Breve storia della candela.

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Claudio Della Volpe

Non voglio scimmiottare il famosissimo testo di Faraday, del quale posseggo anche una copia originale, regalatami da un caro amico. No, voglio solo parlarvi delle candele e della loro storia tecnica, perché recentemente ho avuto modo di rifletterci più approfonditamente.

Avevo avuto un commento (di Gustavo Avitabile) sulla capacità di degradare i legami C-C e nel rispondere a questo in un recentissimo post sulla degradazione della plastica (che uscirà a breve), mi sono trovato a riflettere su esempi di comuni sostanze digeribili o meno fatte con quel legame. Ne riparleremo più avanti.

La combustione l’ho scritto tante volte, è più antica di Homo Sapiens Sapiens; già conosciuta da Homo Sapiens Erectus, probabilmente ha un milione di anni.

La tecnologia della combustione si è evoluta in modo lento ma costante; oggi sappiamo che la migliore e più efficiente combustione è “senza fiamma” (in inglese flameless) perché la fiamma è solo una superficie di reazione che emette luce e calore e una superficie è una discontinuità, un difetto che introduce irreversibilità e inefficienza; mentre un buon miscelamento è diffuso in 3D, non dà origini a fiamme ma a reazioni omogenee, veloci e controllabili; dunque alla fine, dialetticamente, l’ottimizzazione del fuoco ha portato al senza fiamma, dimostrando che la combustione senza fiamma è la più efficiente. Per questo si è dovuto aspettare il 1991: Flammenlose Oxidation von Brennstoff mit hochvorgewarmter Luft – Joachim Wunning Chem.-1ng.-Tech. 63 (1991) Nr. 12, S. 1243-124s 

Detto questo però, dato che per realizzarla occorre un reattore apposito, la cosa più semplice per secoli è stata di far bruciare in modo comodo materiali comuni e la candela è una di queste tecnologie, forse è stata la più sofisticata per secoli.Dopo la semplice combustione del legno si è ragionevolmente passati alle torce, eventualmente imbevute di materiali diversi (olio, grasso, cera di api), solo dopo alle lampade a combustibile liquido (ossia olio di varia origine) dotate di stoppino e infine alle candele.Le prime di cui abbiamo traccia sono egiziane; nella tomba di Tutankhamon (XIV secolo aC) sono stati trovati candelieri (o porta torce). Candele sono menzionate nella Bibbia (siamo nel X sec aC.) Queste primitive candele erano fatte immergendo tessuto intrecciato nel grasso animale. Il grasso era ragionevolmente più economico della cera delle api; a livello dell’olio usato nelle lampade con lo stoppino.D’altronde il simbolo della religione ebraica è un candeliere a 7 rami, chiamato Menorah. Candelabri sono descritti nell’Odissea e ornano la reggia di Alcinoo, re dei Feaci (nella odierna Corfù).Certamente ci sono state candele cinesi e giapponesi almeno dal II sec aC con un documentato uso di grasso di origine marina, grasso di cetaceo. Come anche candele indiane, che vedremo fra un attimo.Candela è parola romana, dal verbo candēre, ossia esser bianco, splendente; i Romani sapevano già fare le candele almeno dal V sec. aC.

https://www.smith.edu/hsc/museum/ancient_inventions/hsclist.htm

C’è una contraddizione apparente con la mitologia Romana che aveva bisogno delle vestali (Rea Silvia, la madre di Romolo e Remo era una vestale, una custode del fuoco) per mantenere acceso il fuoco, il che fa pensare ad una tecnologia molto più antica; ma forse la spiegazione sta nella interazione forte con la cultura etrusca che possedeva invece la tecnologia della candela. A questo riguardo la Treccani recita: Un’ampia e particolareggiata documentazione sui candelabri metallici forniscono invece le suppellettili delle antiche necropoli etrusche. Si sa che gli Etruschi furono egregi foggiatori di candelabri, e che le loro produzioni erano assai stimate anche fuori della regione. I più antichi candelabri etruschi di bronzo sono ritornati alla luce dalla necropoli arcaica orientalizzante di Vetulonia (secoli VII-VI a. C.): essi sono composti di un asse verticale di lamina, retto da quattro piedi in croce, piegati ad angolo e lisci, e sormontato da un motivo figurato o floreale in bronzo; l’asse sostiene, a distanze uguali una dall’altra, tre o quattro coppie di braccia appuntite. Da questo modello primitivo si sviluppano gli artistici candelabri etruschi dei secoli V e IV a. C., quali si ammirano specialmente nel Museo etrusco del Vaticano, in quello di Villa Giulia a Roma e nel Museo civico di Bologna.

Candelabro etrusco con menade danzante stimato 500aC. Che incredibile bellezza!

La cera delle api che bruciava con meno odore e fumo fu usata certamente, ma solo dalle classi più ricche o nelle situazioni di culto. Ed inoltre le candele furono prodotte per immersione nel sego (altra tipologia di grasso poco costoso il sego è un grasso alimentare ricavato per estrazione a caldo dalle parti grasse di equini, ovini, ma soprattutto bovini tanto che si parla comunemente di “sego di bue”. Il sego può essere prodotto a partire da qualunque pezzo di grasso, sottocutaneo o viscerale, ma viene generalmente prodotto dai depositi adiposi interni, come quelli che circondano il cuore e il rene dei bovini). Fonte: https://www.prezzisalute.com/Alimenti-Cucina/Sego.html come si può dedurre dalla forma irregolare e dal lungo stoppino delle candele romane almeno fino alla fine del medioevo quando, grazie ad una invenzione francese, entrò in funzione un metodo che usava stampi per la cera.

foto reperti antichi siti archeologici The ArchaeologistCandele di cera d’api del cimitero di Oberflacht, Germania, risalenti al VI o VII secolo d.C. Sono le candele di cera d’api più antiche sopravvissute a nord delle Alpi.

La combustione è abbastanza regolare in una candela ben fatta tanto da essere usata come segnatempo, come orologio e perfino come sveglia; come si vede dalla figura qua sotto, dove un chiodo che cade in un fondo di metallo può fare da campanello.

 La candela-sveglia Le candele “grasse”, di sego, non bruciavano così bene come le candele di cera. Una candela grassa era morbida, affumicata, fuligginosa, gocciolava sempre e non dava un odore gradevole (probabilmente a causa della formazione di acroleina). Lo stoppino era fatto di un filo vegetale, la cui estremità carbonizzata doveva essere tagliata (annodata) di volta in volta. Nei paesi non europei l’origine del combustibile era molto varia; sono documentate piante che producono materiali cerosi ma perfino animali, il più strano dei quali è certamente il pesce candela usato per estrarre il suo grasso poi usato per illuminazione dagli indiani americani nel I sec dC ma anche usato come tale; il pesce, che si chiama Osmeride ed è presente anche in Europa, veniva essiccato e messo su un bastone a forcella per poi accenderlo direttamente.Fra le piante ricordiamo il cinnamomo usato come sorgente di cera in India; la bollitura del cinnamomo era usata per le candele dei templi in India; il cinnamomo, una sua varietà, ma non è chiaro se la medesima, corrisponde alla moderna cannella. Il burro di yak si usava invece per le candele in Tibet.  Dal 1200 la produzione e la vendita di candele diventò una attività ufficiale che aveva una sua “gilda”, una corporazione, il che ci assicura che ci fosse una robusta tecnologia di supporto; per esempio la costruzione dello stoppino e le sue proprietà erano importanti, in quanto durante la combustione se lo stoppino non brucia bene fa accumulare i suoi residui nella parte concava che si forma alla sommità cambiando la velocità di consumo della candela; e così lo stoppino doveva essere costruito ed intrecciato in modo da consumarsi completamente durante il processo di combustione della cera o del grasso (stoppino autoestinguente sarà inventato solo più tardi); in alternativa esistevano dei dispositivi che venivano usati per spegnere la fiamma o per tagliare l’eccesso di stoppino non bruciato. I candelai, come altri artigiani giravano di casa in casa e costruivano le candele a partire dal grasso o dai materiali che residuavano dall’attività della famiglia richiedente o da prodotti che nei casi più fortunati venivano anche da lunghe distanze.Dice wikipedia: Nei paesi di lingua inglese il mestiere del candelaio è attestato anche dal nome più pittoresco di smeremongere (“venditore di grasso”), perché sovrintendeva alla fabbricazione di salse, aceto, sapone e formaggio. La popolarità delle candele è dimostrata dal loro uso nella Candelora e nelle festività di Santa Lucia.C’era anche un problema ambientale non banale; il sego bruciava con odore molto sgradevole ma anche l‘odore del processo di fabbricazione era così sgradevole che era bandito con ordinanza in parecchie città europee. Probabilmente l’origine dei sottoprodotti puzzolenti era la glicerina che era una componente ineliminabile dei grassi animali comuni.La stampa della candela in una forma predisposta era stata di fatto inventata dai cinesi che usavano la carta, già da molto tempo, quando un francese reinventò l’idea usando metodi di stampaggio diversi nel 1400.Da questo punto in poi la candela entra a pieno titolo nello sviluppo della manifattura e anche del moderno capitalismo.Infatti il successivo combustibile per candele fu l’olio di balena e di capodoglio, lo spermaceti, che era privo di cattivo odore in fase di produzione e di combustione, aveva una superiore durezza e durata; il grasso di balena fu uno dei primo combustibili mondiali, che portò all’ecocidio dei più grandi abitanti del mare ed alle epopee descritte nei romanzi come Moby Dick.

Molti altri concorrenti, come la colza, il cavolo (di cui abbiamo parlato altrove) e il vero e proprio albero della cera, propriamente detto, una pianta americana (in inglese bayberry) Myrica cerifera non diventarono mai seri concorrenti, pur occupando settori del mercato globale.

La cera di quell’albero era un residuo della bollitura dei suoi frutti; mentre invece le fibre di cotone si fecero strada via via come la forma dominante dello stoppino

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Un’altra sorgente di cera molto specifica è un insetto denominato Ceroplastes destructor (white wax scale) un insetto dannoso per le piante attaccate che vengono ricoperte di materiale bianco come dall’immagine e che infesta varie piante fra cui il caffè, sfruttato per fare la cera in Asia.

Finalmente i chimici francesi Michel Eugène Chevreul (1786–1889) e Joseph-Louis Gay-Lussac (1778–1850) brevettarono la preparazione della stearina e dell’acido stearico nel 1825. L’enorme passo avanti fu l’eliminazione della glicerina libera e il poter disporre di un materiale omogeneo. Sempre di un grasso di origine animale si trattava ma molto puro. La candela a questo punto prese il nome di candela stearica. Chevreul nel 1823 aveva pubblicato un classico, Recherches chimiques sur les corps gras d’origine animale, che descriveva come egli avesse compreso la natura chimica dei grassi. Nel 1825 il brevetto riguardava la preparazione di candele di acido stearico. Le candele di Chevreul, diversamente da quelle di sego, erano dure, inodori e davano una luce brillante. Apparse nell’esposizione mondiale di Parigi del 1830, diventarono immediatamente la candela moderna.

Michel Chevreul giovane  e da vecchio fotografato da Nadal(1886). Morì a 102 anni dopo aver contribuito a costruire la chimica organica moderna, comprese la natura dei grassi, fondò la moderna teoria del colore ed aiutò Nadar a sviluppare la fotografia moderna.

La storia della candela culmina alla metà dell’800 insieme all’inizio dell’epopea petrolifera.

Nel 1834, Joseph Morgan, Inghilterra, brevettò una macchina che consentiva la produzione continua di candele in stampi usando un cilindro con un pistone mobile per espellere le candele mentre si solidificavano. Questa produzione meccanizzata più efficiente consentì alle candele di diventare una merce facilmente disponibile per grandi masse di persone.

Gli stoppini erano prodotti da fili di cotone strettamente intrecciati (piuttosto che semplicemente ritorti). Questa tecnica fa arricciare gli stoppini mentre bruciano, mantenendo l’altezza dello stoppino e perciò la fiamma. Poiché gran parte dello stoppino in eccesso è incenerito, questi stoppini sono detti “autosmoccolanti” o “autoconsumanti”.

Fino ad ora la cera era stata comunque di origine naturale ma la rivoluzione petrolifera avanzava a grandi passi. Nella metà degli anni 1850, James Young un chimico scozzese riuscì a distillare la paraffina dal carbone e dagli scisti bituminosi e sviluppò un metodo di produzione commercialmente praticabile.

La paraffina, costituita dalle sole catene idrocarburiche poteva essere usata per fare candele poco costose di alta qualità. È una cera bianco-bluastra, brucia senza odori sgradevoli; l’unico inconveniente era che le prime paraffine derivate dal carbone e dal petrolio avevano un punto di fusione molto basso. Questo problema fu risolto dall’aggiunta della stearina che è dura e resistente, con un intervallo di fusione conveniente di 54–72,5 °C. Verso la fine del XIX secolo, la maggior parte delle candele che erano fabbricate consistevano di paraffina e acido stearico (bastava il 10%).

Ci sarebbero molte altre cose da dire ma credo di essere stato abbastanza lungo e forse noioso dunque mi fermo qua, invitandovi a considerare la umile candela, già onorata formidabilmente da Faraday , come uno dei più avanzati ritrovati della chimica moderna e nel medesimo tempo come una spinta ad approfondire la medesima.

Un’ultima nota sempre a commento della degradabilità del legame C-C (siamo in molecole lineari)  mentre potremmo digerire una candela di sego, dubito noi si possa fare lo stesso con la paraffina; mi risulta che la paraffina, priva di “attacchi” sulla catena come gli acidi grassi sia , se pura, priva di tossicità, perfino utile nelle formulazioni farmaceutiche, ma sostanzialmente indigeribile anche dai potenti e volenterosi enzimi dei nostri mitocondri (non i nostri enzimi, i mitocondri hanno il loro DNA, sono vecchissimi ospiti), che metabolizzano gli acidi grassi a catena lunga.

La mia copia del libro di Faraday , donatami dall’amico, filosofo, ferroviere, ricercatore, divulgatore ed editore  PhD Luciano Celi (oggi al CNR di Pisa), edizioni Lu.Ce.

Testi consultati:1)The Chinese White Wax Insect B. SillimanThe American NaturalistVol. 5, No. 11 (Nov., 1871), pp. 683-685 (3 pages)

2)The chemical history of a candle  M. Faraday,  Ed by W. Crookes  1874 Chatto and Windus Londra

3) Flammenlose Oxidation von Brennstoff mit hochvorgewarmter Luft – Joachim Wunning Chem.-1ng.-Tech. 63 (1991) Nr. 12, S. 1243-124s

4) Candles FRANZ WILLHO ̈ FT, RUDOLF HORN, Ullmann encyclopedia of industrial chemistry  Vol. 6 p551-552 Wiley VCH 2012

Sitografiahttps://it.wikipedia.org/wiki/Storia_della_fabbricazione_delle_candelehttp://cyberlipid.gerli.com/description/simple-lipids/chevreul/life/https://it.wikipedia.org/wiki/Stearinahttps://en.wikipedia.org/wiki/Candlehttps://italiawiki.com/pages/natale/candela-storia-invenzione-medioevo-innovazione-tecnologica.html 

Scaldarsi con poco?

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Claudio Della Volpe

Giorni fa mi sono imbattuto nella pubblicità di vari tipi di stufe che non appaiono così comuni e mi è venuta spontaneamente la voglia di approfondirne le caratteristiche; dopo tutto siamo in inverno e il riscaldamento degli edifici è uno dei problemi pratici da affrontare per milioni di persone; certo la cosa migliore è di investire in case che non hanno bisogno di riscaldamento oppure che usano energie rinnovabili, per esempio l’accoppiata fotovoltaico-geotermia a bassa temperatura che si avvia a diventare una delle tecniche più interessanti.

Ma diciamo la verità, da una parte la scarsa conoscenza tecnica dall’altra la presenza di un robusto sistema produttivo basato sul bruciare qualche tipo di combustibile e infine i costi relativamente elevati delle tecnologie più nuove fanno si che vengano alla ribalta metodi molto più tradizionali.

Oggi vi farò due esempi, fra di loro alquanto diversi, di questi metodi perché mi hanno colpito e perché dopo tutto sono relativamente diffusi: uno è un metodo di riscaldamento diretto basato sulle stufe ad alcool etilico o come dicono i venditori a “bioetanolo” e l’altro un metodo sostanzialmente di accumulo del calore, le stufe a sabbia, che potrebbe forse essere sfruttato per cose più ambiziose.

C’è un massiccio dispositivo pubblicitario che spinge le cose, specie nel caso delle stufe a bioetanolo e che è basato su una serie di enormi ambiguità.

A cominciare dal nome “bioetanolo”; come al solito il prefisso bio è usato con uno scopo esclusivamente pubblicitario; si sottintende che dato che è di origine naturale, ottenuto per distillazione da componenti vegetali è un prodotto sano e buono di per se; ma le cose sono più complesse di così.

Lavori recenti confermano quel che già si sapeva: la produzione di bioetanolo da piante come la cassava o il mais o la canna da zucchero entra in diretta concorrenza con la produzione di cibo e lo fa specie in paesi poveri, dove quella produzione è preziosa. In secondo luogo se uno fa il conto di quanta energia si ottiene per via netta, scorporando l’energia grigia (ossia quella che serve alla coltivazione distillazione e trasporto ) il conto non torna, i risultati sono spesso al limite o della unità o di un valore critico minimale (EROI 3:1) e solo alcuni autori lo stimano molto alto e comparabile con quello di tecnologia più affermate (per dati affidabili si veda per esempio un lavoro di Hall, che ha inventato il concetto di EROI,  e altri, https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0301421513003856).

Dunque la parolina bio non basta a rendere l’etanolo di origine agricola un prodotto sostenibile; ma c’è molto di più. Il vantaggio che viene stressato da chi vende le stufe a bioteanolo o ad etanolo (dopo tutto il consumatore finale difficilmente è in grado di rendersi conto della effettiva origine del combustibile che compra casomai su Amazon) è che non c’è bisogno per queste stufe di avere un camino.

Alcuni produttori citano a questo riguardo un regolamento europeo del 1993 (dunque ormai trentennale) ma che si riferisce alla denaturazione dell’alcol etilico; mentre in realtà le norme che consentono e regolano le stufe a bioetanolo sono norme UNI o EN, la UNI-11518:2013 poi superata dalla UNI EN 16647 : 2016; come tutte le norme UNI questa non è libera, cioè occorre pagare per poter leggere le norme necessarie a fare le cose, una assurdità tutta italiana e tutta mercantile; d’altronde siamo o no il paese in cui per sapere come pagare le tasse occorre andare da un commercialista o al CAF? Diciamo che questi pagamenti servono agli stipendi di UNI più che a pagare gli esperti che fanno le norme e che non vengono pagati.

Alcune cose si riescono a estrarre comunque.

Ci sono alcuni metodi di riscaldamento a combustione che non necessitano di camino: sia l’etanolo che gli idrocarburi liquidi, il GPL (questi ultimi se bruciati in stufe a catalizzatore) godono di questo privilegio. (ATTENZIONE: le stufe a pellet dette “senza canna fumaria” in realtà necessitano di una canna fumaria, non necessariamente in muratura.)

La differenza fra queste due tipologie sta nel fatto che le stufe a etanolo o a GPL non fanno fumi (o almeno non ne fanno in quantità significative), ma producono invece i prodotti basici della combustione, CO2 ed acqua, più una quantità piccola ma misurabile di altre molecole tipiche delle combustioni, anche in funzione delle condizioni effettive di composizione del combustibile e di combustione (miscelazione, temperatura, etc). La purezza del combustibile è dunque condizione essenziale per evitare la produzione di sostanze tossiche o semplicemente puzzolenti. Non completamente perché secondo il regolamento del 1993 che invece stabilisce la composizione dell’alcol denaturato (che è quello al 96% che si usa in questi casi) una quantità di “impurezze” sono permesse dalla legge; le tecniche di denaturazione dipendono dal paese europeo; in Italia per esempio l’alcool denaturato contiene:

Per ettolitro anidro di alcole puro:
– 125 grammi di tiofene,
– 0,8 grammi di denatonium benzoato,
– 0,4 grammi di C.l., acid red 51 (colorante rosso),

– 2 litri di metiletilchetone.

Nel momento della combustione queste sostanze, specie all’inizio, possono produrre comunque odore sgradevole. Infine piccole quantità di CO (che è tossico, non solo asfissiante come la CO2) si possono produrre specie se il dispositivo funziona male.

Un secondo problema è causato poi dal fatto che l’alcool etilico è infiammabile e questo, specie in fase di riempimento del serbatoio, può dare origine a pericolosi incidenti se non si rispettano regole precise per evitare il contatto con materiali molto caldi; un nutrito set di incidenti a livello internazionale è riportato in letteratura (vedi in fondo) . Per evitare grandi rischi la quantità di alcol che si può usare per ciascuna alimentazione è ridotta, diciamo che in una grande stufa c’è un serbatoio di 4-5 litri ossia, considerando la densità di 0.8 kg/L, qualche chilo.

E arriviamo ad un po’ di stechiometria e chimica fisica; quanto calore e quanta CO2 si producono?

L’entalpia di combustione dell’alcol etilico puro è di 27 MJ/kg (la legna oscilla fra 15 e 17MJ/kg) e la quantità di CO2 prodotta è di 1.9kg/kg (all’incirca 1.8 nel caso del legno).

La differenza sta oltre che nella bassissima produzione di fumi da parte dell’alcol nel ridotto rischio nel maneggiare la legna; mentre far bruciare l’alcol è molto semplice accendere il fuoco con la legna può essere parecchio più difficile.

Una grande stufa ad alcol, diciamo da 3-4 kW di potenza col suo serbatoio di 5 litri (ossia 4kg) potrà bruciare per quanto tempo? La risposta è alcune ore, ma queste sono le dimensioni massime che si possono avere; semplice fare il conto se avete 4kg di alcol potete ottenere poco più di 108MJ  di energia termica; 4 kW sono 4kJ/s e dunque la stufa potrà lavorare per 7-8 ore, consumando circa mezzo litro l’ora. E quanta CO2 produrrà? Quasi 8kg che sono 4mila litri di gas, 4 metri cubi, raggiungendo una concentrazione in un volume poniamo di 300 metri cubi,(consideriamo un appartamento di 100 metri quadri ) superiore all’1%, che è 20-30 volte maggiore della concentrazione naturale (0.04%) ossia arriviamo a 8-10mila ppm mentre il massimo consigliato in ambienti molto vissuti è 2500 ppm per evitare disturbi significativi ; un po’ troppo! Per cui la norma UNI impone di aerare i locali ripetutamente e questo ovviamente contrasta con il mantenimento di una temperatura decente.  Anche perché si genera parecchia acqua (1.2 kg/kg di alcol) e l’umidità ambientale aumenta col rischio di avere condensa e muffe.

Conclusione: sì, potete risparmiare di costruire un camino se non ce l’avete, ma la resa complessiva non sarà ottimale rispetto a quella di avere un camino funzionante e in genere non se ne consiglia l’uso in grandi ambienti : piccole stufe in piccoli ambienti, non il riscaldamento principale insomma, e sempre attenti a rischio incendio e qualità dell’aria.

Certo sono oggetti anche ben fatti ed esteticamente validi, ma questo cosa c’entra col riscaldamento?

Un’ultima considerazione è il costo; al momento è di 3 euro al litro, poco meno di 4 al kilo, mentre la legna costa 1 euro al kilo; la differenza è notevole per unità di calore ottenuta. 

Passiamo alla stufa a sabbia che è invece un oggetto della mia infanzia. mio padre era un convinto utente della stufa a sabbia; ai tempi era elettrica come è anche adesso e dunque un oggetto dai consumi certo non economici; dove è l’utilità?

L’utilità è nella capacità di riscaldare la stufa ad una temperatura anche elevata e consentire il rilascio lento di questo calore nel tempo; di solito è fatta immergendo delle resistenze metalliche nella sabbia; e la sabbia ha una capacità termica che può essere significativa dato che può raggiungere temperature elevate senza alterarsi significativamente, anche varie centinaia di gradi; ovviamente il problema è che non potete toccare la sabbia e il dispositivo deve essere costruito in modo da evitare contatti molto pericolosi, deve riscaldare solo l’aria ambiente.

La capacità termica della sabbia è di 830J/kgK; immaginiamo allora di averne a disposizione 1 kg e di riscaldarlo a 100°C sopra la temperatura ambiente; il calore disponibile sarà di 83000J; supponiamo di averne 100kg, un oggetto parecchio pesante dunque, ma una volta riscaldato avrà accumulato e ci restituirà nel tempo 8.3MJ e se lo riscaldiamo a 200°C  sopra l’ambiente avremo l’accumulo di 16.6MJ che corrispondono a bruciare un kilo di legno.

Non è impossibile isolare bene la massa di sabbia e conservare il calore per parecchie decine di ore o anche più sfruttandolo all’occorrenza.

L’idea, che è venuta ad un gruppo di tecnici finlandesi della Polar Night Energy, è di usare sabbia di quarzo di buona qualità ed in grandi quantità riscaldata a 1000°C usando per esempio eolico o fotovoltaico  nei momenti di eccesso di produzione; in questo modo ogni ton di sabbia di quarzo potrebbe immagazzinare 830MJ/ton e secondo i loro esperimenti e calcoli rappresenta un modo innovativo ma semplice di accumulare energia termica a basso costo (attenzione una ton di idrocarburo produce oltre 40GJ, 50 volte di più).

Attualmente ci stiamo concentrando su due prodotti. Al momento possiamo offrire un sistema di accumulo di calore con potenza di riscaldamento di 2 MW con una capacità di 300 MWh o una potenza di riscaldamento di 10 MWh con una capacità di 1000 MWh. Il nostro sistema di accumulo di calore è scalabile per molti scopi diversi e amplieremo la gamma di prodotti in futuro. I nostri accumulatori sono progettati sulla base di simulazioni che utilizzano il software COMSOL Multiphysics. Progettiamo i nostri sistemi utilizzando modelli di trasporto del calore transitorio 3D e con dati di input e output reali. Abbiamo progettato e costruito il nostro primo accumulo di calore commerciale a base di sabbia a Vatajankoski, un’azienda energetica con sede nella Finlandia occidentale. Fornirà calore per la rete di teleriscaldamento di Vatajankoski a Kankaanpää, in Finlandia. L’accumulo ha una potenza di riscaldamento di 100 kW e una capacità di 8 MWh. L’utilizzo su vasta scala dello stoccaggio inizierà durante l’anno 2022. Abbiamo anche un impianto pilota da 3 MWh a Hiedanranta, Tampere. È collegato a una rete di teleriscaldamento locale e fornisce calore per un paio di edifici. Il progetto pilota consente di testare, convalidare e ottimizzare la soluzione di accumulo di calore. Nel progetto pilota, l’energia proviene in parte da un array di pannelli solari di 100 metri quadrati e in parte dalla rete elettrica.

Il dispositivo è correntemente sul mercato. Ci riscalderemo con queste “batterie a sabbia”?

Materiali consultati oltre quelli citati.

https://www.expoclima.net/camini-a-bioetanolo-la-nuova-norma-uni-11518

https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:01993R3199-20050814

https://www.treehugger.com/viral-sand-battery-isnt-what-it-seems-5547707

https://sauermanngroup.com/it-IT/insights/misura-della-concentrazione-di-co2-calcolare-il-tasso-di-ricambio-dellaria

anche in Italia si producono “batterie a sabbia”: https://www.magaldigreenenergy.com/en/economy-energia-green-con-le-batterie-di-sabbia

Incidenti con le stufe a bioetanolo:

J Burn Care Res 2011 Mar-Apr;32(2):173-7. doi: 10.1097/BCR.0b013e31820aade7

Burns Volume 42, Issue 1, February 2016, Pages 209-214

https://www.sciencedaily.com/releases/2014/09/140903091728.htm

Ringrazio Gianni Comoretto per gli utili suggerimenti.


 

Cenere sei e cenere ritornerai.

Claudio Della Volpe

Una frase famosa della Genesi (3,19), ma stavolta il gioco di parole (sostituendo cenere a polvere, ma tenete presente che dopo tutto la festa è “delle Ceneri”) mi serve per parlare di combustione e di incendi e di come si spengono gli incendi.

Quando ero un giovane studente di chimica una sera ho invitato a cena i nuovi amici che mi ero fatto, fra i quali anche qualche laureato e docente; mio padre che era anche lui appassionato di chimica (aveva fatto l’assistente di laboratorio durante la prigionia nella 2 guerra mondiale) partecipava alla conversazione e mi fece fare una figuraccia. Non ricordo come la conversazione arrivasse alla combustione, ma “Di cosa sono fatte le ceneri?” se ne uscì. Beh io non lo sapevo e dunque cominciai ad “arrotolarmi”, materiale non bruciato, carbone, legna degradata; assolutamente no.

Sotto lo sguardo severo di Ugo Lepore, che insegnava allora stechiometria. Volevo scomparire.

La cenere è fatta di ossidi di metalli del primo e secondo gruppo (potassio, calcio, magnesio, sodio) e se si aspetta che si raffreddi anche di carbonati dei medesimi a causa del riassorbimento di CO2 dall’atmosfera.

E’ una cosa che non ho dimenticato più.

La cenere della legna ha una tradizione possiamo dire di almeno un milione di anni, visto da quanto tempo il genere Homo sa accendere il fuoco, da prima che noi doppi Sapiens (Homo Sapiens Sapiens) esistessimo (solo 200.000 anni).

Per secoli si è usata per fare la “liscivia”, ossia per lavare i panni: acqua calda sulle ceneri estrae gli ossidi e i carbonati che saponificano i grassi staccandoli dai tessuti; una procedura analoga partendo da grassi animali produce il sapone.

Insomma la cenere è una risorsa; si può usare come componente del concime, ma anche come antilumache: una risorsa molto importante.

Ma data la natura dialettica della chimica, data la natura a due facce o “a due corni“, come avrebbe detto il mio maestro Guido Barone, c’è un aspetto non secondario di almeno alcuni dei componenti della cenere che servono ad estinguere il fuoco; vengono dal fuoco ed estinguono il fuoco.

E infatti i carbonati, le loro soluzioni, le loro polveri o i loro aerosol sono una nota base per la produzione di dispositivi antincendio.

Il più recente e spettacolare di questi dispositivi è stato presentato pochi giorni fa in Corea del Sud dalla Samsung (si avete ragione è quella dei cellulari). La Corea del Sud è soggetta al problema di incendi nelle città densissimamente popolate e dunque la lotta agli incendi è una priorità del governo.

Come vedete si tratta di un vaso da fiori a doppia camera; al centro c’è un vero vasetto dove mettere i fiori, mentre nell’intercapedine chiusa c’è una soluzione di carbonato di potassio; l’involucro esterno è di PVC (e questa è una scelta che non capisco tecnicamente, è un PVC fragile ma se brucia può produrre diossine, ma non è questo il punto adesso). Una volta scagliato sul fuoco il dispositivo si rompe e il carbonato svolge la sua azione estinguente in una frazione di secondo; non è una invenzione originale, esistono già altri prodotti analoghi come questo http://m.id.automaticextinguisher.com/throwing-fire-extinguisher/vase-throwing-fire-extinguisher.html

E sono molto efficaci come potete vedere da questo filmato.

Esistono dispositivi analoghi di tipo statico da posizionare nei luoghi a più alto rischio come le Elide fire balls; ma anche altri similari basati su polveri e non su soluzioni come si vede qui.

D’altronde gli estintori a polvere sono un dispositivo tradizionale e nella composizione delle polveri entrano anche i carbonati, bicarbonato di sodio, fosfato di ammonio e cloruro di potassio a seconda del tipo di combustibile da contrastare.

In genere si sostiene che l’azione estinguente dei carbonati e bicarbonati nasca dal fatto che ad alta temperatura i carbonati cedano il biossido di carbonio e dunque estinguano il fuoco soffocandolo, per spostamento dell’ossigeno. E probabilmente questo meccanismo contribuisce.

Tuttavia questa teoria, che viene presentata anche nei corsi antincendio attuali non mi soddisfa né mi convince, certamente non è completa.

La situazione è molto più complessa.

Come funziona la combustione? In realtà non esiste una teoria semplice della combustione; è una reazione radicalica, che sfrutta la natura chimica dell’ossigeno; e si propaga attraverso una sequenza complessa e numerosa di reazioni radicaliche semplici e ripetute, una catena radicalica.

Come detto altre volte l’ossigeno è una molecola biradicalica che contiene due elettroni spaiati in un orbitale di antilegame e tre coppie di legame; la differenza equivale a due legami covalenti , ma la situazione effettiva è del tutto diversa.

L’ossigeno tripletto è un esempio molto intrigante di molecola biradicalica stabile, i due elettroni spaiati hanno lo stesso spin ½, e la molecola dunque presenta spin totale S=1. (ricordiamo ai lettori meno esperti che lo spin si origina dalle proprietà magnetiche delle particelle, è come se le particelle ruotassero su se stesse divenendo delle piccole calamite).

In questo stato la molecola non è particolarmente reattiva sebbene non sia affatto inerte. L’ossigeno tripletto è paramagnetico, cioè è debolmente attratto dai poli di un magnete. Questa interpretazione è stato uno dei successi della teoria dell’orbitale molecolare.

Lo stato superiore di energia, di norma poco popolato, ma comunque popolato è quello a S=0, denominato ossigeno singoletto; infatti se salta al livello superiore l’ossigeno conterrà adesso entrambi gli elettroni con spin opposto in un unico orbitale di antilegame; la situazione è adesso molto più reattiva, l’ossigeno singoletto, come si chiama, è pronto ad iniziare una catena di reazioni radicaliche.

       Singoletto 1                                           Singoletto   2                           Tripletto

In questo schema vediamo la struttura in termini di orbitali molecolari, a partire dal secondo livello; l’1s è uguale per tutti e non viene mostrato. Dai sei orbitali atomici 2p otteniamo 6 orbitali molecolari, 3 di legame e 3 di antilegame, di cui 4 a simmetria p e 2 a simmetria s.

L’ossigeno tripletto, lo stato fondamentale dell’ossigeno comune, la forma non reattiva o poco reattiva è a destra nello schema; mentre a sinistra vediamo due delle forme che la molecola può avere quando passa al primo stato eccitato; come si vede a destra lo spin è S=1, mentre a sinistra lo spin S=0.

La regola di Hund (in realtà ci sono tre regole, ma questa è la più importante), scoperta da Frederik Hund nel 1925 stabilisce che per una certa configurazione elettronica il termine con l’energia più bassa è quello con la maggiore molteplicità di spin dove la molteplicità è definita come 2S+1 dove S è lo spin totale; nel nostro caso dunque lo stato tripletto è a più bassa energia degli stati singoletti.

In questo stato due elettroni con il medesimo spin occupano due orbitali molecolari di antilegame a simmetria p. Attenzione ad immaginarveli; non potreste usare il classico salsicciotto, quello vale per quelli di legame, quelli di antilegame hanno il grosso della concentrazione “fuori” dalla zona interatomica, in altre parole tendono a tirar via i loro nuclei dal legame. Purtroppo la figura non rende giustizia a questa complessità.

Nei due stati eccitati i due elettroni hanno spin opposti ed occupano il medesimo orbitale oppure al massimo dell’energia due orbitali di antilegame.

Aggiungo per completezza che lo stato eccitato a sinistra, quello intermedio come energia, non è radicalico poichè i due elettroni occupano il medesimo orbitale. Questo gli consentirebbe di reagire come elettrofilo, o come un’acido di Lewis.

Come fanno a passare dallo stato fondamentale a quello eccitato? Qualcuno mi dirà: assorbendo un fotone di opportuna energia; risposta sbagliata. La transizione è proibita perchè lo spin è diverso e dunque la probabilità che il passaggio avvenga in questo modo, in caso di transizioni elettroniche è del tutto trascurabile; la simmetria della funzione d’onda non può cambiare in questo caso.

Per far avvenire la transizione occorre un intermedio che assorba energia dalla radiazione e la trasferisca alla molecola di ossigeno in uno dei modi permessi.

Adesso possiamo tornare alla questione della combustione.

La reazione di combustione è una reazione a catena alla quale partecipano molte diverse specie radicaliche; una reazione a catena comporta che durante la reazione gli intermedi di reazione vengano ricreati dalla reazione stessa ed in questo caso gli intermedi sono radicali.

Il fatto che la combustione richieda una alta energia per iniziare, ossia abbia bisogno di un iniziatore o di un innesco dipende proprio dalla situazione che abbiamo tratteggiato dell’ossigeno; ci vuole l’ossigeno singoletto, ma esso non si produce facilmente e il tripletto domina la scena. Le molecole di combustibile sono di solito a spin nullo, tutti gli atomi sono ben legati e non ci sono elettroni spaiati.

Nelle reazioni chimiche in genere la somma degli spin si conserva; qualcosa come l’equazione scritta qui sotto.

E allora come si fa?

Dato che partiamo da spin interi o nulli dobbiamo ritrovarci con spin interi o nulli; ma se accade così la reazione non sarà a catena oppure dovrà produrre due radicali alla volta (spin semiintero); o ancora dovrà essere, almeno all’inizio, una reazione che introduce due spin semininteri, staccando un atomo dalla molecola.

In genere si pensa che la reazione iniziale sia la “sottrazione” di un atomo di idrogeno da un combustibile da parte della molecola di ossigeno singoletto per dare un radicale idroperossido HOO. ; una volta formatosi questo può formare ulteriori perossidi o radicali idrossilici. Ecco dunque spiegata l’importanza di iniziatori radicalici o dell’innesco in temperatura.

Rispetto a questo processo le molecole a più alto contenuto energetico come i singoletti sono favorite, perché possono disporre di una quota di energia di attivazione più elevata.

Ma ecco anche spiegato allora il ruolo di quelle molecole che possono bloccare i radicali; gli scavenger radicalici che catturano i radicali o ne bloccano la formazione interrompono la catena della reazione e bloccano la combustione; non si tratta solo allora di sviluppare la CO2 nei millisecondi di riscaldamento disponibili, come vorrebbe l’ipotesi dello spostamento dell’ossigeno, ma di bloccare la catena radicalica. L’effetto di spostamento c’è ma non è così importante. Ma sia lo ione potassio che lo ione carbonato sono in grado di formare un radicale con potenti azioni in vari campi, sia biologici che inorganici: K. and CO3.-. Una ampia letteratura ne conferma il ruolo e l’esistenza. L’azione di questi radicali può spiegare bene la efficienza delle soluzioni di carbonato e di altri sali come agenti estinguenti di incendi nel loro stato iniziale. Non è ancora ben spiegato il ruolo della forma aerosol o comunque delle interfacce che si formano usando i vari dispositivi, ma probabilmente anche quello serve a bloccare la formazione della catena reattiva.

Un uso veramente inatteso della cenere: viene dal fuoco ma lo può anche bloccare. Guido Barone sarebbe stato soddisfatto, avrebbe detto la chimica ha due corni, la chimica è dialettica.

Riferimenti.

  1. Laing The three forms of molecular oxygen JCE 66, 6 (1989)

Scaricabile da:

https://www.uni-saarland.de/fileadmin/user_upload/Professoren/fr81_ProfJung/Laing89.pdf

https://www.nist.gov/sites/default/files/documents/el/fire_research/R0501578.pdf

https://www3.nd.edu/~pkamat/wikirad/pdf/spinchem.pdf

https://onlinelibrary.wiley.com/doi/full/10.1002/fam.1088

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/17505962

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/8021011