Quale transizione per il nostro paese.

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Luigi Campanella

L’emergenza climatica è ormai accettata da tutti, ma probabilmente proprio per questo si è finito per trascurare i suoi collegamenti con altri nodi della nostra società globalizzata: gli alti costi energetici e le fratture nella catena della globalizzazione, la crescita che sta rallentando a partire dagli USA e purtroppo il covid19 ancora non superato.

Avere trascurato valutazioni su questi punti potrebbe essere accettato se invece sulla transizione ecologica si fossero fatti passi in avanti tali da garantire quell’incremento massimo di 1,5 gradi di temperatura. In Oriente il processo deve cominciare: è molto difficile dire a Cina ed India di fermarsi, quando stanno costruendo la loro classe media e difendendo con le unghie e con i denti la difficile uscita dalla crisi pandemica!

Se poi dal mondo scendiamo in casa nostra l’allarme più serio riguarda la lentezza con cui procede la conversione alle rinnovabili. Così ad esempio nel solare fra il 2017 ed il 2021 la Germania ha montato quasi 8 terawattora, la Spagna quasi 7, la Francia quasi 4, l’Italia appena 0,4. Negli ultimi 5 anni il nostro Paese ha smesso di installare fotovoltaico. Per non parlare dell’eolico. È vero che i siti sufficientemente ventosi non sono molti, tutti lungo le creste appenniniche o al Sud e sono già occupati, ma gli operatori proprio per questo chiedono da tempo la sostituzione degli impianti eolici più vecchi con quelli più efficienti a pale più larghe che catturano il vento più in alto e chiedono anche di dare il via alle prime centrali off-shore per i quali ci sono 39 progetti presentati da possibili investitori di cui solo uno a Taranto è stato autorizzato.

Le ragioni di questo brusco rallentamento verso il rinnovabile sono certamente i ritardi degli iter procedurali sia per motivi burocratici che paesaggistici e collegati al patrimonio artistico, anche nei casi in cui la valutazione di impatto ambientale è stata eseguita. I fondi europei legati alla transizione green fanno dell’Italia uno dei Paesi che dovrebbero essere più attrattivi (l’Italia in una recente classifica è stata promossa dal 14mo al 12mo posto al mondo come Paese dove si concentreranno i maggiori investimenti) e rappresentano un’occasione da non perdere a patto che venga rispettato dal Governo l’impegno a semplificare le regole e ad accelerare i tempi dei permessi.

Il Governo ha programmi ambiziosi : vuole raggiungere i 95 gigawatt di capacità installata al 2030 rispetto ai 53 attuali, ma è necessario accelerare: alla velocità attuale il traguardo sarebbe raggiunto non nel 2030 ma nel 2048. I fondi del PNRR sono una base solida per questa accelerazione: 4 miliardi di euro per l’incremento di capacità di Res (Renewable energy sources) e 1,9 miliardi di euro per la produzione di biometano. L’Italia rispetto ai Paesi del G20 presenta una situazione di vantaggio rispetto a 3 dei goal, obbiettivi dell’agenda 2030, salute e benessere, energia pulita ed accessibile, consumo e produzione responsabili, mentre secondo una recente ricerca dell’ASVIS (Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile) il nostro tallone di Achille è rappresentato dalla Vita sott’acqua a causa della più ampia quota di pesce pescato da stock ittici collassati o in sovrasfruttamento.

In effetti rispetto a questi goal differenze e disuguaglianze si osservano  anche all’interno dei Paesi del G20, soprattutto con riferimento ai goal energia pulita ed accessibile e città sostenibili. Leggendo il rapporto fa effetto rilevare che per il goal sconfiggere la povertà per l’Italia non è stato possibile elaborare un indice per la mancanza di dati. Interessante il goal lotta ai cambiamenti climatici  una valutazione innovativa che penalizza i Paesi con una maggiore quantità di CO2 importata, come Gran Bretagna, Germania, Australia che altrimenti avrebbero riportato valori più positivi dei relativi indici,

Un altro interessante Report è quello di Energy Transition Readiness Index, realizzato da REA (Association for Renewable Energy and Clean Technology) che analizza i mercati energetici di 12 Paesi Europei e che conclude con una generale accusa circa le discrepanze fra ambizioni ed azioni intraprese.

Ma insomma la transizione dov’è?

Luigi Campanella, già Presidente SCI

Voglio tornare sul vertice dei leader per il clima “Leaders Climate Summit 2021″convocato dal presidente americano Joe Biden cambiando l’atteggiamento USA in era trumpiana rispetto al tema.
La prima impressione non può essere che positiva: si sono ripetuti impegni e traguardi che vengono enunciati sempre in questo tipo di incontri. Si e ripetuto che questo è il decennio chiave per la lotta ai cambiamenti climatici. Anche il nostro Paese attraverso il presidente Draghi ha ribadito la sua volontà di cambiare marcia “whatever it takes”.

Dopo la prima impressione vengono le domande: gli Usa secondo Biden dovrebbero in 10 anni dimezzare le proprie emissioni; come è possibile ciò se si pensa all’attuale stile di vita degli americani? Se non ci si vuole trovare al prossimo evento a constatare che siamo in ritardo quali azioni (non solo norme) si intende svolgere? Con riferimento poi al nostro Paese il presidente Draghi ha posto l’accento sulla definizione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza che consentirà all’Italia di ricevere contributi a vario titolo e modalità per più di 200 miliardi di euro dell’EU Next Generation Fund. Nonostante una certa enfasi su transizione ecologica e green deal é tutto da verificare quanto i combustibili fossili resteranno fuori dal PNRR.
I progetti riportati sono abbastanza datati ed il dubbio è perché non siano stati ancora finanziati. Circa gli interventi strutturali quelli ad esempio in favore dei porti preoccupano, oltre al rapporto di certo non virtuoso con la decarbonizzazione della società civile, i tempi di realizzazione che suggerirebbero di collocarli eventualmente in quella che qualcuno, con riferimento ad eventi calcistici, ha definito la superlega dei progetti fossili, una sorta di transizione nazionale non-ecologica.
C’è poi il rapporto con i giganti che condizionano la politica energetica nazionale ed internazionale ed il cui business ruota in maniera preponderante sui combustibili fossili, parlo di Eni,Snam, Enel. Non sono i fondi europei che possono cambiare questo rapporto, ma il coraggio della politica. Nel frattempo l’estrazione di greggio continua con le nuove trivellazioni in Adriatico, in Val d’Agri, nel più grande campo on Shore di Europa, la situazione Ilva non viene risolta anche per intenzione del Governo, la Sace sta valutando di garantire con miliardi di euro l’operato di società italiane in nuovi mega progetti fossili in Africa, nell’Artico ed in Brasile.Il futuro immediato ci dirà quanto il valore del rapporto fra fossili e rinnovabili ed il suo spostamento in favore di queste ultime veramente sia nella mente e nelle azioni dei nostri governanti.

Commenti alla PROPOSTA DI PIANO NAZIONALE INTEGRATO PER L’ENERGIA E IL CLIMA

15 marzo 2019

Gruppo di scienziati energia per litalia

Commenti alla

PROPOSTA DI PIANO NAZIONALE INTEGRATO PER L’ENERGIA E IL CLIMA 31/12/2018

Introduzione

Nella conferenza COP21 di Parigi (2015) si è unanimemente riconosciuto che il cambiamento climatico è il più preoccupante problema per l’umanità e si è individuato un percorso per fermarlo: la transizione dai combustibili fossili alle energie rinnovabili entro il 2050. Nella COP24 del dicembre scorso a Katowice il segretario dell’ONU Guterres ha dichiarato però che “il mondo è fuori rotta” e gli scienziati dell’IPCC hanno lanciato “un’ultima chiamata” per salvare il pianeta.

Il Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima presentato dal Governo deve necessariamente inserirsi in questo quadro. Nel Piano sono presentate molte proposte sulle quali non si può non essere d’accordo, come, la necessità di riorganizzare e potenziare i sistemi di accumulo, l’autoconsumo e la formazione di comunità energetiche. Altri punti pienamente condivisibili sono: l’urgenza di superare le attuali criticità nella distribuzione dell’energia e nell’integrazione del mercato, l’individuazione di meccanismi per risolvere il problema della povertà energetica, la necessità di aumentare i fondi e ridurre la frammentazione nei finanziamenti delle ricerche sull’energia e di promuovere un’azione di informazione e formazione delle persone
Chi si aspettava però un piano capace di riportare l’Italia nella “rotta giusta” e di rispondere “all’ultima chiamata” degli scienziati rimarrà deluso.

Energia primaria e mix energetico

Il Piano prevede una diminuzione del consumo di energia primaria, da 155 Mtep nel 2016 a 135 Mtep nel 2030: si tratta di una diminuzione di poco maggiore (5%) rispetto a quanto accadrebbe senza le misure proposte dal Piano stesso. Il mix energetico al 2030 non cambia molto rispetto a quello del 2016: viene confermata l’uscita dal carbone, ma il petrolio diminuisce solo da 36% al 31%, il gas rimane addirittura invariato al 37% e le rinnovabili aumentano soltanto dal 18% al 28%. Questi dati sono molto deludenti, tanto più che in questo modo al 2030 la quota delle rinnovabili sarebbe ancora minore sia di quella del petrolio che di quella del gas, prese separatamente. Per il mix energetico il Piano si spinge al 2040, prevedendo che la fonte prevalente di energia primaria saranno ancora i combustibili fossili (circa 65%). Questi obiettivi riguardo il mix energetico, del tutto insoddisfacenti, sono la conseguenza inevitabile di un Piano che si preoccupa di facilitare e potenziare, anziché di limitare, l’approvvigionamento e l’utilizzo di gas e petrolio. Evidentemente nella stesura del Piano ci sono state forti pressioni delle lobby che hanno interessi nella ricerca ed estrazione di idrocarburi, nell’importazione di GNL e nella messa in opera di strutture per la sua di distribuzione, e nel completamento della TAP, che pure una delle forze politiche che guida il paese sembrava volesse eliminare. Fa parte di queste pressioni il ricatto “diminuzione oil & gas uguale perdita di posti di lavoro”, anche se tutti gli studi dimostrano che il bilancio fra posti persi e posti creati nella transizione dai combustibili fossili alle energie rinnovabili sarà positivo perché l’intensità di lavoro nelle rinnovabili (industria manifatturiera) è più alto di quello che si ha nell’industria estrattiva [1,2].

Persino nel settore dell’energia elettrica, in cui le rinnovabili sono partite da una posizione molto avvantaggiata grazie all’idroelettrico preesistente, secondo il Piano più di un terzo della produzione elettrica verrà ancora da fonti fossili nel 2030. In questo settore si potrebbe certamente fare di più perché nel 2018 c’è stata una diminuzione del 27% nel costo dei pannelli fotovoltaici. Inoltre, la quantità di celle fabbricabili con un lingotto di silicio puro è destinata ad aumentare ulteriormente grazie al progresso tecnologico e si ritiene che ben prima del 2030 si svilupperanno pannelli con moduli flessibili di uso più generale. Il Piano prevede, e non si può che essere d’accordo, l’individuazione di aree idonee per la realizzazione di nuovi impianti di eolico e fotovoltaico, il repowering e rewamping degli impianti già esistenti, il potenziamento dell’obbligo di quota minima negli edifici nuovi o ristrutturati e snellimento delle pratiche burocratiche. La previsione di raggiungere con le rinnovabili 187 TWh nel 2030 (38.7% della produzione elettrica) è però deludente e notevolmente inferiore alla previsione del Coordinamento FREE (210 TWh) [3].

Per quanto riguarda la riduzione delle emissioni, il Piano si adagia sulle prescrizione della UE (riduzione delle emissioni del 40% al 2030), mentre il Parlamento europeo ha già chiesto che la riduzione sia portata 55%. Anche chi aspettava misure più conseguenti al tanto sbandierato principio “chi inquina paga” sarà deluso. Nel Piano, infatti, non c’è traccia della carbon tax [4], provvedimento molto delicato, ma necessario per la transizione energetica.

Risparmio ed efficienza

In base alle norme europee, nel periodo 2021-2030 siamo tenuti a ridurre il consumo di circa 51 Mtep. Il Piano afferma che si raggiungerà questo obiettivo risparmiando ogni anno lo 0,8% di energia rispetto ai consumi dell’anno precedente. Questo risparmio si otterrà, in gran parte adeguando e potenziando gli strumenti di sostegno già in vigore: (i) il meccanismo dei Certificati Bianchi; (2) le detrazioni fiscali per gli interventi di efficienza energetica e il recupero del patrimonio edilizio esistente; (iii) il Conto Termico; (iv) il Fondo Nazionale per l’Efficienza Energetica. Un forte contributo dovrà poi venire dal settore dei trasporti.

Il Piano prevede grandi risparmi di energia termica derivanti da una forte diffusione delle reti di teleriscaldamento alimentate da centrali termoelettriche a cogenerazione,

biomasse, o termovalorizzazione dei rifiuti (Figura 47), mentre insiste molto meno sulla opportunità di diffondere l’uso di solare termico e di pompe di calore.
La difficoltà di ridurre i consumi energetici aumentando l’efficienza è materia di vasta discussione nella letteratura scientifica [5,6]. Per raggiungere l’obiettivo prefisso sarà necessaria l’attuazione di un serio programma informativo e formativo per i cittadini, molto più incisivo dei tentativi fatti finora. Bisogna partire dal concetto di sufficienza, cioè convincere le persone e, se necessario, obbligarle mediante opportune disposizioni di legge, a ridurre l’uso dei servizi energetici. Per consumare meno, bisogna anzitutto “fare meno”: meno viaggi, minor velocità, meno luce, meno riscaldamento. Se poi tutto quello che si usa dopo aver adottato la strategia della sufficienza è più efficiente, si avrà un risparmio ancora maggiore: è il fare meno (sufficienza) con meno (efficienza).

La recente proposta di aumentare il limite di velocità in autostrada a 150 km/ora e il continuo aumento del numero, delle dimensioni e della potenza delle auto che costituiscono il parco macchine italiano non contribuiscono certamente a ridurre i consumi. Il Piano non affronta questi argomenti.

Trasporti

Nel settore dei trasporti le politiche del Piano sono deludenti. Anzitutto c’è un equivoco, purtroppo molto diffuso, dovuto anche a disposizioni di legge precedenti: si parla di “carburanti alternativi” indicando con questo nome biocarburanti, elettricità da rinnovabili, idrogeno e a volte anche gas naturale, cose che non potrebbero essere più diverse fra loro. Ad esempio (pag. 88) , “Ci si propone di accelerare quanto previsto dal comma 10 del D.Lgs 275/2016…… per la sostituzione del parco autovetture, autobus e mezzi di servizio in modo che le Pubbliche Amministrazioni …. siano obbligate all’acquisto di almeno il 30% entro il 2022, il 50% entro il 2025 e l’85% entro il 2030 di veicoli elettrici e veicoli ibridi con ricarica esterna, a metano e a idrogeno, nonché elettrici o metano nel caso degli autobus”.

Il Piano è chiaramente orientato per continuare con l’uso dei combustibili fossili. Manca qualsiasi accenno a una data indicativa per il phase out dei veicoli a benzina e diesel, fissata per il 2025 in Olanda e per il 2040 in Francia e Regno Unito. Il Piano a parole sostiene la diffusione della mobilità elettrica per persone e merci, ma si propone come obiettivo soltanto 1,6 milioni di auto elettriche “pure” nel 2030, in contrasto con stime molto superiori di altre fonti che si basano anche sulla forte riduzione nel costo delle batterie che avverrà nei prossimi anni. Ma l’energia elettrica che sarà usata nei trasporti nel 2030 sarà ancora prodotta per quasi il 40% usando combustibili fossili, per cui la penetrazioni delle rinnovabili nel settore dei trasporti stradali è affidata prevalentemente ad una selva di norme e agevolazioni per l’uso dei biocarburanti (vide infra).

Il Piano, in accordo con le compagnie petrolifere, incoraggia l’uso del metano non solo per la produzione di elettricità, ma anche come “combustibile ponte” per la mobilità. E’ vero che a parità di energia prodotta, il metano genera il 24% in meno di CO2 rispetto a benzina e gasolio, ma questo non basta per combattere il cambiamento climatico in modo sostanziale. Inoltre, va tenuto presente che Il metano è un gas serra 72 volte più potente di CO2. Poiché nella lunga filiera del metano si stima ci siano perdite di almeno il 3% rispetto alla quantità di gas usato, passando dal carbone e dal petrolio al metano c’è il rischio di peggiorare la situazione riguardo gli effetti sul clima [7]. Anche per quanto riguarda l’inquinamento, gli studi più recenti [8] indicano che il particolato prodotto dalla combustione del metano è, come massa, inferiore a quello prodotto dal gasolio, ma le particelle sono in numero superiore e più piccole, quindi potenzialmente più pericolose per la salute. Pertanto, non ha senso considerare il metano come combustibile “pulito” e come fonte energetica “alternativa” al carbone e al petrolio [9]. Questo importante concetto è ignorato dal Piano che ha per obiettivo nel 2040 una quota del 37% di energia primaria da metano, la stessa del 2016.

Nel Piano non c’è alcuna recriminazione sul fatto che le case automobilistiche italiane continuano a produrre auto a benzina o diesel e si dedicano in particolare alla fabbricazione di auto di lusso e/o di SUV, utilizzando incentivi diretti o indiretti. La FCA ha annunciato che, accanto ai SUV Alfa Romeo e Lancia che già produce, costruirà a Modena, dove gli operai della Maserati sono sotto occupati, una nuova super sportiva ad alta gamma a partire dall’autunno 2020. Ci si dovrebbe interrogare su quale sia il “valore sociale” di questo tipo di “lavoro” e sarebbe anche opportuno chiedersi per quanto tempo potranno andare avanti queste produzioni prima di trovare rifugio, ancora una volta, negli ammortizzatori sociali. Nel frattempo sempre FCA ha annunciato, in grave ritardo rispetto ai concorrenti tedeschi e francesi, la produzione di un veicolo elettrico, la 500, a partire dalla seconda metà del 2020 a Mirafiori, dove nel frattempo verranno messi in cassa integrazione per un anno 3.245 dipendenti, tra operai e dirigenti [10].

Approvvigionamenti di combustibili

l consumo di gas, che era di circa 85 Gm3 all’anno nel periodo 2005-2008, è diminuito negli ultimi anni (75,2 Gm3 nel 2017). Le previsioni SNAM sono per un consumo di 74,3 Gm3 nel 2027 e per una più decisa diminuzione negli anni successivi (70.9 Gm3 nel 2030) [11]. Gli attuali canali di fornitura del metano sono, dunque, più che sufficienti. Nonostante questo, il Piano insiste per la diversificazione degli approvvigionamenti dall’estero di gas e sostiene la necessità di agire su tre fronti: 1) ottimizzare la capacità di importazione e di distribuzione di gas naturale liquefatto (GNL); 2) aprire la TAP entro il 2020 per consentire l’importazione da 8.8 a 18 mld di m3 all’anno; 3) partecipare al progetto EastMed. L’intendimento del Piano, già contenuto nella Strategia Energetica Nazionale del precedente governo, è fare dell’Italia un hub del gas: un report di SNAM chiarisce infatti che importiamo più gas di quello che serve, per poi esportarne circa l’8% a paesi del Nord Europa.

Per quanto riguarda il GNL, il Piano parte dalla considerazione che sono già su strada più di 2000 veicoli pesanti che usano questo combustibile. Prevedendo una forte crescita nel numero di questi veicoli, il Piano sostiene la necessità di sviluppare una rete di distribuzione GNL lungo i 3000 km di autostrade, mentre dovrebbe incoraggiare con iniziative concrete il passaggio del trasporto merci dalla strada alla rotaia o alle vie marittime, che pure a parole dice di voler sostenere coniando due nuovi tipi di incentivi, Ferrobonus e Marebonus.

C’è il rischio reale di costruire infrastrutture per il gas che rimarranno inutilizzate o sotto utilizzate, con spreco di denaro pubblico. Poi, al solito, ci saranno forti pressioni perché “ormai ci sono e quindi vanno utilizzate”, come accade per le centrali termoelettriche a carbone, la cui chiusura è condizionata alla concessione di compensazioni per il mancato uso, e le centrali a turbogas che vanno remunerate anche se funzionano solo parzialmente, perché troppo numerose. Poiché in futuro per vari motivi si produrrà e si userà sempre più energia elettrica, sarebbe meglio investire ancor di più di quanto previsti nel Piano in sistemi di accumulo dell’elettricità, piuttosto che in impianti di stoccaggio geologico del gas di importazione, con tutte le problematiche di sicurezza che ne derivano (vedi deposito di Minerbio).

Più in generale, le compagnie petrolifere, non avendo interesse nel carbone, sono d’accordo per la progressiva sostituzione delle centrali termoelettriche a carbone con centrali turbogas a metano, vedendo in questa trasformazione non solo un interesse economico, ma anche il modo di ridurre le preoccupazioni dell’opinione pubblica. Le compagnie petrolifere hanno anche capito che l’uso del gasolio per i trasporti non sarà difendibile a lungo dopo il diesel gate e le notizie sul più recente accordo delle industrie automobilistica tedesca di rallentare, per contenere i costi, lo sviluppo di tecnologie in grado di ridurre le emissioni dei motori a benzina e a gasolio [12]. Ufficialmente le compagnie petrolifere sostengono che è necessario usare il gas come energia ponte in attesa che le rinnovabili siano “mature”, ma in realtà, come è emerso alla World Gas Conference (Washington, 29 giugno 2018), pensano al gas come il combustibile “pulito” del futuro. Quindi c’è una forte spinta anche nel settore dei trasporti per passare al gas, spacciandolo per fonte alternativa al pari dell’energia elettrica. Ma è provato che, se anche l’energia elettrica fosse tutta ottenuta dal gas, sarebbe ugualmente più conveniente perché i motori elettrici sono 3-4 volte più efficienti di quelli a combustione [9].

Biocarburanti

Quello sui biocarburanti è un discorso molto delicato perché tocca grandi interessi economici e molti incentivi, ma è necessario fare chiarezza anche su questo argomento. Come già fece la Strategia Energetica Nazionale del precedente governo, l’attuale Piano incoraggia l’uso di biocarburanti al fine di rimpiazzare i combustibili fossili con fonti rinnovabili. A questa presa di posizione non è certamente estraneo il fatto che ENI ha puntato sulle bioraffinerie, abbondantemente pubblicizzate sulle pagine dei quotidiani fino ad affermare che “in Italia il carburante si otterrà anche dalle bucce di mele” [13].

In linea generale, può essere utile ottenere biocarburanti da prodotti di scarto, ma va anche detto che i prodotti di scarto sono in piccola quantità rispetto al consumo di carburanti. Ecco allora che il biometano di cui parla il Piano non sarà ottenuto solo da scarti e rifiuti, ma dallo “sviluppo di una filiera agricolo/industriale per la produzione di biometano sia da matrice agricola, sia da rifiuti” come chiarisce SNAM [11]. Bisogna rendersi conto che la produzione di biometano o biocarburanti liquidi di prima generazione da prodotti agricoli dedicati non è una soluzione per la mobilità sostenibile. D’altra parte, i biocarburanti di seconda generazione, che sfruttano una frazione maggiore della biomassa non sono affatto in uno stato avanzato.

L’Unione Europea, nel tentativo di abbattere la produzione di CO2, ha concesso agli Stati membri di fornire sussidi per la produzione di biodiesel da miscelare al gasolio di origine fossile. In Italia il biodiesel viene prodotto da ENI in massima parte con olio di palma proveniente da Paesi equatoriali. E’ noto [14] che il biodiesel prodotto in questo modo genera quantità di CO2 maggiori del gasolio fossile perché per creare piantagioni di olio di palma vengono abbattute foreste tropicali che hanno un’azione positiva sul clima. Per rimediare a questo errore, che gli scienziati avevano segnalato da tempo, il Parlamento Europeo, nel gennaio 2018 ha votato per escludere entro il 2020 l’olio di palma dai sussidi per il biodiesel. Il provvedimento però non è stato ancora approvato dalla Commissione Europea. Nel frattempo, la Norvegia è stata presentata una petizione per chiedere all’Esecutivo comunitario di rispettare gli impegni presi con il Parlamento UE per far cessare subito i sussidi e anticipare entro il 2025 la messa al bando dell’olio di palma nei biocarburanti prevista al momento per il 2030. E’ il solito ricatto: ormai le bioraffinerie ci sono e bisogna usarle, altrimenti si perdono posti di lavoro.
Su un piano più generale, per rappresentare un’alternativa credibile ai combustibili fossili i biocarburanti devono (a) fornire un guadagno energetico (EROEI>1), (b) offrire benefici dal punto di vista ambientale, (c) essere economicamente sostenibili e (d) non competere con la produzione di cibo. Molto spesso queste condizioni, in particolare la prima e l’ultima, non sono verificate.
I biocarburanti non possono giocare un ruolo importante nelle transizione energetica semplicemente perché l’efficienza della fotosintesi naturale è molto bassa (0,1-0,2%) e la ricerca scientifica mostra che non è possibile aumentarla in modo significativo. E’ evidente che il trasporto (a volte su lunghe distanze) e il processo di raffinazione delle biomasse contribuiscono ad abbassare ulteriormente l’EROEI dei biocarburanti, ma dati attendibili su questo parametro non vengono mai forniti dai produttori. Ma gli scienziati sanno che l’efficienza di conversione dei fotoni del sole in energia meccanica delle ruote di un’automobile (sun-to-wheels efficiency) è più di 100 volte superiore per la filiera che dal fotovoltaico porta alle auto elettriche rispetto alla filiera che dalle biomasse porta alle auto alimentate da biocarburanti [15]. Questo spiega perché gli esperti, al contrario di quanto si propone il Piano, non prevedono una sostituzione significativa dei  combustibili fossili con biocarburanti, ma una rapida, dirompente diffusione delle auto elettriche. La cosa non meraviglia perché i motori elettrici, oltre a non produrre CO2, non inquinano, sono quattro volte più efficienti dei motori a combustione interna, sono molto più facili da riparare e meno costosi da mantenere. Un ultimo grande vantaggio dell’alimentazione elettrica è che l’energia si può ottenere senza occupare suolo agricolo, ma collocando i pannelli fotovoltaici sui tetti e su altre aree inidonee alla agricoltura.

La non sostenibilità dei biocarburanti in Italia balza all’occhio anche dai dati riportati nel Piano (Figure 14 e 15): il 50% della produzione delle 997 mila tonnellate di materie prime consumate nel 2017 veniva dall’Indonesia, il 38% da altri paesi e solo il 12% dall’Italia; la materia prima è era costituita in gran parte da olii vegetali (in particolare, olio di palma), con un 5% di colture dedicate (grano, mais, soia), che probabilmente erano il principale contributo italiano.

Sicurezza e energetica

Il Piano prevede (pag. 191) che la dipendenza energetica, essenzialmente dovuta all’importazioni di petrolio e metano, diminuisca dal 77,5% nel 2016 al 72,7% nel 2025, al 71,2% nel 2030 e al 67,2 neo 2040. Con una diminuzione così lenta, non si capisce come faremo ad eliminare i combustibili fossili entro il 2050.

Il Piano si prefigge di assicurare la sicurezza energetica aumentando e differenziando le connessioni internazionali sia per la rete gas che per quella elettrica e con la formazione di scorte di sicurezza per il petrolio. Come già sottolineato, c’è il rischio concreto di costruire infrastrutture, specie nella visione di fare dell’Italia un hub del gas, che rimarranno inutilizzate o sotto utilizzate. La vera sicurezza energetica, quella che potrebbero fornirci le energie rinnovabili, non viene perseguita.

Ricerca, innovazione, formazione, cultura

Per quanto riguarda la ricerca, il Piano lamenta giustamente la scarsa disponibilità di fondi, la frammentazione dei finanziamenti e la carenza di coordinamento. Andrebbe sottolineata anche la necessità che la politica si giovi della disponibilità e dell’esperienza degli scienziati, cosa che negli ultimi anni non è avvenuta.

Per quanto riguarda i fondi per l’innovazione, nel Piano viene giustamente sottolineato che l’innovazione nel settore della sostenibilità ecologica ed energetica deve avere priorità, discorso che può sembrare ovvio, ma che ovvio non è poiché si premia ancora l’innovazione nelle ricerche petrolifere e nell’energia nucleare. Anche se il futuro è già presente, il passato non vuole passare.

il Piano si propone anche di rivedere il sistema degli incentivi e a questo proposito riporta che da una recente indagine del Ministero dell’Ambiente sono state individuate 57 misure che hanno un impatto in campo energetico per un totale di 30,6 mld€ nel 2017; di questi, 16,9 mld€ sono costituiti da sovvenzioni ai combustibili fossili (altro che“carbon tax”!), mentre i sussidi a fonti con impatto ambientale favorevole ammontano a 13,7 miliardi. Dunque, l’uso dei i combustibili fossili, responsabili per il cambiamento climatico e i danni alla salute dell’uomo, è ancora oggi incentivato più delle energie rinnovabili, che ci salveranno da queste sciagure.

Conclusione

In base agli accordi di Parigi e al successivo riesame della situazione presentato a Katowice si devono ridurre le emissioni di CO2 del 45% entro il 2030 e a zero al 2050. Il primo obiettivo che ogni Paese dovrebbe proporsi oggi è quindi una rapida transizione energetica. Non sembra che il Piano proposto dal Governo sia molto efficace per svolgere questo compito, poiché non prevede e tanto meno propone una forte riduzione dell’uso dei combustibili fossili e una forte espansione delle rinnovabili. Non accenna neppure alla necessità di facilitare, con opportune strutture stradali, la mobilità ciclistica, che ha anche un forte potenziale turistico.

Nel Piano c’è un ossequioso rispetto per gli obiettivi che l’Unione Europea si è data per il 2030, ma non ci sono idee originali e tanto meno proposte concrete per andare oltre quegli obiettivi, come converrebbe ad un Paese come l’Italia che ha abbondanti energie rinnovabili, una affermata industria manifatturiera, scarsissimi combustibili fossili, forte dipendenza energetica dall’estero e che è molto colpita nella sua vocazione turistica e culturale dai cambiamenti climatici e dall’inquinamento. Bisognerebbe finalmente capire che per avere energia abbiamo “bruciato” più di quello che si poteva “bruciare”, che l’agricoltura deve essere utilizzata solo per l’alimentazione e che il futuro è nell’energia elettrica rinnovabile.

Quello proposto dal Governo è un Piano che sembra non rendersi conto che la transizione energetica dai combustibili fossili alle energie rinnovabili è non solo necessaria, ma inevitabile e che assecondarla e anticiparla è una grande opportunità di crescita economica e riduzione dei costi causati dagli impatti ambientali e climatici. Compito del Piano dovrebbe essere anche quello gettare le basi per il passaggio dal consumismo e dall’usa e getta dell’economia lineare ad una economia circolare caratterizzata dalla sobrietà. L’Italia, che per decenni ha caricato pesanti debiti sulle spalle delle future generazioni, può e deve trovare nella transizione energetica l’occasione per un netto cambiamento di rotta che le permetterebbe anche di assumere un ruolo di guida all’interno della Unione Europea.

[1] http://www.irena.org/publications/2018/Apr/Global-Energy-Transition-A-Roadmap- to-2050
[2] M.Z. Jacobson, et al., Joule, 2017, 1, 108-21. http://dx.doi.org/10.1016/j.joule.2017.07.005

[3] https://energiaoltre.it/wp-content/…/11/Position-paper-Coordinamento-FREE-2.pdf [4] https://www.rivistamicron.it/corsivo/la- -e-possibile-a-patto-che/
[5] http://www.eueduk.com/bedazzled-energy-efficiency/

carbon-

tax

8

[6] E. Shove, BuildingResearch&Information, 2018, 46(7), 779.
[7] priceofoil.org/2017/11/09/burning-the-gas-bridge-fuel-myth/
[8] T. Wang et al., Environ. Sci. Technol., 2017, 51, 6990.
[9] https://www.transportenvironment.org/sites/te/files/2018_10_TE_GNC_e_GNL_per_au to_e_navi_ITA.pdf
[10] http://www.hdmotori.it/2018/12/04/fiat-500-elettrica-mirafiori-cassa-prezzi-uscita/
[11] pianodecennale.snamretegas.it/includes/doc/2/2019012208362018- decennale_web.pdf.
[12] https://www.repubblica.it/economia/rubriche/eurobarometro/2018/09/29/news/auto _diesel-207618352/?ref=search.
[13] Si veda, ad esempio, Corriere della Sera, 5 gennaio 2018.
[14] https://www.transportenvironment.org/news/biodiesel-increasing-eu-transport- emissions-4-instead-cutting-co2.
[15] E. Williams et al., Environ. Sci. Technol., 2015, 49, 6394

ENERGIA PER L’ITALIA (http://www.energiaperlitalia.it/energia-per-litalia/) è un gruppo di docenti e ricercatori di Università e Centri di ricerca di Bologna, coordinato dal prof. Vincenzo Balzani (vincenzo.balzani@unibo.it ; tel: 335 264411)

Energia per l’Italia

Vincenzo Balzani (coordinatore), Dipartimento di Chimica “G. Ciamician”, Università Nicola Armaroli, ISOF-CNR

Alberto Bellini, Dipartimento di Ingegneria dell’Energia Elettrica e dell’Informazione “Guglielmo Marconi”, Università

Giacomo Bergamini, Dipartimento di Chimica “G. Ciamician”, Università Enrico Bonatti, Columbia University, Lamont Earth Observatory, ISMAR-CNR

Alessandra Bonoli, Dipartimento di Ingegneria Civile, Chimica, dell’Ambiente e dei Materiali, Università

Carlo Cacciamani, Dipartimento della Protezione Civile Nazionale Romano Camassi, INGV

Sergio Castellari, INGV

Daniela Cavalcoli, Dipartimento di Fisica ed Astronomia, Università

Marco Cervino, ISAC-CNR

Maria Cristina Facchini, ISAC-CNR

Sandro Fuzzi, ISAC-CNR

Luigi Guerra, Dipartimento di Scienze dell’Educazione «Giovanni Maria Bertin», Università

Giulio Marchesini Reggiani, Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche, Università Vittorio Marletto, Servizio IdroMeteoClima, ARPA

Enrico Sangiorgi, Dipartimento di Ingegneria dell’Energia Elettrica e dell’Informazione “Guglielmo Marconi”, Università

Leonardo Setti, Dipartimento di Chimica Industriale, Università
Micol Todesco, INGV
Margherita Venturi, Dipartimento di Chimica “G. Ciamician”, Università Stefano Zamagni, Scuola di Economia, Management e Statistica, Università Gabriele Zanini, ENEA-Divisione MET

Economia circolare, fonti energetiche rinnovabili, cambiamento di stile di vita ….

Fabio Olmi*

 … tra indispensabile praticabilità reale e qualche “ma” tecnico (**).

Ormai non passa giorno che non compaiano sui giornali articoli sulla economia circolare, il riciclo dei materiali e la sostituzione delle energie di origine fossile con quelle rinnovabili. Questo sarebbe positivo e indice di aumento della sensibilità per tematiche di assoluta importanza per alimentare uno sviluppo sostenibile e cercare di combattere il riscaldamento globale, peccato che spesso si generalizzano situazioni al di là del possibile o peggio si contrabbandino idee sbagliate.

Il riciclo dei materiali

Affrontiamo brevemente la prima tematica. La promozione dell’economia circolare e la massimizzazione della raccolta differenziata dei rifiuti è senz’altro una pratica da spingere al più elevato tasso possibile[1], tuttavia la separazione di carta, plastiche, vetro e umido (organico), ciascuna incanalata nella propria filiera di recupero, non può mai esaurire tutto il materiale di rifiuto e sarà sempre accompagnata da una frazione NON differenziabile e, al momento, non più riciclabile. E anche nel recupero delle altre frazioni differenziate si ha sempre al loro interno una parte di materiale non più riciclabile e quindi non reimpiegabile all’interno delle singole filiere. Questo non sembra essere sufficientemente noto. Facciamo alcuni esempi.

Nella zona di Lucca sono ampiamente diffuse varie industrie per la fabbricazione della carta[2]. Ebbene anche questo materiale, che potrebbe sembrare riciclabile al 100%, comporta un residuo allo stato attuale non riciclabile: si tratta di vari tipi di rifiuti della lavorazione di polpa, carta e cartone che dipendono dal ciclo di lavorazione. Il Codice Europeo dei Rifiuti (CER) [3] indica, ad esempio, scarti della separazione meccanica nella produzione di polpa da rifiuti di carta e cartone, fanghi prodotti dai processi di disinchiostrazione del riciclaggio della carta , ecc. Un recente articolo apparso su La Repubblica[4] mette in evidenza il problema e l’industria locale ha progettato un termovalorizzatore per il recupero almeno energetico di quest’ultima frazione. Tuttavia l’opposizione dell’opinione pubblica ne ha bocciata la realizzazione. Dove vengono smaltiti gli scarti di produzione? Per ora per la maggior parte continuano ad intasare i depositi delle varie industrie. Di recente, dopo alcuni anni di ricerca e sperimentazione, il gruppo Sofidel[5] ha messo in produzione un materiale che sfrutta una frazione dei rifiuti di lavorazione della carta per produrre, miscelandoli con plastiche di riciclo, pancali. Il 12% del materiale di impasto è formato da residui della lavorazione della carta: speriamo che questo sistema consenta un buon riciclo di almeno parte di tali residui e che la ricerca consenta in futuro di aumentare sempre più il riciclo.

Altro esempio è il caso del tessile a Prato (il distretto tessile pratese è il più grande d’Europa e conta circa 7000 imprese di cui 2000 nel tessile in senso stretto: tessuti per l’industria dell’abbigliamento, filati per la maglieria, tessuti per l’arredamento, ecc.)       e il problema qui è diventato più acuto quando gli scarti del tessile, pari a circa 50.000 tonnellate annue, sono stati riclassificati da Rifiuti Solidi Urbani (RSU) a Rifiuti Speciali (RS) e gli impianti per smaltimento di RS in Toscana mancavano e mancano. Questi rifiuti sono di vario tipo (Codice CER 04): rifiuti da materiali compositi (fibre impregnate, elastomeri, plastomeri), materiale organico proveniente da prodotti naturali (ad es. grassi e cere), rifiuti provenienti da operazioni di finitura contenenti solventi organici, rifiuti da fibre tessili grezze, ecc.[6] È chiaro che, a parte criminali che hanno imboccato scorciatoie illecite, le aziende serie hanno trasportato i rifiuti finali della lavorazione all’inceneritore di Brescia o Terni o addirittura in Austria e i costi di smaltimento, ad esempio, dei ritagli e della peluria, sono raddoppiati, mettendo in crisi molte aziende. La peggiore soluzione per lo smaltimento di rifiuti classificabili come RSU (come quelli delle cartiere) è quella, largamente diffusa nel nostro paese, di gettarli in discarica. Invece anche questa frazione potrebbe essere valorizzata ricavando da essa energia in appositi impianti di termovalorizzazione. Marcello Gozzi, Direttore di Confindustria Toscana Nord, sostiene che non c’è economia circolare senza termovalorizzazione che trasforma in energia lo scarto ultimo del riciclo[7]. In questo modo si avrebbe come residuo finale solo una piccola quantità di ceneri. C’è chi sostiene che questo processo risulterebbe inquinante per l’aria e dunque per l’ambiente e per la salute. Esistono però ormai molti esempi di termovalorizzatori realizzati anche in centro di città come Vienna e, per rimanere in Italia, Brescia[8] che, fatti funzionare opportunamente a determinate temperature e

Fig.1 Schema di un sistema di economia circolare

con moderni sistemi di depurazione dei fumi, rendono estremamente bassi gli inquinanti nei fumi di scarico. Concludendo, non è sufficiente fare la sola differenziata e riciclare le singole frazioni differenziate: anche nel caso dell’attuazione integrale dell’economia circolare si avrà sempre una frazione finale di rifiuti , sia pure piccola, non più riciclabile.

Sfruttando un’immagine particolarmente chiara di questo processo riporto una figura (Fig.1) presente in un bellissimo, ampio e ben documentato articolo del prof. Vincenzo Balzani dell’Università di Bologna apparso recentemente sull’organo ufficiale della Società Chimica Italiana,“La chimica e l’industria”[9]. Anche se non riusciremo a sfruttare anche quest’ultima frazione dei nostri residui e dovessimo ricorrere all’uso della discarica questa accoglierebbe quantità di residui estremamente ridotte. Non c’è dubbio, infine, che nella costruzione dei nostri manufatti di ogni tipo, si dovrà prestare sempre maggiore attenzione a rendere facilmente separabili e recuperabili i componenti di natura diversa (metallo, plastica, vetro, ecc.) con cui vengono costruiti.

Le energie rinnovabili

Affrontiamo brevemente la seconda tematica. Le fonti di energia rinnovabile costituiscono la risposta al problema della disponibilità di energia sostenibile al più basso impatto inquinante e c’è chi sostiene che esse potrebbero soddisfare l’intero fabbisogno energetico dei vari Paesi sostituendo completamente i combustibili fossili (carbone, petrolio, gas naturale). Sempre nell’articolo precedentemente citato, il professor Balzani, dopo ad aver messo in chiara evidenza le difficoltà connesse alla transizione energetica dai combustibili fossili alle energie rinnovabili (e aggiunge dall’economia lineare all’economia circolare e dal consumismo alla sobrietà) riporta lo studio dettagliato fatto da M. Z Jacobson (e collaboratori) della Stanford University denominato WWS (wind, water, sunlight) che, in sintesi, sostiene che le energie rinnovabili possono sostituire completamente le fonti fossili entro il 2050 e presenta una roadmap di transizione per 139 paesi del mondo, compresa l’Italia, molto più spinta di quelle previste dagli accordi di Parigi[10]. Sostituire come sorgenti di sola energia le fonti fossili non è solo possibile ma è necessario promuoverlo sempre più rapidamente, stante i problemi causati da queste fonti fossili come cause principali del riscaldamento generale del pianeta e come inquinanti e pericolose per la nostra salute: può essere assunto a testimone di questi fatti il bel libro uscito recentemente del climatologo Luca Mercalli [11]. E’ scientificamente provato che, nella produzione di energia elettrica, si possono eliminare i combustibili fossili (centrali termiche di diverso tipo) e l’energia elettrica può alimentare vari altri processi compreso quello della mobilità, almeno sulla terra e, come risulta da alcune sperimentazioni fatte, anche via mare. Ma c’è di più: è notizia di questi giorni [12] che il gruppo Maersk, il colosso danese dei supercontainer, sarà carbon free entro il 2050. L’articolo di Luca Pagni prosegue : il gruppo ha annunciato che entro il 2030 sceglierà la tecnologia più appropriata per raggiungere emissioni zero e riporta il comunicato della società: “Non solo i governi, ma anche le imprese devono dare il loro contributo per contribuire a combattere il climate change”. Per sottolineare l’importanza della decisione è bene tener presente che l’80% delle merci viaggia per il mondo via mare e la sola nafta per uso marittimo contribuisce al 3% delle emissioni globali. Sembra invece assai problematico che i possibili sviluppi delle tecnologie portino alla sostituzione dell’attuale mobilità via aerea: come si possono rimpiazzare vantaggiosamente i reattori dei nostri attuali aerei? Il problema è ancora del tutto aperto.

Alcuni “ma”….

Fin qui alcuni aspetti propositivi per agire con successo sulle problematiche trattate. A questo punto ci sono però alcuni ma: che cosa succede per esempio in due essenziali processi industriali di base come quello per la produzione del cemento e quello per la produzione del ferro?

Il cemento rappresenta il materiale di più elevata produzione al mondo e anche l’Italia partecipava in ampia misura a questa produzione: abbiamo usato l’imperfetto perché il nostro Paese, a fronte di una produzione di 46 milioni di tonnellate nel 2006 [13], dopo la crisi del 2008, ha drasticamente ridotto la produzione e i dati del 2017 indicano un calo di oltre il 60% di questa produzione. Questo drastico ridimensionamento ha determinato la chiusura di molti impianti e la perdita del 30% di occupati. Nonostante questa situazione, che ancora non accenna a modificarsi, il cemento resta un prodotto di base indispensabile per gran parte dell’industria.

Il cemento viene prodotto con apposite apparecchiature in cementifici. Il materiale di partenza è costituito da una miscela opportunamente dosata di calcare e argilla che viene frantumata e omogeneizzata e immessa, dopo un preliminare riscaldamento, in un lungo tubo rotante inclinato riscaldato dalla combustione di rifiuti e/o carbone (l’impiego del gas metano non è economicamente conveniente in Italia). Portando la temperatura a circa 1450°C la miscela di rocce calcina e si trasforma in clinker di cemento (essenzialmente silicati di calcio). Dove si usa metano si potrà sostituire questo con biogas ottenuto dalla fermentazione di recuperi organici, ma la combustione è comunque necessaria allo sviluppo del processo: è impensabile che questo, almeno allo stato attuale della tecnologia, possa essere alimentato dall’elettricità.

C’è poi un altro processo industriale essenziale in cui la disponibilità energetica termica è connessa strettamente a trasformazioni chimiche indissolubilmente legate a combustibili fossili. Com’è noto in un altoforno viene introdotta una carica formata da minerale e carbon coke e un altoforno non potrà mai essere alimentato con energie rinnovabili o da elettricità da esse ricavata; cerchiamo di capire perché. La disponibilità del metallo più impiegato nell’industria, il ferro, è legata alla trasformazione dei suoi minerali che contengono ossigeno (in genere sono ossidi) e questo va da essi sottratto per ottenere il metallo come tale. Ebbene, la trasformazione in questione avviene in presenza di carbonio e quindi l’uso del carbone (coke) nell’altoforno non ha solo la funzione di raggiungere la necessaria temperatura di fusione del ferro ma, con un processo chimico combinandosi con l’ossigeno, rende possibile l’estrazione del ferro dai suoi minerali (con produzione di CO2).

Per la produzione di acciaio si utilizzano su ampia scala anche forni elettrici che impiegano rottami di ferro per produrre nuovamente acciaio. L’elettrosiderurgia in Italia produceva oltre 16 milioni di tonnellate di acciaio su un totale di 26,8 milioni di tonnellate e rappresentava il 62% dell’intera produzione[14]. Con la crisi dell’ILVA e la chiusura dell’altoforno di Piombino, oggi la produzione di acciaio in Italia si aggira sui 24 milioni di tonnellate e l’elettrosiderurgia ha aumentato la sua percentuale di produzione: l’Italia insieme alla Spagna costituisce il Paese a maggior produzione di acciaio con forni elettrici in Europa (in Germania la produzione da altoforno copre circa il 70% e quella da forni elettrici il 30% e su percentuali del genere si aggirano anche paesi come la Francia e il Regno Unito). E’ chiaro che questi forni si possono utilizzare solo come mezzi per riciclare il ferro di risulta da demolizioni di navi, treni, macchine, ecc., ma non potranno rimpiazzare gli altiforni nella produzione del metallo ferro dal minerale. C’è poi da tener presente che esistono due colli di bottiglia nell’impiego dei rottami di ferro: il primo è quello della impossibilità di far fronte alle richieste con una capacità di fornitura di rottami variabile e praticamente impossibile da programmare; il secondo è che il recupero non è di fatto del ferro ma di acciai di vario tipo che contengono elementi secondari (Ni, Cr, Mo, ecc.) e questi rendono difficile, se non talvolta impossibile, la loro separazione per ottenere il nuovo acciaio[15].

Nel tentativo di superare la produzione di acciaio dal minerale con altiforni si è venuto sviluppando una nuova tecnologia di estrazione del ferro, quella della produzione di “ferro ridotto” (sigla inglese di ferro ridotto diretto, DRI) cioè del cambiamento che il minerale di ferro subisce quando viene riscaldato in forno ad alte temperature (inferiori però a quella di fusione del ferro) in presenza di gas ricchi di idrocarburi (essenzialmente metano), come si evince da una bibliografia segnalatami gentilmente dal collega Della Volpe [16]. Si ottiene in questo modo un prodotto solido in grumi che solitamente viene compresso in bricchette (Fig.2) prima del raffreddamento e costituisce il prodotto commerciale

Fig. 2- Bricchette di ferro

chiamato HBI. In altre parole, ecco il nostro secondo ma…, si può eliminare il carbone coke sostituendo l’altoforno, ma non il carbonio dei gas riducenti necessari per produrre DRI e questi sono sempre fonti di energia fossile. Si sono anche messi a punto nuovi processi di “fusione diretta” in cui si riduce l’ossido di ferro del minerale direttamente a ferro metallico in uno stato fuso con ottenimento di un prodotto simile a quello dell’altoforno. Tra questi tipi di processi , di cui alcuni sono attivi in Sud Africa e in Australia) ricordiamo quello Corex che parte da minerale e da carbone (senza produzione di coke, che costituisce uno dei processi più inquinanti della tecnologia dell’altoforno). Il carbone viene gassificato e la produzione di vari gas, tra cui CO e H2, costituiscono la componente riduttiva del minerale: la riduzione diretta fornisce ghisa liquida simile a quella di altoforno. Anche eliminando gli altiforni, la trasformazione del minerale in ferro comporta sempre l’uso di carbone o gas naturali, ribadendo il concetto sottolineato in precedenza: per passare dal minerale di ferro all’acciaio è comunque necessario l’impiego di carbone o di gas naturale.

Tenendo presente le eccezioni dei due processi ricordati, per attuare la transizione dall’economia lineare a quella circolare e per la sostituzione delle energie di fonte fossile con quelle rinnovabili, per evitare il rapido riscaldamento del pianeta, saranno necessari interventi mirati di orientamento e stimolo di tipo politico sostenuti da altri di natura economico-finanziaria e profonde modifiche nel modello di sviluppo consumistico per orientarlo verso un modello meno energivoro e sostenibile basato sulla sobrietà.

Infine, è ormai chiaro che un elemento indispensabile al raggiungimento di un’economia circolare, sia legato al comportamento responsabile e adeguato di ciascuno di noi: ogni singolo nostro atto che vada incontro a una accurata differenziazione dei rifiuti e al responsabile utilizzo delle energie necessarie alla nostra vita dovrebbe essere attuato e promosso là dove è possibile. In questo campo mi ritengo fortunato perché, con la mia professione di insegnante di scuola secondaria di secondo grado, sono riuscito a interagire con molti studenti e sensibilizzarli sui temi ambientali, aumentando sicuramente la loro consapevolezza dell’esigenza di promuovere la qualità dell’ambiente orientando i loro comportamenti. Negli anni in cui ho insegnato al liceo “L. da Vinci” di Firenze, nei corsi sperimentali che avevo attivato alla fine degli anni ’70 del secolo scorso, ho suggerito e discusso letture e attuato pratiche di controllo della qualità ambientale (soprattutto sull’acqua e sull’aria della città) con gli studenti delle mie classi quarte. E inoltre, per allargare agli studenti dell’intero Liceo la sensibilità verso i problemi del rispetto ambientale, ho creato un “Gruppo ambiente” (Fig.3) promuovendo letture e incontri, come pure attività di pulizia di alcune spiagge toscane dai rifiuti di ogni genere abbandonati, in accordo con le amministrazioni locali di recupero rifiuti.

Fig.3 – Pagina iniziale del depliant che illustrava caratteristiche e attività del Gruppo Ambiente.

Si trattava forse ancora di un ambientalismo di tipo naif e ricordo che allora era parere diffuso che le energie rinnovabili potessero essere solo integrative di quelle fossili e, ancora, si parlava di green economy ma non di economia circolare. Ho però una nitida memoria , ora accompagnata da un velo di commozione, di quando, nei primi anni novanta del secolo scorso, invitai nel mio Liceo l’amico prof. Enzo Tiezzi, chimico di chiara fama dell’Università di Siena. I miei studenti di IV che avevano letto il suo libro “Tempi storici, tempi biologici[17] e quelli di V che avevano letto “I limiti dello sviluppo[18]parteciparono con grande interesse e numerosi interventi alla conferenza tenuta da Tiezzi sulle variazioni del clima sulla terra dove egli presentò i risultati di una ricerca da cui emergeva l’andamento del tutto parallelo tra l’incremento del valore della CO2 nell’atmosfera dovuta alle nostre combustioni e l’aumento dei fenomeni atmosferici di grande violenza (tempeste, uragani, tornado,…) verificatisi negli Stati Uniti.

Allora queste cose potevano sembrare preoccupazioni eccessive per eventi molto lontani nel tempo, sensibilità di una minoranza elitaria, purtroppo la realtà di oggi è ben più grave di quello che pensavamo e gli effetti dei cambiamenti climatici anche in varie parti del nostro Paese si registrano ormai nelle cronache quotidiane. Se non si riuscirà a livello mondiale a trovare concretamente il modo di intervenire sui fattori che determinano il riscaldamento globale, quale futuro lasciamo in mano ai nostri figli e nipoti?

(*) Fabio Olmi è un insegnante in pensione che si è occupato per anni di didattica della Chimica anche a livello ministeriale. La sua multiforme attività educativa e formativa è documentata nel suo sito web dove c’è anche un elenco dei molti articoli da lui pubblicati.

(**) L’articolo in forma ridotta è stato pubblicato sulla rivista Insegnare – CIDI, Roma, sezione Temi e problemi, il 15/12/2018

[1] ARPAT- Rapporto rifiuti urbani 2017: i dati sulla raccolta differenziata (RD) in Italia. La RD in Italia riferita all’anno 2016 risulta del 52,5% , dato assai modesto. Se poi si esaminano le percentuali di raccolta differenziata delle varie macro-aree del Paese si hanno i seguenti dati: 64,2% per le regioni settentrionali, il 48,6% per quelle del centro, il 37,6% per quelle meridionali.

[2] Silvia Pieraccini- La carta di Lucca modello di successo- Il sole 24ore-5/7/17. Il distretto cartario di Lucca, specializzato nel tissue (carta per usi igienico-domestici) nel 2016 ha avuto un fatturato di 4,4 miliardi di euro e contava circa 200 aziende con circa 10.000 addetti complessivi

[3] Il CER riporta nella categoria 03 i diversi 11 tipi di rifiuti

[4] Maurizio Bologni – Marmo, tessile, carta, l’impennata dei costi per smaltire i rifiuti- La Repubblica, 20/11/2018

[5] Il Gruppo Sofidel è uno dei più grossi produttori di carta per uso igienico e domestico (il suo brand più noto è carta “Regina”), ha oltre 6000 dipendenti in 13 paesi del mondo (in Italia a Porcari (Lucca) ne ha circa 1200) e ha una capacità produttiva di oltre 1 milione di tonn./anno. E’ un Gruppo orientato verso una produzione sostenibile, ha una forte produzione di energia da fonti rinnovabili, investe in efficienza energetica e in formazione continua del personale.

[6] Il Codice europeo CER contiene, alla tipologia 04, 11 categorie di rifiuti tessili.

[7] Ibidem 4.

[8]https://www.a2a.eu/index.php/it/gruppo/i-nostri-impianti/termoutilizzatori/brescia

[9] Vincenzo Balzani- Salvare il pianeta:energie rinnovabili, economia circolare, sobrietà- La Chimica e l’Industria n. 6, 11/2018, pag.20

[10] Ibidem 6, pag.7.

[11] Luca Mercalli- Non c’è più tempo-, Einaudi, Torino, 2018.

[12] Luca Pagni- Maersk, il colosso danese dei supercontainer, sarà carbon-free entro il 2050- Repubblica- Economia e Finanza, 5/12/2018.

[13] FILCA-CISL, Cemento, la produzione italiana si espande in tutto il mondo, 21 Aprile 2006.

[14] Siderweb- Forni elettrici, Italia prima in Europa, 27/4/2004.

[15] Daniell B.Muller, Tao Wang, Benjamin Duvalk, T.E. Graedel, Exploring the engine of anthropogenic iron cycles, Ed. Harward University, 2006

[16] F.Grobler, R.C.A. Minnit, The increasing role of direct reduced iron in global steelmaking- The Journal of South African Institute of Mining and Metallurgy, March/April 1999, p. 111. Bibliografia

[17] E. Tiezzi – Tempi storici, tempi biologici – Garzanti, Milano, 1984.

[18] AA.VV. I limiti dello sviluppo – Club di Roma diretto da Aurelio Peccei- EST Mondadori, Milano, 1972.

La ricerca in Fotosintesi Artificiale in Italia

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo.

a cura di Sebastiano Campagna, Paola Ceroni, Franco Scandola

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 L’interessante articolo postato da Luigi Campanella ha il lodevole effetto di richiamare l’attenzione in ambito SCI sulla Fotosintesi Artificiale come potenziale risposta ai problemi energetici su scala globale. Per illustrare le basi del settore l’articolo prende ad esempio le ricerche effettuate all’Università della North Carolina dal gruppo di Thomas J. Meyer, senz’altro uno dei più attivi e conosciuti a livello internazionale nel settore. In realtà, la Fotosintesi Artificiale è oggetto di intensa attività di ricerca in molti paesi, con specifici consorzi e progetti di ricerca dedicati (per un quadro complessivo della situazione a livello internazionale, vedasi, ad es., S. Campagna, M. Bonchio, M. Venturi, F. Scandola “Verso una Fotosintesi Artificiale: Competenze, Strutture, Progetti di Ricerca nel Settore” La Chimica & L’Industria, Lug../Ago 2012, p. 88).

          Ci sembra opportuno fare notare in questa sede che in Italia la ricerca sulla Fotosintesi Artificiale è particolarmente vivace e largamente competitiva con quella di altri paesi europei e americani, certamente per competenze e attività, anche se non per l’entità dei finanziamenti. Il settore ha qui radici molto profonde, che si possono far risalire a più di un secolo fa, con le profetiche visioni di Giacomo Ciamician “…On the arid lands there will spring up industrial colonies without smoke and without smokestacks; forests of glass tubes will extend over the plains and glass buildings will rise everywhere; inside of these will take place the photochemical processes that hitherto have been the guarded secret of the plants, but that will have been mastered by human industry which will know how to make them bear even more abundant fruit than nature, for nature is not in a hurry and mankind is. And if in a distant future the supply of coal becomes completely exhausted, civilization will not be checked by that, for life and civilization will continue as long as the sun shines! If our black and nervous civilization, based on coal, shall be followed by a quieter civilization based on the utilization of solar energy, that will not be harmful to progress and to human happiness.” (THE PHOTOCHEMISTRY OF THE FUTURE, 1912) Proseguendo in questa tradizione Vincenzo Balzani, uno dei pionieri della Fotosintesi Artificiale, già a partire dagli anni ‘70 affrontò in termini generali il problema della conversione dell’energia solare attraverso la scissione fotosensibilizzata dell’acqua (Science 1975, 189, 852-856), stimolando successiva attività di molti altri gruppi di ricerca.

Research 5cLa struttura generale schematica di un sistema fotosintetico artificiale comprende una serie di specifiche unità funzionali: (i) l’antenna, cioè un insieme di cromofori avente il ruolo di assorbire luce solare e convogliarla ad un sito specifico attraverso una serie di trasferimenti energetici intramolecolari; (ii) un centro di reazione, costituito da una serie di specie redox-attive, in cui l’energia elettronica è utilizzata per compiere una serie di processi di trasferimento elettronico che portano alla separazione delle cariche, con conversione dell’energia elettronica in energia redox; (iii) catalizzatori multi-elettronici, capaci di accumulare cariche (elettroni o lacune elettroniche) per

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compiere processi quali l’ossidazione dell’acqua ad ossigeno molecolare e la riduzione dei protoni ad idrogeno molecolare.

            Nello sviluppo di questi tipi di unità funzionali e nel loro assemblaggio in sistemi integrati sono attivi numerosi gruppi di ricerca italiani. Attualmente, il principale strumento di finanziamento delle ricerche italiane di Fotosintesi Artificiale è il progetto FIRB-RBAP11C58YNANOSOLAR” (2012-2016), con un budget di 4.240.000 €, coordinatore Sebastiano Campagna (UniME), a cui partecipano unità di ricerca di UniTS, UniPD, ITM-CNR, UniFE, UniBO, ISOF-CNR, SincrotroneTS. Il progetto ha come obiettivo finale lo sviluppo di una cella foto-elettrochimica (PEC) integrante due foto-elettrodi nano strutturati, per l’evoluzione parallela di ossigeno ed idrogeno sotto irradiazione visibile. Ha finora prodotto la pubblicazione di numerosi lavori su riviste internazionali ad alto fattore di impatto. I risultati sono stati comunicati ai più importanti congressi internazionali del settore.

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            Allo scopo di coordinare e potenziare le ricerche in Fotosintesi Artificiale, è stato costituito nel 2009 il Centro di Ricerca Interuniversitario per la Conversione Chimica dell’Energia Solare (SOLAR-CHEM) che ha come soci fondatori le Università di Ferrara (Dipartimento di Scienze Chimiche e Farmaceutiche), di Messina (Dipartimento di Chimica Inorganica, Chimica Analitica e Chimica Fisica) e di Bologna (Dipartimento di Chimica “G. Ciamician”). Raggruppa cioè i laboratori italiani che sono tra i fondatori della moderna ricerca sulla fotosintesi artificiale e che hanno profondamente contribuito negli ultimi 35 anni allo sviluppo di questo settore a livello internazionale. Solidamente integrato con altri gruppi di ricerca internazionali e coinvolto in una vasta rete di collaborazioni, il Centro SOLAR-CHEM nei pochi anni intercorsi dalla sua fondazione si è ulteriormente ingrandito con la partecipazione di altre università, quali Padova e Trieste, così che al momento sono più di 30 i ricercatori che ne fanno parte. Il Centro ha come finalità quella di contribuire, attraverso un approccio interdisciplinare, allo sviluppo di metodologie efficienti per la conversione dell’energia solare in combustibili, evidenziando la presenza in Italia di competenze consolidate, coordinate e convergenti e migliorando ulteriormente le attività di collaborazione già in atto tra gruppi di ricerca delle Università convenzionate, con condivisione di apparecchiature e di personale. Il Centro ha inoltre la finalità di promuovere giornate di studio, seminari e convegni, anche a carattere internazionale, favorendo scambi di docenti e ricercatori.

            Come si evince da queste brevi note, la ricerca sulla Fotosintesi Artificiale in Italia, forte di una lunga tradizione, gode attualmente di grande vitalità e salute. La consolidata rete di laboratori operanti nel settore offre in Italia un ambiente ideale e stimolante, pienamente competitivo a livello internazionale, per tutti i ricercatori interessati alla conversione chimica dell’energia solare.

Cosa è ENERCHEM?

Nota del blogmaster: il collega Alessandro Abbotto, di UniMib ci illustra una nuova iniziativa SCI nel campo delle energie rinnovabili; buona lettura.

a cura di Alessandro Abbotto alessandro.abbotto@unimib.it

immaginabbotto

Il Consiglio Centrale della SCI, nella seduta del 21 Settembre scorso, ha approvato in via definitiva la costituzione del Gruppo Interdivisionale di Chimica per le Energie Rinnovabili (EnerCHEM) su proposta delle Divisioni di Chimica Organica, Elettrochimica, Chimica Inorganica, Chimica Teorica e Computazionale e Chimica Industriale. Il Consiglio Direttivo provvisorio ha indetto l’Assemblea Costituente, che si è tenuta con ampia partecipazione il 3 Dicembre scorso a Bologna. Il 7 gennaio si sono infine completate le elezioni delle cariche sociali (Coordinatore e Componenti del Consiglio Direttivo). Da questo momento il Gruppo ha quindi avviato le sue attività.

Perché un Gruppo sull’energia rinnovabile? In tempi non sospetti qualcuno diceva, a proposito dell’energia:  “Il est un agent puissant, obéissant, rapide, facile, qui se plie â tous les usages et qui règne en maître…Tout se fait par lui.” (Capitaine Nemo, da Jules Verne, Vingt mille lieues sous les mers, 1870).  Il ruolo dell’energia è centrale nella società di ogni tempo. Ai giorni nostri, a livello mondiale, energia è sinonimo di fonti non rinnovabili di tipo chimico (combustione di combustibili fossili) o nucleare (fissione dei nuclei). Queste due fonti rendono oggi conto di oltre il 90% della domanda a livello mondiale. Da qui il dilemma energetico della nostra società attuale, in termini di costi, inquinamento, effetti climatici, contrasti sociali (fino alla loro estrema forma di guerre), limitata disponibilità. E’ quindi indubbio che la nostra società deve trovare le risposte alle richieste di energia elettrica e combustibili per trasporto e autotrazione nelle fonti rinnovabili e sostenibili.

Negli ultimi decenni in Italia la comunità scientifica e tecnologica ha mostrato un  crescente interesse verso le energie rinnovabili. Questo si è concretizzato in numerosi prodotti – dalle pubblicazioni all’organizzazione di convegni – in diversi campi della chimica, che hanno permesso, negli anni, di costruire un ruolo italiano competitivo (in alcuni casi leader) a livello mondiale. Questo enorme sforzo, tuttavia, non ha mostrato, fin qui, la sua piena potenzialità.  La cospicua e qualitativamente elevata produzione scientifica non si è tradotta in un adeguato trasferimento tecnologico all’ industria e in una altrettanto elevata produttività brevettuale. Ad esempio, nel settore del fotovoltaico organico e ibrido (dye-sensitized solar cells), dove in Italia esistono gruppi leader di riconosciuto valore internazionale (spesso pioneristico su molti fronti), il 90% della produzione brevettuale proviene da Giappone, Corea del Sud e Cina. Inoltre, il raggiungimento di masse critiche necessarie per acquisire importanti breakthrough in campo scientifico e tecnologico rimane un problema cronico della ricerca italiana: troppo spesso si assiste a sovrapposizioni inutili o addirittura in competizione e allo sfruttamento non ottimale dei finanziamenti nazionali ed internazionali.

L’attività di education verso la società (grande pubblico, scuole, ma anche amministratori e politici, finanziatori, industriali) è lasciata in molti casi all’iniziativa dei singoli, le cui attività e ricadute sono necessariamente ristrette. A questo riguarda va però citata la nota positiva dell’iniziativa della Commissione Energia SCI-SIF, presieduta dal prof. Aresta, che ha avviato la pubblicazione di una serie di Quaderni su tematiche energetiche ad uso degli insegnanti e studenti delle Scuole Superiori di II grado.

Nell’ambito della comunità scientifico/tecnologica, a fianco di una ricca attività convegnistica (congressi, workshop, scuole) organizzata, nuovamente, da singoli attori o piccoli networks, è assente attualmente in Italia un’iniziativa collettiva nel campo dell’energia rinnovabile in grado di attirare e coinvolgere simultaneamente la maggior parte dei ricercatori italiani, ancora parzialmente associati, pur con notevoli progressi rispetto al passato, alle loro individualità disciplinari. Infine la cooperazione tra il mondo accademico, della ricerca pubblica e il mondo industriale (fab-to-lab gap) è lungi dall’essere ottimizzata, con ancora in essere antiche convinzioni stereotipate da una parte o dall’altra.

Questi limiti si traducono in un eccessivo rischio di privare,  ancora una volta, l’Italia, a fronte di una elevata qualità della ricerca scientifica, di un ruolo leader mondiale in termini di concreto e sfruttabile progresso tecnologico.

Da qui emerse, circa due anni fa, l’idea di un gruppo di colleghi di provare a superare queste limitazioni attraverso la costituzione di un contenitore comune nazionale nel campo della Chimica delle Energie Rinnovabili, con il supporto della Società Chimica Italiana. Il Gruppo Enerchem, in sintesi, ha come obiettivo la coordinazione delle attività e la promozione, sul piano interdisciplinare, delle interazioni tra tutti coloro che svolgono ricerche o hanno interesse nel campo della Chimica delle Energie rinnovabili nelle sue varie forme, dai materiali ai dispositivi, dalla raccolta, all’accumulo, conversione e uso di energia rinnovabile. In particolare il nuovo Gruppo intende promuovere e sostenere il ruolo culturale centrale della Chimica nell’ambito della Scienza per l’Energia proponendosi, nella sua fase iniziale, come punto di riferimento per i cultori chimici italiani ma, in prospettiva, mirando a diventare il fulcro di un’iniziativa interdisciplinare – quindi non solo chimica – a livello nazionale (sulla linea, ad esempio, del Gruppo misto SCI-SIF già citato, che fu costituito qualche anno fa  per coordinare attività  comuni nel campo della energia), in grado di dialogare con tutte le componenti della società, dagli amministratori ai finanziatori e imprenditori, per l’obiettivo comune già descritto. Un compito non secondario, anzi principale, del Gruppo sarà quello legato all’opera di diffusione e sensibilizzazione sulle tematiche inerenti la Chimica per l’Energia rinnovabile rivolta a quelle componenti della società non direttamente legate all’attività di ricerca e sviluppo (la scuola e il grande pubblico, per citarne due), delle quali molti ricercatori ne sottovalutano la rilevanza e le significative ricadute.

L’attività del Gruppo, come verrà delineata dal Consiglio Direttivo che a breve si riunirà, si svilupperà lungo varie direttrici. Tra le principali citiamo lo sviluppo di forme comunicative più includenti la società tutta, dal sito web ai social networks, la partecipazione a convegni della SCI (Divisionali e Nazionali) a partire, se possibile, già dal 2013, l’organizzazione di un proprio convegno che diventi il luogo di aggregazione e confronto principale  dei ricercatori italiani del settore, l’organizzazione di università estive, scuole avanzate e workshops, la cooperazione con il mondo industriale e la creazione di un hub tecnologico nazionale nel campo delle energie rinnovabili, l’uso ottimale dei finanziamenti nazionali ed internazionali tramite la creazione di networks tematici e la riduzione delle sovrapposizioni, lo scambio di ricercatori e la condivisione di facilities, le attività legate all’education in tutte le sue forme.

In una sola parola si vuole costruire uno strumento che promuova e coordini la crescita nel campo della chimica nazionale delle energie rinnovabili in termini scientifico/tecnologici, con una attenzione particolare verso tutte le componenti della società che rappresentano i principali stakeholders dell’attività di studio, ricerca e sviluppo. La convinzione è che, solo cosi facendo, si possa contribuire perchè il nostro paese possa avere un ruolo competitivo nel progresso scientifico/tecnologico delle nuove energie del XXI secolo.

Il Gruppo Enerchem è partito sotto i migliori auspici. Il forte e genuino interesse mostrato da tutte le Divisioni della SCI si è concretizzata in un’ampia partecipazione dei ricercatori già in fase di costituzione del gruppo. I soci della SCI che hanno aderito fin dalla costituzione del Gruppo sono oltre 130, ai quali si aggiungono le espressioni di interesse di decine di ricercatori e tecnologi.

La scommessa è impegnativa. Solo con la più diretta e ampia partecipazione possibile di tutti i ricercatori interessati, superando logiche individuali, si potrà dare un senso ed un peso significativo a questa iniziativa la quale, se si svilupperà con successo, sarà in grado di dare in ritorno ampie ricadute non solo alla comunità chimica impegnata nel campo delle energie rinnovabili, ma a tutti gli altri attori nazionali coinvolti. La sfida è aperta.

per chi è interessato:

http://www.soc.chim.it/it/gruppi_interdivisionali

http://www.mater.unimib.it/utenti/abbotto