7% delle riserve. Tutte le terre rare pesanti del mondo (come il disprosio) provengono da fonti cinesi, come il deposito polimetallico di Bayan Obo, in Mongolia.

La miniera Browns Range, situata a 160 km a sud est di Halls Creek, nell’Australia occidentale settentrionale, è attualmente in fase di sviluppo e si ritiene possa diventare il primo importante produttore di disprosio al di fuori della Cina.

L’aumento della domanda ha messo a dura prova l’offerta e vi è una crescente preoccupazione che il mondo possa presto affrontare una carenza di terre rare. Nel 2009 è stato ipotizzato che nel giro di pochi anni la domanda mondiale dovrebbe superare l’offerta di 40.000 tonnellate l’anno, a meno che non vengano sviluppate nuove importanti fonti. Nel 2013 è stato affermato che la domanda di REE sarebbe aumentata a causa della dipendenza dell’UE da questi elementi, del fatto che gli elementi delle terre rare non possono essere sostituiti da altri elementi e che i REE hanno un basso tasso di riciclaggio. Inoltre, a causa dell’aumento della domanda e della scarsa offerta, i prezzi futuri dovrebbero aumentare e vi è la possibilità che paesi diversi dalla Cina apriranno miniere REE. La domanda sta aumentando poiché i REE sono diventati essenziali a causa del rapido sviluppo delle nuove tecnologie: smartphone, fotocamere digitali, parti di computer, semiconduttori, energie rinnovabili, ecc.

Secondo la citata inchiesta de L’Espresso, nel 2017 la Cina ha prodotto 105000 tonnellate di REE, pari all’81% di quella mondiale (fonte non citata)  a cui si devono aggiungere le quantità prodotte clandestinamente, stimate intorno alle circa 10-15 mila tonnellate, avviandosi a ottenere il monopolio de facto di questi metalli, al fine di utilizzarlo “come strumento geopolitico per far leva sui cambiamenti comportamentali nei paesi con cui ha controversie politiche ed economiche, e comunque rafforzare la sua posizione negoziale a qualsiasi tavolo diplomatico”[8].

A prescindere dalle opinioni, diviene comunque importante il loro riciclo.

Riciclo

In effetti una fonte importante di metalli delle terre rare è costituita dai rifiuti dell’industria elettronica e da altri scarti che ne contengono quantità significative.

Discarica di rifiuti di PC e cellulari

Nuovi progressi nella tecnologia del riciclaggio hanno reso più fattibile l’estrazione di terre rare da questi materiali, e impianti di riciclaggio sono attualmente operativi in Giappone, dove si stima che 300.000 tonnellate di questi elementi siano immagazzinate in componenti elettronici in disuso. In Francia, il gruppo Rhodia sta aprendo due fabbriche a La Rochelle e Saint-Fons, che produrranno 200 tonnellate di terre rare all’anno da lampade fluorescenti usate, magneti e batterie. Il carbone e i sottoprodotti del carbone sono una potenziale fonte di elementi utili tra cui i REE, con quantità importanti.

Molto recentemente, partendo da ricerche di bioingegneria che sono riuscite a formare legami proteina-metallo raro su ceppi di Escherichia coli, un gruppo internazionale di ricercatori è riuscito a realizzare “perle batteriche” su un polimero acrilico. Con queste microsfere hanno riempito una colonna e vi hanno fatto percolare soluzioni di scarti REE, ottenendo la separazione selettiva dei sali delle terre rare [9]. Se questa tecnica avrà uno sviluppo industriale, il recupero sarà a basso impatto economico e ambientale.

Problemi ambientali

I REE si trovano naturalmente in concentrazione molto bassa nell’ambiente. Tuttavia, vicino ai siti minerari e industriali, le concentrazioni possono salire a molte volte i normali livelli di fondo. Una volta nell’ambiente possono penetrare nel terreno, dove il loro trasporto è determinato da numerosi fattori come l’erosione, gli agenti atmosferici, il pH, le precipitazioni, le acque sotterranee, ecc. Secondo la loro biodisponibilità, possono essere assorbiti dalle piante e successivamente consumati dall’uomo e dagli animali. I fertilizzanti arricchiti con REE contribuiscono pure alla contaminazione, a causa della loro deposizione intorno agli impianti di produzione.

Inoltre, durante il processo di estrazione sono utilizzati acidi forti, che possono penetrare in bacini idrici provocando l’acidificazione degli ambienti acquatici.

Un altro additivo REE che contribuisce alla contaminazione ambientale è l’ossido di cerio (CeO2) che è prodotto durante la combustione del gasolio e rilasciato come particolato di scarico, contribuendo fortemente alla contaminazione del suolo e dell’acqua.

L’estrazione, la raffinazione e anche il riciclaggio dei metalli delle terre rare hanno gravi conseguenze ambientali se non gestite correttamente.

Un altro potenziale pericolo potrebbe essere la formazione di rifiuti radioattivi a basso livello, risultanti dalla presenza di torio e uranio nei minerali delle terre rare. L’uso improprio di queste sostanze può provocare gravi danni ambientali. Nel maggio 2010, la Cina ha annunciato pesanti sanzioni per l’estrazione illegale al fine di proteggere l’ambiente e le sue risorse. Si prevede che questa campagna di dissuasione sarà concentrata nel sud della Cina, dove le miniere illegali – in genere piccole, rurali – sono fonti di rifiuti tossici per l’approvvigionamento.

Cicli biogeochimici

A causa dell’attività antropica è molto improbabile identificare un unico ciclo biogeochimico per tutto il globo. Gli studi sono limitati ad aree specifiche, in vicinanza dei siti di estrazione e produzione o in zone particolarmente ricche di minerali contenenti REE.

Nel 2004 un gruppo di ricercatori cinesi, coordinati dal prof. LJ Wang, ha effettuato uno studio dettagliato nei pressi del villaggio Panggezhuang, Contea Daxing (Pechino), dove i fertilizzanti REE sono ampiamente applicati [10]. I flussi di input e output di tutti i tipi di REE nel suolo e nel sistema vegetale sono stati misurati usando la spettrometria di massa a plasma accoppiato induttivamente, ICP-MS[2]. I risultati hanno mostrato che la quantità totale di REE trasportati da pioggia, neve, acqua di irrigazione, fertilizzante composito e polvere è a un livello molto basso nel campo di controllo. Per contro, le quantità di input REE nei quattro campi studiati dove sono stati utilizzati fertilizzanti alle terre rare sono molto più alte di quelle del campo controllo. Le quantità totali di REE immesse (input) nei campi erbosi e in quelli a terra nuda sono risultate rispettivamente 9,7 e 106 volte superiori a quelle del campo controllo. Tuttavia, i risultati per i REE in uscita (output) via grano e acqua infiltrata sono abbastanza simili per i quattro campi sperimentali.

L’assorbimento da parte della pianta di grano è la principale via di output e le concentrazioni di REE nei diversi organi seguono l’ordine: radici> foglie> steli> croste> semi. Sulla base del calcolo, la quantità output dei REE è leggermente superiore a quella di input nel campo di controllo, il che implica che è difficile accumulare REE nei suoli senza l’applicazione di fertilizzanti che li contengano. Ne consegue che nei campi in cui si usano fertilizzanti alle terre rare, la quantità di REE nel suolo può aumentare con l’uso crescente di questi fertilizzanti. Il confronto fra i risultati dei campi erbosi e quelli a suolo nudo consiglia fortemente la rotazione delle colture.

Più recentemente, nel 2019, un gruppo internazionale di geologi e geochimici ha studiato il ciclo biogeochimico naturale delle terre rare in una vasta area situata all’incrocio tra le sottoprovince Opatica e Abitibi del Québec (Canada), ricca di depositi magmatico-alcalino costituiti principalmente da ferro-, calcio- e silicocarbonatiti[3], contenenti terre rare [11]. I ricercatori hanno effettuato campionamenti di materiali diversi da sette siti dell’area includendo ambienti abiotici (suolo, acqua dolce) e biotici (piante terrestri e acquatiche), come mostrato in figura:

(a) Locazione geografica dell’area esplorata (fonte: Google Earth) e mappa geologica semplificata (GéoMégA Resources Inc.) con le posizioni dei sette siti di campionamento nei diversi corsi d’acqua; (b) rappresentazione grafica dei materiali campionati e una descrizione del numero di campioni e dove sono stati raccolti [11].

Su ciascun campione sono state frazionate le terre rare e ne è stata effettuata l’analisi quantitativa.

I risultati hanno mostrato che sebbene le concentrazioni di REE nei compartimenti abiotici e biotici siano basse rispetto a quelle nei campioni controllo prelevati dalle rocce, il frazionamento osservato è analogo per tutti i compartimenti. Sono state osservate anomalie nell’acqua dei pori dei sedimenti riguardo alla concentrazione del neodimio, il che potrebbe suggerire un diverso ciclo biogeochimico di questo elemento nei sistemi acquatici.

Non è stato osservato bioaccumulo di REE negli organismi di due piante studiate appartenenti a compartimenti terrestri e acquatici rispettivamente, ma solo un trasferimento limitato all’interno delle piante, con un maggiore assorbimento di europio rispetto alle altre terre rare.

In conclusione questi risultati hanno indicato una bassa mobilità e trasferimento di REE da substrati rocciosi ricchi di terre rare in un’area naturale a sistemi terrestri e acquatici, ma ha anche indicato una diluizione del contenuto di REE nei diversi comparti, mantenendo intatto il frazionamento.

Il lavoro fornisce nuove conoscenze sul ciclo biochimico dei REE in un’area naturale e rappresenta un punto di partenza per uno sfruttamento ecologico di analoghe future aree minerarie contenenti terre rare [11].

 

Opere consultate

CRC, Handbook of Chemistry and Physics, 85th, 4-voci Rare Earts

https://en.wikipedia.org/wiki/Rare-earth_element

http://www.treccani.it/enciclopedia/luigi-rolla_(Dizionario-Biografico)/

  1. Fontani, M. V. Orna, Luigi Rolla: un fisico camuffato da chimico., Atti del XIV Convegno di Storia e Fondamenti della Chimica, Rendiconti Accademia Nazionale delle Scienze detta dei XL, Memorie di Scienze Fisiche e Naturali, pp. 213–224.

 

Bibliografia

[7] Zhou, Baolu; Li, Zhongxue; Chen, Congcong (25 October 2017). “Global Potential of Rare Earth Resources and Rare Earth Demand from Clean Technologies”. Minerals7 (11): 203

[8] http://espresso.repubblica.it/affari/2018/03/21/news/questi-17-metalli-rari-decideranno-chi-sara-il-padrone-del-mondo-1.319822

[9] Aaron Brewer et al., Microbe Encapsulation for Selective Rare-Earth Recovery from Electronic Waste Leachates, Environ. Sci. Technol. 2019, 53, 23, 13888-13897.

[10] LJ Wang et al., Biogeochemical cycle and residue of extraneous rare earth elements in agricultural ecosystem., Journal of Rare Earths, 2004,  22, 701-706.

[11] Ana Romero-Freire et al., Biogeochemical Cycle of Lanthanides in a Light Rare Earth Element-Enriched Geological Area (Quebec, Canada)., Minerals, 2019, 9, 573-, DOI: 10.3390/min9100573

 

 

[1] La monazite è un minerale fosfatico bruno-rossastro contenente metalli delle terre rare. Per essere più specifici, rappresenta un gruppo di minerali. Esistono infatti almeno quattro diversi specie effettivamente separate di monazite, a seconda della composizione elementare relativa del minerale. La specie più comune è la monazite (Ce) che ha il più alto contenuto in cerio, l’elemento più abbondante dei lantanidi .

[2] ICP-MS, dall’inglese inductively coupled plasma mass spectrometry, è una tecnica analitica basata sull’utilizzo della spettrometria di massa abbinata al plasma accoppiato induttivamente. È una tecnica molto sensibile e in grado di determinare diverse sostanze inorganiche metalliche e non metalliche presenti in concentrazioni anche di circa una parte per miliardo (ppb).

[3] Le carbonatiti sono rare rocce magmatiche, prevalentemente effusive, ma anche intrusive in giacitura subvulcanica, che contengono più del 50% in volume di carbonati. Le carbonatiti sono suddivise in base al minerale carbonatico dominante e in base agli elementi maggiori presenti (Mg, Ca, Fe, Terre Rare).

La Cina prosegue sulla strada dello sviluppo incontrollato.

Claudio Della Volpe

La Cina è la principale produttrice di sostanze chimiche di sintesi al mondo (40% del fatturato mondiale); prova ne sia che anche i nostri marchi si rivolgono a quelli cinesi.

Federchimica chiama pudicamente “outsourcing” la tendenza a delegare alla Cina (e ad altri paesi) dove le regole sono poche nell’ambiente e nel lavoro la produzione di sostanze chimiche di sintesi.

“Dagli anni Duemila l’occupazione chimica è tendenzialmente diminuita, in parte per effetto dell’outsourcing di attività prima svolte all’interno delle imprese chimiche con conseguente miglioramento dell’efficienza.”

Da L’industria chimica in cifre 2017 di Federchimica.

Si guadagna di più (pudicamente “miglioramento dell’efficienza”). Non mi dilungo se no mi arrabbio.

Questi non sono fenomeni naturali, sono scelte di politica economica; che conseguenze hanno?

Pochi giorni fa c’è stato il caso dell’AIFA che ha segnalato che in un farmaco prodotto in Cina per aziende di tutto il mondo comprese aziende italiane (valsartan, un sartano sintetico, antagonista del recettore dell’angiotensina II) da un marchio da noi sconosciuto, ma che di fatto è una delle più grandi aziende cinesi, leader nel settore dei pril-products, ossia gli ACE-inibitori (economicamente concorrenti dei sartani, ossia captopril, enalapril, lisinopril), Zhejiang Huahai Pharmaceuticals, si erano trovati residui di N-nitrosodimetilammina, che è una sostanza sospetta cancerogena.

La cosa non mi meraviglia, poteva succedere anche dalle nostre parti probabilmente; ma tanto più facilmente succede in Cina dove le regole spesso esistono ma non vengono rispettate (cosa che succede anche da noi ed è successa tanto in passato), ma anche non esistono affatto ed è per noi difficile sapere come stanno le cose dato il regime di controllo esasperato delle informazioni di quel grandissimo paese.

Ma ci sono altre storie e sono legate fra di loro.

Il pomeriggio di giovedì 12 luglio scorso alle 18.30 una esplosione ha squarciato il cielo del Sechuan, sopra l’impianto chimico della Yibin Hengda Technology, uno dei principali produttori chimici cinesi; un testimone ha dichiarato di aver sentito 7 esplosioni in 10 minuti; la fabbrica produceva 300 ton di acido benzoico all’anno, usato nella conservazione del cibo e 200 ton/anno di acido 5-nitroisoftalico, per medicine e coloranti.Le cause dell’esplosione sono al momento sconosciute, ma l’esplosione ha provocato 19 morti e 12 feriti.

https://news.abs-cbn.com/list/tag/yibin-hengda-technology

Se sarà possibile vi terrò informati sul prosieguo. Il motivo è che ritengo che nel momento in cui la Cina è diventato il principale produttore chimico del mondo, i chimici di tutto il mondo e i cittadini del mondo debbano fare attenzione ai problemi che questo genera; non meno di quando avviene più vicino a noi.

(abbiamo reso sempre ragione degli incidenti chimici avvenuti in Europa e in Italia su questo blog: qui, qui, qui e qualche altro post mi sfugge certamente).

Lo abbiamo fatto anche per quelli cinesi. Tre anni fa di questi tempi vi raccontavo e discutevamo del grande incidente cinese di Tianjin una esplosione seguita incendio che durò giorni e che fece oltre 160 morti (qui); ipotizzammo che fosse stata probabilmente una esplosione innescata da un uso improprio dell’acqua in un deposito troppo grande di carburo di calcio, nitrato di potassio e nitrato di ammonio. Ma le cose stavano diversamente (anche se alcuni come il collega Paccati nel corso della discussione, avevano fatto l’ipotesi poi rivelatasi quella vera o comunque condivisa dai giudici).

il sito di Tianjin dopo l’esplosione.

Una corte cinese ha condannato 49 persone per non aver fatto il proprio dovere, preso tangenti e abusato del proprio potere ed ha invece ricostruito la situazione così:

https://www.dw.com/en/china-convicts-dozens-for-last-years-giant-explosions-in-tianjin/a-36324321

Yu Xuewei, il dirigente della compagnia Rui Hai International Logistics, che era il proprietario del deposito è stato condannato a morte, ma la pena è stata poi sospesa; aveva pagato tangenti per avere il permesso di stoccare più di 49.000 ton di cianuro di sodio ed altri prodotti chimici tossici fra il 2013 e il 2015. Questo grazie alla compiacenza interessata di decine di responsabili della Rui Hai e di altre compagnie e sulla base di certificati falsi

Le investigazioni dei giudici hanno rivelato che l’esplosione è avvenuta quando un deposito di nitrocellulosa , usata come agente adesivo in farmaci e vernici si è incendiato a causa del caldo eccessivo di agosto 2015. Le fiamme hanno raggiunto il deposito illegale del fertilizzante nitrato di ammonio scatenandone l’esplosione. Nell’esplosione sono morti 99 poliziotti e 11 vigili del fuoco che non sapevano della presenza del materiale esplosivo . I danni fisici hanno coinvolto oltre 800 persone ed una parte del porto di Tianjiin è stato distrutto e danneggiato, mentre l’inquinamento da cianuro ha perfino superato i confini nazionali.

Cosa è cambiato da allora in Cina?

Non lo so, è difficile anche avere informazioni sulle leggi e i regolamenti; un amico che lavora in Cina per una ditta multinazionale, intervistato telefonicamente il 13 luglio sull’incidente in Sechuan mi ha detto: “non ne so nulla, qua le notizie sono rigidamente controllate; e comunque mentre l’inquinamento dell’ambiente è al momento altamente considerato le regole sulla sicurezza del lavoro lo sono molto meno”.

La Cina è un grande paese, con un enorme ed incontrollato sviluppo industriale che sta purtroppo seguendo (forse anche peggiorando) il cattivo esempio che noi occidentali abbiamo dato in passato in questo campo e nell’uso della chimica.

Ma il loro sviluppo e la nostra situazione non sono scorrelati; noi siamo loro clienti ed è molto probabile che ci sia qualcuno dalle nostre parti che si frega le mani per aver esportato la produzione di sostanze che da noi ormai risulta troppo rigidamente regolamentata per risultare “efficiente”: dunque esternalizzare, outsourcing. Anche il caso del valsartan ci obbliga a chiederci: perchè i controlli sulla composizione fatti dai nostri furbi acquirenti nazionali non sono più frequenti e ampi?

E’ veramente più efficiente far produrre in Cina queste sostanze? O è solo un affare economico dato che fino ad ora là ci sono meno regole (ossia lacci e lacciuoli, come li chiamano i giornali di lorsignori). Ma noi europei o cinesi semplici cittadini cosa ci guadagnamo oltre a veder scendere l’occupazione e ricever ogni tanto schifezze al posto di medicine, morire sul lavoro o di inquinamento?

Pensateci, pensiamoci.

Il riciclo “di fatto” della plastica.

Claudio Della Volpe

Molti pensano che il riciclo sia fatto una volta che i rifiuti siano separati nei vari cassonetti; poi le famose “mani invisibili”, quelle inventate da Adam Smith, ci penseranno; beh le cose non stanno così.

La separazione dei rifiuti è solo il primo passo, necessario ma non sufficiente; i rifiuti devono poi arrivare in un deposito e successivamente in un luogo di produzione dove l’azione venga perfezionata. (I comuni “ricicloni” non stanno riciclando, stanno solo separando.)

Ora questa strada verso il riciclo è lunga, molto lunga e anche pericolosa per i poveri rifiuti o materie prime seconde, come si dice in politicalcorrettese.

Un esempio di cosa succede ai rifiuti anche nostrani si vede in questo film che potete scaricare o di cui potete vedere qualche fotogramma qui:

La Cina è stata di fatto il deposito intermedio dei rifiuti di mezzo mondo; la cosa dà da “vivere” a un po’ di cinesi ma con qualche problema, tanto è vero che i politici cinesi si sono resi conto che qualcosa non quadrava ed hanno deciso di BLOCCARE, ripeto bloccare, l’import di rifiuti plastici da riciclo dall’Europa dal 1 gennaio di quest’anno di grazia 2018. La cosa ha avuto qualche effetto che adesso analizzeremo brevemente.

Il Corepla (Consorzio nazionale per la raccolta, il riciclo, il recupero degli imballaggi in plastica) scrive in un recentissimo report:

Le aumentate quantità raccolte hanno generato un incremento dei costi di selezione; i costi di recupero sono aumentati in quanto, a seguito della saturazione degli spazi disponibili presso i recuperatori, causata dai volumi provenienti dalla raccolta urbana, sono cresciuti i corrispettivi medi. Questo ha anche generato la necessità di trasferire materiali dal centro-sud al nord, con conseguente aumento dei costi di trasporto.  Laddove ciò non è stato possibile si è reso necessario trasferire del materiale in discarica, con conseguente aumento anche dei costi di smaltimento.”

Dice Il Sole 24 ore: Senza mercato, in Europa i carichi di materiali diventati inutilizzabili vengono deviati verso gli inceneritori affinché almeno vengano ricuperati sotto forma di combustibile di qualità.

http://www.ilsole24ore.com/art/impresa-e-territori/2018-01-12/la-cina-blocca-l-import-rifiuti-caos-riciclo-europa-160732.shtml?uuid=AELQpUhD

Dunque c’è troppo da riciclare e la plastica finisce in…discarica o nell’inceneritore. (Poi dicono che al classico non si impara nulla? Signori miei questo è un esempio di dialettica hegeliana: la negazione della negazione!)

Ma non solo; molto “riciclo” arriva in depositi di materiale plastico che non riescono a perfezionare il passaggio né verso le fabbriche vere e proprie che sono spesso altrove, casomai in Cina, né perfino verso gli inceneritori.

Sempre il solerte giornale di Confindustria ci avverte:

I pochi impianti italiani di ricupero energetico marciano a tutta forza e non bastano;  in una situazione di forte domanda di incenerimento e di poca offerta di impianti di ricupero energetico le tariffe praticate dagli inceneritori salgono a prezzi sempre più alti, oltre i 140 euro la tonnellata.

Già in ottobre Andrea Fluttero, presidente di un’associazione di imprese del riciclo (Fise Unire), aveva avvertito che «purtroppo sta diventando sempre più difficile la gestione degli scarti da processi di riciclo dei rifiuti provenienti da attività produttive e da alcuni flussi della raccolta differenziata degli urbani, in particolare quelli degli imballaggi in plastica post-consumo».

(notate la raffinatezza di quel “di poca offerta di impianti di ricupero energetico” messo lì con nonchalance! E facciamo altri inceneritori, dai!)

Di conseguenza con o senza l’aiuto di malavitosi compiacenti la plastica prende la via dello smaltimento forzato, della “termovalorizzazione obbligata” tramite incendio doloso; nella seconda metà del 2017 il numero di incendi dei depositi di plastica nella zona Lombardo Piemontese è aumentata di quasi il 50%; difficile dimostrarne la origine dolosa, ma come avviene negli incendi dei boschi c’è qualche traccia e soprattutto i numeri parlano chiaro. (Attenzione anche ai depositi di carta e alle cartiere!).

Potete leggere a proposito un recente e brillante articolo comparso sulla cronaca milanese del Corriere del 3 aprile a firma di Andrea Galli (Milano, il «sistema» degli incendi gemelli: affari sporchi nella terra dei fuochi).

(http://milano.corriere.it/notizie/cronaca/18_aprile_03/milano-sistema-incendi-gemelli-affari-sporchi-terra-fuochi-6ab3f2e2-36a0-11e8-a836-1a6391d71628.shtml)

C’è una terra dei fuochi anche nel cuore del triangolo industrializzato, fatta di depositi di plastica (o di carta) che scoppiano anche grazie al divieto cinese, ma non solo, e il cui problema viene risolto bruciando tutto e contando sulle inefficienze o sulle compiacenze dell’apparato statale; l’industria chimica esalta i successi del riciclo, ma i 2700 impianti di deposito plastiche del Nord Italia, sulla via del riciclo, non potendo contare più sulla via della Cina, via alla rovescia, che una volta importava seta ed adesso esporta rifiuti, cercano soluzioni alternative.

Il rischio è che qualcuno (ricordate la frase del Sole citata prima) dica “visto che lo bruciano comunque allora fatecelo bruciare per bene”; col cavolo! rispondo io; la plastica non va bruciata MAI! Riciclare e cambiare la sua produzione e il suo uso.

Dunque paradossalmente il successo della differenziata ha messo in luce un problema serio: la via del riciclo è complessa e costosa; in alcuni casi come il PET, la plastica delle bottiglie di cui abbiamo anche parlato di recente la cosa più o meno funziona, ma di plastiche, al plurale ce ne sono tanti tipi che non sono miscibili fra di loro e il loro riciclo costituisce un serio problema, ancora non risolto.

Paradossalmente il PET è un esempio negativo nel senso che occorrerebbe semplicemente consumarne di meno, usare più acqua del rubinetto e meno acqua da bottiglia, meno acqua minerale. Ma è anche il caso in cui il riciclo viene meglio, il caso guida, anche se con qualche problema di qualità.

Come abbiamo detto altrove il riciclo comincia dalla produzione, la materia deve essere trattata dal momento della prima produzione con l’ottica del riciclo, non si può riciclare tutto (dopo averlo ben mescolato!!!) poichè i costi energetici della separazione, dovuti all’onnipresente effetto del 2° principio della termodinamica sono ENORMI. E d’altronde riciclare non il 100% ma poniamo il 95, non risolve il problema, ma lo sposta nel tempo: 0.9510=0.6 ; se ricicliamo dieci volte di seguito una cosa al 95% alla fine ce ne ritroveremo solo il 60% e dovremo comunque attingere a risorse casomai non rinnovabili o al collasso.

Questo è un analizzatore di colore che separa i flakes di PET (ottenuti per macinazione) per colore, realizzando una parte del costoso processo antientropico di separazione.

La realtà vera è che riciclare è assolutamente necessario, ma COSTA! Servono tecnologie sofisticate e spazio di stoccaggio.

E il costo di questo passaggio epocale al momento non è stato ancora né quantificato né chiarito. Lo spazio grigio viene riempito dalla malavita o da imprenditori di pochi scrupoli. Il successo (inaspettato) del riciclo della plastica deve essere a sua volta “curato” riducendone la produzione e l’uso: imballaggi in numero e quantità eccessivi devono essere eliminati e le tipologie di plastica devono essere scelte con l’occhio al loro fine vita. Per fare un esempio pratico, lo stesso PET nel momento in cui si cerca di esaltarne le caratteristiche aggiungendo altri materiali come nanosilicati, grafene o altri diventa più difficilmente riciclabile; la soluzione non è una strategia supertecno dal punto di vista dello scopo ma molto meno dal punto di vista complessivo dell’economia circolare; cosa faremo quando tutto il PET sarà “caricato” di diversi qualcosa? Sarà ancora riciclabile come adesso?

L’economia circolare non può coincidere col riciclare quello che c’è già, e che si fa come si fa adesso e con i medesimi scopi (mercato, profitto, crescita dei consumi); finora l’industra ha riciclato in quest’ottica (vetro, ferro, alluminio, PET), ma adesso le dimensioni sono diventate planetarie e il metodo tradizionale non funziona più.(D’altronde la “pattumiera” oceanica è satura.)

Ora si deve necessariamente trasformare il contenuto “fisico” dei prodotti e della loro manipolazione e anche in definitiva tutto il nostro rapporto con la Natura: non solo riciclare, ma consumare meno e meglio, riprogettando dal principio ogni materiale ed oggetto che usiamo.

Una rivoluzione. In cui la chimica gioca la parte del leone.

E’ ancora possibile l’innovazione tecnologica di processo in Italia?

a cura di Martino Di Serio

Arriviamo (io e il prof. Santacesaria) a Pechino da Milano Malpensa.  Uscito dall’aereo mi trovo in un aeroporto ultramoderno. Una sensazione di sconforto mi prende facendo il confronto con Malpensa. Da Pechino prendo un altro aereo per Changsha, la città principale della provincia dell’Hunan.  A pochi km da Changsha c’è il villaggio di nascita di Mao Tse-tug, e questo si vede nella città costellata di monumenti  a lui dedicati.

Changsha  è un cantiere aperto (come d’altra parte la maggior parte delle città della Cina),  si sta trasformando sulla base di un progetto urbanistico che, a dire dei nostri colleghi cinesi, si basa sui  principi dello sviluppo sostenibile (http://www.worldbank.org/projects/P075730/hunan-urban-development-project?lang=en). La Cina dello sviluppo a tutti i costi è sparita, le scelte oggi vengono fatte prendendo in considerazione anche l’ambiente e la sicurezza. Ho avuto notizie di Impianti Chimici anche di grosse dimensioni chiusi perchè non rispettavano i limiti di emissione. Contrariamente a Shangai che ormai ha l’aspetto di una città occidentale, il centro di Chansgha ha ancora zone in cui possiamo trovare la Cina di 10-20 anni fa, ma probabilmente tra 5 anni tutto questo sarà solo un ricordo. Venendo in Cina si capisce cosa significa avere un tasso di sviluppo del 9-10%.Fitodepurazione

Siamo venuti a Changsha su invito dell’ Hunan Academy of Foresty (http://www.asemwater.org/Partnerships/Partners/2011-05-19/218.html) nell’ambito di un accordo di ricerca internazionale con l’Università di Napoli Federico II. L’ Hunan Academy of Foresty è impegnata nello sviluppo sostenibile della produzione di Biodiesel utilizzando “non-edible oils”.  Hanno avuto interessanti risultati attraverso  tecniche classiche di plant breeding nell’ottenere nuove varietà di ricino ottimizzando sia le rese di olio per ettaro che le tecniche di raccolta.

Ricino

Ora stanno cercando di migliorare ulteriormente ricorrendo all’ingegneria genetica. Questo tipo di ricerca è sicuramente fatta anche il Italia, la differenza sostanziale è che l’Academy ha costruito e gestisce un impianto pilota per la produzione di biodiesel, a partire dalle materie prime che sta studiando, da 5000 ton/a  (nel miglioramento di processo hanno richiesto la collaborazione con il nostro gruppo di ricerca). L’impianto prevede la sezione di trattamento della materia prima per ottenere l’olio, la sezione di raffinazione dell’olio e la sezione di produzione di biodiesel e la sezione di trattamento delle acque di scarico che prevede tra l’altro una unità di fitodepurazione. Sulla base dei risultati sarà progettato un impianto da 100.000 t/a.

Impianto di Biodiesel

Una situazione analoga l’ho trovata incontrando a Shangai i responsabili della ricerca sui polietossilati del RIDCI (China Institute of Daily Chemical Industry,  http://english.ridci.cn/). Con questo ente di ricerca abbiamo recentemente fatto una richiesta comune di finanziamento ai rispettivi ministeri degli esteri, nell’ambito del programma di cooperazione scientifica e tecnologica tra l’Italia e la Cina per gli anni 2013-2015.

Shangai

Il RIDCI ha sede a Taiyuan (nella provincia di Shanxi), ma  a Shangai ho visitato un impianto produzione di APG (Alkyl polyglucosides )da 13000 ton/a costruito sulla base della tecnologia sviluppata da RIDCI e gestito da una società in cui l’ente di ricerca ha una partecipazione consistente.   Essendo il RIDCI un ente di ricerca che oltre a fare ricerca di base ha come clienti i produttori di tensioattivi in Cina ho chiesto se questa loro attività industriale non fosse in conflitto con il loro scopo istituzionale. La risposta è stata: “per noi questo è un impianto dimostrativo. La Cina ha necessità di molto più APG. I nostri industriali vedendo l’impianto in funzione e la qualità dei prodotti hanno la possibilità di decidere per un eventuale investimento sulla base di dati reali.”

Ho riportato questi due esempi per mettere in evidenza come due enti di ricerca pubblici possano sviluppare una tecnologia ed arrivare fino all’industrializzazione. Naturalmente in queste operazioni c’è un forte intervento dello Stato, ma la ricaduta sull’innovazione e sull’economia è sicuramente di grosso impatto. Questo approccio non è un’invenzione Cinese. Ad esempio in Francia l’IFP Energies nouvelles (IFPEN,  http://www.ifpenergiesnouvelles.com/ ) fa ricerca nei settori dell’energia, dei trasporti e dell’ambiente. IFPEN per sviluppare i propri processi innovativi e industrializzarli crea società o acquista partecipazioni in società già esistenti che abbiano già raggiunto risultati nel trasferimento tecnologico in settori di ricerca di proprio interesse.

Qual è la situazione Italiana? Esistono enti di ricerca che svolgono  azioni simili a quelle descritte in precedenza? Purtroppo io non ne ho notizia. Se qualcuno ha invece informazioni in proposito sarei felice di essere smentito. In Italia però fiorisce la nascita di centri di trasferimento tecnologico (nazionali, regionali, provinciali) che organizzano la ricerca e gestiscono i finanziamenti ad essa collegata, ma sull’efficacia di queste iniziative nonostante l’eccellenza dei nostri ricercatori coinvolti non ho informazioni di successi eclatanti. Probabilmente non è mai stata fatta una statistica: quanti progetti sono stati finanziati? Quanti brevetti sono stati ottenuti? Quanti nuovi processi/prodotto sono stati industrializzati ? Quanti processi/prodotti hanno continuato ad essere sul mercato dopo 5 anni dalla fine dei finanziamenti?

Il finanziamento alla ricerca applicata può essere sicuramente un volano per la crescita. Non si hanno però certamente effetti positivi se i risultati rimangono nei laboratori, o peggio il finanziamento è visto come fine a se stesso e rimane improduttivo.