Chimica e Matematica

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

a cura di Rinaldo Cervellati

Without mathematics the sciences cannot be understood, nor made clear, nor taught, nor learned.

(Roger Bacon, 1214-1292)

 

Ritengo che tutti coloro che si occupano di scienze concordino con l’affermazione di Bacone, tuttavia ancora nei primi anni del ‘900 l’insegnamento della matematica non aveva un assetto definitivo nei corsi di laurea in chimica delle università italiane. Di questa mancanza si lamenta Mineo Chini (1866-1933)[1] nella prefazione al suo libro “Corso speciale di Matematiche con numerose applicazioni ad uso principalmente dei chimici e dei naturalisti” (R. Giusti Ed., Livorno 1904), attribuendola ai continui mutamenti ministeriali[2].

Nella prefazione l’autore si propone di soddisfare il bisogno per gli studenti di Chimica e di Scienze Naturali, che vogliano modernamente istruirsi, di acquistare la conoscenza almeno delle teorie matematiche sviluppate in questo libro. Afferma inoltre di aver cercato di esporre il materiale nella forma più semplice e meno arida possibile e di essersi sforzato d’illustrare, dove ha potuto, le varie teorie mediante opportuni esempi, tratti dalla Fisica, dalla Chimica…dalla Meccanica e dalla Termodinamica. Con ciò Chini vuole dare subito un’idea di come si possano utilizzare, fuori dal campo astratto, i risultati delle matematiche. Egli è consapevole che chimici, naturalisti e anche cultori di scienze sociali siano utilizzatori di matematica, cosa che a mio parere molti degli attuali docenti di matematica nei corsi di laurea in chimica tendono a dimenticare. Poiché Chini riconosce che gli argomenti presi come esempi esulavano dalla cerchia dei suoi studi abituali, dichiara di aver consultato con vantaggio il trattato di Nernst, il classico testo di Chimica Fisica di Van’t Hoff e quello di Chimica Generale di Ostwald.

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Il Corso Speciale di Matematiche è suddiviso in quattro parti: Complementi di Algebra, Elementi di Geometria analitica, Elementi di Calcolo differenziale, Elementi di Calcolo integrale.

I concetti e i teoremi matematici sono esposti con chiarezza senza troppe dimostrazioni ma con molti esempi numerici, seguiti da applicazioni a problemi di Fisica e di Chimica. Di seguito sono riportate alcune applicazioni in Chimica.

Nei Complementi d’Algebra, le progressioni sono applicate al Calcolo del numero di atomi di carbonio contenuti nelle molecole di una particolare serie di idrocarburi, i logaritmi alla Determinazione della quantità di una sostanza che decomponendosi dà luogo a un certo volume di gas in condizioni date di pressione e temperatura, i determinati al Calcolo del numero di componenti indipendenti di un sistema nella regola delle fasi, i sistemi lineari al Calcolo, mediante l’analisi indiretta delle quantità di due sali costituenti un dato miscuglio.

Negli Elementi di Geometria analitica le coordinate cartesiane dei punti nel piano sono applicate ai Diagrammi delle leggi di Boyle e di Gay-Lussac e alla legge di Berthelot sulle concentrazioni di due solventi a miscibilità parziale, le coordinate cartesiane dei punti nello spazio all’Immagine geometrica dell’equazione di stato del gas ideale, alcune curve speciali all’Equazione di Van der Waals, l’equazione generale del piano alla Immagine geometrica della condizione affinchè un miscuglio di cloro, ossigeno e azoto dia luogo a una reazione esauriente con una determinata quantità di idrogeno.

Negli Elementi di Calcolo differenziale i limiti delle funzioni sono applicati alla Teoria del lavaggio dei precipitati, le derivate delle funzioni al Calore specifico di un corpo, alla velocità delle reazioni chimiche, e alla velocità con cui varia la quantità di sostanza che può sciogliersi in un dato solvente al variare della temperatura, il differenziale di una funzione ai Calori specifici dei gas e all’espressione del lavoro elementare esterno di un gas.

Negli Elementi di calcolo integrale, gli integrali definiti sono applicati al Calcolo della quantità di sostanza che si produce in un dato tempo in una reazione chimica nota la velocità della reazione, le equazioni differenziali del 1° ordine all’inversione dello zucchero e alla dissociazione dell’acido iodidrico.

Ho personalmente utilizzato l’approccio di Mineo Chini nell’anno in cui, come incarico aggiuntivo, ho tenuto l’insegnamento di Matematica per il corso di laurea in Farmacia: enunciati chiari dei teoremi senza tante dimostrazioni, immediati esempi numerici e alcune applicazioni suggerite nel libro di Chini. I risultati sono stati soddisfacenti al di là delle mie aspettative. Non vorrei fare inorridire i matematici puri ma per un utilizzatore di matematica il concetto di funzione reale di una variabile reale è più chiaro con la definizione di Dirichlet che con quella della Teoria degli insiemi, in fondo la derivata di y = x2 è sempre dy/dx = 2x sia con l’uno sia con l’altro approccio.

Il volume di Mineo Chini ebbe un grandissimo successo, nel sito indicato in nota 1 è riportato che dell’opera uscirono sette edizioni, l’ultima nel 1923. In realtà le edizioni furono undici, l’ultima nel 1942. Confrontando le due edizioni in mio possesso, quella del 1904 (prima ed.) e quella del 1942 (undicesima ed. riv.), quest’ultima risulta arricchita di quattro capitoli nei Complementi d’Algebra e di due capitoli in Appendice riguardanti l’Integrazione dei differenziali esatti e gli Integrali curvilinei delle espressioni differenziali. Questi ultimi capitoli tengono conto degli sviluppi della Termodinamica chimico-fisica a quel tempo e contengono applicazioni all’Entropia di un sistema soggetto all’azione del calore e all’Espressione dell’entropia nel caso del gas ideale.

Un lavoro come quello di Chini non è affatto semplice, richiede tempo, costanza, consapevolezza che si va a insegnare matematica a non matematici il che significa interessarsi a materie diverse dalla propria. Non a caso la prefazione della prima edizione del 1904 termina con la seguente frase: Oso sperare che il presente libro abbia favorevole accoglienza…ciò costituirebbe…il più ambito compenso, in un lavoro al quale dedicai buona parte del tempo lasciatomi libero dalle mie molteplici occupazioni…lavoro che non fu sempre agevole.

Oggi, in Italia, sarebbe impensabile un libro di matematiche con l’approccio di quello di Chini. I docenti sono ingabbiati in settori scientifici disciplinari o settori concorsuali, il docente di matematica per un corso di laurea diverso è designato dalla Scuola (nello specifico la Scuola di Scienze) su proposta del Dipartimento di riferimento (nello specifico il Dip. di Matematica). Non è infrequente il caso in cui l’insegnamento viene affidato a un docente che ha competenze di Geometria piuttosto che di Analisi Matematica. Inoltre i docenti universitari vivono una situazione kafkiana, pagati per l’attività di insegnamento ma con progressione di carriera valutata praticamente solo dall’attività di ricerca[3]. Ne consegue che troppo spesso l’insegnamento è percepito come una seccatura che toglie tempo alla ricerca.

In Inghilterra sono più pragmatici: nel 1997 la Oxford University Press pubblicò il volume The Chemistry Maths Book (Erich Steiner, lecturer Department of Chemistry, University of Exeter, 528 pp.)[4].

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Il volume tratta la matematica necessaria per affrontare l’intera gamma di argomenti che fanno parte di un corso di laurea in chimica. É stato progettato come libro di testo per i corsi di “matematica per chimici”: la filosofia del volume di Steiner è infatti analoga a quella del libro di Chini anche se, ovviamente, è molto più completo trattando anche la matematica necessaria ad affrontare la chimica quantistica. Ognuno dei 21 capitoli inizia con i concetti e l’illustrazione del significato dei teoremi, prosegue con i metodi matematici facendo largo uso di esempi chimici e chimico fisici. Gli esercizi al termine di ogni capitolo, 900 in tutto il volume, sono un elemento essenziale dello sviluppo dell’argomento, progettato per dare allo studente una confidenza pratica con il materiale nel testo.

É interessante notare che in ogni capitolo sono inserite diverse note storiche sulla matematica (a piè di pagina)[5].

Sarebbe auspicabile che qualche docente di matematica per gli altri corsi di laurea (ma anche qualche docente di chimica) prendesse visione dei libri di Chini e di Steiner, forse renderebbe la matematica più piacevole a molti studenti…

[1] Una biografia del matematico Mineo Chini si trova in: http://www.treccani.it/enciclopedia/mineo-chini_(Dizionario-Biografico)/

[2] Che novità…

[3] Uno dei tanti guasti provocati dalla “riforma” Gelmini, la tizia del tunnel sotterraneo da Ginevra al Gran Sasso per far correre i neutrini (lei però dopo questa castroneria non è corsa via, purtroppo). Naturalmente la “riforma” non è stata il frutto della Gelmini, ma di un gruppo di “poteri forti” con lo scopo di affossare l’università pubblica, libera e democratica. Non sono certamente l’unico a pensarla così.

[4] Il libro è stato un successo, nel 2008 è stata pubblicata una seconda edizione aggiornata e ampliata.

[5] Stanislao Cannizzaro “…era assolutamente convinto che i suoi studenti dovessero tenere a mente e considerare la storia della chimica…osservava che la mente di chi sta imparando una scienza deve passare per tutte le fasi che quella stessa scienza ha attraversato nel corso della sua evoluzione storica.” (cit. da Oliver Sacks, Zio Tungsteno, Adelphi, Milano, 2002, p. 177). Evidentemente Steiner la pensa allo stesso modo, ma i chimici nostrani…

Citazioni e memi

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Claudio Della Volpe

Ricostruire la storia dei memi (dal greco mímēma «imitazione»), cioè delle idee guida che hanno attraversato ed attraversano la nostra cultura non è facile, ma è molto stimolante. Esiste addirittura una disciplina, la memetica (parente della genetica), che serve a questo scopo, ma non ne sono un cultore; tuttavia devo confessare che mi affascina (per gli interessati una breve introduzione qui http://it.wikipedia.org/wiki/Meme).

Uno degli argomenti chiave di questo blog è la didattica e uno dei memi che contribuisce a diffondere è il concetto espresso dalla frase che compare ripetutamente nella testata e spesso citata da Vincenzo Balzani, che ha contribuito a divulgare quel concetto nella nostra comunità e più in generale in quella scientifica:

“La didattica non è riempire un vaso ma accendere un fuoco”

Vincenzo-Balzani-and-President-300x200Il senso appare abbastanza chiaro, anche se sono sicuro che se ne potrebbe discutere a lungo; la didattica, l’insegnamento e più in generale l’educazione non sono una attività in cui un docente versa delle informazioni precostituite nella testa di un discente, ma sono appunto un processo nel quale si stimolano prima di tutto le capacità critiche del soggetto discente, costruendo in lui la voglia di apprendere a partire dal suo concreto, stimolando il suo desiderio ed i suoi interessi (educare viene da e-ducere, tirare fuori); questo ha ovviamente delle conseguenze poi in tutti gli stadi dell’apprendimento, dalla tecnica didattica alla verifica medesima, che non può consistere in un banale test. In senso più generale la mente del fanciullo o del discente o la nostra non è né potrebbe essere tabula rasa, anche un neonato ha una ampia esperienza sia istintiva che di vita (ha almeno 9 mesi), ma il discente è al contrario un soggetto con cui interagire e questa interazione, come tutte le interazioni cambia entrambi i soggetti; d’altronde la cultura è per sua natura un processo è quindi non si tratta di instillarne i memi nella mente di un discente ma di lasciargliela scoprire sollecitandolo, motivandolo a parteciparvi ed a trovare una propria personale strada di acquisizione e partecipazione, per un processo che durerà tutta la sua vita: insegnare ad imparare, che potrebbe per certi aspetti essere un meme figlio del primo.

La domanda cui vorrei rispondere è qui però un’altra; chi ha pensato questo meme per primo? Da dove nasce questa frase? E qui si scopre un intero mondo, o in altre parole qui, analizzando un dettaglio, scopriamo di poter guardare alla cultura intera da uno spiraglio che ci si apre inaspettatamente, da una angolazione che ci consente di guardare da questo piccolo spiraglio una amplissima vallata.

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La citazione è riportata da Balzani (ma l’ho fatto ripetutamente anch’io) come una frase di Teofrasto; chi era costui? Uno scienziato naturalistico di epoca alessandrina, botanico, preside o meglio scolarca del Liceo di Atene, allievo di Aristotele, cui succedette nella direzione del Liceo nel 322 aC; era nato ad Ereso nel 371 a.C. e morì ad Atene nel 287 aC, siamo quindi in un periodo contemporaneo ad Alessandro il Grande, che cercò inutilmente di convincerlo a spostare la sede del Liceo nellla neofondata Alessandria. Che sarebbe poi diventata il centro della cultura dell’epoca.

Assegnazione credibile, ma non provata.

Non esiste infatti alcuna prova nei testi scritti attribuiti a Teofrasto e che ci sono rimasti di questa frase; avrebbe potuto pensarla e quasi certamente lo ha fatto come cerchero’ di provare in questo breve post, ma le cose sono più complicate.

Per migliaia di anni la cultura e le conoscenze umane si sono trasferite per via orale; la scrittura nella sua forma moderna esiste solo da poche migliaia di anni (5-6000); anche se il simbolismo grafico è probabilmente molto più antico e risale ad alcune decine di migliaia di anni ed alle pitture rupestri, i cui materiali furono opera del protochimico Homo sapiens sapiens. Opere famose ci sono state tramandate almeno inizialmente solo per via orale (Iliade ed Odissea) ed hanno acquisito forma scritta solo a partire dal VI secolo aC. Successivamente la scrittura di molte opere ci è stata tramandata attraverso la copia a mano perché la stampa è una invenzione recentissima, di mano cinese, risalente almeno al 7-800 dC. La stampa a caratteri mobili risale ancora una volta alla Cina ed al 1300 dC, mentre la sua forma europea (carissimi gli europei all’epoca erano loro gli imitatori!! la cultura cinese, inutile parlarne male oggi, so che scandalizzerò qualcuno, ma è molto molto antica, i greci nostri padri erano selvaggi al loro confronto) risale solo al XV secolo e a Gutenberg. Attualmente ci rifacciamo ad una forma elettronica, o virtuale, come si dice, che è stata inventata a partire dal 1969 (arpanet).

Consideriamo che in tutti questi casi si potevano tranquillamente fare errori. Certo con Internet è rimasto più facile sia cercare sia imbrogliare che costruire errori anche involontari. Il falso, la copia anche involontaria sono stati e sono ancora la norma; con termine nobile una opera attribuita ad un autore, ma di cui si ha ragione di sospettare per più motivi di contesto (a partire dal contenuto e dalla sua coerenza od incoerenza con altre informazioni) la effettiva originalità viene chiamata pseudo-epigrafe, e molte opere famose sono pseudoepigrafi, di fatto le attribuiamo ad un autore, ma casomai sono solo finite nell’insieme tramandato delle sue opere perché ne stava leggendo e in qualche modo quel testo copiato a mano e preziosissimo si è mescolato con le sue carte, a sua volta tramandate in una polverosa biblioteca di papiri; oggi copiamo alla grande perché pare che il taglia e incolla l’abbiamo inventato noi; ma ricordo benissimo che la mia insegnante di latino e greco (la grande Maria Pia Siviero, quante cose mi ha insegnato!) ci parlava della contaminatio, ossia della copia, della imitazione a volte al limite del plagio come di procedura comune nella letteratura latina e greca. Memi anche questi.

Se cerchiamo su internet troveremo che le attribuzioni della frase in questione o di altre estremamente simili è molto, molto varia; ve ne elenco qui qualcuna:

– Francesco Gerardi, giornalista su http://www.insegnareonline.com/rivista/cultura-ricerca-didattica/scuola

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la attribuisce a Montaigne (Michel Eyquem de Montaigne (Bordeaux, 28 febbraio 1533Saint-Michel-de-Montaigne, 13 settembre 1592) fu un filosofo, scrittore e politico francese):

“C’è una frase del grande Montaigne che parla dell’insegnamento, un pensiero davvero illuminante e che mi ha costantemente guidato durante tutta questa bellissima esperienza umana e didattica: “Insegnare ammonisce il grande pensatore non significa riempire un vaso, ma accendere un fuoco”.  

-il sito http://aforismi.meglio.it/aforisma.htm?id=8170 che è una raccolta elaborata di aforismi e frasi celebri la attribuisce a Francois Rabelais (Chinon, 4 febbraio 1494Parigi, 9 aprile 1553) è stato uno scrittore e umanista francese)

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Il bambino non è un vaso da riempire, ma un fuoco da accendere.

Qui si nota una certa modifica del contenuto, perchè solo il bambino viene considerato un fuoco da accendere e non qualunque discente.

Come si vede abbiamo qua una proposta di origine francese del testo e risalente a pochi secoli fa; ancora più recente la attribuzione in lingua inglese:

The Mind Is Not a Vessel That Needs Filling, But Wood That Needs Igniting

Su molti siti inglesi questa frase viene attribuita al poeta e drammaturgo irlandese William Butler Yeats (W. B. Yeats (13 June 1865 – 28 January 1939).

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Ma nemmeno in questo caso c’è un riferimento preciso ad un’opera dell’autore proposto.

Allora in conclusione: in Italia lo attribuiamo a Teofrasto o ad autori francesi; nei paesi di lingua inglese a Yeats (si trova l’attribuzione in 1987, Barnes & Noble Book of Quotations: Revised and Enlarged edited by Robert I. Fitzhenry, Quote Page 112, Barnes & Noble Books, Division of Harper & Row, New York); sono sicuro che cercando in altre lingue si troverebbero altre attribuzioni. Si tratta di un meme molto pervasivo e convincente.

Ma insomma come stanno le cose? Un pò di lumi li potete trovare in questo bel sito in inglese http://quoteinvestigator.com/, dove si studia l’origine delle citazioni e dove si cerca di ricostruire come il meccanismo di attribuzione sia arrivato a Yeats, probabilmente a causa di un errore di lettura in un libro del 1969. Lascio a voi la voglia di approfondire. In effetti l’unica citazione documentata della frase in questione si trova in Plutarco, proprio lui, Plutarco di Cheronea, Plutarco (in greco antico Πλούταρχος, traslitterato in Plùtarchos; Cheronea, 46 d.C./48 d.C. – Delfi, 125 d.C./127 dC) è stato un biografo, scrittore e filosofo greco antico, vissuto sotto l’Impero Romano, di cui ebbe anche la cittadinanza e dove ricoprì incarichi amministrativi. Studiò ad Atene e fu fortemente influenzato dalla filosofia di Platone (cosa che ci risulterà utile sapere nel seguito).

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Nei Moralia, una raccolta di parecchi testi a lui attribuiti, ma di cui alcuni pseudoepigrafi, in particolare nel testo L’arte di ascoltare scrive:

Alcuni allievi non vogliono avere seccature quando sono per conto loro, ma ne procurano all’insegnante, facendo continuamente domande sugli stessi argomenti, come uccellini implumi che stanno sempre a bocca aperta verso la bocca altrui e vogliono ricevere tutto già pronto e predigerito dagli altri. Così “la strada corta diventa lunga”, come dice Sofocle, non solo per loro, ma anche per gli altri: infatti, interrompendo di continuo l’insegnante con domande vuote e superflue, come se fossero in gita, intralciano l’andamento regolare dell’insegnamento, che subisce interruzioni e ritardi. Ai pigri, poi, raccomandiamo che, una volta che abbiano compreso i punti essenziali, mettano insieme il resto da soli, e guidino la ricerca con il ricordo (di ciò che hanno già appreso), e, dopo avere accolto la parola altrui come un principio ed un seme, la sviluppino e la accrescano. Infatti la mente non ha bisogno, come un vaso, di essere riempita, ma, come legna da ardere, ha bisogno solo di una scintilla che la accenda, che vi infonda l’impulso alla ricerca e il desiderio della verità.

(Plutarco di Cheronea, L’arte di ascoltare, 47 F – 48 C)

Finalmente abbiamo una citazione certa e riscontrabile. Ma ci basta? Chi era Plutarco?

Era uno studioso umanistico, storico, autore delle “Vite parallele”, conoscitore notevole sia di Teofrasto che di Platone, personaggio del tutto diverso da Teofrasto che era invece uno studioso di stampo naturalistico.

Partendo da una osservazione contenuta nel post http://quoteinvestigator.com/ sono andato alla ricerca della frase nei testi precedenti Teofrasto e qualcosa si trova. Non intendo qui che si trovi la stessa frase, ma si trovano probabilmente i predecessori di questo meme di cui parliamo.

platone

Ne La Repubblica di Platone, libro 7 è scritto:

«Se questo è vero», dissi, «dobbiamo concludere che l’educazione non è come la definiscono certuni che si professano filosofi.

Essi sostengono di instillare la scienza nell’anima che non la possiede, quasi infondessero la vista in occhi che non vedono». «In effetti sostengono questo», confermò.

«Ma il discorso attuale», insistetti, «rivela che questa facoltà insita nell’anima di ciascuno e l’organo che permette di apprendere devono essere distolti dal divenire assieme a tutta l’anima, così come l’occhio non può volgersi dalla tenebra alla luce se non assieme all’intero corpo, finché non risultino capaci di reggere alla contemplazione dell’essere e della sua parte più splendente; questo, secondo noi, è il bene. O no?» «Sì ».

«Può quindi esistere», proseguii, «un’arte della conversione, che insegni il modo più facile ed efficace di girare quell’organo. Non si tratta di infondervi la vista, bensì , presupponendo che l’abbia, ma che non sia rivolto nella giusta direzione e non guardi là dove dovrebbe, di adoperarsi per orientarlo da questa parte».

In effetti questo, la negazione dell’idea che sia possibile instillare la conoscenza come una sorta di fluido da trasmettere si trova anche nel Simposio:

Platone, Simposio (175d-e).

Allora Agatone, che si trovava da solo sull’ultimo divano, gli disse subito: “Vieni qui, Socrate, mettiti accanto a me, che io possa apprendere subito per contatto diretto i tuoi pensieri là nel vestibolo; a qualcosa devono pure aver condotto le tue riflessioni, se no saresti ancora là”. Socrate si siede e fa: “Sarebbe una buona cosa, Agatone, se i pensieri potessero scivolare da chi ne ha più a chi ne ha meno per contatto diretto, quando siamo accanto, tu ed io; come l’acqua che, attraverso un filo di lana, passa dalla coppa più piena alla più vuota. Se è così, voglio subito mettermi al tuo fianco, perché la tua grande e bella saggezza possa riempire la mia coppa. Che per la verità è un po’ così, incerta come un sogno, mentre la tua sapienza è limpida e può sfavillare ancora di più, lei che ha brillato con lo splendore della tua giovinezza e ier l’altro ha fatto faville davanti a più di trentamila greci, che prendo tutti a miei testimoni!”

(Ma vi rendete conto di quanto ci sia di interdisciplinare in questo testo classico: come l’acqua che, attraverso un filo di lana, passa dalla coppa più piena alla più vuota.: come avviene? È un fenomeno capillare o di vasi comunicanti? Bellissimo! Si veda anche il seguente http://en.wikisource.org/wiki/Popular_Science_Monthly/Volume_16/February_1880/Ancient_Methods_of_Filtration)

Tornando a La Repubblica, nel testo platonico si dice anche:

«In conclusione», ripresi, «l’aritmetica, la geometria e tutta l’educazione propedeutica che va impartita prima della dialettica devono essere proposte sin dall’infanzia, senza però conferire all’insegnamento una forma costrittiva».

«E perché?» «Perché», risposi, «l’uomo libero non deve imparare nulla con la costrizione. Le fatiche fisiche, anche se sono affrontate per forza, non peggiorano lo stato del corpo, mentre nessuna cognizione introdotta a forza nell’animo vi rimane».

«è vero», confermò.

«Quindi, carissimo», continuai, «non educare i fanciulli negli studi a forza, ma in forma di gioco: in questo modo saprai discernere ancora meglio le propensioni naturali di ciascuno».

Non basta; possiamo risalire ancora più indietro di Platone, che non ci scordiamo è 428-348 aC; possiamo risalire a Eraclito che ci è noto solo attraverso un centinaio di frammenti e che comunque non era certo un modello di chiarezza tanto da essere soprannominato “l’oscuro” perfino da Socrate!

Dice Eraclito in uno dei frammenti (e attenzione ce lo riporta Diogene Laerzio nelle Vite dei filosofi):

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Eraclito, Frammenti Efeso, 535 a.C.Efeso, 475 a.C

« πολυμαθίη νόον (ἔχειν) οὐ διδάσκει· Ἡσίοδονγὰρ ἂν ἐδίδαξε καὶ Πυθαγόρην αὖτις τε Ξενοφάνεά (τε) καὶ Ἑκαταῖον. » (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 1; frammento 40)

« Sapere molte cose non insegna ad avere intelligenza: l’avrebbe altrimenti insegnato ad Esiodo, a Pitagora e poi a Senofane e ad Ecateo»

 

Non riesco a risalire più indietro, ma siamo arrivati quasi 600 anni prima di Plutarco. Tenete bene in vista la parola di Eraclito: πολυμαθίη, in italiano polimazia.

Non sapete cosa è la polimazia? Beh siete in buona compagnia.

Trovate una disamina del termine qui (http://adrianomaini.tumblr.com/post/16784962829/la-polimazia-cenni-storici#.VANzVEg0c38)

Per quanto sia termine disusato ed ormai bandito da tanti vocabolari italiani la Polimatia o Polimazia ha attraverso i secoli costituito un caso nel mondo della speculazione. 

A livello puramente filologico il Battaglia, sotto voce annota ”Complesso di molte conoscenze su argomenti svariati e senza sistematicità; erudizione poco organica: in particolare nella terminologia kantiana, le acquisizioni razionali distinte dalla conoscenza dei fatti storici” [(dal Battaglia si ricava anche l’evoluzione etimologica del termine che sarebbe giunto in latino e quindi in italiano dal termine greco “polumatheia” a sua volta elaborato da un “polumathes” in italiano polimate vale a dire, definizione sempre tratta dal Battaglia “Che possiede una vasta dottrina o un’erudizione sterminata” con il termine greco coniato dalla fusione di “polùs” (= molto) con il verbo “manthano” (= imparo)].

La graduale evoluzione negativa dell’accezione polimatia si può scoprire nel pensiero di Giovanni Gentile che scrisse: “Il sapere concepito come materia d’insegnamento si rifrange e disperde, perché dà luogo all’erudizione, alla polimazia, che non è sapere” (in “Sommario di Pedagogia, Bari, 1923, II, p. 99).

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E abbiamo chiuso il cerchio; se perfino l’odiato Gentile rifiuta la polimazia, e dice qualcosa con cui non si può che essere d’accordo cosa rimane ad un moderno didatta contestatore? A voi la palla!

Nota: colgo l’occasione del commento di Leonardo Libero per aggiungere: La maieutica socratica e l’ironia che la accompagna hanno almeno due contatti con quel che dico: 1) la maieutica tira fuori da te discente la tua verità e questo concetto è ovviamente molto simile sia pur non identico a quello di Plutarco 2) l’ironia che è intrinseca alla maieutica è uno dei caratteri base analizzati da Teofrasto ne “I caratteri”; e infine la maieutica è la prova che l’idea base espressa da Plutarco esisteva già secoli prima che lui la esprimesse e Teofrasto, uomo di grande cultura e insegnante e scolarca di Atene non poteva non conoscerla.

Per approfondire:

http://it.scribd.com/doc/61911540/Eraclito-Vita-e-Frammenti-Traduzione-Di-Giovanni-Gentile-ITA

Chimica alle elementari.

Un bambino di 9-10 anni può comprendere il significato di una reazione chimica dal punto di vista simbolico?

a cura di Silvana Saiello, presidente della Divisione Didattica della SCI

Ebbene Si! Ora vi racconto come diventa possibile!

Proprio con questo obiettivo ho lavorato, con la collaborazione di Gustavo Avitabile, insieme alla maestra Mariella Pennino con la sua classe V della scuola primaria. Abbiamo innanzitutto diviso la classe in sei gruppi ciascuno costituito da tre bambini e, prima di cominciare, abbiamo chiesto ai bambini che cosa veniva loro in mente quando sentivano la parola Chimica. Tra le risposte più o meno ovvie – un laboratorio con bottiglie e ampolle, una trasformazione che avviene tra scoppi e fumo ecc… – ne è venuta fuori una molto interessante e funzionale ai nostri scopi.

“La Chimica è quando mettiamo insieme due cose e se ne ottiene un’altra diversa”.

Ho riportato questa risposta, insieme alle altre, sulla lavagna a fogli che abbiamo utilizzato. Ero molto emozionata e felice di aver avuto un assist così preciso! Abbiamo continuato proponendo ai bambini di mettere insieme, ma anche di trasformare in qualcos’altro oggetti visibili e maneggiabili, e cioè pezzi di pasta, quella da mangiare che si trova al supermercato.

Abbiamo preparato quattro recipienti contenenti quattro tipi diversi di pasta: Pennoni, Sigarette, Tortiglioni e Tubetti. I bambini avevano le loro concezioni sugli atomi che non abbiamo esplorato per evitare che ci portassero troppo lontano ed abbiamo, invece, cominciato un gioco nel quale abbiamo “fatto finta” che i pezzi di pasta fossero “atomi”.

Per usare i simboli come fanno i chimici, abbiamo negoziato prima in piccolo gruppo e poi in gruppo classe, un nome in codice per ciascun pezzo con una regola condivisa: il simbolo da utilizzare deve essere costituito da una sola lettera maiuscola oppure da due lettere,  una maiuscola e una minuscola. Sono così venuti fuori i simboli che seguono: Pe per pennoni, Tt per tortiglioni, St per sigarette e Tb per tubetti.

Abbiamo continuato trasformando in simboli le operazioni che ogni gruppo faceva aggiungendo o togliendo pezzi dai recipienti di lavoro: 2Tb + 7Tb = 9Tb; 5Tt +2Tt = 7Tt; 8Pe + 2 Pe = 10 Pe…

A questo punto siamo pronti per proseguire: lego insieme sette Sigarette e costruisco un braccialetto. Una magia! Abbiamo trasformato SETTE cose in UNA cosa diversa ma fatta di quelle SETTE cose!

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I bambini sanno che una formula è un insieme di lettere e numeri che descrivono quello che facciamo perché l’hanno già utilizzata in “matematica”. Quindi possiamo chiederci: ”Quale formula potremmo dare a questo braccialetto? Dopo un po’ di discussione guidata all’interno dei gruppi raccogliamo le proposte.

Quella più “economica” – la maestra utilizza questa parola anche in altre occasioni – risulta essere 1Pe7. Giochiamo liberamente a costruire braccialetti e a scrivere le loro formule!

Poi una consegna un po’ più complicata.

Ogni bambino sceglie la formula di un braccialetto che vuole costruire. In questo modo ogni gruppo deve costruire tre braccialetti. Ogni gruppo deve fare i conti dei pezzi di pasta diversa da acquistare. Il capogruppo va a “fare la spesa” nel negozio dei contenitori della classe, ma è obbligato ad acquistare tutti e soli i pezzi necessari alla costruzione dei tre braccialetti del gruppo.

Quindi nel recipiente di lavoro ci saranno all’”inizio” tanti pezzi separati e alla” fine” solo i braccialetti costruiti da ciascun bambino. I bambini si divertono e non sbagliano!

Ora decidiamo di scrivere che cosa abbiamo fatto, utilizzando il simbolo → per dire “si trasformano”. Quindi in maniera molto naturale ogni bambino scrive la sua trasformazione

2 Pe  → 1 Pe2

6 Tb →1 Tb6

E via di seguito.

Complichiamo ulteriormente le cose. Vogliamo costruire 6 braccialetti di formula Tb2St. Il negoziante non vende pezzi singoli  ma solo braccialetti Tb2 eSt2

Come fare?

Dopo una rapida consultazione all’interno dei gruppi i bambini propongono di mettere nel recipiente di lavoro 6Tb2e6St2. Sostengono che dopo averli rotti è sufficiente legare insieme 2Tb e 1St per 6 volte e costruire così 6Tb2St. Un gruppo, però, fa subito notare che così non si rispetta la regola di consumare tutto, nel recipiente di lavoro avanzano 6St.

Quindi se compriamo 6Tb2 e 6St2 costruiamo 6 braccialetti Tb2St1ed avanzano 6St. Ma allora quanti braccialetti Stbisogna acquistare per consumare tutti i 6 braccialetti Tb2?

Semplice non è necessario acquistare 6 braccialetti St2 ne bastano solo 3.

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Scriviamo allora quello che è successo:

2 Tb2   +   1St2   →   2 Tb2St1

Quando i chimici scrivono:

2 H2   +   1O2   →   2 H2O

succede qualche cosa di simile.

La cosa interessante è anche la conclusione di questa storia.

Quando abbiamo osservato che ci sembrava strano che 2+1 (i numeri a sinistra) producesse 2 (a destra) e non 3, un bambino ha risposto: “Il + dei chimici è diverso dal + dei matematici, almeno di quelli che conosciamo” e aggiunge “Il più dei chimici significa mettere insieme e trasformare rompendo e legando. Quindi il + dei chimici racconta una storia un po’ più lunga del + dei matematici”.

Nella figura l’affascinante  “storia” del gruppo ATONOMIA. Notiamo che i bambini chiamano FORMULA la REAZIONE perché per i bambini della scuola primaria il concetto di formula è associato a tutte le diverse scritture simboliche che utilizzano a cominciare da quelle utili a calcolare le aree delle figure piane

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I dettagli di questo intervento didattico saranno presentati in un Poster al XVIII Congresso della Divisione Didattica SCI a Napoli nel ottobre 2013

Recensione.”La Chimica fa bene” con l’Introduzione al libro.

a cura di Anna Raspolli

Recensione a: Gianni Fochi, “La chimica fa bene”, Giunti, Firenze-Milano, ottobre 2012, 186 pagg., 14 €

copj170.aspConosciamo da tempo Gianni Fochi come divulgatore capace di tradurre in termini semplici anche i concetti chimici più ostici. I suoi due libri longanesiani (“Il segreto della chimica”, ora terza edizione TEA, e “Fischi per fiaschi nell’italiano scientifico”) ne sono esempi che s’aggiungono ai suoi interventi giornalistici e televisivi.
La sua nuova opera pubblicata dalla Giunti contiene ancora molte pagine divulgative, che spiegano fatti comuni, con però dietro dei perché tutt’altro che banali: capelli che all’aria umida perdono la piega (ah, il legame a idrogeno!), le immagini che si formano negli schermi a cristalli liquidi, la tecnologia delle bibite gassate, gli occhiali che si scuriscono reversibilmente al sole, l’effetto antighiaccio del sale sulle strade. Oppure: che cos’è il fuoco? Perché l’acqua lo spegne, mentre la benzina brucia? Se si vuole invertire il senso naturale dell’osmosi per dissalare  l’acqua di mare, bisogna andar contro il secondo principio della termodinamica? Come funziona la carta copiativa che apparentemente non ha inchiostro? Come s’ottiene il ferro dai minerali? Perché riciclare l’alluminio conviene? Ed altro ancora. Ma stavolta Fochi ha inserito idee sue personali sulle ragioni della brutta immagine popolare della chimica. Idee  che potranno suscitare controversie appassionanti, perché non si contrappongono solo all’ambientalismo irrazionale, ma anche agli atteggiamenti di certi settori della chimica stessa. Non sempre, secondo Fochi, l’orientamento alla scelta universitaria è fatto dai chimici in modo opportuno; alcuni poi assolutizzano la green chemistry come se il resto della chimica fosse da bocciare senza appello. L’industria dal canto suo — sostiene l’autore — sbaglia gravemente quando evita il confronto sui problemi sanitari e ambientali del passato, rischiando di vanificare gli sforzi in atto per ottenere la fiducia dei cittadini. Sotto quest’aspetto la chimica italiana, secondo Fochi, poteva sfruttare meglio la grande occasione offerta nel 2011 dall’anno internazionale.

Il volume è scritto senza pedanterie ed è di veloce e piacevolissima lettura, e si presta ad essere proposto anche ad una platea vastissima di non addetti ai lavori, primi tra tutti gli studenti delle scuole superiori,  che con passione e curiosità si avvicinano alla scienza ed alle problematiche ambientali.  Nelle pagine di Fochi questa passione e curiosità traspaiono sempre,  insieme all’orgoglio di essere  un chimico.

Nota del blogmaster: La Casa editrice Giunti ci ha concesso di pubblicare qui l’introduzione del libro.

Introduzione
Come amarla difendendosi dai chimici

M’accingo a scrivere queste pagine mentre è ancora fresco il ricordo delle molte iniziative avviate in Italia nel 2011, proclamato dalle Nazioni Unite anno internazionale della chimica. L’idea è stata lanciata dall’Unione Internazionale per la Chimica Pura e Applicata (IUPAC) e dall’UNESCO. Se la prima di queste due organizzazioni è conosciuta dagli addetti ai lavori, la seconda è arcinota in tutto il mondo e s’occupa della cultura in genere, non solo di quella scientifica. Il suo simbolo, dove le sei lettere della sigla sono disposte come colonne d’un tempio greco, fanno pensare subito a ciò che in senso umanistico si ritiene un patrimonio meritevole d’esser conservato: dagli scavi archeologici di Pompei al folklore. Ed ecco ora anche il bisogno di presentare solennemente la chimica come tesoro per l’umanità: strumento potentissimo per la conoscenza della natura, inerte o viva che essa sia, e per il benessere materiale.
L’11 febbraio 2011 l’inaugurazione italiana ha visto riuniti personaggi di grande spicco presso la Scuola Normale Superiore di Pisa. Come ricordato in quel convegno da Vincenzo Barone, presidente della Società Chimica Italiana, occorre lanciare un messaggio forte e chiaro all’opinione pubblica e ai politici in particolare: la chimica deve essere difesa contro i pregiudizi che ne deturpano l’immagine, alimentati dall’ignoranza e talvolta anche dalla malafede. Purtroppo infatti la gente — ha aggiunto Giorgio Squinzi, l’attuale presidente della Confindustria, che allora era presidente della Federchimica — è emotiva e quindi influenzabile dal terrorismo ambientale.
Di sicuro le correnti estreme e irrazionali della galassia ambientalista, cui spesso e volentieri i media fanno colpevolmente da cassa di risonanza, hanno un ruolo assai pesante nella pessima reputazione che affligge la chimica. Però un giudice, che si trovasse incaricato del processo ai responsabili di questa situazione e la studiasse a fondo in tutti i suoi risvolti, finirebbe per estendere l’indagine e accusare di concorso ben altre categorie.
Secondo me, nell’anno internazionale della chimica, s’è persa un po’ l’occasione d’intessere col pubblico un dialogo davvero fruttuoso. Si sarebbero dovuti coinvolgere ampiamente i cittadini nel far luce e chiarezza su un passato da discutere con spirito scientifico e storico, in un confronto aperto, finalmente sollecitato dalla chimica stessa. Mi conforta in questa mia convinzione ciò che ha scritto proprio nel 2011 su «La Chimica e l’Industria», organo della Società Chimica Italiana, una personalità chimica di lungo corso, Giorgio Nebbia, già professore all’Università di Bari. Egli ha ricordato che «la storia degli anni recenti è piena di episodi di danni alla salute e all’ambiente, provocati da industrie e sostanze chimiche non perché tali sostanze siano chimiche, ma perché sono stati imprudenti e incapaci i produttori, i trasportatori, gli utilizzatori».
Un libretto per i ragazzini, Tutto è chimica, dei francesi Christophe Joussot-Dubien e Catherine Rabbe, esalta la chimica, ma, come proprio all’inizio del 2011 segnalava Luigi Dell’Aglio recensendolo sul quotidiano «Avvenire», non ne nasconde le colpe. Inoltre, nell’invogliare la gioventù a dedicarsi a questa scienza, i due scrittori francesi avvertono: «Diventare chimico a volte è duro, bisogna studiare tanto, ma poi ci si trova a svolgere un lavoro interessantissimo». Guai a promettere il paese dei balocchi, a far balenare spettacolarità e lustrini come se iscriversi a un corso di laurea chimico fosse uguale ad andare in un salone di videogiochi.
«Intendiamoci: se tutto è spettacolo, è giusto enfatizzare questi aspetti» scrive, ancora su «La Chimica e l’Industria», Sergio Carrà del Politecnico di Milano. Si riferisce alla tendenza «a porre l’accento, in modo anche pittoresco, sulle meraviglie di un mondo microscopico». Nel titolo dell’articolo insinua però fin dall’inizio qualche dubbio sull’insieme delle iniziative in corso. Secondo lui occorre valutare l’efficacia di manifestazioni volte a far giovani proseliti: «Personalmente dubito che l’approccio menzionato sia il più efficace. […] È opportuno ridimensionare un messaggio che pone l’accento sugli aspetti estetici ed edonistici, dando più spazio a quegli aspetti duri che stanno alla base di molte realizzazioni tecnologiche».
Questo libro nasce proprio per affrontare problemi del genere, e non ha dunque soltanto un nocciolo divulgativo. Affiora qua e là, motivo conduttore a volte discreto e a volte invece prorompente come l’accompagnamento musicale d’un film, un mio certo modo di vedere le cose, formatosi mano a mano in quasi quarant’anni: quelli in cui, dopo la laurea, mi sono trovato parte di vari ambienti chimici, senza mai venire integrato del tutto da nessuno di essi.
Ringrazio chi avrà la voglia e la pazienza di leggere sino all’ultima pagina, e affido alla sua benevolenza il giudizio sulle spiegazioni scientifiche e sulle mie idee personali che le accompagnano e le intercalano. Ringrazio infine la casa editrice Giunti, che m’ha dato quest’occasione.

                                                                                               Gianni Fochi

La chimica. Cultura destinata a scomparire? Chi la promuoverà?

 Nota del blogmaster: ospitiamo questa volta un intervento “sopra le righe”, un intervento “contro”, insomma qualcosa che forse è destinato a far discutere; l’autore è un chimico che è docente della scuola secondaria e ci illustra un punto di vista fortemente polemico su come vanno le cose, specie dal punto di vista pratico; molti aspetti sono più sindacali che culturali e ovviamente questo intervento non esprime le posizioni della SCI; ma se non ne parliamo fra di noi quando e dove ne parliamo? Fatevi provocare, ma mi raccomando con “netiquette”.

a cura di Roberto Zanrè Ph.D.

 Amo la scuola pubblica e in quanto docente credo sia mio dovere valorizzarla e difenderla.

Amo la cultura scientifica e in quanto docente laureato in discipline scientifiche penso sia mio diritto/dovere valorizzarla e promuoverla.

Amo la cultura chimica e in quanto docente di chimica e ricercatore penso sia mio diritto/dovere amare, valorizzare e promuovere la cultura chimica.

Oggi più che mai è estremamente attuale la necessità di valorizzare la scuola pubblica e la cultura scientifica. Nell’ambito della cultura scientifica, in questa sede sottolineo il fondamentale contributo della chimica alla formazione e alla crescita di una società moderna.

E’ certamente noto a tutti che le misure e gli interventi adatti e necessari a valorizzare (tutta) la cultura siano molteplici e si fondino su due impliciti presupposti fondamentali: sulla competenza e sulla qualità (della politica scolastica, dei docenti, dei curricola, delle strutture). Dal lato della docenza, in particolare, tutte le numerose qualità che deve possedere un bravo insegnante sono importanti, ma si devono reggere su fondamentali di competenza (certamente non solo disciplinare).

La domanda è semplice: la cultura chimica da chi dovrebbe essere trasmessa? Da un laureato in discipline chimiche che ama la cultura di cui è promotore o da un laureato che ha impegnato le proprie risorse psicologiche e mentali in altre discipline?

Se le politiche scolastiche non integrano questi valori (competenza, qualità, merito) alla fine il danno non sarà solo per l’utenza e per la società, ma per la scuola pubblica stessa, che perderebbe col tempo il proprio significato e il proprio slancio, trovandosi sempre più lontana dalla propria mission. I risultati di una politica scolastica che, con varie motivazioni, ha derogato da questi principi sono sotto gli occhi di qualunque “addetto ai lavori” e anche l’opinione pubblica comincia per fortuna a rendersene conto. Sembra finito il tempo in cui si poteva tranquillamente pensare alla scuola in un modo indipendente dalla qualità.

Tuttavia nel nostro Paese, ancora oggi, forze legate ad un’anacronistica idea di scuola, al privilegio, a interessi individuali e particolari – mentre agiscono dietro le quinte per mezzo di colpi di mano –  continuano ad alimentare surreali dibattiti sulla politica scolastica, sui curricola, sui docenti, che nulla hanno a che vedere con la qualità e la competenza. Sono dibattiti chiaramente pretestuosi, che mentre si fanno scudo di concetti non compresi nel loro vero senso profondo – tra cui il significativo, importante e stravolto concetto di “integrazione della cultura scientifica” – fanno trapelare il vero obiettivo della discussione, che è quello di aprire possibili discipline a insegnanti che occupano graduatorie intasate da migliaia di laureati e usare, ancora una volta, la scuola per offrire sbocchi occupazionali, con un totale disinteresse per la qualità della formazione che la scuola pubblica dovrebbe garantire. L’opinione pubblica, distratta e non compiutamente informata, non pare avere alcun diritto di capire se questo agire possa avere conseguenze sulla qualità della formazione dei propri figli e dunque non ha il diritto di esercitare una consapevole scelta.

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Che qualche insegnante proponga e sostenga questo tipo di scelte è invece non facilmente commentabile. Sono comprensibili le preoccupazioni per il proprio lavoro, ma queste preoccupazioni non dovrebbero mai fornire pretestuosi argomenti di sostegno ad artificiose visioni, che hanno come risultato solo quello di distruggere sul nascere una seria politica scolastica e di togliere allo studente il diritto primario di avere un insegnamento modulato da un docente che ama e che sia competente al massimo grado possibile nella materia insegnata.

Non è facile doversi rassegnare a questa situazione, nella quale ancora oggi alcuni docenti della classe di concorso A060, in varie sedi e con documenti da loro sottoscritti, avanzano la pretesa di insegnare (o continuare a insegnare) una disciplina nelle quale per la stragrande maggioranza NON sono laureati, attraverso la costituzione delle nuove classi di concorso in fase di approvazione (vedere bozza datata 08/11/2012), tra l’altro cercando di far imporre questa impostazione anche nei nuovi licei.

Politiche scolastiche che prescindono dalla qualità sono state fallimentari nel passato e saranno fallimentari sempre, per ragioni fin troppo ovvie. Infatti, quel poco che si ottiene oggi (per esempio in termini occupazionali per una categoria di laureati) nel prossimo futuro verrà pagato a caro prezzo dall’intero sistema Paese. Siamo sicuri che distruggere completamente la scuola pubblica e la cultura scientifica sia un vantaggio? Invito a una seria riflessione su questo, sgombrando la mente e il cuore dai propri personali e immediati interessi.

Non dimentichiamo, tra l’altro, che anche noi insegnanti siamo fruitori della scuola pubblica e infatti siamo in prima fila a lamentarci se i nostri figli incontrano docenti poco preparati in una particolare disciplina. Questa è esperienza abbastanza diffusa e la chimica, per esempio al liceo, ne è un esempio paradigmatico.

Molte persone hanno avuto esperienza di come venga insegnata la chimica al liceo: purtroppo, a migliaia di studenti liceali inconsapevoli è stata negata l’irripetibile opportunità di un’autentica conoscenza della chimica. Non a caso sono pochissimi gli studenti che intraprendono la loro carriera universitaria nei corsi di laurea chimici. Si tratta di poche centinaia di studenti in tutta Italia, in gran parte studenti molto motivati e provenienti in buona misura dagli istituti tecnici o dagli ottimi licei scientifici tecnologici – valida sperimentazione purtroppo ora ad esaurimento – nei quali la chimica viene insegnata compiutamente solo da docenti chimici.

Chi si laurea in chimica deve affrontare uno dei corsi di laurea più difficili. La preparazione di un chimico non è e non può essere solo teorica e infatti per laurearsi bisogna svolgere anche molta attività laboratoriale e fare almeno un anno di attività di ricerca sperimentale. Non in tutti i corsi di laurea avviene questo. Altri corsi di laurea sono molto frequentati e sfornano migliaia di laureati, a fronte delle poche centinaia di laureati in chimica.

Solo chi ha sostenuto appena qualche esame teorico di chimica (magari superato con votazione minima?) può auto convincersi di conoscere la chimica e persino di poter essere in grado di insegnarla.  Ma qualunque insegnante realmente competente sa bene cosa significhi “possedere” una disciplina al punto da poterla insegnare.

Se il paradigma per poter insegnare una disciplina fosse quello di aver sostenuto qualche esame universitario, allora allo stesso modo la chimica potrebbe essere insegnata da ingegneri, fisici, astronomi, architetti, eccetera, forse persino a maggior titolo dei docenti che popolano la classe di concorso A060. Allo stesso modo, per fare un esempio, anche un chimico potrebbe insegnare matematica e fisica alle superiori, visto che un chimico sostiene circa 10 esami di matematica e fisica, anche di livello molto alto.

L’unico risultato di questa impropria, usurpante e miope volontà politica di non valorizzare le specifiche competenze dei docenti – per esempio mediante largo ricorso ad anacronistiche e novecentesche “atipicità” (stessa materia insegnabile da docenti appartenenti a più classi di concorso) – sarà quella di distruggere definitivamente la cultura scientifica (e in particolare quella chimica) in Italia, già oggi soggetta a misconcezioni e conseguenti pregiudizi. Questo risultato potrebbe non interessare molto a chi non è chimico (e dunque vede nell’insegnamento della chimica solo una possibilità occupazionale, senza particolare interesse alla trasmissione adeguata di questa cultura) ma sia permesso a noi chimici di difendere con il massimo della volontà e delle forze la cultura di cui siamo portatori.

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La chimica viene insegnata tardi e al liceo da docenti che chimici non sono. E’ una delle poche discipline oggetto di gravi misconcetti, spesso diffusi proprio da insegnanti che non la amano.

E’ insegnata tardi (eppure si dovrebbe cominciare alle elementari, per gioco) perché nei primi anni di scuola non esistono insegnanti in grado di insegnarla. Alle medie dovrebbe essere onere degli insegnanti della classe di concorso A059 (spesso le due classi di concorso A059 e A060 sono popolate dallo stesso tipo di docenti) fornire qualche elemento introduttivo di chimica. Gli stessi insegnanti dovrebbero insegnare matematica (ma quanti esami di matematica hanno sostenuto?) e moltissime discipline scientifiche. Se lo facciano o meno per davvero è lasciato a circostanze molto variabili e non riassumibili in questo contesto.  La loro impresa appare davvero notevole e encomiabile.

Il quadro e la struttura curricolare nelle scuole superiori riflette una concezione sbagliata della cultura scientifica. Nei licei, come detto, la chimica viene affidata a insegnanti che chimici non sono.

Ora, che un chimico debba accettare questa situazione senza far sentire la propria voce francamente è chiedere un po’ troppo. Da sempre una persona che ha effettuato un certo tipo di studi scientifici è portatrice orgogliosa di quella cultura e ha anche il diritto/dovere di promuoverla e valorizzarla. Questo è del tutto naturale. Lo fa chiunque, in tutto il mondo.

Non è pertanto strano che un chimico pretenda che la chimica venga insegnata al meglio possibile. E’ invece del tutto inconcepibile che chi chimico non è pretenda di affermare di conoscere la chimica e persino di avere il diritto di insegnarla (persino al posto dei chimici), non solo nei licei ma persino negli istituti tecnici, nei quali le attività di laboratorio sono centrali e necessitano di una conoscenza particolarmente approfondita, anche in termini di igiene e sicurezza nel lavoro e comunque con ricadute su importanti settori professionali. Questo significa non avere a cuore in nessun modo la cultura chimica e potrebbe corrispondere a un preciso progetto di sua definitiva scomparsa.

Riteniamo che la nostra sia la parte della ragione e chi cerca di impostare il dibattito con l’artefatta logica di un confronto tra uguali diritti di insegnamento o, peggio, di una “diatriba” tra interessi e tra classi di concorso, si sbaglia profondamente. Anche nel nostro Paese e nella nostra scuola dovrà diventare chiaro quello che da altre parti è più che naturale, e cioè che la chimica la conoscono i chimici di gran lunga meglio di chiunque altro e dunque la scuola pubblica ha il dovere di rispettare il diritto degli studenti di vedersela insegnata da chi offre maggiori garanzie di competenza. Da questa logica è possibile derogare solo per casi particolari già citati in altri interventi – per esempio il rischio di perdita di posto di lavoro, quindi deroghe in termini di concessione annuale della possibilità di insegnare eccezionalmente ed annualmente “discipline affini” – e che mai, in nessun caso, possano costituire alibi per occupare impropriamente ed indefinitamente posizioni di “non competenza”.

La lobby che cerca di esercitare una pressione impropria non è quindi quella costituita dall’esiguo numero di chimici italiani che cerca solo di difendere il buon nome della chimica, oltre che la cultura scientifica nel senso più profondo e la qualità della scuola.

Se queste ragionevoli considerazioni appaiono troppo teoriche – visto che è molto facile parlare dicendo tutto e il contrario di tutto, secondo particolari e personali punti di vista e senza valutare tutti gli elementi e tutte le conseguenze di ogni scelta – allora direi che è giunto il momento di passare alla valutazione pratica delle cose.

Si potrebbe per esempio proporre una commissione scientifica, anche internazionale, con lo scopo di mettere a confronto in modo trasparente e secondo paradigmi scientifici universalmente riconosciuti le competenze disciplinari in chimica (tutte, non solo chiedendo cos’è la mole o la legge di Lavoisier come viene fatto nei concorsi) dei docenti A060 (quasi tutti non laureati in chimica) e di quelli A013 (laureati in discipline chimiche in generale).  Si potrebbero far svolgere alcune lezioni su vari argomenti e fare valutare queste lezioni dalla commissione, comprendendo naturalmente tutto il programma ministeriale previsto – per esempio considerando tutta la nomenclatura, tutti gli equilibri in soluzione, l’elettrochimica, la cinetica chimica, la chimica organica, eccetera – e non solo considerando qualche banale concetto di chimica di base o di storia della chimica.

E’ da sottolineare comunque che questo test è già ampiamente svolto, sia dai docenti chimici della classe A013, vincitori di numerosi Awards internazionali, sia dagli studenti delle scuole ove insegnano i docenti chimici della classe A013 (cioè studenti degli istituti tecnici e dei licei scientifici tecnologici in via di soppressione), gli unici studenti a conseguire medaglie nelle olimpiadi internazionali della chimica.

Vogliamo continuare con questa novecentesca idea di scuola o pensiamo di poter avere anche nel nostro Paese una scuola secondaria di secondo grado, licei compresi, che possa reggere confronti internazionali? In ultima analisi, solo una scuola “moderna e normale”.

 

Recensione: “CHIMICA! Leggere e scrivere il libro della natura.”

a cura di Claudio Della Volpe

CHIMICA! Leggere e scrivere il libro della Natura.di Vincenzo Balzani e Margherita Venturi Ed. ScienzaExpress  Collana:Parliamone.Trieste, 2012, 135p. 12 euro 

Come sicuramente ricorderete Galileo sostenne ne “Il Saggiatore” che il libro della Natura era scritto in lingua matematica e i suoi caratteri erano le figure geometriche; una posizione fortemente innovativa rispetto ai canoni del suo tempo.

In questo agile libretto Balzani e Venturi, due colleghi dell’Università di Bologna che tutti noi conosciamo, fortemente impegnati nella ricerca ma anche nella divulgazione, fanno un passo ulteriore; il libro della Natura è scritto in un linguaggio chimico, dove gli atomi corrispondono alle lettere e le molecole alle parole. Si tratta di un linguaggio che ci permette non solo di leggere la Natura ma anche di scriverci, inventando nuove parole, ossia nuove molecole.

E quindi sia “Chimica!” con tanto di punto esclamativo, una esclamazione che riflette l’entusiasmo di chi comprende la incredibile potenza di questo linguaggio.

chimica!

Questa correlazione fra molecole e parole ha nobili richiami nella storia culturale da Lucrezio a Leibnitz, da Levi ad Asimov e a Hoffman, da Cavaliere a Bartezzaghi; Odifreddi in un commento ad una recente conferenza di Enzensberger ricorda le molte affinità fra poesia, matematica e chimica. Insomma la Chimica è scienza centrale prima di tutto perchè essa è al centro della nostra cultura; ma perchè poi meravigliarsene? Essa ha fatto parte del nostro processo di ominazione, eravamo chimici già 100.000 anni fa, nella grotta di Blombos, preparando i primi pigmenti.

Supportato da un notevolissimo numero di illustrazioni, citazioni di concetti e frasi celebri, ma spesso dimenticate, il libro di Balzani e Venturi ripercorre la storia delle idee della Chimica e guida anche coloro che ne sono completamente a digiuno attraverso le basi della nostra disciplina; riesce perfino a parlare di chimica supramolecolare e delle nuove invenzioni chimiche legate all’imitazione dei processi naturali, a partire dalla fotosintesi artificiale, cui richiama la foglia in copertina. Tocca, e ripetutamente, i concetti base della termodinamica e della cinetica, senza mai aver bisogno di usare una sola formula matematica, ma usa invece e ripetutamente esempi chimici in una lunga e ben fornita sequenza di esempi stimolanti (dal più dolce, al più amaro, al più esplosivo, etc.).

Nel capitolo 8 affronta il tema della didattica della Chimica, a partire da un numero speciale di Science (aprile 2010) in cui si individuavano tre elementi base di un approccio diverso per la Chimica: temi legati alla realtà quotidiana; approccio interdisciplinare; laboratorio. Su questa base il libro propone quattro nuclei tematici da sviluppare (atomi, molecole, ioni – stati di aggregazione – reazioni – chimica quotidiana) ed una serie di indicazioni base sull’impostazione didattica che potrebbero essere riassunte nella famosa frase di Teofrasto:

          “Insegnare non è riempire un vaso, ma accendere un fuoco”.

L’ultimo capitolo è dedicato a quello che potremmo chiamare chimica ed etica, un argomento che spesso viene trascurato e che invece qui acquista un rilievo forte.

Un testo di questo tipo oltre allo spazio, che oggettivamente si crea da solo nel mercato culturale general-purpose, potrebbe trovare una ottima collocazione nelle indicazioni dei libri per il TFA; in grado cioè di fornire i concetti base e l’impostazione da usare nella didattica; ricco di illustrazioni e di citazioni da riusare ed approfondire, fornisce anche una serie di strumenti concreti; insomma uno sforzo culturale e creativo (e anche commerciale: il libro costa pochissimo ma ha una grafica di primo ordine), che ancora una volta fa onore alla scuola chimica di Bologna e a Vincenzo Balzani e ai suoi colleghi che continuano a fornirci esempi concreti di come divulgare la chimica e la sua bellezza, ma senza rinunciare al rigore e soprattutto all’etica, compagno irrinunciabile dello scienziato moderno.

Didattica della Chimica

a cura di Silvana Saiello

 

Perché un nuovo Blog tra i tanti che affollano la giungla della rete nel campo della didattica chimica?

L’idea è quella di provare a coniugare esigenze diverse: quella dei docenti che a vario titolo si occupano della nostra disciplina, dalla scuola dell’infanzia all’università, quella degli studenti che molto spesso cercano in rete risposte a domande specifiche e che non sono quasi mai sicuri di ricevere risposte corrette, e, perché no, quella di persone che girano nella rete curiosando tra argomenti di chimica.

Il sito della IUPAC (International Union of Pure and Applied Chemistry) contiene il cosiddetto Gold Book (consultabile qui[1]), dove ognuna di queste categorie di persone trova un’inesauribile fonte di informazioni.

La IUPAC ha il pregio di essere il “luogo” della ricerca di un linguaggio chimico condiviso e quindi riconosciuto a livello internazionale.

Per questo fa riflettere quello che si legge alla voce element/chemical element [elemento/elemento chimico]:

  1. A species of atoms; all atoms with the same number of protons in the atomic nucleus.

[Una specie di atomi; tutti gli atomi con lo stesso numero di protoni nel nucleo atomico]

  1. A pure chemical substance composed of atoms with the same number of protons in the atomic nucleus.

 Sometimes this concept is called the elementary substance as distinct from the chemical element as defined under 1, but mostly the term chemical element is used for both concepts.

[Una sostanza chimica pura composta da atomi con lo stesso numero di protoni nel nucleo atomico.

Qualche volta questo concetto si esprime parlando di “sostanza elementare” per distinguerlo dall’”elemento chimico” così come è definito al punto 1, ma per lo più il termine “elemento chimico” si usa per entrambi i concetti]

Due definizioni differenti che riguardano due livelli completamenti diversi di pensiero[2]: il livello sub-microscopico (Definizione 1) e il livello macroscopico (Definizione 2).

Chi non riesce a cogliere la differenza tra questi due livelli corre il rischio di non riuscire a farsi alcuna concezione o di farsi concezioni errate.

Tant’è che è stato necessario inserire per le due definizioni una nota a margine, che dimostra come si potrebbe tagliare la testa al toro.

La confusione, infatti, si potrebbe evitare parlando di “sostanza elementare” quando si vuole indicare l’elemento chimico nell’accezione macroscopica, perché è opinione comune che le sostanze appartengano al mondo macroscopico.

Quello che però mi lascia perplessa nella nota è quel “per lo più (mostly) si usa il termine elemento chimico per entrambi i concetti”.

Utilizzare la forma impersonale di un verbo impedisce di capire di chi è la responsabilità dell’azione, mentre nel nostro caso è molto importante capire chi lo usa e in quale contesto.

Se si tratta di chimici di professione e il contesto è un dialogo tra addetti ai lavori, i problemi di comunicazione e quindi di confusione non dovrebbero esserci, perché tutti gli interlocutori hanno ben chiara la differenza tra i due livelli.

Se invece si tratta di insegnanti e il contesto è un’aula di scuola o di università, le cose cambiano proprio perché gli interlocutori potrebbero non avere ben chiara questa differenza.

Anche con i miei studenti del II anno ho dovuto fare una riflessione un po’ approfondita per essere certa che avessero chiara questa importante differenza.

Quindi la speranza è che questo “mostly” si riferisca alla comunicazione tra addetti ai lavori!

Ma leggiamo la definizione 1: che cosa significa “una specie di atomi”?

Proviamo a leggere che cosa dice la IUPAC dell’atomo:

Smallest particle still characterizing a chemical element.

[Letteralmente: La più piccola particella ancora caratterizzante un elemento chimico]

Qui le cose si complicano!

Si parla della particella più piccola caratterizzante un elemento chimico, ma che cos’è che  caratterizza un elemento chimico? E, soprattutto, a quale definizione di elemento chimico si fa riferimento e quindi a quale livello, macroscopico o microscopico?

Se si vuole fare riferimento al livello macro, perché non si parla più semplicemente degli atomi come particelle uguali che compongono una sostanza elementare? Non sarebbe tutto più chiaro, la comunicazione non sarebbe univoca?

Forse no, perché sorgerebbe immediatamente la domanda: Uguali da quale punto di vista?

E infine perché quello “still” ? È un avverbio di tempo? Di quale tempo?

Se insegniamo ai nostri studenti che esistono diversi tipi di avverbi ci sarà un motivo?

Perché la chimica ha a che fare anche con gli avverbi?

Rimangono ancora un paio di domande senza risposta:

Quando si parla di atomi uguali che cosa si intende?

Perché quando si parla di “elemento” nella definizione 1 si parla di numero di protoni all’interno del nucleo atomico?

Come vedremo, le due domande sono fortemente correlate tra loro.

Ne riparleremo un’altra volta!

Alla prossima… in attesa delle vostre risposte, ma soprattutto delle vostre domande!


[2] A.H. Johnstone, J.C.A.L. 7, 75-83 (1991)