Cronache dalla Scuola Del Re

Mauro Icardi

Ho ricevuto l’invito a partecipare alla scuola Giuseppe Del Re dalla collega di redazione Margherita Venturi, da gennaio di quest’anno presidente della Divisione di Didattica della chimica. La scuola si è tenuta nel comune di San Miniato.

I ringraziamenti saranno (doverosamente) nella la parte finale di questo articolo. L’edizione di quest’anno è stata la quarta. Una scuola di didattica della chimica è un’esperienza che, tende ad accendere in me quella curiosità che mi accompagna praticamente da sempre. L’unico dubbio che ho avuto inizialmente era quello di capire cosa avrei potuto portare come contributo personale. Il tema di quest’anno era dedicato alle reazioni chimiche. Precisato che io di mestiere faccio il tecnico, e non il docente, ho pensato che poteva essere interessante parlare di reazioni che avvengono nelle vasche di ossidazione di un impianto di depurazione. Come ripeto da molti anni, una vasca di ossidazione può suscitare diversi tipi di impressione a chi la vede per la prima volta. Io normalmente tendo a ricordare che quella che si vede, non è solamente “una vasca piena di fango”, variamente agitato e mescolato. Ma che si tratta di un reattore biologico.

All’interno di questa vasca, una comunità di batteri, protozoi e microrganismi deve incaricarsi di mineralizzare sostanza organica, trasformandola in composti inorganici semplici, e di conseguenza depurare l’acqua reflua di risulta da insediamenti domestici, industriali e urbani. Chi si occupa di gestire il processo di trattamento deve occuparsi di gestire un reattore biologico, operazione che pone qualche limitazione. La prima relativa al tempo di ritenzione idraulico. Non sono molti gli impianti di depurazione che sono stati progettati e dotati di una vasca atta a smorzare sia le punte di carico organico influente, che quelle di variazione di portata idraulica. E l’effetto di queste variazioni va monitorato e gestito. Altro fattore importante è la temperatura del fango presente in vasca. Non è preimpostata, ma ha delle oscillazioni stagionali. Mediamente la temperatura invernale non scende sotto i 12°C, e quella estiva non supera i 20°C. L’aumento delle temperature che si sta verificando negli ultimi anni, in qualche caso ha portato ad avere temperature estive in ossidazione più alte, con un incremento massimo al momento di circa 3° C. Per quanto riguarda la gestione del processo una temperatura più elevata favorisce la velocità delle reazioni biochimiche, ma nello stesso tempo sfavorisce la dissoluzione dell’ossigeno in vasca, in accordo con la Legge di Henry.

Mi serviva per la scuola una dimostrazione effettuabile in Laboratorio chimico. Ho pensato quindi di mostrare la prima parte del processo di frazionamento del COD (chemical oxygen demand).

Il COD associato ad un’acqua reflua è costituito da vari apporti.

Materiale organico non biodegradabile,a sua volta ripartito in:

  • Materiale organico inerte solubile (SI), che, non partecipando né ai processi biologici né alla sedimentazione, transita immutato attraverso l’impianto;
  • Materiale organico inerte particolato (XI), che viene “intrappolato” nel fango attivo e rimosso mediante sedimentazione;

Materiale organico biodegradabile, a sua volta ripartito in:

Materiale organico rapidamente biodegradabile (SS) formato da molecole semplici che vengono assimilate dai batteri eterotrofi e usate per la formazione di nuova biomassa;

  • Materiale organico lentamente biodegradabile (XS), formato da molecole più complesse che devono essere idrolizzate in substrato rapidamente biodegradabile per essere utilizzate .

Suddividere il COD biodegradabile tra la frazione solubile biodegradabile e quella particolata biodegradabile su un’acqua reflua è un’operazione decisamente semplice. Basta infatti trattare il refluo con una soluzione di solfato di zinco e soda. Questo trattamento di flocculazione produce fiocchi compatti che si aggregano rapidamente e altrettanto rapidamente sedimentano. Esperienza che utilizzando un cilindro di vetro può riprodurre per esempio il funzionamento di un sedimentatore. Io ho eseguito questa operazione su un campione di acqua reflua proveniente dalla fase finale di trattamento di un impianto di depurazione. Mi serviva per puntualizzare alcuni concetti. Il campione che ho utilizzato aveva un COD residuo pari a 40 mg/L. Ma il precipitato che si è formato era ancora voluminoso. Le prove che ho eseguito in laboratorio prima dell’esperienza a San Miniato mostrano che la frazione di carbonio solubile ancora presente è pari 22 mg/lt pari al 55% del COD scaricato. Questa frazione è destinata ad essere ulteriormente mineralizzata dalla biomassa naturalmente presente nel corpo idrico ricettore. Questo ipotizzando un impianto privo di trattamento terziario di filtrazione o di trattamento su membrane. Situazione per altro ancora abbastanza diffusa. Ma messa in crisi dal cambiamento di regime delle precipitazioni piovose. Specialmente nei periodi estivi, la portata di alcuni fiumi subisce decisi cali di portata, se non anche situazioni di secca più o meno prolungate. Mettendo quindi in crisi questa filosofia costruttiva e progettuale. Cioè trovare il ragionevole punto d’incontro tra la rimozione della sostanza organica e degli inquinanti, e un costo di realizzazione dell’impianto non eccessivo. Le prove che ho eseguito in laboratorio prima dell’esperienza a San Miniato mostrano che la frazione di carbonio solubile ancora presente nel refluo testato è pari 22 mg/lt pari al 55% del COD scaricato. Frazione che può essere eliminata solo in condizioni normali di portata del corpo idrico ricettore. Oltre a questo la suddivisione della sostanza organica espressa come COD mostra anche le vie attraverso le quali i composti organici non biodegradabili rimangono nel flusso di acqua scaricata dagli impianti di depurazione (COD solubile inerte), o si accumulano nei fanghi di risulta (COD particolato inerte).

A corredo di questa esperienza non complicata, ma a mio parere significativa, ho voluto anche mostrare una operazione di condizionamento di fango biologico da sottoporre a successiva disidratazione.

Le operazioni per il trattamento delle acque che si svolgono in un impianto di depurazione sono certamente note (anzi arcinote) agli operatori. Ma spesso non conosciute dal pubblico dei non esperti. Quindi ho cercato di renderle in qualche modo meno sconosciute con esperimenti molto semplici.

Prima di chiudere con i ringraziamenti vorrei mostrare uno dei “giocattoli” che mi piacerebbe avere la possibilità di utilizzare

Il modello di depuratore didattico. Dimensioni contenute e pochi litri di acqua da trattare. Riproduzione schematica e semplice di una vasca di ossidazione con annesso sedimentatore.

Il tempo è sempre tiranno. Ma è un progetto su cui mi piacerebbe lavorare. Magari tentando l’autocostruzione.

A chiusura di questo articolo voglio ringraziare Margherita Venturi per avermi concesso l’opportunità di dare il mio piccolo contributo a questa edizione della scuola di didattica della chimica. Grazie all’Istituto Cattaneo per la messa adisposizione delle aule e del Laboratorio.

E tramite Margherita ringrazio anche tutti i partecipanti, le persone con cui ho potuto scambiare opinioni ed esperienze. Resto fermamente convinto che non sono gli esami che non finiscono mai, ma è la necessità di apprendere e studiare che va sempre coltivata. Con passione e costanza. I tre giorni sono stati intensi e densi di lavoro. Quindi un grazie, un riconoscimento anche e soprattutto al lavoro. Il lavoro di preparazione e organizzazione. Non è cosa da poco, e occorre ricordarlo. Ma il lavoro, i semi gettati sono l’auspicio di una crescita culturale, di un riportare l’insegnamento e (anche la ricerca) al centro di un futuro programma sia di investimenti, che di giusta considerazione. Io ero il non insegnante tra gli insegnanti. Ma non mi sono mai sentito estraneo.

Insegnare la chimica in inglese?

Enrico Prenesti*

Insegnare la chimica in inglese? La deriva anglofila dell’università e le sue conseguenze per docenti, studenti e cittadini italiani

Introduzione

Il momento storico-sociale nel quale ci troviamo è particolare – soprattutto per la velocità di cambiamento cui le persone sono sottoposte sul lavoro come nella vita privata – ma alcuni fenomeni che sembrano legati alla novità della globalizzazione si sono già visti nel corso della storia e ora, semplicemente, si ripresentano attualizzati rispetto ai mezzi impiegati per sostenerli e propagarli. Per quanto d’interesse specifico per l’area accademica, la globalizzazione include il fenomeno dell’anglicizzazione dell’università, con ossequio reverenziale ingravescente per la lingua e la cultura del mondo britannico o statunitense. Dopo aver minato la qualità della didattica con il passaggio da corsi di laurea a orientamento disciplinare a corsi di laurea a orientamento tematico, dopo aver frazionato i corsi di laurea in due cicli (salvo casi di lauree a ciclo unico) dilaga ora l’orientamento esterofilo dei corsi di laurea erogati in lingua inglese. Ormai da alcuni anni gli atenei italiani si sono organizzati per erogare interi corsi di laurea in lingua inglese, con l’aggravante che i docenti sono, nella stragrande maggioranza, madrelingua italiani con conoscenza della lingua inglese perlopiù autoreferenziale. Un’eccezione, in tal senso, è rappresentata da qualche raro docente madrelingua inglese, al quale è offerta una docenza temporanea a contratto, oppure da qualche individuo che rientra dall’estero dopo qualche esperienza tipicamente di ricerca scientifica. Dato lo sfinimento/svilimento finanziario degli atenei italiani, il fine dell’operazione menzionata è meramente mercantile, ovvero aumentare le iscrizioni – agendo su un bacino di utenza più ampio – e, quindi, le entrate.

L’anglofilia si manifesta in Italia in tantissimi ambiti e l’uso della terminologia inglese caratterizza svariate tipologie di ambienti. Purtroppo, gli italiani sono inguaribili esterofili, in tanti casi anche solo per adesione acritica a delle mode. Imitare è più comodo che impegnarsi per creare il proprio prodotto, il proprio prototipo di qualcosa da esibire con orgoglio e fierezza al mondo. Eppure, i riscontri mondiali della valentia italiana sono numerosi e distribuiti in tanti campi, incluso quello dell’istruzione, che vanta un’antica tradizione di eccellenza ancora oggi riconosciuta in tutto il mondo. Cesare Marchi (scrittore, giornalista e autore del libro “Impariamo l’italiano” [1]) rilevava che esterofilia e nazionalismo autarchico sono «le facce della stessa medaglia: l’inguaribile provincialismo. Il provinciale è un insicuro, che dubita della propria identità e si arrocca nella fortezza del nazionalismo xenofobo, oppure spalanca le porte a tutto ciò che viene da fuori». A quale fine dire (o scrivere) match per incontro, reporter per giornalista, team per squadra, step per passo, target per bersaglio, corner per angolo, ticket per biglietto, partner per compagno, endorsement per approvazione, commitment per impegno, performance per prestazione, ecc.? Per non parlare dei tanti anglismi (o anglicismi o inglesismi [2]) quali, implementare, settare, testare, monitorare, plottare, chattare, mixare, loggare, performante e via scrivendo. Per proseguire, infine, con gli sconclusionati connubi tra italiano e inglese: ne è un esempio il nome dato al sito web Verybello.it per promuovere gli eventi culturali italiani nel periodo dell’Expo2015. Qual è il vantaggio psicologico che le persone raggiungono con un tale comportamento linguistico? Il bisogno di distinguersi dagli altri? Il bisogno di ostentare cultura (o presunta tale)? Il bisogno di sentirsi cittadini del mondo? Il bisogno di allearsi con il più forte? Eppure, il mondo anglosassone ci deride: un articolo di Tom Kington, apparso su The Times il 19 ottobre 2016, era emblematicamente intitolato “Reinassance for the Italian language… everywhere but Italy”. In un articolo apparso su The New York Times, Beppe Severgnini [3] affronta l’interessante questione del turpiloquio e, nel contempo, dibatte sull’invasione di termini inglesi nella lingua italiana degli ultimi 30 anni. Giacomo Leopardi (linguista, oltre che poeta) già metteva in guardia dai barbarismi linguistici, ammettendo, tuttavia, l’uso di un vocabolo straniero quando non esisteva il corrispettivo italiano. L’autarchia lessicale è insensata tanto quanto l’esterofilia lessicale: entrambe le posizioni ostacolano lo scambio pacifico di idee imponendo spostamenti eccessivi di baricentro linguistico. Da un lato è ben noto che le lingue sono oggetti fluidi e mutevoli e risentono di diversi influssi e del cambiamento che caratterizza inevitabilmente l’umanità in evoluzione, dall’altro un risveglio di vigilanza sull’imposizione egemonica dell’inglese mi pare indispensabile. L’imposizione di una lingua diversa da quella in uso in un dato territorio è un atto di soggiogamento, perché sovverte la stabilità dei vinti imponendo la visione del mondo dei vincitori. Preservare il proprio patrimonio culturale e linguistico è opporsi con fierezza al pensiero unico omologante [4]: l’inglese, infatti, è una lingua di conquista, di dominio, parlata da un popolo esperto e consumato colonizzatore. Secondo Claude Hagège (linguista francese): «Una lingua non si sviluppa mai grazie alla ricchezza del suo vocabolario o alla complessità della sua grammatica, ma perché lo Stato che la utilizza è potente militarmente» e «Soltanto le persone poco informate pensano che una lingua serva unicamente a comunicare. Una lingua costituisce e rafforza una certa visione del mondo. L’imposizione dell’inglese è funzionale non solo a fini coloniali, ma equivale a imporre i propri valori». Dell’importanza rivestita dal fattore linguistico in una strategia di dominio politico era ben consapevole lo stesso Sir Winston Churchill, il quale dichiarò senza sottintesi (6 settembre 1943): «Il potere di dominare la lingua di un popolo offre guadagni di gran lunga superiori che non togliergli province e territori o schiacciarlo con lo sfruttamento. Gli imperi del futuro sono quelli della mente». Tale affermazione mostra competenza socio- e geopolitica entro la prospettiva storica, oltre a lucida e irriducibile spregiudicatezza. La lingua latina si diffuse in tutto l’impero romano: man mano che i Romani conquistavano nuove terre imponevano agli abitanti delle nazioni vinte l’uso del latino. Ancora, basta pensare allo spagnolo (pur nelle sue varianti) e al portoghese in Sud America, imposti dai conquistadores durante la colonizzazione delle Americhe dal XVI secolo.

Torre di Babele, dipinto di Pieter Bruegel del 1563

Forzare l’introduzione di una lingua straniera in settori chiave di un paese, quale è l’istruzione con i suoi corsi, significa agevolare l’intromissione di culture e poteri estranei alla tipicità e alla sovranità nazionale, rinunciando a diventare, invece, esportatori di cultura e di prodotti che sono espressione della creatività tipicamente italiana, riconosciuta e apprezzata in tutto il mondo. Si tratta, in sintesi, di un’operazione di svendita del Paese.

Lingua, diritti, istruzione e apprendimento

Non è solo questione di lingua, ma di cultura in generale. Tutte le lingue sono portatrici di cultura specifica, la lingua di istruzione non è mai neutra rispetto alla scelta dei contenuti. «Appare dunque evidente che nessuna lingua, per quanto eletta veicolo di comunicazione internazionale, può essere appresa al pari di un sistema segnaletico o di un codice artificiale, come quello della navigazione, ma deve essere insegnata secondo un approccio che ponga al centro del rapporto comunicativo e didattico tanto la vitalità della lingua quanto le peculiarità e le esigenze affettive e umane del soggetto in formazione» [5]. Nel 1999 la Conferenza generale dell’Unesco ha istituito per il 21 febbraio la Giornata internazionale della lingua madre, con «l’auspicio di una politica linguistica mondiale basata sul multilinguismo e garantita dall’accesso universale alle tecnologie informatiche» [6]; nel 2007 la Giornata internazionale della lingua madre è stata riconosciuta dall’Assemblea Generale dell’ONU.

Come la Confindustria vede la scuola e usa l’inglese.

Con la sigla L1 si indica la lingua nativa (o madre o materna o di acquisizione) dell’apprendente, qualunque altra lingua è generalmente indicata con la sigla L2. Secondo Heidi Dulay, Marina Burt e Stephen Krashen [7], con L2 si intende ogni lingua appresa in aggiunta alla propria lingua materna e usata come mezzo di comunicazione nel Paese in cui viene acquisita; una lingua appresa, di solito in un contesto scolastico, in un Paese in cui non serve come normale mezzo di comunicazione non è da considerarsi L2 ma lingua straniera. Il concetto stesso di lingua madre, e i diritti umani ad essa connessi, sono ancora oggetto di studio [8]. La modalità di apprendimento di una lingua diversa da quella nativa (diciamo, in generale, L2) è oggetto di molti studi. Un bambino, infatti, non incomincia mai ad apprendere la lingua materna studiando alfabeto o grammatica: tali procedure caratterizzano, invece, le prime fasi di apprendimento di L2. Mentre lo sviluppo di L1 ha inizio con l’uso libero e spontaneo del discorso, e culmina nella realizzazione consapevole delle forme linguistiche, in L2 lo sviluppo ha inizio con una realizzazione consapevole della lingua e culmina poi nel discorso. L’appropriazione di L1 avviene in modo inconsapevole e senza mediazione dell’intenzione e dell’impegno (quindi, senza sforzo), mentre l’apprendimento di L2 (salvo casi di crescita in contesto bilingue) richiede la mobilitazione di risorse cognitive e affettive che fanno capo allo sforzo guidato dalla motivazione. Pertanto: L1 è acquisita, L2 è appresa.

È centrale il fatto che l’apprendimento è strettamente connesso alla capacità di concettualizzazione e di astrazione che passano per pensiero e linguaggio [9]. In linguistica, l’ipotesi di Sapir-Whorf – altresì conosciuta come ipotesi della relatività linguistica – afferma che lo sviluppo cognitivo di ciascun essere umano è influenzato dalla lingua che parla. Siamo esseri linguistici, ovvero articolazione ontologica nel linguaggio. Secondo Rafael Echeverrìa (sociologo e filosofo cileno, fondatore dell’ontologia del linguaggio), il linguaggio è in se stesso azione: «Gli individui hanno la possibilità di creare se stessi attraverso il linguaggio. Nessuno è in una forma di essere data e immutabile che non permetta infinite modificazioni» [10]. Quindi, i migliori risultati di apprendimento delle discipline si ottengono con la lezione in L1. Erogando corsi in una lingua diversa da quella nativa, l’apprendimento disciplinare è a rischio, con conseguente diminuzione della qualità della didattica e, quindi, delle prospettive lavorative. Gli studenti che cadranno nella trappola dei curricula di studi in inglese (attratti da miraggi millantati da abili persuasori):

  • avranno minori possibilità di apprendere la chimica in modo approfondito (rispetto ai compagni che studiano in italiano) e, inoltre, individueranno con maggiori difficoltà i collegamenti esistenti tra i vari ambiti della scienza perché le lezioni, molto probabilmente erogate da docenti madrelingua italiani, perderanno di nitidezza e di profondità a scapito della scorrevolezza, dell’efficacia e dell’ampiezza di vedute resa possibile da una lezione fluida, appassionata, che esplora con accattivante destrezza gli stretti dintorni del tema in esposizione/dibattito;
  • incontreranno difficoltà ad argomentare la chimica in italiano e, quindi, porteranno un ridotto valore professionale in Italia;
  • perderanno l’opportunità di potenziare le loro competenze linguistiche di italiano e, quindi, di evolvere interiormente (sia per l’apprendimento disciplinare che per la capacità riflessiva e inferenziale che permette l’accesso allo sviluppo personale [9, 10]) e comunicativamente.

In seguito a un siffatto percorso di studi, gli studenti svilupperanno un modello mentale della chimica incompleto (comunque peggiore dell’attuale, già scadente rispetto a quello che ci si poteva formare con la laurea quinquennale) e saranno poco capaci di costruirsi modelli mentali plastici (scientifici o di altri ambiti) con i quali operare per affrontare e risolvere problematiche tecniche e sfide esistenziali [11]. In ogni caso, si può riconoscere un valore educativo al multilinguismo, ma l’adozione di una lingua straniera come veicolo linguistico unico nell’ambito dell’istruzione di un dato paese può solo produrre intralcio all’apprendimento con disorientamento degli studenti, appesantimento del lavoro dei docenti (con sollecito di abilità impreviste dalle condizioni di assunzione e dalla remunerazione) e disgregazione sociale e dovrebbe essere configurata tout court come vilipendio alla Repubblica. Certamente, si tratta di un’eccellente idea per chi volesse strumentalmente colpire l’istruzione italiana per promuovere l’ignoranza, con tutti i vantaggi di governabilità che ne possono derivare.

Comunicazione vs istruzione: università e lingua

La polarizzazione degli interessi delle università verso la ricerca scientifica (inclusa la valutazione dei docenti – anche in sede di reclutamento e avanzamento – basata quasi esclusivamente sulla produzione scientifica e i suoi dintorni stretti) sta conducendo a trascurare il diverso ruolo del linguaggio nei suoi campi d’azione. È innegabile che la lingua inglese abbia saputo imporsi nel mondo come lingua franca (o lingua veicolare), cioè come lingua passe-partout che permette la comunicazione tra parlanti di diversa nazionalità. Impiegare l’inglese come lingua di istruzione unica tra studenti e docenti madrelingua italiani, però, significa ignorare i concetti di linguistica, neuroscienze, antropologia, psicopedagogia e pedagogia interculturale che riferiscono dell’importanza della lingua materna nel processo educativo e di apprendimento delle discipline. Insegnare una disciplina in una lingua diversa dalla propria nel proprio Paese non è un cambiamento di prassi didattica ma è il sovvertimento di un paradigma e rappresenta un inganno per gli studenti italiani, poiché comporta una deriva al ribasso dell’apprendimento disciplinare e culturale in genere, tanto più in un momento in cui si è abbassata la competenza linguistica sull’italiano. Sostiene l’uso dell’inglese nell’istruzione chi ignora le relazioni esistenti tra lingua e apprendimento e, in generale, i fondamenti della psicopedagogia.

L’impegno linguistico è diverso se si considera la comunicazione tra pari che impiegano una lingua veicolare (come è nel caso dell’uso dell’inglese su riviste scientifiche o nei congressi internazionali) oppure il processo di insegnamento-apprendimento, nel quale il discente è sollecitato all’uso di risorse cognitive e affettive che risultano potenziate dalla lingua materna e depotenziate da altri linguaggi. Una cosa è parlare tra esperti per condividere un concetto, un’altra è spiegare a dei novizi per guidare l’apprendimento di un concetto. Il miglior metodo didattico è quello che mira a riprodurre e assecondare i percorsi di apprendimento spontanei; in tal senso, è noto dalla letteratura biologica [12] e psicopedagogica che la competenza linguistica può realizzarsi pienamente solo se l’apprendimento di una data lingua abbia luogo prima della pubertà: ciò implica che l’inglese – se gli si vuole riconoscere il ruolo di lingua passe-partout nell’istruzione italiana – va appreso entro la scuola dell’obbligo. Chi arriva a studiare all’università l’inglese lo deve già conoscere e padroneggiare, mentre la lingua di istruzione nei corsi di insegnamento accademici italiani deve essere l’italiano.

Agevolare lo scambio di idee e di persone a livello mondiale può essere un obiettivo condivisibile, nondimeno l’operazione che porta a identificare l’internazionalizzazione degli atenei con l’erogazione in inglese dei relativi corsi di insegnamento è frutto di un’interpretazione discutibile e animata da preconcetti estranei all’equazione dell’apprendimento. Da capire se la radice di tale interpretazione sta:

  • nell’assenza di volontà di procurarsi la documentazione bibliografica di linguistica, psicopedagogia e neuroscienze, di studiarla, di capirla e di usarla per assumere decisioni fondate (con quello che costa l’attuale mastodontica produzione scientifica, qualcosa di pertinente si potrebbe anche leggere (e capire), prima di imporre modifiche epocali (e nocive) di impostazione);
  • nell’imitazione acritica di comportamenti adottati da altri e ritenuti non già utili ma inevitabili;
  • nella necessità di aumentare le iscrizioni di studenti – con un’offerta formativa appetibile anche per studenti stranieri – per il bene delle finanze e, quindi, dei bilanci.

In generale, quindi, si tratta di capire se si lavora per l’apprendimento delle discipline o per l’aumento del numero di immatricolazioni (al quale può essere connessa la sopravvivenza di un’istituzione nel momento in cui si lasci mano libera al liberismo economico a tutto tondo, con annullamento progressivo della funzione super partes dell’istituzione pubblica). Docenti madrelingua italiani che insegnano le più disparate materie in inglese a studenti italiani e/o a studenti stranieri (di diversa madrelingua nella stessa aula) rappresentano il prodotto di chi si presta al proposito degli atenei di far cassa esibendo una facciata di apertura multiculturale verso il mondo.

Aspetti giuridici

Dal tempo della legge 240/2010 (c.d. legge Gelmini) sul riordino del comparto universitario, controversie legali sul tema dell’inglese in università infiammano questo scenario conflittuale, con coinvolgimento di TAR nel 2013 («È una soluzione che marginalizza l’italiano. Obbligare studenti e docenti a cambiare lingua è lesivo della loro libertà») [13], del Consiglio di Stato («L’attivazione generalizzata ed esclusiva di corsi in lingua straniera, non appare manifestamente congruente, innanzitutto, con l’articolo 33 della Costituzione») [14] e della Corte costituzionale nel 2017 («L’obiettivo dell’internazionalizzazione […] deve essere soddisfatto […] senza pregiudicare i principî costituzionali del primato della lingua italiana, della parità nell’accesso all’istruzione universitaria e della libertà d’insegnamento») [15]. Scontri di opinioni stanno animando tribunali, articoli di giornali e riviste, libri [16], convegni e petizioni. La sentenza definitiva del Consiglio di Stato del 2018 ha confermato la sentenza del Tar Lombardia n. 1348/2013 [13] e ha bocciato la decisione del Politecnico di Milano (promotore, dal maggio 2012, dell’internazionalizzazione degli atenei attraverso i corsi universitari erogati solo in inglese) di organizzare, nella sola lingua inglese, interi corsi di laurea magistrale e di dottorato di ricerca. Sono ora ammessi i corsi in inglese solo se affiancati dai corrispondenti in italiano. In ogni caso, occorre vigilare e procedere con riflessioni e azioni, poiché il fenomeno dell’intromissione della lingua inglese nell’istruzione italiana è oncogeno e metastatico: negli ultimi concorsi per insegnanti, dalla scuola materna alla superiore, è richiesta la certificazione B2 di inglese e questo è un segnale di degrado del tessuto linguistico e culturale in genere di questo Paese (per quanto esista una visione costruttiva e innocente di questa richiesta, se la si pensa in chiave di generale potenziamento culturale dei futuri docenti operanti in una società liquida [17] e ad alta mobilità). Inoltre, a livello universitario molti libri sono scritti in inglese senza un valido corrispettivo in italiano, questo anche perché scrivere libri di testo è un’attività didattica e l’impegno speso su tale fronte non è conteggiato per la valutazione dei docenti universitari italiani, e questo polarizza il loro impegno sul versante della ricerca scientifica (progettualità, reperimento fondi e, soprattutto, redazione di articoli scientifici per accrescere il proprio archivio di pubblicazioni, vera moneta della sopravvivenza accademica odierna) [18].

Atenei e internazionalità

L’inglese che si parla nel mondo ha poco a che spartire con quello delle élite londinesi, è un inglese di comodo, semplificato, che qualcuno denomina, non a caso, globish (dalla fusione delle parole globe e english): questo circola principalmente nelle aule universitarie italiane, non l’inglese. Per gli studenti stranieri che si vogliono istruire in Italia, poi, ci sono le università per stranieri (con varie sedi). Inoltre, uno studente straniero che scegliesse di frequentare l’università in Italia dovrebbe comunque apprendere l’italiano per integrarsi nel Paese; se non lo facesse si ritroverebbe socialmente isolato fuori dalle aule universitarie e, soprattutto, perderebbe gran parte dell’esperienza di crescita psicosociale e socioculturale connessa alla sua scelta di studi. Inoltre, non è scontato che uno studente straniero non madrelingua inglese preferisca una lezione in inglese (ovvero in globish, da un docente madrelingua italiano) a una in italiano: francofoni e ispanofoni, per esempio, potrebbero di gran lunga preferire l’italiano.

L’obiettivo dell’internazionalità è perseguito dagli atenei italiani ormai da vari anni, secondo modi improvvisati – didatticamente e pedagogicamente infondati – e scopi sociopolitici discutibili. Si rende oggi indispensabile lavorare per addivenire a un modello ecologico di internazionalizzazione degli atenei che preservi il primato della lingua italiana evitando l’operazione che porta a identificare l’internazionalizzazione degli atenei con l’erogazione in inglese dei relativi corsi di insegnamento. L’internazionalizzazione potrà essere declinata con esperienze di studio all’estero, che hanno il vantaggio di aprire le menti al cosmopolitismo, all’incontro, all’accoglienza delle diversità; se, però, resta centrale l’acquisizione della lingua inglese, coerenza vuole che solo i Paesi anglofoni siano considerati idonei a tale scopo, diversamente l’apprendimento soffrirà di un medium linguistico scadente.

L’insegnamento accademico si sta riducendo a un mero atto di trasferimento di informazioni e di tecnicismi (soprattutto nelle lauree di primo livello, fondate su un modello operazionale del sapere), con predilezione per gli aspetti procedurali a svantaggio di quelli concettuali; aggiungere a ciò l’introduzione dell’inglese nelle lezioni implica velocizzare il processo di scadimento di qualità della didattica a svantaggio degli studenti e di tutta la società entro la quale agiranno come laureati. Erogare insegnamenti universitari in inglese per aiutare i giovani a trovare lavoro all’estero (tale formula è molto usata dalla propaganda dei vertici accademici italiani), poi, implica aver rinunciato a risanare il mercato italiano del lavoro e condannare all’emigrazione i costosi e, talora, qualificati prodotti dell’istruzione pubblica italiana. Si tratta di un programma di smantellamento, svuotamento e impoverimento del Paese: entro un tale sciagurato paradigma, infatti, basato sullo sciupio degli investimenti e delle risorse umane, chi ha studiato in Italia a spese dei contribuenti italiani renderà i suoi servigi lavorativi in paesi stranieri, che ne usufruiranno e beneficeranno a costo zero, e questo è semplicemente autolesionistico.

Conclusioni

È innegabile che la lingua inglese abbia saputo imporsi nel mondo come lingua franca. Livellare nella lingua, però, non è favorire scambi di merci e circolazione di persone, non è agire per il bene del globo ma per accrescere l’appiattimento e l’asservimento nella gleba con il fine di semplificare le metodologie di detenzione del potere su scala mondiale, a fronte di tecnologie che agevolano la circolazione di informazioni nel mondo che minano la tenuta dei regimi dominanti. È pressoché impossibile dimenticare che l’inglese è lingua egemone per ragioni politiche e ci si mostrerebbe decisamente ingenui a ignorarlo come dato di fatto. Tuttavia, come ha scritto Claudio Magris, «La proposta di rendere obbligatorio l’insegnamento universitario in inglese rivela una mentalità servile, un complesso di servi che considerano degno di stima solo lo stile dei padroni» [19]. Ora, anche alla luce del recentissimo orientamento giuridico espresso dal Consiglio di Stato, mi auguro (ma già le dichiarazione del rettore del Politecnico di Milano, Ferruccio Resta, sono nel segno opposto) che le conventicole di potere ai vertici degli atenei italiani siano capaci di rivedere le loro decisioni in materia di istruzione e lingua e, soprattutto, di revisionare i pilastri della loro mentalità servile, gregaria e antipatriottica la quale, agita su larga scala, assoggetta il Paese a poteri forti e lo espone alla predazione e al disfacimento.

Il fondamento di una civiltà non è la scienza, è l’educazione, [20-22] e dall’educazione muove l’istruzione, che è veicolata dal linguaggio, vettore della storia e dell’identità di una comunità nazionale. La lingua è il fondamento di una civiltà, è il collante che tiene insieme un popolo, è la prima arma che si sfodera in un conflitto, preservarla e promuoverla con orgoglio è un dovere di tutti, dei docenti universitari di più.

Infine – partendo dai tanti reati impuniti che sono commessi di prepotenza nelle pieghe delle leggi e con l’ignavia, la distrazione o l’ignoranza della maggior parte dei soggetti coinvolti -, ricordo che:

  • il Regio Decreto 31 agosto 1933, n. 15924 (Testo Unico delle leggi sull’istruzione superiore), art. 271 (Capo I – Disposizioni Generali, al Titolo IV – Disposizioni generali, finali, speciali e transitorie), recita: «La lingua italiana è la lingua ufficiale dell’insegnamento e degli esami in tutti gli stabilimenti universitari» (nota: il decreto del Rettore del Politecnico di Milano del 2011, ordinava l’avvio in inglese di tutti i corsi locali di laurea magistrale in piena inottemperanza della legge);
  • l’articolo 33, 1º comma, della Costituzione Italiana sancisce che: «L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento» (nota: nessuno può costringere un docente italiano a tenere una lezione in una lingua che non è la sua nativa);
  • la legge 15 dicembre 1999, n. 482 (“Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche”) stabilisce (art. 1): 1. «La lingua ufficiale della Repubblica è l’italiano. 2. La Repubblica, che valorizza il patrimonio linguistico e culturale della lingua italiana, promuove altresì la valorizzazione delle lingue e delle culture tutelate dalla presente legge»;
  • il riconoscimento esplicito dell’italiano come lingua ufficiale della Repubblica non è sancito dalla Costituzione ma è comunque espresso nello Statuto del Trentino-Alto Adige (art. 99: «Nella regione la lingua tedesca è parificata a quella italiana che è la lingua ufficiale dello Stato. La lingua italiana fa testo negli atti aventi carattere legislativo e nei casi nei quali dal presente Statuto è prevista la redazione bilingue») che, formalmente, è una legge costituzionale dello Stato Italiano.

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*Enrico Prenesti si è laureato in chimica nel 1991 e ha conseguito il Dottorato di ricerca in Scienze Chimiche presso l’Università degli Studi di Torino, dove ricopre oggi il ruolo di professore associato di Chimica dell’ambiente e dei beni culturali. Tiene diversi insegnamenti relativi al suo settore, alla chimica degli alimenti e alla qualità. I temi di ricerca scientifica riguardano lo sviluppo di modelli di simulazione relativi agli equilibri chimici in soluzione, ai biomateriali funzionalizzati nonché alla chimica clinica e bromatologica. Si occupa, inoltre, di qualità, di didattica, di divulgazione scientifica e di sviluppo personale.

Bibliografia

[1] Cesare Marchi, “Impariamo l’italiano”, Biblioteca Universale Rizzoli, 1990

[2] Tullio De Mauro, “È irresistibile l’ascesa degli anglismi?”, Internazionale, luglio 2016

[3] Beppe Severgnini, “Swearing, Italian Style”, The New York Times, 15 febbraio 2017

[4] Robert Phillipson, “Myths and realities of ‘global’ English”, Lang Policy, 2016

[5] Patrizia Mazzotta, “Sulla questione dell’inglese come lingua franca”, Scuola e Lingue Moderne, Garzanti Scuola, 5, 2001, pp. 12-16

[6] http://www.unric.org/it/attualita/15143

[7] Heidi C. Dulay, Marina K. Burt, Stephen D. Krashen, “Language two”, Oxford University Press, 1982

[8] Tove Skutnabb-Kangas, “Linguistic Genocide in Education – or Worldwide Diversity and Human Rights?”, Taylor & Francis, 2000

[9] Lev S. Vygotskij, “Pensiero e linguaggio”, Laterza, 2008

[10] Rafael Echeverrìa, “Ontología del Lenguaje”, J. C. Saez Editor, 2003

[11] Jeremy Holmes, “La teoria dell’attaccamento. John Bowlby e la sua scuola”. Raffaello Cortina Editore, 2017

[12] Eric Lenneberg, “Fondamenti biologici del linguaggio”, Bollati Boringhieri, 1982

[13] TAR Lombardia, sentenza del 23/05/2013 n. 1348/2013

[14] Ordinanza del Consiglio di Stato del 22/01/2015

[15] Sentenza n. 42 del 2017 della Corte Costituzionale (depositata in Cancelleria il 24/02/2017)

[16] Maria Luisa Villa, “L’inglese non basta. Una lingua per la società”, Mondadori Bruno editore, 2013

[17] Zygmunt Bauman, “Liquid modernity, Cambridge (UK), 2000

[18] Enrico Prenesti, “Le distorsioni della ricerca scientifica attuale: variabili, conseguenze, responsabilità e rimedi”, La chimica e l’industria Web, 3(1), gennaio 2016

[19] Claudio Magris, “L’università in inglese pericolo per l’italiano” (L’uso delle lingue straniere va promosso ma senza rinunciare alla nostra identità), Corriere della sera, luglio 2012

[20] Avram Noam Chomsky, Heinz Dieterich, “La società globale. Educazione, mercato e democrazia”, La Piccola editore, 1997

[21] Avram Noam Chomsky, “Democrazia e istruzione. Non c’è libertà senza l’educazione”, EdUP editore, 2005

[22] Enrico Prenesti, “Sapere per essere. Dizionario di crescita personale”, Aracne editore, 2017

Il calorico è solo un inutile idea del passato. O no?

Claudio Della Volpe

Forse vi scandalizzerò, ma il mio primo approccio con la termodinamica è stato di delusione. Delusione per non tener fede al suo nome: termodinamica; dinamica del calore; ma dove è la dinamica in una situazione in cui l’oggetto dello studio sono gli equilibri, anzi l’equilibrio, una situazione fisica del tutto ipotetica e che si realizza solo parzialmente in particolari condizioni. E la dinamica che fine ha fatto? Questo mi sono chiesto per un po’.

E badate non sono il solo ad essersi posto questo problema apparentemente metafisico; me ne sono reso conto mentre studiavo per l’esame di Chimica Fisica. Nella Napoli del 1971, studente del terzo anno, avevo come insegnante il mitico Vincenzo Vitagliano (con cui ho poi collaborato per qualche anno da ricercatore); Vincenzo è un ricercatore in gamba, ma consentitemi di confessare che come insegnante era difficile da seguire. Io preferivo leggere i libri da solo e spulciando spulciando mi ero guardato il testo consigliato da lui “Lewis e Randall”(Lewis and Randall, Thermodynamics, nella revisione di Pitzer e Brewer ed. Wiley 1970), un testo ormai datato, ampio, classico, discorsivo che spesso sui punti chiave mi sembrava nicchiasse. Bello ampio, pieno di informazioni, ma dispersivo, e a volte anche vago, non mi era piaciuto. C’erano molti esercizi, questo si, ma mi sembrava fosse sfuggente in certe cose; so che non tutti saranno d’accordo.

Ho già trattato il tema dell’insegnamento della termodinamica. In particolare in un precedente gruppo di post (cercate nel blog “quanto è chimico il potenziale chimico” *) ho affrontato il tema di come presentare il potenziale chimico. Il potenziale chimico insieme con l’entropia si presenta come il concetto più astratto e difficile da presentare a tutti i livelli.

L’entropia è un classico dell’astrazione e della difficoltà formale; allo studente universitario che ha da poco superato l’apprendimento del calcolo differenziale ed integrale si apre uno scenario ancora più complesso con l’introduzione dei differenziali incompleti o non esatti, le famigerate (ma come vedremo non troppo) grandezze di processo, calore e lavoro; nella maggior parte dei casi questo concetto rimarrà un punto oscuro.

Ma è necessario un così astratto trattamento dell’entropia?

Ci sono varie soluzioni al problema:

1) l’approccio di Callen; è un approccio ancora molto formale, ma nel quale almeno la parte matematica viene chiarita e formalmente strutturata; le proprietà matematiche delle funzioni vengono introdotte usando essenzialmente il calcolo differenziale tradizionale; alcuni aspetti, come l’importanza della proprietà di omogeneità del primo ordine** (in pratica il modo matematico di introdurre le grandezze estensive (omogenee del primo ordine) e di differenziarle da quelle intensive (omogenee di ordine zero)) che non sono assolutamente presenti nel trattamento storico vengono introdotti e ben fondati, così come la relazione formale fra le varie funzioni (le funzioni tradizionali, entalpia, energia libera, etc. introdotte come trasformate di Legendre dell’energia o dell’entropia, dunque sostituendo ad una o più variabili estensive alcune variabili intensive, come hamiltoniano e laplaciano in meccanica). Il libro è molto ben scritto, anche se denso e compatto, analizza le questioni della stabilità dei sistemi e nella sua seconda edizione si estende alle proprietà di simmetria, al teorema di Noether perfino, ma anche per esempio ad argomenti tabù in certi settori di ricerca come il criterio endoreversibile per le macchine termiche, un approccio che tenta di superare ancora una volta l’astrattezza del teorema di Carnot sull’efficienza usando una geniale idea: la irreversibilità nei processi termomeccanici è essenzialmente concentrata nei salti termici, non nel dispositivo meccanico che, specie quando usato alla massima potenza, può essere assimilato ad un dispositivo ideale. In questo modo ed applicando un semplice criterio di linearità nello scambio di calore fra sorgente e macchina termica, i valori effettivi di efficienza delle macchine termiche diventano calcolabili senza modellazioni sofisticate e complesse. In fisica tecnica la cosa non ha avuto successo, ma non me ne meraviglio, gli ingegneri sono (in genere) sostanzialmente conservatori, più attenti alle applicazioni che ai principi. Herbert Callen, Termodinamica, pubblicato negli anni 60 è diventato con lenta sicurezza un classico.

Il libro aveva un sottotitolo: “an introduction to the physical theories of equilibrium thermostatics and irreversible thermodynamics”.

Questa cosa mi predispose bene; era un libro scritto da uno che si era posto il mio stesso problema!

(un breve riassunto del Callen lo trovate in J. Non-Newtonian Fluid Mech. 96 (2001) 5–17 Equilibrium thermodynamics — Callen’s postulational approach Robert J.J. Jongschaap, Hans Christian Öttinger)

2) l’approccio di Prigogine; qua si va verso lo scandalo; Prigogine introduce il tempo fin dall’inizio, non ci sono grandezze di stato e di processo, i differenziali sono tutti esatti; il calore o il lavoro corrispondono semplicemente all’energia termica o meccanica trasferita nell’unità di tempo; e dunque la legge del trasferimento termico o la potenza meccanica vengono usate per esprimere queste grandezze; la differenza fra reversibilità ed irreversibilità è chiarita secondo me in modo trasparente; il libro originale di Prigogine e Kondepudi (MODERN THERMODYNAMICS From Heat Engines to Dissipative Structures, Wiley 1988)e anche la seconda edizione (INTRODUCTION TO MODERN THERMODYNAMICS, Kondepudi, 2008 ed Wiley) scritta dal solo Kondepudi (che è l’autore fra l’altro di un bel lavoro sulla rottura di simmetria nei sistemi chimici, con l’esempio di come la semplice agitazione in un sistema sovrasaturo di clorato di sodio può catalizzare la formazione di cristalli di un solo tipo chirale, Kondepudi, D. K., Kaufman, R. J. & Singh, N. (1990). “Chiral Symmetry Breaking in Sodium Chlorate Crystallization”. Science 250: 975-976), tuttavia presentano un elevato numero di errori di stampa che ne indeboliscono e rendono difficoltoso l’uso (i segni sbagliati possono essere micidiali) ; ma se corretti (e spero lo siano stati nelle ristampe successive) comunque questi libri sono molto utili nel superare la assurda dicotomia fra processi di equilibrio e di non equilibrio.

3)La terza soluzione è la più recente e per me anche la più stimolante; si tratta della scuola tedesca, Hermann e Fuchs in particolare; teniamo presente che i tedeschi hanno conservato una tradizione incredibile nella quale la didattica della fisica è non solo studiata come disciplina a parte, ma è basata su centri di eccellenza e gruppi di ricerca che ne fanno una disciplina viva; i fisici hanno questa tradizione in tutto il mondo, ma in certi paesi più che in altri; noi chimici dovremmo imparare da loro e non considerare chi studia la didattica uno studioso di serie b: al contrario insegnare bene le cose necessita non solo di averle ben capite ma anche di riuscire a comprendere come insegnarle: scienza e pedagogia. Nel caso della termodinamica stiamo parlando di libri come quello recente di Hans U. Fuchs. The dynamics of heat (sottotitolo: A unified approach to thermodynamics and heat transfer) ed. Springer, 2010.

Qua si parte dall’idea di dare una visione unificata della meccanica, dell’elettricità e della termodinamica basata sulle “grandezze che fluiscono”, la quantità di moto, la carica, il calore; si dimostra che da questo punto di vista le varie discipline fisiche usano il medesimo approccio concettuale e arrivano perfino a scrivere le stesse relazioni matematiche.

La scuola tedesca in questo caso arriva ad una conclusione importante: la entropia di oggi non è altro che il calorico di due secoli fa.

Mentre il libro di Fuchs è massiccio, quasi 700 pagine, vi consiglio, se volete entrare in questo punto di vista un articoletto tutto sommato datato (G. Falk, Entropy, a resurrection of caloric, Eur. J. Phys (1985)108-115).

L’idea che il vecchio calorico fosse in realtà una concezione sbagliata del calore ma una molto precisa dell’entropia non è nuova.

Nel 1911 H.L. Callendar (padre del Guy Callendar che per primo rese quantitativa l’dea del ruolo serra del diossido di carbonio antropogenico e di altri gas) nella cerimonia con cui accettava la prestigiosa carica di presidente della società inglese di Fisica (Proc. Phys. Soc London, 23, 153-189) arrivò essenzialmente alla medesima conclusione, che Carnot cioè avesse sviluppato in realtà sulla base del calorico una visione moderna ed aggiornata, solo che stava chiamando calorico l’entropia. Analogamente K. Schreber, che tradusse in tedesco nel 1926 il lavoro di Clapeyron del 1834 con cui illustrava per la prima volta i risultati del defunto Carnot (Clapeyron E. 1834, J. de l’Ecole polytechnique 14) scriveva (Ostwalds Klassiker 216, 41) che gli sarebbe sembrato meglio usare il termine entropia invece che calorico nella presentazione del lavoro di Carnot e che questo avrebbe ridotto le differenze fra le idee di Carnot e quelle moderne nell’analisi dei processi termici.

Occorre sostituire il calore non con un differenziale inesatto, ma con il corrispondente flusso entropico.

Carnot non aveva l’idea dell’energia; non a caso il suo libro più famoso si chiama: Riflessioni sulla potenza motrice del fuoco, il termine energia non compare nelle sue riflessioni. Fu solo dopo il 1840 che la scoperta di Mayers e Joule della conservazione dell’energia cambiò le cose. Il calorico non si conservava se non a metà, poteva essere prodotto ma non poteva essere distrutto, solo scambiato. Lavorando in condizioni adiabatiche si può dimostrare che esso viene prodotto, ma non può essere distrutto. Gli esperimenti a riguardo sono suggestivi e quella linea di ricerca è stata poi completamente cambiata dall’uso del concetto di energia. Chi ricorda più oggi il tentativo di Davy (On Heat, Light and Combinations of Light,” 1799) di dimostrare che strisciando due pezzi di ghiaccio fra di loro a zero gradi si ottiene fusione del ghiaccio? Chi ricorda più la lampada pneumatica? Ossia la accensione di un pezzo di stoffa ottenuto in un cilindro trasparente di vetro tramite la compressione dell’aria contenuta con un pistone scorrevole? Si tenga infine presente che il calorico era a sua volta diviso in due tipologie: libero, legato alla temperatura e legato, connesso ad altre transizioni.

La questione fondamentale può esser posta così: nell’approccio di Carnot il calorico è una forma di energia?

Noi oggi diciamo che la variazione di energia interna di un corpo è data dalla somma di calore più lavoro; e dunque anche se lo consideriamo una grandezza di processo diamo al calore le stesse unità di misura dell’energia.

Ma ragioniamo con un approccio da calorico, consideriamo questo fluido immaginario, ma non più della carica elettrica o della quantità di moto.

Paragoniamo tre processi: accelerare una pietra, caricarla elettricamente e riscaldarla; nel primo cediamo quantità di moto alla pietra ed essa viene accelerata; nel secondo ancora più chiaramente se carichiamo elettricamente la pietra, la sua energia aumenta ma noi le abbiamo introdotto della carica elettrica che ovviamente non è energia.

Se cediamo calorico alla pietra essa si riscalda; in tutti i casi la sua energia aumenta, ma nel primo abbiamo ceduto momento e nel secondo carica, nel terzo calorico e come il momento o la carica elettrica non sono energia così non lo è il calorico.

Un altro modo di comprendere la cosa è paragonare il flusso di massa in un salto di potenziale e quello di calorico nel produrre energia; nel primo caso l’energia è proporzionale al potenziale gravitazionale gh secondo la massa, W= m(gh1-gh2); nel caso del calorico il fluido o la grandezza estensiva è il calorico stesso e il potenziale la differenza di temperatura: W=q*(T1-T2); ma questa equazione equivale a considerare che le dimensioni del calorico q* siano q/T, ossia un’entropia (si veda anche Eur. J. Phys. 30 (2009) 713–728 -Carnot to Clausius: caloric to entropy, Ronald Newburgh).

Il fluido che Carnot avrebbe immaginato di cedere alla pietra è nient’altro che l’odierna entropia.

Insomma una unica intuizione, una unica descrizione concettuale per proprietà meccaniche, termiche od elettriche aiuta a meglio comprendere il comportamento dei sistemi e chiarisce che il vecchio calorico non era un modello sbagliato di calore ma un modello, sia pur primitivo, e certamente originale ed avanzato per i suoi tempi, di entropia.

Qualcuno oggi tenta di riutilizzare a scopo didattico questo modello concettuale. Pensiamoci.

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* https://ilblogdellasci.wordpress.com/2013/10/10/quanto-e-chimico-il-potenziale-chimico-1-parte/

https://ilblogdellasci.wordpress.com/2013/10/17/quanto-e-chimico-il-potenziale-chimico-2-parte/

https://ilblogdellasci.wordpress.com/2013/10/25/quanto-e-chimico-il-potenziale-chimico-3-parte/

https://ilblogdellasci.wordpress.com/2014/04/28/quanto-e-chimico-il-potenziale-chimico-iv/

https://ilblogdellasci.wordpress.com/2014/06/17/quanto-e-chimico-il-potenziale-chimico-v/

**omogeneità del primo ordine equivale a dire che se in una funzione U(S,V,N) moltiplico per una costante a ciascuna variabile indipendente allora tutta la funzione U viene moltiplicata per la medesima variabile, a1; aU= U(aS,aV,aN), U è estensiva; il primo ordine è l’esponente della a; ordine zero vuol dire che se faccio lo stesso per una funzione poniamo T(S,V,N), allora la funzione rimane moltiplicata per a0 e dunque non cambia valore, T è intensiva. T=T(aS,aV,aN).

 

Dal macro al micro attraverso il simbolico

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Silvana Saiello

E’ noto da tempo che l’apprendimento dei concetti scientifici passa attraverso la conoscenza delle relazioni tra i tre aspetti , macro, sub-micro e simbolico, come è sottolineato da A.H. Johnstone fin dal 1991 e come è ripreso in quasi tutte le overview sul argomento http://www.rsc.org/images/AHJ%20overview%20final_tcm18-52107.pdf

Slide1La mancanza di attenzione alla collocazione di un concetto chimico al interno di ciascuno di questi tre livelli crea troppo spesso confusione nella testa degli studenti.

E’ per questo che ho scelto di condividere questo problema con alcuni insegnanti della Scuola nel corso della progettazione comune di un piccolo pezzetto di percorso formativo che realizzeranno nelle loro classi con il tutoring di alcuni docenti universitari.

La parte finale di questo percorso può essere sintetizzato con la frase:

” Dal macro al sub-micro attraverso il simbolico”

Il punto di partenza sono le leggi fondamentali della Chimica e il concetto operativo di Sostanza elementare

Un racconto a cui gli studenti possono/devono credere è quello che i primi Chimici provavano a trasformare la materia in maniera controllata. Osservavano con attenzione i risultati delle loro trasformazioni sia dal punto di vista delle proprietà delle sostanze che manipolavano sia dal punto di vista delle quantità di sostanza che si trasformavano e le quantità di sostanza che riuscivano ad ottenere.

I Chimici di un tempo lavoravano su sostanze di cui riconoscevano le proprietà e che si trasformavano in sostanze con proprietà completamente diverse.

Accadeva anche di trasformare un’unica sostanza in due sostanze completamente diverse che, a loro volta, potevano essere trasformate di nuovo nella sostanza che le aveva generate.

Una Cosa diventa Due Cose, Due Cose diventano Una Cosa … è questa la vera Magia della Chimica!

E’ ovvio che la curiosità spingeva a verificare fin dove era possibile realizzare questa “Magia”.

E da qui che si riuscì a mettere in evidenza che c’erano sostanze che non si riusciva a trasformare in alcun modo in Due Cose diverse.

Queste sostanze speciali sono le Sostanze Elementari.

Se guardiamo con una certa attenzione i numeri relativi alle trasformazioni di due sostanze elementari in una sostanza composta arriviamo dritti dritti a fare l’ipotesi che gli atomi esistono.

Non racconterò qui il “ragionamento numerico”, ma mostrerò come l’ipotesi che gli atomi esistono applicata alle relazioni numeriche che riassumono le leggi con cui avvengono le trasformazioni di sostanze in altre sostanze (le leggi fondamentali della Chimica) conduce al significato di formula chimica.

Il livello sub-micro collegato al livello macro conduce al livello simbolico.

Slide2E’ necessario, però, condividere una simbologia e un metodo.

  • Indichiamo con m* le masse di sostanze elementare che si trasformano in una sostanza composta.
  • Prendiamo in considerazione un caso specifico: la trasformazioni di Carbonio e Ossigeno in una sostanza A caratterizzata attraverso le sue proprietà macroscopiche
  • Applichiamo alle masse che si trasformano la relazione che esplicita l’ipotesi di esistenza degli atomi,
  • In questo modo trasformiamo le leggi fondamentali della Chimica che “raccontano” un livello macro in relazioni che raccontano un livello sub-micro

… e il gioco è fatto!

Slide3

In estrema sintesi il Rapporto di combinazione delle masse che si trasformano è qualcosa che posso determinare sperimentalmente, in questo esempio specifico il numero 0,750 è il risultato sperimentale (macro).

Se è vero che esistono gli atomi esiste un uguaglianza che lega questo livello macro al livello sub-micro.

Slide4

Guardiamo in dettaglio all’interno della relazione “sub-micro”, troviamo due rapporti, un rapporto tra le masse degli atomi che costituiscono la sostanza composta e un rapporto tra gli atomi di Carbonio e di Ossigeno che si legano per diventare la sostanza composta .

Esistono altre sostanze composte che si ottengono dalla trasformazione del Carbonio e dell’Ossigeno, ma, come è noto, il rapporto di combinazione delle masse delle sostanze elementari che si trasformano in una sostanza composta è diverso da sostanza a sostanza anche se entrambe sono costituite dallo stesso tipo di atomi, quindi il rapporto a/b è una caratteristica della sostanza A.

Nel caso in cui Carbonio e Ossigeno formano un’altra sostanza composta B, questa sarà caratterizzata da un altro rapporto di combinazione delle masse R*B ≠ R*A e poiché il rapporto tra le masse degli atomi di Carbonio e Ossigeno rimarrà lo stesso, quello che cambierà sarà solo il rapporto tra gli atomi di Carbonio e di Ossigeno che si legano ( c/da/b ).

In definitiva mentre il rapporto a/b è caratteristico della sostanza A, il rapporto caratteristico della sostanza B sarà c/d .

Come rappresentiamo in maniera simbolica questa differenza?

Scriviamo le formule delle due sostanze A e B , che rispettivamente saranno CaOb e CcOd rappresentando con C l’atomo di Carbonio e con O l’atomo di Ossigeno.

A questo punto bisognerebbe aprire una discussione su formula minima, formula molecolare, ecc… ma a me basterebbe che ogni giovane che ha frequentato una classe di Chimica fosse in grado di leggere e di comprendere fino in fondo il significato di tutte le parole che formano una frase a prima vista banale ma che, a mio parere, rappresenta bene la sintesi dei tre livelli necessari a costruire il concetto di formula di una sostanza.

Slide1

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E’ APERTA LA RACCOLTA DI FIRME PER LA PETIZIONE ALLA IUPAC per dare il nome Levio ad uno dei 4 nuovi elementi:FIRMATE!

https://www.change.org/p/international-union-of-pure-and-applied-chemistry-giving-name-levium-to-one-of-the-4-new-chemical-elements

 

Chimica tra padre e figlia…

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Mauro Icardi

Scrivere di chimica, appassionarsi alla materia, approfondirla sono tutte cose che continuo a fare da molti anni. Ho avuto la possibilità fino ad ora di lavorare in laboratorio continuando a sentire quella specie di fascino inspiegabile che tutto questo continua ad esercitare su di me. Seguendo negli anni l’evoluzione di questa scienza, ed applicandola nel contesto di un lavoro particolare quale è quello del tecnico che si occupa di depurazione delle acque reflue, campo nel quale le nozioni di chimica si accompagnano e si intersecano con molte altre quali l’ingegneria ambientale e la biologia tra tante.

pdrefiglia1In tutti questi anni ho aiutato molti studenti del corso di Ingegneria della sicurezza e dell’ambiente dell’Università di Varese a svolgere il loro lavoro di tesi presso l’impianto di depurazione dove lavoro. Con quasi tutti loro è rimasto un legame di amicizia e il ricordo di una bella collaborazione che è stata un arricchimento per entrambi. Ovvio che ad alcuni di essi io abbia dovuto insegnare anche a muoversi in laboratorio e ad utilizzare la strumentazione, aiutandoli anche ad avere quel minimo di manualità richiesta, anche se oggi le cose sono certamente più semplici di quelle di un tempo, visto il diffuso utilizzo di attrezzature quali kit analitici e pipette automatiche.

Ma il momento in cui uno si sente decisamente più emozionato è quando l’aiuto ti viene chiesto da tua figlia, studentessa al terzo anno di liceo scientifico alle prese con la nomenclatura dei composti inorganici.

Mi sono sentito ovviamente emozionato, ma ho anche pensato, chissà se non rischio di fare una brutta figura…

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Perché lei parte subito in quarta e mi parla di acido astatidrico! A quel punto uno ha l’impressione di stare parlando con un alieno, o meglio mi sento come un nativo americano che per la prima volta incontra Cristoforo Colombo. Passato il primo momento di sgomento la faccenda si chiarisce. I neuroni e la memoria del papà (e lo ammetto anche con l’ausilio dei mai venduti libri di testo e del web) si rimettono in moto. acidoastatidrico

Si parla di idracidi. E quindi diventa divertente e si stabilisce anche una bella complicità nel ricordare le regole di nomenclatura e aiutarla a risolvere gli esercizi che le sono stati assegnati. Alessia è brava, ha imparato in fretta le regole di nomenclatura e si destreggia bene con la sua tavola periodica in mano. Così per alcune sere questa complicità continua. E tra le desinenze oso ed ico i ricordi mi riportano ai miei anni di studio cercando di paragonarli ai suoi, a cosa è cambiato, a quali concetti siano stati abbandonati e a quale potranno essere le strade che la chimica percorrerà. Ma soprattutto una cosa mi fa davvero sorridere e mi da una strana sensazione di tenerezza. Gli esercizi che deve risolvere prevedono di dare il nome IUPAC ed il nome usuale a molecole semplici. Stiamo per terminare una serie di esercizi. Quindi le dico “Adesso fallo per la molecola NH3”.

Lei si mette immediatamente all’opera, commenta tra se e se, e con molta sicurezza mi dice quasi immediatamente il nome IUPAC :“Triidruro di azoto”. Bene. Ma quando arriva il momento di dire il nome comune ecco che il papà si prende una piccola rivincita. Ed ecco che il normalissimo ammoniaca lo suggerisco io con un sorriso, mentre lei si batte una mano sulla fronte come nell’ormai dimenticata pubblicità di un noto aperitivo. Queste piccole dimenticanze capitano.

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In altre serate quando lei non sarà alle prese con le tante cose che sta facendo, parleremo ancora di Chimica. Anzi leggeremo insieme le pagine di Primo Levi ne “L’altrui mestiere” ed in particolare i due bellissimi capitoli “La lingua dei chimici 1 e 2”. Sarà una bella cosa da fare insieme. Perché sono contento di come lei si stia approcciando allo studio della chimica, ma in fin dei conti dire acido cloridrico conserva un maggior fascino rispetto a cloruro di idrogeno.

Senza che la IUPAC se ne abbia a male.

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E’ APERTA LA RACCOLTA DI FIRME PER LA PETIZIONE ALLA IUPAC per dare il nome Levio ad uno dei 4 nuovi elementi:FIRMATE!

https://www.change.org/p/international-union-of-pure-and-applied-chemistry-giving-name-levium-to-one-of-the-4-new-chemical-elements

 

La mole nascosta

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Rinaldo Cervellati

Friedrich Wilhelm Ostwald (Riga2 settembre 1853 – Lipsia4 aprile 1932), insieme a Jacobus Henricus van’t Hoff (1852 – 1911) e a Svante Arrhenius (1859 – 1927)[1] sono generalmente considerati come i fondatori della physical chemistry (termodinamica, cinetica, elettrochimica). Ostwald fu insignito del Premio Nobel per la chimica nel 1909 con la seguente motivazione: « Per i suoi studi sul processo della catalisi e per l’approfondimento dei principi fondamentali che governano l’equilibrio chimico e la velocità di reazione ».

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Friedrich Wilhelm Ostwald Riga, 2 settembre 1853 – Lipsia, 4 aprile 1932

Le ricerche di Ostwald sulla sintesi dell’acido nitrico per ossidazione dell’ammoniaca in presenza di catalizzatori metallici e sulla relazione fra la costante di equilibrio e il grado di dissociazione di un elettrolita debole sono conosciute da tutti i chimici, meno conosciuto è che si deve a Ostwald l’introduzione del termine “mole” [2], attorno al 1900 [1].

Nel 1960 la mole (simbolo mol) fu introdotta come settima unità di misura fondamentale del Sistema Internazionale (SI) per la grandezza quantità di sostanza (simbolo n), definita come:

“…la quantità di sostanza che contiene un numero di entità elementari uguale al numero di atomi di carbonio contenuti in 0.012 kg di Carbonio-12. Le entità devono essere specificate e possono essere atomi, molecole, ioni, elettroni, altre particelle o gruppi specificati di queste particelle”. [2]

Quindi l’unità mol misura il numero relativo di particelle in confronto a quelle presenti in uno standard.

La grandezza “quantità di sostanza è definita come:

“…proporzionale al numero di specificate entità elementari di tale sostanza, essendo il fattore di proporzionalità lo stesso per tutte le sostanze”. [2]

É curioso che il termine “mol” sia stato introdotto proprio da Ostwald, assertore dell’energetismo, teoria che negava realtà agli atomi e alle molecole sostenendo il primato dell’energia sulla materia, la materia essendo soltanto una manifestazione dell’energia[3]. Tuttavia nel 1909 Ostwald riconobbe la realtà di atomi e molecole in base agli esperimenti sul moto browniano di J. Perrin [3].

Ostwald originariamente definì la mole in termini di grammi. Nel suo ponderoso libro “The fundamental principles of chemistry, an introduction to all text-book” è riportata la seguente definizione:

Il peso molare in grammi è di uso frequente nei calcoli chimici, ed è appropriato usare per esso il termine “mol”. Una soluzione di 1 mol per litro indica una soluzione contenente un numero di grammi per litro uguale al numero di unità nel peso molare della sostanza in questione. Una tale soluzione è chiamata una soluzione molare, e un’altra soluzione contenente 1/10 di mol per litro è chiamata una soluzione decimolare. Il nome “millimol”, la millesima parte di un mol, o peso molare in milligrammi, è usato quando sono richieste piccole quantità di sostanza e soluzioni diluite [4].

Ma il grammo è un’unità della grandezza massa e Ostwald non dice di quale grandezza la mol sia l’unità di misura, né nel 1900 [1], né nel 1909 [4]. Ostwald comunque preferiva il termine mol a quello di grammo-molecola già in uso dai chimici, poiché egli riteneva che non ci fossero sufficienti evidenze per l’esistenza di atomi e molecole (l’edizione tedesca del rif [4] è del 1907, precedente dunque alla “conversione” di Ostwald). Tuttavia i termini grammo-atomo, grammo-molecola, grammo-ione, ecc. fino a grammo-mole, hanno resistito fino a non molto tempo fa, generando ulteriore confusione.

Il problema della grandezza cui associare l’unità di misura mol nasce dal fatto che mentre quantità famigliari come ad es. massa e volume si riferiscono a “oggetti” che possono essere visti o in altri modi percepiti e le rispettive unità di misura nel SI hanno una connessione diretta con l’esperienza sensoriale, l’unità di misura mol è priva di tale connessione. La mole infatti misura una quantità di atomi o di particelle da essi derivate confrontandole con quelle contenute in una data massa di standard, ma le particelle non si possono vedere né contare direttamente[4]. Di conseguenza è un concetto puramente formale che si utilizza sempre in contesti di calcolo [5].

A causa del contenuto formale del concetto, esso costituisce un ostacolo alla sua comprensione da parte di studenti di 14-17 anni, in particolare se poco interessati alla chimica.

Insegnanti e studenti di varie nazionalità segnalano da anni le difficoltà con la grandezza “quantità di sostanza” e la sua unità di misura, la “mole”, sostenendo che questi concetti sono straordinariamente difficili da capire. Ricerche didattiche hanno evidenziato queste difficoltà a tutti i livelli scolastici [6]. Le citazioni in [6] sono solo un campione delle numerose ricerche sulle concezioni errate che hanno gli studenti sui concetti di quantità di sostanza e mole, chi è interessato può tenerne conto. Qui desidero solo ricordare che qualche anno fa sottoposi a un campione di 238 matricole iscritte ai corsi di laurea in chimica, fisica, astronomia e scienze biologiche un test d’ingresso contenente, fra le altre, la domanda aperta “Che cosa è la mole?”, ottenendo l’impressionante numero di 139 astensioni (58.4%). 22 studenti risposero “una quantità in grammi pari al peso molecolare”, 15 risposero “il peso molecolare espresso in grammi”, 13 “un numero di Avogadro di atomi/molecole”, i restanti 99 diedero risposte disperse da “una grammo-molecola” a “l’unità di misura dei chimici” a “il peso di un atomo/molecola/elemento”.

Diverse strategie sono state messe in atto per cercare di rendere più semplice o meno astratto il concetto di mole a livello di scuola secondaria superiore, usando per esempio modelli macroscopici con chiodini come standard e confrontando le masse di un numero uguale di chiodi di diverse dimensioni e riferire poi queste masse a quella dei chiodini scelti come standard [6 e)]. Un’altra strategia è quella delle analogie, molto usata è quella della “dozzina” scelta come unità di misura. Una panoramica di queste strategie si può trovare nel capitolo 9 del libro di Vanessa Kind [7].

Le due citate soffrono però di svantaggi, l’analogia della “dozzina” in quanto mole e dozzina si riferiscono a situazioni ben diverse: la dozzina è un numero che non ha alcuna relazione con la massa delle «entità elementari», e quindi non permette di stabilire una relazione tra massa e numero di unità costitutive, inoltre la dozzina è un numero adimensionale, un valore fisso per il conteggio, fissato in modo arbitrario; la costante di Avogadro è un valore determinato sperimentalmente con la sua incertezza. Lo stesso vale per altre analogie. Anche la costruzione di modelli al di fuori della chimica ha i suoi limiti: si rischia di confondere oggetti macroscopici con entità microscopiche per cui non valgono leggi identiche. Ne è una prova, ad esempio, spiegare lo spin dell’elettrone paragonandolo a una strana trottola, che si può trovare in molti libri di testo.

Nel 1985, Henry A. Bent, professore di chimica alla North Carolina State University a Raleigh pubblicò un articolo di una paginetta dal titolo volutamente provocatorio: Should the Mole Concept be X-Rated? (Il concetto di mole dovrebbe essere vietato ai minori?) [8]. La risposta immediata di Bent è Sì. Egli dice che questo concetto distrugge l’interesse [degli allievi] verso la chimica e quindi:

Per coloro che non proseguiranno gli studi in chimica il concetto di mole non è necessario”.

Proseguendo:

Il concetto di mole non è adatto per studenti che frequentano un corso iniziale di chimica… È una perdita di tempo cercare di insegnare il concetto di mole a soggetti che non sono in grado di pensare in termini di atomi, mentre è quasi banale insegnarlo a quanti sono in grado di farlo, cioè a studenti che proseguiranno lo studio della chimica in corsi avanzati, il concetto di mole deve ovviamente essere insegnato, e insegnato al meglio…

Per costoro il concetto di mole sarà semplicemente senso comune applicato al modello atomico – molecolare”.

Secondo Bent “scarsa è la preparazione dello studente alla chimica del college se la chimica che ha studiato al liceo è essenzialmente una chimica da college.

Bent termina con una sorta di raccomandazione agli insegnanti dei licei:

Infine non è il livello assoluto di conoscenze acquisito dagli studenti ciò che conta. Molta conoscenza dettagliata viene spesso dimenticata. Alla lunga ciò che è importante è il loro entusiasmo. Tutto ciò che danneggia l’entusiasmo degli studenti dovrebbe essere vietato”.

Come si può facilmente capire l’articolo di Bent suscitò in generale un vivace dibattito, anche negli USA, dove il sistema scolastico è profondamente diverso da quello europeo, e diverso da Stato a Stato. In linea di massima gli studenti affrontano tutte le materie nei primi anni di liceo ma negli ultimi ne scelgono alcune in funzione del corso di studi che intendono seguire al college, quindi sarebbe possibile differenziare il “programma” di chimica del biennio da quello dell’ultimo o degli ultimi anni. Il primo insegnamento di chimica potrebbe accogliere la proposta di Bent, evitando tutto ciò che compromette l’entusiasmo per la materia (mole compresa), un po’ come nel progetto inglese Salters’ O-Level di cui ho parlato in un precedente post [9] su questo blog.

La provocazione di Bent trovò un’immediata risposta negativa da parte di George Gorin, professore emerito di chimica all’Oklahoma State University [10]. Dice Gorin:

La chimica è una disciplina quantitativa e quindi le misure hanno una notevole importanza. Scienziati e tecnici di tutto il mondo si sono accordati su un sistema di unità di misura che sono state definite con grande precisione: il Sistema Internazionale (SI). In questo sistema vi sono sette unità «fondamentali» e la mole è una di queste. I chimici la usano ogni giorno, in quanto si tratta dell’unità più appropriata per i calcoli stechiometrici. Non vi è dubbio che alcuni studenti hanno delle difficoltà con il concetto di mole. Inoltre, alcuni insegnanti contribuiscono ad alimentare queste difficoltà con spiegazioni confuse o sbagliate”.

Gorin quindi imputa gran parte delle difficoltà di apprendimento del concetto di mole a insegnanti che non hanno le idee chiare, tuttavia egli è anche convinto che il termine “amount of substance” (“quantità di sostanza”) ingenera confusione con quello di massa e propone di sostituirlo con “chemical amount”.[5] (“ammontare chimico”, “quantità chimica”) [5].

Dunque un dibattito molto acceso che interessò i docenti di chimica di molti Paesi.

In Italia la frammentazione delle scuole secondarie superiori e la collocazione della chimica (quando c’è) in anni diversi (e quindi a età diverse) insieme alla completa liberalizzazione degli accessi all’università, pongono ulteriori problemi alla questione qui presa in esame. Tuttavia se la chimica deve far parte del bagaglio culturale di tutti i cittadini, nel ciclo scolastico dell’obbligo (oggi esteso a 16 anni), allora tutto ciò che impedisce l’entusiasmo dei ragazzi dovrebbe essere evitato o quantomeno ridimensionato.

Bibliografia.

[1] W. Ostwald, Grundlinien der anorganische chemie, Leipzig, Engelmann, 1900, p 163, 167-168.

[2] Comptes Rendus de Séances de la Onzième Conférence Générale des Poids et Mésures, Paris (1960), v. anche: Mills, I.; Cvitas. T.; Kallay N.; Homann, K.; Kuchitsu, K. IUPAC Quantities, Units and Symbols in Physical Chemistry; Oxford: Blackwell, 1988.

[3] M. Nye, M., Molecular Reality: A Perspective on the Scientific Work of Jean Perrin, London, MacDonald, 1972.

[4] W. Ostwald, The fundamental principles of chemistry, an introduction to all text-book, Longmans, Geen and Co., New York, 1909, p. 273 (tradotto dall’edizione tedesca da Harry W. Morse)

[5] G. Gorin, Mole and Chemical Amount, J. Chem. Educ., 1994, 71, 114-116.

[6] a) S. Novik, J. Menis, “A study of student perceptions of the Mole Concept”, J. Chem. Educ. 1976, 53,720 -722; b) R. Cervellati, A. Montuschi, D. Perugini, N Grimellini-Tomasini, B. Pecori-Balandi, Investigation of Secondary School Students’ Understanding of the Mole Concept in ltaly, J. Chem. Educ., 1982, 59, 852-856; c) P.G. Nelson, The Elusive Mole, Educ. Chem., 1991, 28, 103-104; d) C. Furiò, R. Azcona, J. Guisasola, The Learning and Teaching of the Concepts. Amount of Substance and Mole: A Review of The Literature,Chemistry Education: Research and Practice in Europe, 2002, 3, 277-292; e) E. Roletto, A. Regis, P.G. Albertazzi, Costruire il Concetto di Mole – un approccio empirico a un concetto formale, CnS-La Chimica nella Scuola, 2003, XXV, 148-156; e) K. Padilla, A.M. Ponce-de-León, F. Mabel Rembado, A. Garritz, Undergraduate Professors’ Pedagogical Content Knowledge: the case of ‘amount of substance’, Int. J. Sci. Educ., 2008, 30, 1389 – 1404; f) D. Bopegedera, Teaching the mole concept with your mouth shut!, 14th Biennial Conference on Chemical Education, Grand Valley University, Allendale, MI, 2014, 3-7 August, P789.

[7] V. Kind, Beyond Appearances: Students’ misconceptions about basic chemical ideas, 2nd Ed. 2004, School of Education, Durham University, Durham, UK. PDF scaricabile al sito: www.rsc.org/images/Misconceptions_update_tcm18-188603.pdf

[8] H. A. Bent, Should the Mole Concept be X-Rated?, J. Chem. Educ., 1985, 62, 59.

[9] https://ilblogdellasci.wordpress.com/2015/07/08/bufale-chimiche-di-chi-e-la-colpa-parte-ii/

[10] G. Gorin, Should We “Teach The Mole”?, J. Chem. Educ., 1985, 62, 192-196

Note

[1] Van’Hoff ottenne il Nobel nel 1901, Arrhenius nel 1903.

[2] Tuttavia, secondo lo storico della chimica William Jensen, il termine molare per indicare una massa macroscopica di sostanza in contrasto alla massa microscopica delle molecole (massa molecolare) fu introdotto attorno al 1865 dal chimico tedesco August Wilhelm Hofmann (1818-1892) (W.B. Jensen, J. Chem. Educ., 2004, 81, 1409). Va notato che pochi anni dopo la Conferenza di Karlsruhe (1860), la razionalizzazione di Cannizzaro fu universalmente accettata.

[3] Gli energetisti non erano poi così lontani dal vero se si considera la più famosa equazione di Einstein: E = mc2 (1905).

[4] Era quindi impensabile che Ostwald definisse la grandezza di cui mol è l’unità di misura in base alle conoscenze sulla natura particellare della materia ai primi del ‘900. Tuttavia è in fase avanzata un progetto per la ridefinizione dell’unità di massa (kg) che tiene conto della struttura particellare della materia, “contando” gli atomi di Si-28 contenuti in una sfera di questo isotopo attraverso la misura della distanza fra gli strati atomici con tecniche interferometriche e utilizzando la costante di Planck. http://www.inrim.it/events/insegnanti/INRIM-Cabiati-Il_futuro_del_SI.pdf
E’ curioso che una proposta molto simile fu avanzata nel 1963 dall’italiano C. Egidi (Phantasies on a Natural Unity of Mass, Nature, 1963, 200, 61-62)

[5] A quanto sembra la IUPAC sta considerando chemical amount come alternativa ad amount of substance, v. http://www.ulster.ac.uk/scienceinsociety/molepack.html

6 domande ai candidati presidenti.

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Claudio Della Volpe

In questo periodo sono in corso le operazioni che porteranno alla elezione del nuovo Presidente della SCI; i due candidati fra i quali i soci chiamati a scegliere sono una donna Angela Agostiano e un uomo Alberto Albinati. La scelta consentirà al candidato di affiancarsi per un anno al presidente in corso per meglio svolgere poi il proprio ruolo.

Più che presentare ufficialmente i due soci, il blog vorrebbe, come è sua tradizione, stimolare un dialogo sui temi sui quali la SCI si troverà ad agire nel futuro e sui quali il nuovo presidente dovrà quindi fattivamente operare.

Per questo motivo presentiamo qui una intervista ai due candidati; le domande sono state formulate su una proposta di temi partita dalla redazione del blog. Ringraziamo i due candidati per il tempo e l’impegno che ci hanno dedicato.

Domanda 1): Nel 1896, quando si festeggiarono i 70 anni di Cannizzaro fra i chimici italiani c’era solo una donna, la prof. Bakunin; oggi abbiamo la possibilità, sia pur per la prima volta di eleggere una presidente donna per la SCI; cosa pensa dei problemi di genere nella Scienza, problemi che specie negli ultimi anni sono venuti spesso alla ribalta proprio nel mondo della Chimica e possono essere sintetizzati nel termine “tetto di cristallo”; il tetto di cristallo esiste ancora in Chimica?

s200_angela.agostiano Il fatto che siano più uomini che donne che vogliono occuparsi di scienza è senza dubbio un pregiudizio. Basta guardare il numero degli iscritti o dei laureati a corsi di laurea come chimica, fisica, matematica per rendersi conto che il numero delle donne è superiore a quello degli uomini. E’ certamente vero però che un problema di genere esiste se si guarda alla possibilità di far carriera. Oggi la stragrande maggioranza delle posizioni apicali è occupata da uomini. Il numero di donne che raggiungono posizioni di rilievo sta progressivamente aumentando, ma la cinetica del processo è talmente lenta da far ipotizzare che ci vorranno non meno di venti anni per colmare il divario. Credo che ci debba far rifletter il fatto stesso che io sia stata la prima donna a ricoprire il ruolo di vicepresidente della SCI (ed oggi a candidarsi per la presidenza), nonostante le donne rappresentino circa la metà dei suoi iscritti.

Nonostante la mia esperienza personale mi porti a dire che più che con ostacoli oggettivi legati al fatto di essere donna ho dovuto fare i conti con l’assenza di strutture e servizi che mi permettessero di inserire il lavoro nella mia vita privata senza corse, ansie o condizionamenti, è obbiettivamente vero che il tetto di cristallo ancora esiste, ed il suo sfondamento non può che passare attraverso un cambiamento delle regole del gioco, con l’abbandono del metodo della cooptazione per passare a quello della valutazione trasparente del merito. Credo però che il raggiungimento delle pari opportunità nella carriera non debba significare necessariamente un adeguamento a modelli maschili: io ho sempre preferito il concetto di autorevolezza a quello di autorità.

alberto albinati

Vorrei per prima cosa ricordare il ruolo del Presidente della SCI che è quello di coordinare ed indirizzare le attività della Società che vengono svolte attraverso le divisioni, gli organi periferici, i Tavoli di Lavoro e le commissioni. Tutte le iniziative vengono discusse e rese operative dal Consiglio Centrale. Senza questo prezioso lavoro sarebbe inimmaginabile affrontare i molteplici temi di cui la SCI si occupa.

Negli ultimi decenni si è osservato un incremento notevole delle iscrizioni femminili ai corsi di chimica: da una percentuale, in molte sedi, del 10-20% negli anni sessanta, attualmente siamo oltre il 50%. Evidentemente è cambiato in modo drastico la percezione del ruolo della donna nella società e del suo inserimento nel mondo del lavoro anche se questo spesso ha portato ad un difficile equilibrio tra i diversi ruoli. Nella SCI fortunatamente è presente una numerosa e preziosa componente femminile nelle Divisioni, nei Gruppi Interdivisionali nelle Commissioni, componente che è aumentata rispetto al passato e certamente aumenterà. Sono convinto che il problema “dei tetti” sia purtroppo ancora presente in molte realtà ma che la SCI rappresenti un buon esempio (certamente migliorabile come ovvio) di rappresentatività che permette di scegliere non in base alla necessità di raggiungere “quote rosa” ma alle capacità delle persone.

Domanda 2): L’aggettivo “chimico” ha nel linguaggio comune una valenza negativa; questo probabilmente dipende dal fatto che il grande pubblico, al di là della diffusa ignoranza di merito non riesce a distinguere e separare le responsabilità della scienza da quelle di chi la applica nell’economia e nella produzione; cosa potrebbe fare una società scientifica per contribuire a superare questo problema? Come separare le  responsabilità di scienziati, professionisti o insegnanti da quelli che per motivi spesso di profitto inquinano o usano comunque male delle risorse?

s200_angela.agostianoPenso che tutte le discipline scientifiche soffrano del problema di una cattiva pubblicità derivante da un uso distorto dei risultati delle proprie ricerche. Alcune volte è anche doveroso riconoscere che si sono fatti degli errori che hanno avuto conseguenze molto negative e suscitato sospetto o diffidenza. La chimica forse più delle altre soffre di questo problema, perché ritenuta responsabile di inquinamento, sofisticazione di cibi, uso di concimi in agricoltura, tutti temi che colpiscono da vicino la sensibilità della gente. Contribuisce certamente alla diffusione di questa immagine negativa la poca chimica che è insegnata nelle scuole ma anche la poca correttezza dell’informazione che arriva attraverso i mezzi di comunicazione. Curare e promuovere l’immagine e la cultura della chimica deve rappresentare la missione di una società scientifica come la SCI, articolata strutturalmente al suo interno per un confronto continuo tra tutte le professioni su tutte le tematiche disciplinari. E’ importante però che l’attività non si sviluppi solo al suo interno. Quanto conti oggi non solo lavorare sui contenuti della didattica, ma anche appassionare ed entusiasmare i giovani lo dimostra il crescente successo dei giochi della chimica, costante terreno di confronto con le scuole a livello territoriale. Penso che la SCI abbia già e debba ulteriormente sviluppare gli strumenti per promuovere il ruolo della chimica verso la società civile e la politica, attraverso interventi puntuali e comprensibili su tutti i mezzi di comunicazione ed attraverso l’organizzazione di congressi ed iniziative divulgative aperte. Intervenire correttamente e proporre soluzioni puntali su tutti i temi, sia quelli legati alla vita di tutti i giorni sia quelli legati alle grandi sfide sociali, è a mio parere l’arma migliore per rafforzare e rendere credibile la comunità dei chimici.

alberto albinati In genere il grande pubblico e molta stampa percepiscono la chimica e in particolare l’industria chimica come un pericolo per l’ambiente, nonostante la ricerca scientifica in ambito chimico abbia sviluppato nuovi materiali che hanno portato ad un miglioramento della qualità della vita, ad applicazioni favorevoli all’ambiente e a risolvere problemi legati alla salute. Problemi quali la gestione dei rifiuti, il riciclo, l’efficienza energetica sono stati affrontati ottenendo buoni risultati proprio grazie alla ricerca chimica. Comunicare la corretta distinzione tra l’ottenere risultati scientifici (il “progresso scientifico”) e la responsabilità di un uso improprio o dannoso degli stessi, è un problema complesso che ha origini nella mancanza di cultura scientifica nella società italiana; non è facilmente risolvibile se non attraverso l’insegnamento nella Scuola, che formi una cultura scientifica di base, e una comunicazione riguardante la scienza accurata che deve raggiungere il grande pubblico in modo efficace. Il ruolo che la SCI può avere è quello di pubblicizzare gli aspetti positivi della ricerca scientifica, particolarmente quella chimica, rivolgendosi al pubblico non specializzato con l’organizzazione di seminari e conferenze sia in occasione dei Congressi SCI che con iniziative sul territorio e cercando di essere strumentale nel miglioramento della qualità della comunicazione scientifica da parte dei media. Molte iniziative sono state già messe in atto, dalle Divisioni e Sezioni, che dovranno non solo continuare ma aumentare. La collaborazione con l’Ordine dei Chimici è poi fondamentale come dimostrato, ad esempio, dal successo delle iniziative per l’EXPO.

Domanda 3): L’insegnamento della Chimica è oggetto di molte discussioni relative a metodi e ai contenuti; quale è la sua idea a riguardo? L’insegnamento della Chimica deve essere fatto dai Chimici? L’insegnamento della Chimica deve contenere riferimenti alla storia e quanti? L’insegnamento della Chimica quando dovrebbe cominciare? Insomma quali aspetti di questa tematica riterrebbe doveroso affrontare da parte della SCI?

s200_angela.agostianoLe tematiche relative all’insegnamento della chimica   devono e sono già tutte affrontate e continuamente oggetto di dibattito all’interno della SCI, attraverso il lavoro della divisione di didattica. L’argomento è veramente complesso, perché si intrecciano problematiche di natura culturale ed educativa in continua evoluzione che devono essere risolte in presenza di situazioni pregresse e consolidate di posti di lavoro e di una continua riduzione delle risorse. Inoltre la differenza di impostazione tra istituti tecnici e licei, rende quasi impossibile una risposta univoca a tutti i problemi. E’ quindi necessaria una continua interlocuzione con il mondo della scuola, i tavoli ministeriali ed i nostri rappresentanti all’interno del CUN. Personalmente sono sempre stata convinta che la conoscenza della disciplina non è da sola sufficiente a garantire la bontà di un insegnamento, ma è una condizione imprescindibile per poter trasferire agli studenti gli strumenti per elaborare criticamente le loro conoscenze. Credo anche che inquadrare storicamente quello che si insegna serva moltissimo a caratterizzare la specificità di una disciplina rispetto ad un’altra ed anche a meglio comprenderne il linguaggio. Proprio perché la chimica è chiave di lettura di tutti i fenomeni naturali, penso che il suo studio debba e possa cominciare con un approccio certamente sperimentale già dai primi anni del percorso educativo di ogni studente.

alberto albinati E’ non solo auspicabile ma fondamentale che tutti i corsi di insegnamenti chimici nei vari indirizzi scolastici debbano essere insegnati da chimici e per quanto possibile essere accompagnati da esperienze pratiche (laboratorio). Vi sono poi vari modi per facilitare l’apprendimento di questa materia, considerata spesso ostica dagli studenti; per esempio, l’insegnamento della chimica negli istituti di istruzione secondaria potrebbe essere organizzato a moduli, con moduli fruibili a partire dal 1° anno, integrare le lezioni con “applicazioni elettroniche” o privilegiare un approccio “problem solving” rispetto alle lezioni frontali. La SCI si occupa attivamente di questi problemi attraverso la Divisione di Didattica Chimica ma dovrà sempre più aprirsi al mondo della scuola ed ai suoi problemi.
I riferimenti storici sono importanti sia per ricordare gli scienziati come persone reali che per descrivere il percorso fatto per arrivare a teorie e a scoperte che non nascono nel vuoto ma sono influenzate da un ben preciso contesto storico-culturale e sociale. La natura e la “quantità” di questi “cenni storici” possono però essere solo decisi dal docente. Sarebbe poi auspicabile riuscire, ma è un progetto a lungo termine, ad arrivare ad un insegnamento di Storia della Chimica analogamente a quanto avviene, per esempio, con il corso di Storia della Fisica. La presenza di conferenze di carattere storico nei Congressi SCI (come avvenuto per esempio all’ultimo Congresso SCI) e divisionali è senz’altro una lodevole “abitudine” da incoraggiare.

Domanda 4): C’è una enorme valenza della storia della Chimica e del suo valore sia didattico che culturale e sociale, riguardo agli effetti della nostra disciplina nella vita dell’uomo; eppure non esiste un museo o un riferimento comunque vogliamo chiamarlo della nostra disciplina e delle sue applicazioni; esistono molte iniziative a riguardo, ma spesso non coordinate fra di loro; la scuola e l’università non si avvalgono di questo supporto o almeno in modo non sistematico; non ritiene che occorrerebbe fare qualche intervento in questo campo?

s200_angela.agostianoSono convinta che la conoscenza di ogni disciplina sia strettamente correlata con la conoscenza della sua storia. Questo è tanto più vero per la chimica, a causa dello stretto legame che lega la sua storia a quella dell’avanzamento della conoscenza e dello sviluppo economico e sociale. Stimolare la curiosità di uno studente portandolo a comprendere come si è evoluta nel tempo la materia che sta studiando è inoltre un formidabile strumento didattico. Ci sono certamente dei luoghi, come alcuni musei o cittadelle della scienza, in cui ci si può avvicinare alla conoscenza della storia della chimica, ma penso che la SCI dovrebbe sostenere iniziative volte alla creazione di luoghi dedicati a raccogliere documenti e testimonianze dello sviluppo della nostra disciplina, ed anche a collegare l’enorme patrimonio esistente presso le università (ma non solo) e renderlo accessibile facilmente a chi la chimica la studia e a chi la chimica la insegna o semplicemente a chi la vuole conoscere meglio. Ovviamente questo lavoro necessita della disponibilità di risorse umane ed economiche e di una progettualità che possa consentire l’accesso a finanziamenti ministeriali appositi, ma sarebbe culturalmente rilevante intraprendere azioni in tale senso e credo che la SCI abbia al suo interno le competenze necessarie per portarle avanti.

alberto albinati Esistono diversi musei della chimica associati alle università, ad esempio università di Firenze, Roma, Genova, “Ciamician” di Bologna, che raccolgono i materiale, le esperienze, i documenti dello sviluppo della chimica nel tempo. Certamente una rete che coordini queste iniziative sarebbe auspicabile così come il reperimento di finanziamenti ad hoc per il mantenimento del patrimonio scientifico in essi custodito. Per raggiungere l’obiettivo è necessario la disponibilità di soci a lavorare ad un progetto “musei” ed adeguate fonti di finanziamento.

Domanda 5): Ci sono almeno due temi ricorrenti in cui la nostra disciplina viene coinvolta come “responsabile” primaria: l’inquinamento ambientale e le tematiche del riscaldamento globale e dall’altra quello della crisi delle risorse; la nostra società spesso non si schiera apertamente a riguardo, basti pensare agli articoli di CI che ancora difendono una visione dei cambiamenti climatici come dovuti all’effetto del Sole o a cause non ben chiare, invece che all’azione dei gas serra prodotti dalla nostra produzione industriale ed agricola; cosa pensa di questi due temi: ambiente  e risorse, in rapporto al ruolo della Chimica?

s200_angela.agostianoCredo che l’approccio giusto per affrontare questi temi sia quello che la SCI ha già proposto in occasione della conferenza organizzata nel Novembre del 2014 a Roma dal titolo “Chemistry for the Future of Europe – Energy, Food, Environment” dove congiuntamente al Consiglio Nazionale dei Chimici ed all’ European Association for Chemical and Molecular Sciences” ( EUCHEMS), sono stati analizzati i vari e fondamentali contributi che i chimici possono dare per rispondere alle grandi sfide che l’umanità si trova ad affrontare nel campo dell’energia, del cibo e dell’ambiente, cercando di trovare univocamente risposte adeguate sotto il profilo tecnico e rilevanti sotto il profilo etico. Credo che la consapevolezza che noi tutti dovremmo avere dello stretto collegamento esistente tra l’attuale modello di sviluppo, legato ad uno sfruttamento intensivo delle risorse, ed i cambiamenti climatici ed ambientali, debba necessariamente portare ad assumerci la responsabilità di dare un contributo concreto alla creazione ed attuazione di un modello alternativo basato sulla riduzione dei consumi e la sostenibilità ed il controllo dei processi, che oltretutto, nel lungo termine è anche l’unico che possa anche rappresentare un modello alternativo di sviluppo economico.

alberto albinati Credo di avere già in parte risposto nel punto (2). Vorrei però sottolineare che la SCI è una società scientifica il cui dovere è quello di fornire evidenze scientifiche, dati obiettivi ed essere un tramite di discussione, non quello di formare “schieramenti”. Mi sembra comunque che sulle cause del riscaldamento globale antropogenico vi sia una posizione condivisa dalla comunità scientifica, dalle maggiori società scientifiche e la SCI non è un’eccezione. La Chimica e l’Industria sta svolgendo un rilevante ruolo culturale per i soci ed è un importante mezzo di interazione con l’ordine dei chimici (ora che le due riviste CI ed” Il chimico Italiano”, sono un unico volume) e deve essere un luogo dove possano avvenire discussioni scientifiche, il che vuol dire anche ospitare voci critiche.
Ambiente e Risorse sono due temi fondamentali per la stessa sopravvivenza della società e temi fondamentali per le Divisioni ed i Gruppi Interdivisionali della SCI.

6) Come vede il futuro della SCI? Cosa pensa del rapporto con gli ordini professionali? La SCI del futuro quale ruolo potrà svolgere per unificare (se lei pensa che debba farlo) chi lavora nella ricerca, nella scuola, nell’industria?

s200_angela.agostianoPenso che il futuro della SCI sia strettamente correlato alla sua capacità di rappresentare un luogo di incontro e di confronto fra diverse anime, sia per quel che riguarda il mondo della ricerca, nelle Università e negli Enti pubblici, che per il mondo delle professioni, nelle industrie e nei laboratori. Credo sia anche indispensabile un rafforzamento della sua presenza a livello internazionale, perché le principali direttrici di sviluppo scientifico, tecnologico e normativo vengono ormai elaborate e formalizzate in ambiti sovranazionali. Mantenere uno stretto rapporto di collaborazione e confronto con organizzazioni che aggregano settori più o meno estesi ma significativi di chimici come l’Ordine dei Chimici e Federchimica è non solo auspicabile , ma strettamente necessario anche per la programmazione di una didattica che possa offrire migliori possibilità ai nostri laureati nel momento in cui si affacciano al mondo del lavoro.

La SCI per la sua articolata organizzazione sia a livello territoriale che disciplinare, può e deve ambire a diventare la voce da interpellare a livello nazionale per tutto quello che riguarda la chimica, capace di dialogare con le Istituzioni elaborando proposte credibili e condivise e di influenzarne le decisioni.

alberto albinati La SCI dovrà essere il punto di riferimento per tutti i chimici italiani non solo nell’università ma nell’industria, nel CNR, nella professione e nella scuola. E’ necessario che la SCI aumenti il numero di iscritti ottenendo così una migliore rappresentatività di tutte le componenti, industria, scuola, professione ed università; una SCI più numerosa vuol dire un interlocutore più autorevole sia a livello nazionale che internazionale. Molto importante sarà continuare, per esempio, a rafforzare la cooperazione con gli ordini professionali attraverso tavoli di lavoro con rappresentanti dell’università e della professione su tematiche legate alle formazione ed iniziative comuni o con l’industria sulla ricerca e sulla formazione universitaria; alcune iniziative per altro sono già iniziate con successo.
Un traguardo importante per la SCI dovrà essere quello di favorire l’aggregazione di ricercatori o gruppi di ricercatori (universitari e non) attorno a progetti ed obiettivi di ricerca comuni e facilitare le interazioni con le imprese in modo da raggiungere quella massa critica necessaria per competere con successo nei finanziamenti europei.

Chimica e Matematica

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Rinaldo Cervellati

Without mathematics the sciences cannot be understood, nor made clear, nor taught, nor learned.

(Roger Bacon, 1214-1292)

 

Ritengo che tutti coloro che si occupano di scienze concordino con l’affermazione di Bacone, tuttavia ancora nei primi anni del ‘900 l’insegnamento della matematica non aveva un assetto definitivo nei corsi di laurea in chimica delle università italiane. Di questa mancanza si lamenta Mineo Chini (1866-1933)[1] nella prefazione al suo libro “Corso speciale di Matematiche con numerose applicazioni ad uso principalmente dei chimici e dei naturalisti” (R. Giusti Ed., Livorno 1904), attribuendola ai continui mutamenti ministeriali[2].

Nella prefazione l’autore si propone di soddisfare il bisogno per gli studenti di Chimica e di Scienze Naturali, che vogliano modernamente istruirsi, di acquistare la conoscenza almeno delle teorie matematiche sviluppate in questo libro. Afferma inoltre di aver cercato di esporre il materiale nella forma più semplice e meno arida possibile e di essersi sforzato d’illustrare, dove ha potuto, le varie teorie mediante opportuni esempi, tratti dalla Fisica, dalla Chimica…dalla Meccanica e dalla Termodinamica. Con ciò Chini vuole dare subito un’idea di come si possano utilizzare, fuori dal campo astratto, i risultati delle matematiche. Egli è consapevole che chimici, naturalisti e anche cultori di scienze sociali siano utilizzatori di matematica, cosa che a mio parere molti degli attuali docenti di matematica nei corsi di laurea in chimica tendono a dimenticare. Poiché Chini riconosce che gli argomenti presi come esempi esulavano dalla cerchia dei suoi studi abituali, dichiara di aver consultato con vantaggio il trattato di Nernst, il classico testo di Chimica Fisica di Van’t Hoff e quello di Chimica Generale di Ostwald.

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Il Corso Speciale di Matematiche è suddiviso in quattro parti: Complementi di Algebra, Elementi di Geometria analitica, Elementi di Calcolo differenziale, Elementi di Calcolo integrale.

I concetti e i teoremi matematici sono esposti con chiarezza senza troppe dimostrazioni ma con molti esempi numerici, seguiti da applicazioni a problemi di Fisica e di Chimica. Di seguito sono riportate alcune applicazioni in Chimica.

Nei Complementi d’Algebra, le progressioni sono applicate al Calcolo del numero di atomi di carbonio contenuti nelle molecole di una particolare serie di idrocarburi, i logaritmi alla Determinazione della quantità di una sostanza che decomponendosi dà luogo a un certo volume di gas in condizioni date di pressione e temperatura, i determinati al Calcolo del numero di componenti indipendenti di un sistema nella regola delle fasi, i sistemi lineari al Calcolo, mediante l’analisi indiretta delle quantità di due sali costituenti un dato miscuglio.

Negli Elementi di Geometria analitica le coordinate cartesiane dei punti nel piano sono applicate ai Diagrammi delle leggi di Boyle e di Gay-Lussac e alla legge di Berthelot sulle concentrazioni di due solventi a miscibilità parziale, le coordinate cartesiane dei punti nello spazio all’Immagine geometrica dell’equazione di stato del gas ideale, alcune curve speciali all’Equazione di Van der Waals, l’equazione generale del piano alla Immagine geometrica della condizione affinchè un miscuglio di cloro, ossigeno e azoto dia luogo a una reazione esauriente con una determinata quantità di idrogeno.

Negli Elementi di Calcolo differenziale i limiti delle funzioni sono applicati alla Teoria del lavaggio dei precipitati, le derivate delle funzioni al Calore specifico di un corpo, alla velocità delle reazioni chimiche, e alla velocità con cui varia la quantità di sostanza che può sciogliersi in un dato solvente al variare della temperatura, il differenziale di una funzione ai Calori specifici dei gas e all’espressione del lavoro elementare esterno di un gas.

Negli Elementi di calcolo integrale, gli integrali definiti sono applicati al Calcolo della quantità di sostanza che si produce in un dato tempo in una reazione chimica nota la velocità della reazione, le equazioni differenziali del 1° ordine all’inversione dello zucchero e alla dissociazione dell’acido iodidrico.

Ho personalmente utilizzato l’approccio di Mineo Chini nell’anno in cui, come incarico aggiuntivo, ho tenuto l’insegnamento di Matematica per il corso di laurea in Farmacia: enunciati chiari dei teoremi senza tante dimostrazioni, immediati esempi numerici e alcune applicazioni suggerite nel libro di Chini. I risultati sono stati soddisfacenti al di là delle mie aspettative. Non vorrei fare inorridire i matematici puri ma per un utilizzatore di matematica il concetto di funzione reale di una variabile reale è più chiaro con la definizione di Dirichlet che con quella della Teoria degli insiemi, in fondo la derivata di y = x2 è sempre dy/dx = 2x sia con l’uno sia con l’altro approccio.

Il volume di Mineo Chini ebbe un grandissimo successo, nel sito indicato in nota 1 è riportato che dell’opera uscirono sette edizioni, l’ultima nel 1923. In realtà le edizioni furono undici, l’ultima nel 1942. Confrontando le due edizioni in mio possesso, quella del 1904 (prima ed.) e quella del 1942 (undicesima ed. riv.), quest’ultima risulta arricchita di quattro capitoli nei Complementi d’Algebra e di due capitoli in Appendice riguardanti l’Integrazione dei differenziali esatti e gli Integrali curvilinei delle espressioni differenziali. Questi ultimi capitoli tengono conto degli sviluppi della Termodinamica chimico-fisica a quel tempo e contengono applicazioni all’Entropia di un sistema soggetto all’azione del calore e all’Espressione dell’entropia nel caso del gas ideale.

Un lavoro come quello di Chini non è affatto semplice, richiede tempo, costanza, consapevolezza che si va a insegnare matematica a non matematici il che significa interessarsi a materie diverse dalla propria. Non a caso la prefazione della prima edizione del 1904 termina con la seguente frase: Oso sperare che il presente libro abbia favorevole accoglienza…ciò costituirebbe…il più ambito compenso, in un lavoro al quale dedicai buona parte del tempo lasciatomi libero dalle mie molteplici occupazioni…lavoro che non fu sempre agevole.

Oggi, in Italia, sarebbe impensabile un libro di matematiche con l’approccio di quello di Chini. I docenti sono ingabbiati in settori scientifici disciplinari o settori concorsuali, il docente di matematica per un corso di laurea diverso è designato dalla Scuola (nello specifico la Scuola di Scienze) su proposta del Dipartimento di riferimento (nello specifico il Dip. di Matematica). Non è infrequente il caso in cui l’insegnamento viene affidato a un docente che ha competenze di Geometria piuttosto che di Analisi Matematica. Inoltre i docenti universitari vivono una situazione kafkiana, pagati per l’attività di insegnamento ma con progressione di carriera valutata praticamente solo dall’attività di ricerca[3]. Ne consegue che troppo spesso l’insegnamento è percepito come una seccatura che toglie tempo alla ricerca.

In Inghilterra sono più pragmatici: nel 1997 la Oxford University Press pubblicò il volume The Chemistry Maths Book (Erich Steiner, lecturer Department of Chemistry, University of Exeter, 528 pp.)[4].

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Il volume tratta la matematica necessaria per affrontare l’intera gamma di argomenti che fanno parte di un corso di laurea in chimica. É stato progettato come libro di testo per i corsi di “matematica per chimici”: la filosofia del volume di Steiner è infatti analoga a quella del libro di Chini anche se, ovviamente, è molto più completo trattando anche la matematica necessaria ad affrontare la chimica quantistica. Ognuno dei 21 capitoli inizia con i concetti e l’illustrazione del significato dei teoremi, prosegue con i metodi matematici facendo largo uso di esempi chimici e chimico fisici. Gli esercizi al termine di ogni capitolo, 900 in tutto il volume, sono un elemento essenziale dello sviluppo dell’argomento, progettato per dare allo studente una confidenza pratica con il materiale nel testo.

É interessante notare che in ogni capitolo sono inserite diverse note storiche sulla matematica (a piè di pagina)[5].

Sarebbe auspicabile che qualche docente di matematica per gli altri corsi di laurea (ma anche qualche docente di chimica) prendesse visione dei libri di Chini e di Steiner, forse renderebbe la matematica più piacevole a molti studenti…

[1] Una biografia del matematico Mineo Chini si trova in: http://www.treccani.it/enciclopedia/mineo-chini_(Dizionario-Biografico)/

[2] Che novità…

[3] Uno dei tanti guasti provocati dalla “riforma” Gelmini, la tizia del tunnel sotterraneo da Ginevra al Gran Sasso per far correre i neutrini (lei però dopo questa castroneria non è corsa via, purtroppo). Naturalmente la “riforma” non è stata il frutto della Gelmini, ma di un gruppo di “poteri forti” con lo scopo di affossare l’università pubblica, libera e democratica. Non sono certamente l’unico a pensarla così.

[4] Il libro è stato un successo, nel 2008 è stata pubblicata una seconda edizione aggiornata e ampliata.

[5] Stanislao Cannizzaro “…era assolutamente convinto che i suoi studenti dovessero tenere a mente e considerare la storia della chimica…osservava che la mente di chi sta imparando una scienza deve passare per tutte le fasi che quella stessa scienza ha attraversato nel corso della sua evoluzione storica.” (cit. da Oliver Sacks, Zio Tungsteno, Adelphi, Milano, 2002, p. 177). Evidentemente Steiner la pensa allo stesso modo, ma i chimici nostrani…

Riflessioni estive di un chimico.

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Luigi Campanella, ex Presidente SCI

Ieri 30 agosto Oliver Sacks ci ha lasciato; pensavo proprio a lui in questi giorni di vacanza in cui ho avuto l’opportunità di leggere molto di chimica e di  riflettere su alcune notizie, confermandomi nella convinzione che la nostra è una disciplina veramente affascinante per chi l’affronta senza pregiudizi e preconcetti.

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Oliver Wolf Sacks è stato un neurologo scrittore e chimico inglese di fama mondiale. Trai suoi libri più celebri si deve  citare “Risvegli” da cui è stato tratto il film magistralmente interpretato da Robert De Niro. Nell’ultimo suo libro “On the move” Sacks, che è ammalato di tumore ,racconta come alla sua malattia il grande conforto lo trova nei minerali ed  in quei regali che riceve ad ogni  compleanno dai suoi amici con la tradizionale espressione “happy birthday” seguita da un campione dell’elemento di numero atomico corrispondente all’anno di compleanno. Così il tallio all’81esimo è motivo per dubitare di arrivare al polonio (numero atomico 84)-per fortuna aggiunge-,ma forse neanche al bismuto (83) ,per guardare con rimpianto all’anno del berillio, l’anno della sua infanzia,infine per confrontare lo  sviluppo del suo tumore attraverso un confronto fra gli elementi con il numero atomico corrispondente ai vari compleanni.

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La chimica per Sacks è come una preghiera: il suo conforto diventa  la Tavola periodica di Mendeleev, da  lui definita “un mondo senza morte”. Sorprende che gli elementi chimici possano  essere tradotti in traguardi della vita: in fondo solo 6 di essi contano veramente fino a rappresentare il 99% del nostro corpo. Scrive Sacks:”ora che la morte non è più un concetto astratto,ma una presenza per  me sono tornato  a circondarmi di metalli e minerali,come quando ero ragazzo,piccoli emblemi di  eternità”.

Non tutti ugualmente accetti: così nella sua  attenzione per il bismuto si esplicita la sua predilezione di medico per i malati negletti e dimenticati.
Ho ripensato molto a Sacks quando mi è capitato di entrare in un blog gestito da  un chimico farmaceutico inglese Niraj Naik. Il nome del blog era già tutto un programma The Renegade Pharmacist: viene descritto uno studio chimico sugli effetti nell’ora successiva all’assunzione di una lattina di coca cola.

Che salto,ho pensato dalle stelle di Sacks! Ma non si tratta di scendere nelle stalle, come si potrebbe pensare: la descrizione è meticolosa e particolareggiata, con il solo dubbio della verifica sperimentale di quanto riportato. Nei primi 10 minuti entra in circolo una dose di zucchero pari a quella consigliata per un intera giornata, circa 10  cucchiaini. In 20 minuti si ha come conseguenza un picco insulinico nel sangue. Il fegato risponde trasformando ogni zucchero in grasso. Entro 40 minuti viene completato l’assorbimento di caffeina. Sale la pressione sanguigna ed il fegato scarica più zuccheri nel sistema circolatorio. Dopo 3 quarti d’ora aumenta la produzione di dopamina stimolando i centri del piacere situati nel cervello. In un’ora l’acido fosforico lega calcio, magnesio e zinco nell’intestino e questo accelera il metabolismo con il conseguente rilascio dei 3 metalli destinati alle ossa. Appena diminuisce l’eccitazione  crolla la glicemia e rischia di divenire antipatici o irritabili. Quante esperienze si devono o dovrebbero condurre per definire questo bio-percorso? Non credo sia facile dare una risposta. Credo però che la domanda più importante sia un’altra: per arrivare a conclusioni accurate su un processo così complesso le tecnologie  di cui disponiamo sono sufficienti? Anche questa risposta non è semplice da fornire, ma certo proprio questa incertezza  giustifica la massima attenzione che la comunità chimica deve prestare verso nuovi metodi di indagine  e di studio. coke1hr3-1024x1024

Proprio in questa direzione mi ha colpito una recente ricerca svolta presso il Dip.to di Chimica dell’Università di Oslo tesa a studiare i processi cellulari con un sistema innovativo di monitoraggio, definito a fluttuazioni. Tutti i processi cellulari sono governati dal moto browniano. Il movimento browniano delle proteine e delle particelle all’interno di una cellula o in prossimità di essa è regolato dalle proprietà fisiche del citoplasma della membrana cellulare e del mezzo extracellulare. Focalizzando in prossimità di una cellula in una ben determinata posizione vicino od  a contatto con essa una particella, questa può funzionare da antenna delle fluttuazioni della cellula essenziali a livello della microscala per comprendere i processi cellulari.

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L’insieme di queste considerazioni mi riporta al punto di partenza: la chimica è affascinante, sta a chi la insegna farne comprendere ed apprezzare questo fascino. Ritorna prepotente il rapporto fra didattica della chimica e scuola. La Divisione di  Didattica della SCI è impegnata perchè questo rapporto si mantenga virtuoso ed il recente decreto legge ha posto alla nostra attenzione ulteriori elementi di riflessione. Come direttore del giornale Chimica nella Scuola cercherò di cogliere questa contingenza per contribuire al lavoro della DD-SCI per allargare il dibattito e per fare sentire nelle sedi decisionali la nostra voce.

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Il difficile compito di insegnare la Chimica

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Margherita Venturi e Vincenzo Balzani

Prendendo spunto dagli ultimi e interessanti post pubblicati sul blog della SCI vorremmo aggiungere alcune considerazioni del tutto personali sui problemi che incontra l’apprendimento della Chimica, problemi che ci stanno particolarmente a cuore come discusso in una nostra recente pubblicazione [1].

È indubbio che questa disciplina viene vissuta dagli studenti come un qualche cosa di astruso e per nulla associato agli interessi quotidiani; non ci dobbiamo allora stupire se dalle poche nozioni che restano nella loro mente, che consistono spesso in formule o frasi fatte, imparate a memoria e recitate come una litania, scaturiscono idee distorte e luoghi comuni. E, quindi, non c’è neanche da meravigliarsi se i giornalisti, i parlamentari, gli amministratori e perfino le persone generalmente considerate colte esprimono sulla chimica giudizi inappropriati. Questo è doppiamente grave perché il cittadino comune non arriva a comprendere il ruolo fondamentale che la chimica svolge per la collettività e, senza un minimo di conoscenze chimiche di base, diventa preda della disinformazione diffusa e non riesce a fare scelte personali ed esprimere un parere ponderato e coerente su alcune tematiche di grande impatto sociale, come ad esempio l’inquinamento ambientale, le risorse energetiche, il riscaldamento globale.

Cosa fare allora per avvicinare gli studenti, che saranno i cittadini di domani, a questa disciplina?

Il problema (che non è solo italiano) è complesso e nessuno sembra avere la soluzione in tasca neanche a livello internazionale. Certo è che nel nostro paese la situazione, soprattutto nelle scuole superiori, è particolarmente difficile per il concorso di molti fattori: docenti poco gratificati, sia dal punto di vista remunerativo che di considerazione sociale, riduzione sempre più pesante delle ore di insegnamento della chimica, abolizione dei laboratori, mancanza di corsi di aggiornamento seri, e chi più ne ha più ne metta.

È anche vero che non ci si può affidare solo alla metodologia didattica; come non esiste il catalizzatore universale così non esiste la didattica che va bene per tutti: ogni classe e, addirittura, ogni studente sono casi speciali che necessitano di interventi “personalizzati”. Ci sono però, a nostro parere, tre indicazioni metodologiche che possono aiutare:

1) affrontare temi collegati alla realtà quotidiana e al contesto sociale;

2) utilizzare un approccio interdisciplinare;

3) sfruttare una didattica di tipo laboratoriale, intesa però in senso lato.

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Affrontare temi collegati alla realtà e usare un approccio interdisciplinare

Questi aspetti sono strettamente legati alla necessità di svecchiare i programmi, limitare i contenuti e seguire un ben preciso percorso logico che evidenzi la natura interdisciplinare della chimica.

Un corso di chimica che si esaurisce nella descrizione, sia pure chiara e corretta, degli elementi, delle molecole, del legame e delle reazioni chimiche, senza affrontare i problemi che l’uomo incontra nella vita di tutti i giorni, manca il suo più importante obiettivo educativo.

È infatti necessario che il linguaggio elementare della chimica sia utilizzato per approfondire la conoscenza della natura e per evidenziare il diretto coinvolgimento di questa disciplina nei grandi problemi dell’umanità: cibo, acqua, energia, salute, ambiente e informazione. Può essere anche stimolante per gli studenti dare uno sguardo al futuro: le grandi aspettative che riguardano la nanotecnologia, che permetterà di affrontare da un punto di vista completamente nuovo il problema della miniaturizzazione; i nuovi orizzonti che la chimica offrirà alla biologia e alla medicina, con la possibilità di realizzare macchine a livello molecolare, capaci di intervenire sulle singole cellule; il ruolo sempre più importante che la chimica svolgerà per il controllo di qualità dei prodotti e per il monitoraggio degli ambienti di lavoro.

Tutti questi argomenti si prestano, per la loro natura interdisciplinare e la loro complessità, a lezioni con la compresenza di più docenti in cui discutere le molte implicazioni di tipo etico, culturale e sociale e mettere a confronto le opinioni dei docenti di estrazione scientifica con quelle dei docenti di lettere, filosofia, storia e religione. Fra l’altro questo approccio interdisciplinare, come dice Edgar Morin, permette di far capire allo studente che la conoscenza è unica e che la realtà non può essere frazionata.

 

Sfruttare una didattica di tipo laboratoriale

Se per uno studente motivato studiare la chimica su un libro di testo può essere interessante, vedere la chimica in azione e toccare con mano i fatti attraverso esperimenti appropriati è certamente molto più affascinante e stimolante. Utilizzare questo approccio didattico, permette di proiettare lo studente nel mondo vero della chimica facendogli assaporare la bellezza della ricerca e facendolo salire sulla meravigliosa giostra che comincia a muoversi per effetto della curiosità e che si alimenta di domande per rispondere alle quali si organizzano esperimenti. Dai risultati degli esperimenti deriva la conoscenza che genera stupore e da questo nascono nuova curiosità e nuove domande. Allora, si parte per un secondo giro di giostra, alla fine del quale, inebriati dal fascino della scoperta, non si vorrebbe più scendere. Quando scatta la scintilla della curiosità lo studio perde la sua connotazione di dovere e diventa un’occasione invidiabile di imparare a conoscere, come concorderebbe Albert Einstein, che era ben conscio del valore incredibile della curiosità tanto da dire di se stesso: “Io non ho particolari talenti, sono solo appassionatamente curioso!

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È importante ricordare che la didattica laboratoriale non riguarda in modo specifico le discipline scientifiche, ma è piuttosto da intendersi come un approccio che, utilizzando la metodologia della ricerca e della risoluzione dei problemi, mira all’acquisizione di competenze invece che all’accumulo di nozioni. Il laboratorio, infatti, non va inteso solo come spazio chiuso e attrezzato, in cui poter svolgere con gli studenti un certo numero di esperimenti e dimostrazioni, ma come l’insieme di tutte le opportunità che consentono di esercitare osservazione, progettazione e sperimentazione. Si tratta, quindi, di un luogo in cui non solo si elaborano saperi, ma da cui si possono ricavare tutte le opportunità formative trasversali di carattere osservativo, logico, linguistico, utili per produrre nuove conoscenze e sviluppare nuove competenze nel pieno rispetto dei diversi stili di apprendimento. In questa prospettiva l’azione educativa si sposta dall’insegnamento all’apprendimento, cioè ai processi del far apprendere e del riflettere sul fare, allo scopo di rendere gli allievi consapevoli del processo che vivono.

Questo ambiente del laboratorio è in qualche modo assimilabile a quello della bottega rinascimentale, dove tutto partiva dalla sperimentazione creativa e nella quale gli apprendisti imparavano facendo e vedendo fare, comunicando fra loro e con i maestri, rubando con gli occhi quello che poi sarebbe diventato tecnica: le attività di laboratorio favoriscono l’apprendimento nella forma fa’ e impara, a cui sottende una forte motivazione del soggetto a impegnarsi per costruire/ricostruire il proprio modello di realtà e insegnano a sfruttare in modo positivo anche l’errore che diventa così un efficace mezzo per maturare la propria conoscenza (sbagliando si impara, recita un vecchio adagio). Questo, però, è vero solo se lo studente non è costretto a duplicare pedissequamente una ricetta predisposta dal docente, ma costruisce in maniera autonoma l’esperimento e lo vive in prima persona.

Un altro aspetto particolarmente interessante di questo approccio didattico riguarda il fatto che il lavoro in laboratorio è normalmente organizzato in gruppi e quindi l’esperienza di apprendimento è vissuta in un contesto relazionale. Il laboratorio è allora anche il luogo e l’ambiente per maturare competenze sociali, perché durante un lavoro cooperativo entrano sempre in gioco abilità comunicative, di leadership, di soluzione negoziata, di gestione dei conflitti e soprattutto di soluzione di problemi. In tale prassi, studenti e insegnanti rivestono ruoli ben definiti che invertono le idee guida della tradizione didattica trasmissiva e mettono lo studente-protagonista al centro della relazione e del processo di insegnamento-apprendimento, mentre il docente si colloca in secondo piano, quale organizzatore, guida e facilitatore nei percorsi didattici. Questo, ovviamente, non significa che il docente deve tenere un atteggiamento distaccato e passivo; al contrario, deve partecipare con gioia alle scoperte dei suoi studenti e accogliere con entusiasmo nuove idee, che potrebbero rivelarsi interessanti e innovativi spunti didattici. Come giustamente ha detto Seneca: “C’è un duplice vantaggio nell’insegnare, perché, mentre si insegna, si impara”.

La grande potenzialità dell’approccio sperimentale è molto ben descritta in un articolo della letteratura chimica americana di cui è protagonista un giovane ragazzo, Ira Remsen, diventato poi un noto chimico: “Leggendo un testo di chimica arrivai alla frase l’acido nitrico agisce sul rame. Mi stavo stancando di leggere cose così assurde e allora decisi di vedere quale fosse il significato reale di quella frase. Il rame era per me un materiale familiare, perché a quei tempi le monete da un centesimo erano in rame. Avevo visto una bottiglia di acido nitrico sulla tavola dell’ufficio del dottore dove mi mandavano per passare il tempo. Non sapevo le proprietà dell’acido nitrico, ma ormai lo spirito di avventura si era impossessato di me. Così, avendo rame e acido nitrico, potevo imparare cosa significassero le parole agisce sul. In questo modo, la frase l’acido nitrico agisce sul rame sarebbe stata qualcosa di più che un insieme di parole. Al momento, lo era ancora. Nell’interesse della scienza ero persino disposto a sacrificare uno dei pochi centesimi di rame che possedevo. Ne misi uno sul tavolo, aprii la bottiglia dell’acido, versai un po’ di liquido sulla monetina e mi preparai a osservare quello che accadeva. Ma cos’era quella magnifica cosa che stavo osservando? Il centesimo era già cambiato e non si poteva dire che fosse un cambiamento da poco. Un liquido verde-blu schiumava e fumava dalla moneta e l’aria tutt’intorno si colorava di rosso scuro. Si formò una gran nube disgustosa e soffocante. Come potevo fermarla? Provai a disfarmi di quel pasticcio prendendolo con le mani per buttarlo dalla finestra. Fu così che imparai un altro fatto: l’acido nitrico agisce non solo sul rame, ma anche sulle dita. Il dolore mi spinse a un altro esperimento non programmato. Infilai le dita nei calzoni e scoprii che l’acido nitrico agisce anche sui calzoni. Tutto considerato, quello fu l’esperimento più impressionante e forse più costoso della mia vita. Fu una rivelazione e mi spinse a desiderare di imparare di più su quel rimarchevole agisce sul”.

Forse è proprio questo che dovremmo insegnare: desiderare a imparare di più! È infatti importante sottolineare che l’insegnante di scienze non deve preoccuparsi se, durante il suo corso, non riesce a dare una risposta del tutto esauriente o conclusiva ai molti perché; deve, anzi, considerare questa limitazione come un aspetto positivo del suo insegnamento, utile per stimolare la fantasia e la curiosità dello studente e per spingerlo a cercare spiegazioni più rigorose in un livello superiore di studi.

Un’ultima considerazione riguarda il fatto inevitabile e forse giusto che ci siano discipline che interessano di più gli studenti e discipline che interessano di meno. Ciò succede in tutti i campi e in ogni momento della vita; noi esprimiamo sempre preferenze e facciamo continuamente scelte. È quindi, importante dire agli studenti che è un bene avere delle preferenze: è un contributo essenziale alla formazione della personalità che è il risultato di un continuo processo di selezione. Ma è anche altrettanto importante far capire agli studenti che è fondamentale studiare, sempre e comunque, con impegno e caparbietà tutte le discipline, comprese quelle che non amano perché un domani potrebbero riscoprirle e amarle, o avere la necessità di usarle.

[1] V. Balzani, M. Venturi: Chimica! Leggere e scrivere il libro della natura, Scienza Express, 2012;

V. Balzani, M. Venturi: Reading and Writing the Book of Nature, Royal Society of Chemistry, 2014.