Due parole su COP27.

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Luigi Campanella, già Presidente SCI

COP27 si è chiusa con risultati tutto sommato deludenti. Non sono riuscito a disporre del documento finale nella sua versione integrale e mi sono dovuto accontentare del sommario riportato da diversi giornali. Da questo emerge che qualche piccolo passo in avanti è stato conseguito su 4 punti: addio alle fonti fossili, un fondo per perdite e danni, riscaldamento globale entro 1,5 gradi, finanza climatica.

Sul primo punto gli impegni restano i soliti, ma con la brutta novità di un documento proposto dall’India volto a considerare nella riduzione d’uso non solo il carbone, ma anche petrolio e gas, e non accettato dell’Arabia Saudita, così compromettendo la richiesta unanimità. Sul secondo punto la diatriba ha riguardato il termine del fondo: aiuto, come vogliono USA ed Australia o risarcimento come richiesto dai Paesi del Sud del mondo, che hanno addirittura su questo punto creato un movimento e trovato un leader globale nel presidente brasiliano Lula.

L’Europa ha sostenuto la proposta con una buona dose di timidezza, criticando la posizione ambigua della Cina.

Sul terzo punto l’obiettivo è contenere il riscaldamento globale entro 1,5 gradi rispetto all’era preindustriale, ma leggendo si capisce che più di una ribadita espressione di volontà si tratta di un dato di riferimento.

Infine per il quarto punto la promessa di 100 miliardi l’anno dal 2020 in finanza climatica è rimasta fino ad oggi lettera morta. In compenso sono comparsi. nuovi strumenti finanziari come i tassi di interesse per i Paesi in via di sviluppo cioè i prestiti costano molto di più e un maggiore impegno delle banche multilaterali. Questa incerta conclusione contrasta in effetti con l’inizio di COP27 che era sembrato piuttosto concreto nel definire responsabilità ed omissioni

COP27 era partito con la relazione di IRENA (Agenzia Internazionale per le Energie Rinnovabili) che ha subito posto sul terreno alcune domande precise condensabili in: quanto realmente facciamo nel campo delle rinnovabili rispetto alle loro potenzialitá? La relazione si dà anche una risposta che purtroppo è sconfortante. Dei 195 Paesi presenti12 nemmeno citano questo tipo di energia e degli altri solo 143 hanno prodotto piani di decarbonizzazione tramite obiettivi precisi e quantificabili e solo 12 riportano target rinnovabili a livello di mix energetico. La nuova analisi rileva che gli obbiettivi rinnovabili 2030 fissati attualmente porteranno ad una capacità verde installata di 5,4 TW a livello mondiale, la metà di quanto previsto dallo scenario predisposto dalla stessa IRENA per rispettare gli impegni di contenimento del riscaldamento del globo.

Il gap però non deve considerarsi incolmabile, richiederebbe per sanarlo un incremento di capacità installata da tutti Paesi di 259 GW l’anno per i prossimi 9 anni. L’Agenzia sottolinea come per riscaldamento, raffreddamento e trasporto che rappresentano l’80% della domanda globale di energia di fatto non siano stati fissati target. Nel frattempo dinnanzi a Bruxelles che chiede ai Paesi Eusopei che la percentuale di rifiuti conferiti in discarica non superi il 10% purtroppo il nostro Paese,che pure primeggia nel riciclo di vetro, carta e plastica, sta molto indietro. Mancano 30 impianti per chiudere il ciclo dei rifiuti. Si assiste così al turismo dei rifiuti con 120 mila spedizioni medie annue. C’è poi la spaccatura fra Nord Italia, Centro e Mezzogiorno: al Nord c’è un numero congruo di impianti, ma al Centro si misura un Deficit di almeno 2,4 milioni di tonn. Senza impianti di digestione anaerobica e termovalorizzatori non è possibile chiudere il ciclo dei rifiuti in un’ottica di economia circolare. La raccolta differenziata per il riciclo e gli impianti, per un certo tempo visti in contrapposizione sono invece alleati: se prevale uno dei 2 prevale anche l’altro. Un ulteriore vantaggio della installazione sarebbe la produzione di bioetanolo attraverso i rifiuti organici e di elettricità attraverso i termovalorizzatori, abbassando il fabbisogno nazionale di domanda energetica del 5% anno.

https://www.lifegate.it/cop27-reazioni-giudizio

https://www.staffettaonline.com/articolo.aspx?id=370719

(articolo dell’ormai 90enne GB Zorzoli, sempre chiarissimo, chi lo vuole per esteso contatti CDV)

La storia e la geografia delle emissioni di CO2.

Claudio Della Volpe

La recente fine di COP26 stimola riflessioni non solo sul sistema climatico ma soprattutto sul nostro modo di reagire al problema del GW (global warming, ossia riscaldamento globale, anche se non è solo riscaldamento, ma per esempio acidificazione dell’oceano).

Per fare questo mi pare doveroso capire come mai vari paesi reagiscano diversamente e apparentemente in modo deludente alla situazione; possiamo ricostruire grazie al lavoro di tanti scienziati e di vari gruppi ambientalisti la storia dell’accumulo di gas serra ed i dettagli geografici del processo: dove e quando e da chi i gas serra sono stati prodotti e perché; di solito si prende come limite storico di queste analisi il 1751 considerato come l’inizio della “rivoluzione-industriale”, quel processo storico complesso che ha portato alla crescita di importanza e poi al dominio delle merci e della loro produzione sopra qualunque altro modo di produrre e consumare (comunemente  detto capitalismo e ricordiamocelo, non è l’unico modo di produrre le cose) e lo ha fatto usando le tecnologie basate sulla combustione dei fossili, prima carbone, poi petrolio ed oggi gas “naturale”.

Personalmente credo che le cose siano più articolate e che il processo sia iniziato almeno secoli prima con le grandi scoperte geografiche (ne abbiamo parlato a proposito di antropocene ricordando lo “scambio colombiano” e le conseguenze di raffreddamento globale allora innescate), la distruzione dei beni comuni (per esempio le cosiddette enclosures, la recinzione dei terreni comuni (terre demaniali) a favore dei proprietari terrieri della borghesia mercantile avvenuta in Inghilterra tra il XIII ed il XIX secolo e che in varie forma continua ancora oggi attorno a noi, mascherata da altri nomi e processi soprattutto in Africa).

Quasi sempre si ricorda solo la tecnica e non la organizzazione sociale corrispondente, ma ricordiamo che le idee sulla macchina a vapore (pensiamo ad Erone, come raccontato dal grande Lucio Russo ne “La rivoluzione dimenticata” che vi consiglio di leggere se non l’avete già fatto) che ha rivoluzionato il mondo moderno esistevano fin dai tempi della cultura alessandrina insieme con una raffinata tecnologia metallurgica; se la cultura  che produsse la macchina di Antikytera e che conteneva anche le  conoscenze di Erone non arrivò ad usare il vapore, se non per scherzi ed applicazioni da ricchi, un peso lo aveva la struttura sociale dell’epoca basata sullo schiavismo, le macchine erano una curiosità o servivano per la guerra; dunque attenzione: tecnologia e struttura sociale sono connesse. E non lo sono nel senso meccanicistico che la tecnologia cresce indipendentemente e la società le tiene dietro, ma in modo più complesso, ossia tramite un processo di retroazione (feedback) che rende la tecnologia e la struttura sociale interdipendenti.

Ovviamente le cose sono più complesse di come le raccontiamo, i modelli non sono le cose, ma questo quadro può dare qualche idea di come si sia arrivati alla situazione odierna ed anche dei modi in cui i diversi paesi si comportano nel confronto globale delle COP (Conference of Parties, la modalità di confronto scelta dalla nostra società per risolvere problemi globali).

Ed anche, lasciatemelo dire, che il mondo delle merci e del mercato non può affrontare e risolvere il problema del GW e del rapporto uomo-natura in modalità sostenibile. Come l’agricoltura e la rivoluzione industriale hanno corrisposto ad un cambiamento sociale, così la sostenibilità ambientale necessita di una rivoluzione sociale ed economica.

Ma torniamo al tema gas serra. Nel grafico qui sotto vedete come si è evoluta la produzione di CO2 nella storia umana fin dal 1751. Si tratta di un grafico pubblicato qui; i dati sono tratti fa varie fonti: i dati del Carbon Budget Project presentato da Our World in Data, “Emissioni cumulative di CO2 per regione mondiale, 1751-2017. https://ourworldindata.org/grapher/cumulative-co2-emissions-region?stackMode=absolute. [dati 24 aprile 2020]

Emissioni previste per il 2018-19 sulla base del Global Carbon Budget 2019, di Pierre Friedlingstein, et al. (2019), Dati scientifici del sistema terrestre, 11, 1783-1838, 2019, DOI: 10.5194/essd-11-1783-2019.

L’idea base era espressa nel grafico di Frumhoff, Peter. (15 dicembre 2014) fatto sul riscaldamento globale: più della metà di tutto l’inquinamento industriale da CO2 è stato emesso dal 1988, Union of Concerned Scientists. https://blog.ucsusa.org/peter-frumhoff/global-warming-fact-co2-emissions-since-1988-764

Questo grafico fa capire cosa si intenda con “grande accelerazione” un  termine inventato per descrivere i processi ambientali e sociali avvenuti negli ultimi 30 anni e più in generale a partire dagli anni 60 del secolo scorso; quelle emissioni non contengono tutti i gas serra, ma ne contengono una gran parte e rendono esplicito che il processo di emissione non si è arrestato o ha rallentato nonostante la conoscenza della modifica dell’effetto serra sia ormai acquisizione universale almeno fin dal 1997.

La scienza ha idea di questo fenomeno da molto prima.

Il primo lavoro che ha sospettato questo processo non è nemmeno quello più famoso di Arrhenius, ma quello di un geochimico svedese che lo ispirò, Arvid Högbom, che nel 1894 scriveva** (in svedese, così che l’idea rimase confinata, ma fu raccolta da Arrhenius che immaginò, per primo, che l’effetto finale di queste gigantesche emissioni sarebbe stata l’aumento della temperatura terrestre; per correttezza diciamo che una intuizione la ebbe anche una donna ben 40 anni prima, Eunice Foots, nel 1856, ma come sappiamo le donne faticano ancora oggi a farsi sentire):

L'attuale produzione globale di carbon fossile è in cifre tonde di 500 milioni di tonnellate all'anno, o 1 tonnellata per km2 di superficie terrestre. Trasformata in CO2 questa quantità di carbone rappresenta circa la millesima parte della CO2 totale dell'aria».

Il lavoro di Högbom implicava emissioni globali di CO2 dalla combustione del carbone di circa 1,8 GtCO2 nel 1890. Nonostante fosse chiaramente piuttosto approssimativo, questo primo sforzo era notevolmente vicino alla stima contemporanea delle emissioni da carbone all’epoca, circa 1,3 GtCO2.

Sappiamo bene e lo abbiamo scritto ripetutamente che il fuoco era conosciuto prima di Homo Sapiens, da altri ominidi, in particolare da tutte le specie antenate di Homo sapiens che hanno usato il fuoco ed è stato usato per un milione di anni, ma la questione è la scala a cui la combustione è arrivata con la rivoluzione industriale, la quantità diventa qualità trasforma una locale ed innocua combustione in un problema geologico. 

Una serie storica originale basata sull’andamento delle varie stime successive di emissione è proposta in questo grafico di Robbie Andrew, che ha scoperto il contributo di Högbom.

 

Si tratta di un file gif , dunque una immagine che è un piccolo filmato, una sequenza ordinata di immagini automatiche; statelo a guardare per qualche secondo per avere un’idea di come si sono evolute le stime di emissione e dei contributi dei vari fossili. Molto istruttivo. 

Altre rappresentazioni del processo in termini storici possono contenere il contributo ai gas serra di altre parti della nostra produzione, oltre la pura combustione di fossili; per esempio dal sito https://www.carbonbrief.org/analysis-which-countries-are-historically-responsible-for-climate-change

Questa immagine riporta il confronto fra l’emissione combustiva pura e semplice e i processi agricoli, il cui valore assoluto cresce significativamente mentre cresce quello delle combustioni vere e proprie. Se fate caso il valore anno per anno delle emissioni “land” è in media il doppio alla fine del processo, uno dei portati della cosiddetta “rivoluzione verde” che, pur non risolvendo il problema della fame, ha accresciuto la produzione agricola ma ha anche raddoppiato l’emissione di gas serra, e alterato in modo irreversibile il ciclo di azoto e fosforo accrescendo le cosiddette “dead zones”, le zone di ipossia oceaniche in tutte le coste dei continenti.

Le fonti dati sono incluse nell’immagine, che come vedete copre un intervallo di tempo inferiore al precedente, anche a causa della difficoltà di reperire i dati necessari.

Anche qui si conferma che il processo di emissione non ha visto soste dal principio e che anzi c’è stata perfino una crescita dopo il 2000; il picchetto verde che vedete poco prima del 2000 corrisponde agli incendi indonesiani del 1997 che diedero il loro contributo terribile.

Dunque possiamo concludere che il processo di emissione di gas serra da combustione è stato crescente, è legato sia alla produzione agricola che a quella industriale e che finora non è stato fatto alcun serio tentativo di interromperne gli effetti.

Vediamo dove, in quali aree geografiche il processo è avvenuto; ovviamente qua la situazione è complessa in quanto nel corso di quasi tre secoli i confini delle aree politiche sono cambiati continuamente, ci sono stati gli effetti del colonialismo e dunque alcune zone hanno emesso a vantaggio di altre ed infine anche oggi il commercio globale rende complesso attribuire a ciascuna area l’emissione di CO2 legata alla sua propria popolazione. Per non parlare delle quantità pro-capite. Questi dati che vi mostro adesso fanno capire perché alcuni paesi oggi grandi emettitori si rifiutino di aderire a politiche che non tengano conto degli effetti del passato; tenete presente che le quantità emesse da un certo paese in passato possono essere state più piccole di oggi, ma non solo hanno consentito a quel paese di crescere in ricchezza, ma hanno avuto effetti per un tempo maggiore; data la durata dei gas serra in atmosfera (in particolare della CO2), l’emissione in un certo momento impegna il futuro per un tempo rilevante e dunque chi ha emesso prima non solo ha acquisito un vantaggio economico competitivo, ma ha anche avuto effetti per un tempo maggiore sull’assorbimento di radiazione.

Vediamo qui un modo di rappresentare i valori per alcuni paesi riportato su https://www.carbonbrief.org/analysis-which-countries-are-historically-responsible-for-climate-change

Interessante notare che alcuni paesi come il nostro non abbiamo un contributo significativo da parte della voce land; qui le incertezze vengono anche dalle fonti, che comunque sono elencate; i paesi che esportano legno per esempio o che usano metodi estrattivi molto distruttivi come il Canada o la Tailandia vedono al contrario un enorme contributo per questo uso della terra.

Ed infine un grafico che mostra, in modo forse più evidente, il confronto fra le grandi aree mondiali nella produzione di CO2, (mancano i dati su altri gas serra per il modo in cui sono calcolati) ma il confronto fa risaltare però ancora una volta che certi paesi sono grandissimi produttori di CO2 STORICI. Gli USA e l’UE hanno prodotto dall’origine oltre il 20% l’uno del totale e lo hanno fatto anche quando nessun altro lo faceva guadagnando non solo un enorme vantaggio economico competitivo, ma facendo pesare per un maggior tempo l’emissione che dunque vale di più, non solo in proporzione alla quantità emessa ma anche alla durata dell’emissione e dunque del suo effetto climatico complessivo. Anche se un paese come la Cina emette di più adesso, in totale ha emesso meno della metà degli USA, per esempio ed inoltre c’è un altro grafico che ci dice che in parte almeno sta emettendo per altri paesi, dato che vende ad essi quelle merci, una sorta di esternalizzazione delle emissioni.

Comunque è chiaro che questi sono grafici suggestivi ma incompleti, per esempio in quasi tutti manca il metano, ma fanno capire bene la ragione delle polemiche e delle difficoltà che rendono difficile il cammino delle COP ed anche il nostro cammino come società

https://mailchi.mp/3afaa2f62894/energy-bulletin-weekly-60394?e=163e64760c

Da https://www.carbonbrief.org/analysis-which-countries-are-historically-responsible-for-climate-change

** “On the probability of secular changes in the level of atmospheric CO2” (original title: “Om sannolikheten för sekulära förändringar i atmosfärens kolsyrehalt”) pubblicato nel  1894 in Svensk Kemisk Tidskrift (Swedish Chemistry Journal). Per una analisi accurate di questo si veda qui: https://folk.universitetetioslo.no/roberan/t/EarlyEstimates1.shtml

Recensione. I bugiardi del clima.

Luigi Campanella, già Presidente SCI

I bugiardi del clima. Potere, politica psicologia di chi nega la crisi del secolo

di Stella Levantesi,ed.Laterza p.256 2021 17 euro

In questi 2 fine settimana di luglio ho avuto il tempo di leggere un libro che merita alcune riflessioni in relazione all’impegno del nostro blog rispetto ad alcuni temi per i quali l’aspetto scientifico, sociale e politico si intrecciano intimamente. Mi riferisco a “I bugiardi del clima” di Stella Levantesi, ed.Laterza. Il libro vuole rispondere ad una domanda: perchè nonostante decenni di consapevolezza scientifica sui motivi dei cambiamenti climatici l’azione politica è così lenta e le iniziative più significative sono quelle affidate alla società civile? La risposta può aiutare a comprendere gli errori del passato ed a non commetterne ancora.

La novità del libro secondo me deriva dal suo metodo:percorrere al fine di comprendere non il.percorso di chi è giunto alla conclusione dell’emergenza climatica, ma di chi afferma che non c’è. Si comprende quindi come i negazionisti siano abili nel trasformare un fenomeno scientifico da tutti osservabile in un tema politico: così il fenomeno perde il suo fondamento scientifico e diventa questione politica, se non addirittura partitica, e come tale è più facile metterne in discussione l’esistenza e, soprattutto, l’urgenza.

Il libro presenta anche una interpretazione storica della nascita del negazionismo ambientale: alcune aziende di gas,carbone e petrolio sapevano come realmente stessero le cose sin dagli anni ’70-’80 con.i loro tecnici capaci di collegare attività produttive, combustibili fossili ed emissioni climalteranti, causa dell’innalzamento termico del pianeta. Per dirottare la conoscenza delle cose e delle relative responsabilità tali tecnici hanno attuato una campagna di disinformazione durata fino al 2015, quando tali fatti vennero alla luce con riferimento specifico alla Exxon.

In effetti anche Shell ed altri sapevano,ma nessuno aveva parlato cosicché il fronte negazionista aveva avuto la possibilità di crescere e rinforzarsi. Non erano state coinvolte nell’operazione solo aziende di combustibili fossili: associazioni industriali avevano arruolato negazionisti a noleggio (la denominazione è dovuta allo scienziato Michael Mann) ed alcuni circoli conservatori avevano promosso una camera dell’eco che comprendeva alcune piattaforme mediatiche negazioniste. Tra i primi obbiettivi di queste sono stati e sono tuttora l’ostacolo e la resistenza a qualunque regolamentazione al settore fossile ed alla politica climatico ambientale e la semina di discredito alla scienza del clima. Questa – può essere una giusta osservazione a posteriori -si é dispersa in molti troppi rivoli frazionando dati e conoscenze a svantaggio della loro significatività. La macchina negazionista per acquisire forza si serve di differenti strumenti, dai finanziamenti alla propaganda politica alle strategie di comunicazione.Secondo uno studio le maggiori compagnie di gas e petrolio spendono più di 200 milioni di dollari l’anno al fine di esercitare pressioni per ostacolare le politiche climatiche e la regolamentazione del settore. Circa i dati scientifici gli strumenti più adottati per finalizzarli al proprio tornaconto negazionista sono quelli del cosiddetto cherry pickling per cui si isolano dei dati e si sopprimono le prove e le vie di accesso al quadro completo e dell’argumentum ad hominem,strategia per cui invece di criticare i contenuti di un’argomentazione si lancia discredito su chi l’ha formulata. Infine viene confusa l’opinione pubblica dando l’impressione che il dibattito scientifico sui cambiamenti climatici sia ancora in corso e su questo torna l’osservazione già prima formulata, circa alcune responsabilità del mondo scientifico talvolta ubriacato da un numero crescente di dati in un approccio olistico che però finisce per fare perdere la visione di sintesi.

La prima bugia che si può raccontare sull’emergenza climatica è che non è colpa dell’essere umano;la seconda è che tutti gli esseri umani ne sono responsabili in uguale misura.Queste bugie, insieme alla paura di perdere lo status quo ed i propri benefici all’interno della società, finiscono per alimentare il negazionismo. Ed ecco perché la crisi climatica non riguarda solo la Scienza, ma va reinterpretata come crisi che interseca tutte le altre, dalla giustizia sociale alla salute pubblica.
Non voglio chiudere queste note sul libro di Stella Levantesi senza ricordare il significativo paragone che vi si può leggere descritto circa come le strategie negazioniste ricalchino quelle dell’industria del tabacco. I parallelismi tra le due campagne di disinformazione sono evidenti: per continuare a vendere sigarette si nascondono dati e si screditano quanti su basi scientifiche dimostrano la correlazione stretta fra fumo e tumore dei polmoni o anche semplici patologie respiratorie.
Non sono Stella Levantesi ed ho solo cercato di sintetizzare il suo pensiero descritto con chiarezza ed incisività nel suo libro.Il fatto che io condivida quanto riportato non deve togliere a quanti leggono questo post la curiosità di leggere in dettaglio il libro per poi elaborarlo nella propria coscienza al fine di contribuire affinchè il dibattito perda quei caratteri di strumentalità che nuocciono a scelte sostenibili.

Armaroli e la grande onda.

Claudio Della Volpe

Recensione di  Emergenza Energia- Non abbiamo più tempo

Nicola Armaroli  Ed. Dedalo-Le grandi Voci   Pag 96 luglio 2020

Sono ben contento di fare questa recensione, perché pare che il Covid ci abbia tolto dalla testa tutte le altre preoccupazioni eccetto quella biologica e quella economica; ma non è così.

Come ironicamente mostrato nella vignetta che riprende la “grande onda” di Hokusai, ci sono una serie di grandi onde che ci aspettano e il libretto di Nicola Armaroli ci aiuta a rimettere le cose in prospettiva. La vignetta che cito è ironica fino ad un certo punto, in realtà è abbastanza ben fatta.

Come potete vedere è rovesciata rispetto all’originale di Hokusai; ma c’è una ragione; nella cultura giapponese le opere si guardano da destra  a sinistra e dunque si vede prima l’uomo, le barche di pescatori in lotta contro il mare per sopravvivere, e solo dopo la grande onda; così nella vignetta, che si rivolge ad un lettore occidentale che legge da sinistra a destra, si rovescia il tutto, e rimane prima il genitore (o forse un messaggio politico-pubblicitario) che dice di lavarsi le mani e poi tutto andrà bene e subito dopo a destra un gruppo di mostruose onde di dimensione crescente che invaderanno la realtà umana di lì a poco.

Attenzione però, per molti aspetti il messaggio che ci arriva da Nicola Armaroli è diverso da quello della vignetta; Nicola ci dice con chiarezza che non abbiamo più tempo, e dunque sottintende che possiamo e dobbiamo agire per affrontare la questione energetica ed ambientale che ne consegue.

Dunque le onde gigantesche potrebbero smorzarsi e di parecchio, a patto però di prendere decisioni gravi, importanti, come abbiamo fatto e stiamo facendo per affrontare il virus. La domanda dunque a cui Nicola cerca di rispondere, proprio a partire dal sottotitolo, è: cosa è l’equivalente del distanziamento e delle mascherine e del vaccino nel caso della questione energetica?

In questo blog abbiamo scritto più volte che la pandemia non è un caso, un cigno nero, è un fenomeno che si è già presentato e ripetutamente nella nostra storia e che si sapeva si sarebbe ripresentato ancora a causa della modalità sempre più invasiva con la quale ci inseriamo nei cicli naturali.

Ma la medesima riflessione vale per le questioni climatiche o per i cicli degli elementi.

Si tratta di un libro breve, meno di 100 pagine, scritto in stile colloquiale, del tutto amichevole si legge velocemente; ma attenzione, questa apparente semplicità potrebbe ingannare, nel senso che a tratti si densifica improvvisamente e in poche frasi sintetizza o concentra concetti non banali.

In qualche modo nello stile o meglio sotto lo stile di Nicola il divulgatore si avverte un altro Nicola, lo scienziato originale e spesso profondo.

Fin dall’introduzione l’autore si pone due scopi:

Lo scopo di questo libro è affermare con forza che non esiste più alcun margine di discussione. La scienza ha già dimostrato che la crisi climatico-ambientale è causata dall’uomo ed è figlia di due problemi: un sistema energetico decrepito, da cambiare con urgenza, e un sistema economico malato, basato sul falso presupposto che la Terra sia un deposito inesauribile di risorse ed una discarica di rifiuti senza limiti.”

Il primo di questi scopi viene abbondantemente raggiunto con una analisi serrata che si svolge a partire dai primi capitoli che riprendono temi cari all’autore: cosa è l’energia, quanta ne usiamo e ne abbiamo a disposizione. L’analisi si sviluppa poi con una descrizione di ciò che è successo nel mercato del petrolio fino a ieri l’altro.

Subentrano poi le conseguenze dell’uso massiccio dei fossili: la descrizione dei meccanismi del riscaldamento globale e anche di alcune comuni bufale che cercano di criticare i risultati scientifici: per esempio che le variazioni della concentrazione di gas serra sono troppo piccole per avere gli effetti che invece hanno.

Qui a pag. 40 per esempio c’è una delle frasi dense che dicevo prima: “La buona notizia è che lo scioglimento dei ghiacci dell’Artico non comporta un aumento del livello dei mari perché il ghiaccio ha un volume maggiore dell’acqua”

Questo è un modo certamente originale di descrivere le conseguenze della fusione del pack artico che lascia un istante perplessi; è giusto certamente, ma apre uno squarcio in un modo non comune di affrontare la questione. Chiaro che se il ghiaccio avesse una densità maggiore dell’acqua e fondesse, il mare aumenterebbe di livello; invece avendolo inferiore vi galleggia e la conseguenza è che il livello dei mari complessivo è del tutto insensibile a questa particolare fusione; fuso o meno il pack, il livello non cambia, nell’altro caso invece aumenterebbe. Sono d’accordo, ma vi assicuro che ci ho messo qualche minuto, ero abituato ad un altro approccio. Questo è utile per evitare la classica dimostrazione di fisica elementare, che però richiede qualche riga di algebra, mentre qua l’autore, in modo ripeto originale, ce la risparmia.

A questo punto parte la seconda parte, l’equivalente del lockdown o del vaccino: cosa possiamo fare in questa situazione, ossia usare l’energia solare.

Questo è l’argomento più caro all’autore che parte veloce nella descrizione entrando nel merito delle varie alternative energetiche, chiarendone le differenze ed i limiti e tratteggiandone le prospettive. In uno dei capitoletti riprende anche la critica al nucleare di fissione.

C’è un capitolo che si vede viene dalla vita vissuta di una persona che ha cercato di vivere concretamente un altro modo di gestire la propria energia a casa e nella mobilità.

Qua mi sarebbe piaciuto forse un modo meno personale di valutare le cose; personalmente non ho alcun dubbio che la singola auto elettrica sia meno “inquinante” climaticamente  ed ambientalmente; mi chiedo però se sia questo il punto di vista che risolve anche il secondo punto posto dall’autore, ossia quello del sistema economico; il nostro sistema economico impone un futuro di miliardi di auto private elettriche; tali miliardi di auto quanto sono sostenibili? In altre parole il sistema economico è malato perché esistono milioni di auto private fossili e dunque guarirebbe con milioni di auto private elettriche o perché esistono milioni di auto private? La casetta individuale ben isolata che alimenta il risparmio energetico e l’auto personale (nella figura di pag. 75) è una soluzione sulla scala dei miliardi di uomini? Il sistema economico malato lo è proprio dal punto di vista sociale, non tecnico e dunque ci sono forse aspetti che si potevano indicare e mettere in discussione, cosa che l’Autore d’altronde aveva già fatto per esempio nel testo scritto a quattro mani con Vincenzo Balzani (Energia per l’astronave Terra).

Nell’ultimo capitolo intitolato “non sarà una passeggiata” Armaroli introduce una serie di aspetti problematici della transizione energetica come la disponibilità di risorse per la produzione dei nuovi manufatti, il ritorno energetico, l’EROEI e la disparità sociale; lo fa densamente, ogni parola pesa, ma  ovviamente in un libretto come questo non si poteva parlare di tutto.

Tuttavia proprio qui, alla fine della lettura, che lascia la voglia di leggere altro, sarebbe stato utile indicare qualcosa per approfondire le problematiche, una serie di consigli di lettura.

In ogni modo ripeto non si può scrivere tutto in meno di 100 pagine; ben venga dunque questa agile e brillante  confutazione dei paradossi del mondo fossile, utile per chi voglia farsi un’idea  aggiornata della situazione e forse adatta al mondo che ha prodotto twitter, poche parole ma dense.

COP25, un breve commento.

Luigi Campanella, già Presidente SCI

Si è chiuso a Madrid il vertice ONU sui cambiamenti climatici.

Un piccolo Paese, il Costa Rica, ha cercato di convincere i grandi intransigenti a scendere a patti per salvare il Pianeta. Purtroppo non ci è riuscito. Al momento quindi, come fu per Katowice per la COP 24 tutto è rinviato alla COP26. Nonostante promesse ed aspettative COP 25 si è rivelata un fallimento, arenata su un art. il n.6 riguardante la regolazione globale del mercato del carbonio. Di fronte all’emergenza , a parte i Paesi già esposti agli effetti della crisi, fra questi l’Italia, nessuno ha mostrato la volontà di un impegno alla riduzione delle emissioni, negando ciò che invece è sotto gli occhi di tutti, l’emergenza ambientale. Esistono,ormai è chiaro, due blocchi contrapposti: da una parte le grandi potenze (USA,Brasile,Cina,Australia,Arabia Saudita) che non intendono, a parte minimi correttivi,rivedere le loro politiche energetiche e quindi penalizzano le politiche di aiuto ai Paesi più poveri del Pianeta, vittime dei cambiamenti climatici causati proprio dai Paesi industrializzati , dall’altra l’Europa che si è invece impegnata per la riduzione delle emissioni e per il raggiungimento della carbon neutality entro il 2050: un piano ambizioso con un fondo da 100 miliardi da destinare a regioni e settori più vulnerabili per favorire la riconversione energetica di tutta l’industria Europea ed oltre 50 iniziative da assumere e completare entro il 2050. Una scritta alla COP25 di Madrid.

Va dato riconoscimento al ns Paese ed a chi lo rappresentava nella sede COP25 (il min.ro Costa) di essersi adoperato per sostenere i Paesi più poveri del mondo che dovranno, più degli altri, adattarsi ai cambiamenti climatici e per trovare formule di collaborazione ed assistenza verso i poli del Sud del mondo. Tornando al citato art.6, senza decisioni su di esso se ne va una parte importante del testo di un possibile accordo. I negoziatori avrebbero dovuto menzionare il rispetto dei diritti umani all’interno del meccanismo previsto nell’articolo relativo alla compravendita dei crediti di carbonio e questa citazione non era condivisa. Dal 2020 l’attuale sistema il Cdm (clean development mechanism) istituito nel 1997 nel protocollo di Kyoto sarà sostituito dal Sdm (sustainable development mechanism) di cui si parla per l’appunto all’art.6 dell’accordo di Parigi. Entrambi permettono a paesi ed imprese di ridurre le proprie emissioni acquistando compensazioni da progetti realizzati altrove. Il problema però è che in tutto questo vengono dimenticati i diritti umani delle comunità locali e che le compensazioni avvengono senza consultazione degli autoctoni, che spesso vengono danneggiati dalle compensazioni. Intanto un nuovo sondaggio realizzato da Amnesty International mostra che i cambiamenti climatici sono in cima alla lista delle sfide del ns tempo per i giovani fino a 25 anni, di fatto denunciando che colpevolmente si allarga la distanza fra generazioni

Per maggiori informazioni sui risultati della conferenza COP25

 

La coperta.

Luigi Campanella, già Presidente SCI

La coperta delle risorse naturali è corta e il benessere dell’umanità è minacciato dal riscaldamento del clima; per fortuna abbiamo già a portata di mano tutti gli strumenti necessari per uno sviluppo sostenibile. Lo annuncia Paul Hawken, padre del “capitalismo naturale”, dalla cui opera è nato il concetto di Green Economy.

Hawken e il suo team di 70 scienziati e economisti hanno compilato un elenco delle cento soluzioni più efficaci per combattere l’effetto serra, dando al tempo stesso una spinta all’economia globale. Da questo studio è nato un libro “Drawdown” (Penguin), che trae il titolo dal momento nella storia in cui la concentrazione di gas a effetto serra in atmosfera comincerà a calate. Un momento che, procedendo nella direzione attuale, potremmo non raggiungere mai.

Dice Hawken :“Nessuno dei modelli stilati finora dalle istituzioni impegnate nella lotta ai cambiamenti climatici o da scienziati indipendenti è in grado di raggiungere quel momento, perché tutti si occupano principalmente di energia. Al massimo, riescono ad ottenere l’inversione del trend delle emissioni, ma non un calo della CO2 già emessa in atmosfera. Partono dal presupposto che arrivando al 100 per cento di produzione energetica da rinnovabili avremo risolto il problema, ma non è vero. Ci sono altri campi oltre all’energia, dal cibo agli edifici, dall’utilizzo del territorio all’istruzione delle donne, che sono altrettanto importanti. Tra le novità più sorprendenti che abbiamo scoperto, dopo aver analizzato tutti i dati e superata la revisione di altri scienziati, c’è l’importanza del ruolo delle donne. Mettendo insieme l’impatto dell’istruzione femminile e quello della pianificazione familiare si scopre che l’educazione delle bambine sta in cima alla lista delle azioni contro i cambiamenti climatici, perché facendola avanzare da qui al 2050 avremmo 1,1 miliardi di persone in meno rispetto al trend attuale, con tutte le conseguenze positive sui minori consumi di risorse. L’eliminazione degli sprechi alimentari e la diffusione di una dieta ricca di proteine vegetali invece che animali (ma non completamente vegetariana) sono altri contributi per salvare il nostro pianeta.

Per ottenere una vera inversione di tendenza lo sguardo va allargato a tutte le attività umane:si pensi che l’allevamento di animali da macello produce globalmente la stessa quantità di emissioni di tutte le centrali elettriche del mondo.

In ogni caso però il primo posto in graduatoria per efficacia, è occupato dalla

-definitiva messa al bando degli idrofluorocarburi dagli impianti di refrigerazione;la sostituzione con altri refrigeranti, in base all’accordo firmato l’anno scorso da oltre 170 Paesi, comincerà quest’anno e proseguirà fino al 2028, ma è essenziale che gli impianti siano svuotati correttamente, perché il 90 per cento delle emissioni avvengono a fine vita.

-la fotosintesi, quindi si tratta di fermare la deforestazione, avviare progetti di massa per ripiantare moltissimi alberi e riconvertire i pascoli con sistemi silvo-pastorali , in cui si alleva il bestiame su terreni alberati, con ottimi risultati sia per gli animali che per l’ambiente. Sono tutte azioni semplici quelle che suggeriamo-conclude Hawken– non c’è bisogno di rompersi la testa per applicarle”.

Recensione. Luca Mercalli “Non c’è più tempo. Come reagire agli allarmi ambientali”

Mauro Icardi

Luca Mercalli “Non c’è più tempo. Come reagire agli allarmi ambientali”. Ed Einaudi pag. 262. Euro 15.30

Recensione.

Il libro del noto climatologo è appena stato pubblicato per la collana “Passaggi” di Einaudi.

Libro che ho letto praticamente tutto d’un fiato. E lo rileggerò, come tutti i libri che trattano di temi che ritengo fondamentali da affrontare e da capire. Troverà il suo posto d’onore insieme a tanti altri che sono i più frequentemente consultati della mia libreria, partendo dall’edizione 1972 de “I limiti dello sviluppo”. Il libro è il compendio di vent’anni di riflessioni e articoli, che affrontano i temi più importanti, e allo stesso tempo ignorati in maniera superficiale o colpevole, del nostro tempo. La crisi ambientale, lo sfruttamento vorace ed insensato delle risorse naturali, il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità, la modifica dei cicli biogeochimici. Prende spunto nella prima parte, dall’opera di Primo Levi e alle sue riflessioni di vita e di comprensione della realtà. Creando un collegamento tra il chimico militante che era Levi, con il climatologo militante che è Mercalli . Militante per la sua incessante attività di divulgatore, ma anche per gli esempi concreti di come si possa vivere diminuendo il proprio impatto sulle risorse del pianeta. Una parte del libro è dedicata proprio ai buoni consigli che altro non sono che accorgimenti quali, tra i tanti, l’uso consapevole e attento dell’acqua, la coltivazione dell’orto.

L’invito a non considerare tutto questo come una fatica impossibile o un sacrificio gravoso. Una doverosa consapevolezza ambientale, unita anche ad un impegno sostanziale. Non un’ecologia naif, ma anche un’ecologia della mente, che ci renda meno soggetti alle lusinghe di moda e frivolezze, più consapevoli di tutti i limiti che pensiamo di poter oltrepassare, con il ricorso a una sorta di post verità di comodo. Il pensiero magico diffuso. Tutte cose che l’autore non solo suggerisce, ma concretamente pratica. Oltre a questo anche la necessità di riportare il tema ambientale nelle agende dei governi del pianeta, cercando di rendere questo impegno condiviso a livello internazionale, come auspicava Aurelio Peccei. Perché la nostra casa, cioè il nostro pianeta è uno solo.

La recensione di un libro è un po’ come quella di un film, non è opportuno svelare troppe cose. Il libro va letto. E apprezzato. Ma ci sono certamente cose che da lettore mi hanno molto colpito, e di cui devo dar conto. Nella seconda parte del libro “Una lettera dal pianeta terra” è un piccolo gioiello.

L’ammonimento del pianeta agli esseri umani a non sfruttare le risorse che essa ha messo loro a disposizione, e di cui stanno facendo un uso sconsiderato. Perché gli esseri umani, quando vogliono sanno essere anime nobili, che producono bellezze come la musica e la pittura. Ma che se non rispetteranno le leggi naturali, saranno da esse stesse eliminati. La terra guarirà così dalle ferite che le sono state provocate, ma con dispiacere e nostalgia.

Nella prima parte il collegamento con l’opera di Primo Levi cerca di aiutarci a capire i meccanismi inconsci di rimozione delle scomode verità, che preferiamo non affrontare, sia a livello di governi, che di singoli cittadini. Delle azioni concrete che tendiamo a rimandare. Mercalli cerca una spiegazione, con un paragone che considera ardito, ma che invece a mio parere è molto adatto.

Così come si sono create realtà di comodo e consolatorie negli anni dell’ascesa delle dittature nazista e fascista, così oggi ci creiamo delle verità comode, delle zone di conforto, come le definisce la psicologia, per evitare di sottoporci all’unica cosa che dovremmo fare da subito. Rientrare nei limiti fisici del pianeta, prima che il pianeta tramite le immutabili ed inarrestabili leggi fisiche e naturali, provveda a ristabilire un equilibrio che farà a meno di noi.

Una delle citazioni dell’opera di Levi nel libro, e che da conto dell’inazione di allora, della cecità volontaria di ieri come di oggi, è questa tratta da “Potassio” del Sistema periodico:

ricacciavamo tutte le minacce nel limbo delle cose percepite o subito dimenticate , ne’ in noi, né più in generale nella nostra generazione, “ariani” o ebrei che fossimo, si era ancora fatta strada l’idea che resistere al fascismo si doveva e si poteva. La nostra resistenza di allora era passiva, e si limitava al rifiuto, all’isolamento, al non lasciarsi contaminare

Non è un libro scritto da un catastrofista, termine ormai abusato, e a cui l’autore credo si sia ormai abituato. E’ un libro che ci vuole aiutare a osservare lo stato del pianeta con un ottimismo consapevole. Che dispensa consigli di ecologia domestica, e ci ricorda anche alcuni nostri comportamenti da correggere.

Una piccola considerazione personale

Ho sorriso leggendo nella terza parte una considerazione sui ciclisti, competitivi o contemplativi. Io appartengo alla seconda categoria. Vado in bicicletta per godere del paesaggio e della natura. Tutte cose che se si tiene la testa piegata solo a guardare il manubrio non si notano. Mi sento soddisfatto quando annoto la CO2 che non emetto (94.4 g per ogni chilometro percorso in bici, invece che in auto). E ogni giorno i 23 km del tragitto casa lavoro diventano il mio piccolo contributo (2.17kg in meno), insieme ad altri accorgimenti, per diminuire impatto ed emissioni. Non ho smanie competitive, o feticismi tecnologici. E anche l’inconveniente del mio incidente, ormai risolto, è un ricordo. E ho ripreso a pedalare. Quindi il messaggio è che la resilienza, e la capacità di godere di bellezza e natura, sono doti che si possono coltivare. Con pazienza e perseveranza. Ed è anche questo messaggio che il libro trasmette e suggerisce.

Ma il tempo davvero sta scadendo, e quindi usiamolo al meglio. E’ la nostra sfida più grande. Soprattutto per chi verrà dopo di noi. Quindi facciamo nostro questo impegno etico e indifferibile.

Eni è prima. Ma anche ultima.

Claudio Della Volpe

Come promesso, Trump ha riaperto alle trivellazioni petrolifere i territori artici dell’Alaska. Si tratta di una tragica scelta che contribuirà alla distruzione di uno degli ambienti ancora relativamente inviolati del pianeta Terra per prolungare la vita dei colossi petroliferi di qualche anno; la cosa dovrebbe preoccuparci ed indignarci.

Ma ancor più come italiano mi fa indignare che la prima azienda che ha battuto tutte le altre sul filo dei lana nel chiedere permessi sia la nostra ENI , quella che si fa pubblicità sostenendo di essere verde e di difendere l’ambiente. Ne abbiamo parlato altrove (https://ilblogdellasci.wordpress.com/2017/06/16/la-pubblicita-di-eni-2-quanto-e-verde-la-chimica-verde/).

Allora vediamo cosa ha ottenuto e cosa reclama di poter fare il cane a 6 zampe.

La filiale americana dell’azienda (l’Eni Us Operating Co. Inc.) ha ottenuto il via libera dal Boem (Bureau of Ocean Energy Management) per la trivellazione di quattro pozzi in Alaska, nel mare di Beaufort, ma solo a scopo di esplorazione. I lavori dovrebbero iniziare a dicembre di quest’anno, per andare avanti fino al 2019, esclusivamente in inverno quando in zona ci sono meno balene e orsi polari. (La Repubblica del 17 luglio)

Bontà loro.

In effetti nel dicembre del 2016, alla fine del suo mandato Obama con un atto che aveva vigore di legge (che si rifaceva ad una legge del 1953 che consente di bloccare anche le future estrazioni, quindi più difficile da ribaltare e da sospendere) aveva bloccato le estrazioni e le esplorazioni in una parte del Mare dei Ciukci, che mette in comunicazione il mare di Bering con l’Oceano Artico, e la maggior parte del mare di Beaufort :”off limits a tempo indeterminato per future concessioni per le trivellazioni petrolifere e del gas”. “Queste azioni, e quelle parallele del Canada, vogliono proteggere un ecosistema unico e fragile“, aveva dichiarato Obama, sottolineando che anche con massimi standard di sicurezza i rischi di fuoriuscita di petrolio in un ambiente così remoto sarebbero troppo alti.

Tuttavia teniamo presente che (sempre Repubblica 21 dicembre 2016):

La mossa, comunque, non avrà effetti sulle licenze già concesse ed esclude un’area vicino alla costa del mare di Beaufort. Si ritiene che avrà un effetto minimo sull’industria petrolifera americana che ha un’attività molto limitata nella regione dove gli investimenti infrastrutturali sono molto costosi. Appena lo 0,1% della produzione offshore del greggio Usa è arrivata dalla regione lo scorso anno.

Proprio nel mare di Beaufort ENI ha dal 2007 un suo giacimento operativo: Nikaitchuq; questo non è stato toccato dall’ordine del Presidente Obama.

Il giacimento in questione posto a bassa profondità (3m) (http://www.offshore-technology.com/projects/nikaitchuqoilfieldal/) con un contenuto stimato di 220 Mboe, ha cominciato a produrre nel 2011. La spesa per farlo partire assommava già allora a oltre 1.5Geuro. Il giacimento produce circa 28000 bd e ne ha prodotti fino al 2016 22 Mboe.

Il permesso accordato ad ENI da Trump per il momento riguarda non nuovi pozzi estrattivi, ma nuovi pozzi esplorativi. Con questi nuovi pozzi ENI probabilmente pensa di estendere la portata del giacimento. Altre notizie sul giacimento e il suo futuro si trovano qui e risalgono a qualche mese fa, dove si vede che il rapporto con il nuovo governo era già attivo (http://www.petroleumnews.com/pntruncate/385547015.shtml).

Le nuove esplorazioni saranno condotte da pontoni appositamente attrezzati per questo ambiente estremo, probabilmente uno di questo tipo, Doyon rig 15.

Per capire il ruolo di questi giacimenti e valutarne la portata economica tenete presente che quando i prezzi sono scesi nel 2015 sotto i 40-45 dollari ENI ha sospeso le estrazioni volontariamente; possiamo quindi capire che quel tipo di estrazioni ha un costo più alto della media degli altri pozzi, come è logico, date le difficoltà.

ENI sostiene che ha l’esperienza per condurre in porto la ricerca dato che è sua un’altra base di estrazione posta nel mare Artico, la gigantesca Goliat; si tratta di una base estrattiva, una FPSO (Floating Production Storage and Offsloading) costruita in Corea e trasportata nel Nord della Norvegia dove è in funzione da più di un anno (sia pure con due anni di ritardo sul previsto). Il giacimento in questione in territorio norvegese non è sfruttato dalla Norvegia, ma la Norvegia lo concede ad altri controllando le modalità di estrazione attraverso un apposito ente e da questo nascono, come vedremo, parecchie polemiche.

Viene dunque naturale informarsi su cosa faccia Goliat al largo della Norvegia, nel mare di Barents 65km dalla costa; eccovi serviti.

Goliat è una nave cilindrica da 64000 ton di stazza e un diametro di oltre 100 metri, ben alta sul pelo dell’acqua; è stata trasportata dal luogo di costruzione in Sud Corea fino al mare di Barents.

Il giacimento norvegese è in produzione dal marzo 2016 ma con vari problemi, che possono darci un’idea di cosa potrebbe succedere nelle analoghe condizioni del Mare di Beaufort.

La Stampa del 6 settembre 2016 scriveva:

L’avviamento del campo Goliat nel Mare di Barents , a 65 km di distanza dalle coste settentrionali della Norvegia, è stato salutato come un grande successo tecnologico. Tuttavia, la suggestiva pagina del sito Eni che ci racconta di questo mirabile bidone in mezzo ai ghiacci omette qualche recente novità che pare interessante.

Lo scorso 1 settembre il Ministro del Lavoro e dell’Inclusione Sociale Anniken Hauglie ha infatti convocato la potentissima e indipendente Autorità norvegese per la sicurezza delle attività petrolifere, la Petroleum Safety Autority (PSA) “dopo oltre una dozzina di incidenti che hanno coinvolto quest’anno il campo Goliat”.

Eni è da tempo ai ferri corti con i sindacati norvegesi per questioni legate alla sicurezza a bordo di Goliat. Critiche che, tra l’altro, non risparmiano nemmeno SAIPEM, che opera nel campo Goliat con la piattaforma da trivellazione Scarabeo 8. L’incidente più grave di cui abbiamo notizia è accaduto lo scorso 25 giugno quando un operatore della Apply Sorco (una ditta subcontraente di Eni) è stato ferito alla testa durante la consegna di macchinari a bordo della piattaforma. Le condizioni dell’operatore sono state definite gravi, ma per fortuna non è mai stato in pericolo di vita.

Dai media norvegesi si apprende inoltre che a luglio alcuni Rappresentanti per la Sicurezza avrebbero scritto una lettera al management di Eni chiedendo di fermare l’impianto per le opportune verifiche: fino ad allora la PSA aveva già ricevuto in cinque mesi di attività dell’impianto “non meno di sei notifiche di perdite di gas o di rilevamenti di gas sulla piattaforma”. Oltre a questi: fumo in un generatore, dispersione di un fluido idraulico e altro ancora, compreso l’incidente al subcontractor di cui sopra. Le stesse fonti ci informano che sono ancora in corso indagini su emissioni di sostanze chimiche da Goliat e sulla caduta in mare di un lavoratore, lo scorso febbraio, dalla piattaforma di trivellazione Scarabeo 8.

Insomma, ai sindacati che chiedevano lo stop di una o due settimane di Goliat per le necessarie verifiche/migliorie, Eni avrebbe risposto che “Eni Norvegia ha preparato piani per aumentare l’efficienza operativa e la manutenzione senza alcun bisogno di fermare a lungo l’impianto”. Una risposta che non ha di certo soddisfatto i sindacati, che hanno lamentato la presenza di alcuni manager Eni “senza alcuna competenza della cultura e del regime lavorativo” norvegese.

Ma anche la PSA non deve aver dormito sonni tranquilli e così, dopo che lo scorso 27 agosto si è verificato un black out al sistema elettrico di Goliat, l’Autorità – il 29 agosto – ha chiesto a Eni di interrompere le operazioni fino al 5 settembre, ordinandogli nel frattempo “di identificare e applicare misure necessarie, dopo l’incidente del 27 agosto 2016, per giungere a conformità rispetto alla legislazione sulla salute, la sicurezza e l’ambiente”. Un piano che Eni è chiamata a presentare in queste ore, con le scadenze vincolanti per la sua applicazione.

Ma se il Ministro del Lavoro convoca la PSA, evidentemente ci dev’essere dell’altro. L’impressione è che ci sia una latente sfiducia (tra i sindacati e i politici) verso Eni o, per essere esatti, verso gli standard applicati nella costruzione di piattaforme petrolifere che, si sostiene per risparmiare, invece che in Norvegia sono costruite altrove. Ad esempio in Corea del Sud, dove (a Ulsan) è stata costruita Goliat.

Per avere notizie più aggiornate occorre però rivolgersi ai giornali stranieri o perfino a quelli norvegesi:

Sul The independent Barents observer del febbraio 2017 in un articolo intitolato efficacemente Goliat oil: On-off-on-off-on-off si scrive (https://thebarentsobserver.com/en/industry-and-energy/2017/02/goliat-oil):

Since production at Goliat, the world’s northernmost offshore oil platform, officially started in March last year, oil pumping has been on-off-on-off several times.

Head of Communication with ENI Norge, Andreas Wulff, says to Teknisk Ukeblad the reason is a failure in a valve. Wulff estimates production to be online again within some few days. In August last year, the Goliat platform lost all power and personnel was brought to land.

Quindi l’incidente di agosto è stato così grave da dover riportare tutto il personale a terra, cosa non menzionata da La Stampa.

After the shut-down in Christmas, Norway’s Petroleum watchdog wrote a notice of order expressing concern about the Italian oil company. «Eni has revealed a limited ability to implement existing plans,» the Petroleum Safety Authority stated.

Questa l’opinione dei norvegesi sulle capacità dell’ENI; non sappiamo se gli americani ne siano a conoscenza.

Dovremmo però noi italiani farci portavoce della situazione verso la nostra opinione pubblica; la ricerca e l’estrazione del petrolio diventano sempre più costose, ha senso spendere tanti soldi per cercare tutto sommato limitate quantità di nuovi idrocarburi in zone del pianeta così difficili da esplorare e così delicate dal punto di vista ambientale invece di investire sulle nuove energie rinnovabili? Noi non abbiamo una filiera italiana del FV, non abbiamo una filiera italiana dell’accumulo elettrochimico, l’ENI non è coinvolta seriamente in nessuno dei tentativi di costruirle come le piccole startup che si occupano di celle al litio (come la Lithops S.r.l. di Torino), di riciclo delle terre rare, di produzione di silicio per FV (ex MEMC di Merano); in compenso ammantandosi di immeritata verginità ambientale per l’uso del metano e per altre ragioni che potete trovare nella diffusa pubblicità, ENI si rifiuta di cambiare la sua politica che tanti guasti ha prodotto in Nigeria (https://ilblogdellasci.wordpress.com/2017/06/09/la-pubblicita-di-eni-il-metano-ci-da-una-mano-o-no/) e adesso nell’Artico.

ENI è prima a reclamare nuove trivellazioni nell’Artico, ma ultima sulla strada di una nuova e necessaria politica energetica. La nuova SEN in discussione adesso dovrebbe sancirlo.( https://ilblogdellasci.wordpress.com/2017/06/12/alcune-considerazioni-sulla-strategia-energetica-nazionale-2017/)

Dopo il referendum, 22 aprile la ratifica di Parigi, COP21.

Nota: si ricorda che le opinioni espresse in questo blog non sono da ascrivere alla SCI o alla redazione ma al solo autore del testo

 a cura di Claudio Della Volpe

Dato l’impegno profuso dallo scrivente in tema di referendum attraverso le pagine di questo blog appare doveroso riconoscere e commentare la sconfitta.

Chi vuole dare un occhio più da vicino ai risultati può trovarli qui oppure in forma sintetica qui.

Il referendum abrogativo del 17 aprile termina con un 32.15% di votanti che hanno votato Si all’85.85%. Le regioni più soggette a servitù legate alle estrazioni fossili come Basilicata, Puglia, Sicilia, Abruzzo hanno visto percentuali più elevate e/o risultati del Si più alti. La Basilicata è stata la regione in cui il referendum è “passato” con il 50.16% dei votanti e il 94.6 di Si. In genere il Sud ha superato il 90% di Si e la Puglia è la regione più grande in cui la partecipazione è stata al 41.6 e i Si al 95.6.

Qualcuno potrebbe dire che il referendum è stato inutile e che abbiamo buttato 350 milioni; ma, a parte che questa scelta non è dipesa da chi ha chiesto di votare, essa è comunque un momento importante di presa di coscienza per milioni di persone; non tutti hanno votato per motivi “politici”; lo prova la distribuzione del voto che vede in testa le regioni più soggette a problemi pratici legati alle estrazioni di combustibile. E tutto nonostante i ripetuti inviti ad astenersi da parte di membri delle istituzioni, che è un reato bello e buono.

Personalmente ritengo sia stato un momento di un processo più ampio e lungo di presa di coscienza che occorre cambiare metodo di conversione dell’energia primaria: dai fossili alle rinnovabili, pena un futuro climatico tragico.

In questi giorni la Norvegia è stata portata ad esempio di felice paese che con i fossili si sta preparando un futuro di rinnovabili e perchè non possiamo fare così anche noi? Ebbene anche in Norvegia si preparano giorni duri perchè da una parte il basso prezzo del petrolio sta mettendo in crisi il Fondo Sovrano basato sui proventi dell’estrazione e che ha assicurato al paese una comoda stampella economica, ma soprattutto la riduzione delle estrazioni dai giacimenti già sfruttati che hanno superato il picco da un bel pò, sta aprendo il problema di andare ad estrarre nel cuore delle riserve naturali costituite dalle Isole Lofoten e Vesteralen; c’è scontro e non è tutto oro quel che luce.

La realtà è che questa transizione non è banale per nessuno e non può essere lasciata alle “mani invisibili del mercato”, ma deve essere guidata e accelerata quanto possibile.

Ho vissuto il referendum del 17 aprile in questo senso, come un momento di presa di coscienza da parte di tante persone dei problemi climatici ed energetici, una cosa che va al di là del mero risultato numerico. Se pensiamo che siamo il paese in cui la recente trasmissione di Luca Mercalli , Scala Mercalli, era seguita da poco più di un milione di persone e che il Si è stato scelto da oltre 12 milioni questa è comunque una notizia di cambiamento.

Un modo giusto per continuare questo processo di presa di coscienza e di effettivo cambiamento dei comportamenti energetici è certo quello di continuare a stare attenti alle scadenze chiave che sono immediate, dietro l’angolo.

Venerdì prossimo 22 aprile inizia il processo di ratifica dell’accordo di Parigi; c’è un sito tenuto dal collega Valentino Piana che tiene memoria del processo e al quale potete guardare per maggiori informazioni.

L’Italia dovrebbe firmare già il 22 in occasione della Giornata della Terra, in una cerimonia che si tiene a New York, presso le Nazioni Unite, depositarie ufficiali dell’Accordo di Parigi e l’accordo sarà aperto alla firma presso le Nazioni Unite a New York dal 22 Aprile 2016 al 21 Aprile 2017.

Di fatto inizierà a funzionare quando almeno il 55% dei paesi l’avrà ratificato; Usa e Cina hanno dichiarato che firmeranno subito e Obama che depositerà lo strumento di ratifica in contemporanea;

The United States and China will sign the Paris Agreement on April 22nd and take their respective domestic steps in order to join the Agreement as early as possible this year” – cioè firma nel World Earth Day e ratificazione quanto prima.

Il primo paese in assoluto che ha già ratificato – con atto parlamentare approvato all’unanimità da governo e opposizione – sono state le isole Fiji nel Pacifico, seguite da Palau , Isole Marshall e Maldive.

”La Giornata mondiale della Terra assume un significato ancor più importante dopo lo storico accordo raggiunto alla Cop 21 di Parigi, che proprio in quei giorni firmeremo a New York”.

Così, in una nota dell’ufficio stampa dell’Earth Day 2016 (la Giornata Mondiale della Terra che si celebra il 22 aprile) si fa presente che nel corso dell’edizione di quest’anno si ratificherà quanto deciso alla Cop 21.

In effetti il ministro dell’Ambiente Galletti sarà al Palazzo di Vetro di New York per rappresentare il nostro paese alla firma dell’accordo.

La questione effettiva della ratifica dell’accordo implica una decisione legislativa vera e propria discussa e votata dal Parlamento. Non sappiamo come procederà l’Italia a riguardo non avendo un serio programma energetico nazionale. Staremo a vedere.

Nel frattempo dati molto preliminari e non ufficiali per marzo 2016* ci dicono che per il sesto mese consecutivo l’anomalia termica terra+oceano è rimasta sopra un grado, 1.28°C per la precisione con una piccola riduzione dal record di febbraio, 1.35 (il limite COP21 è fissato a 1.5°C annuo, gli ultimi 6 mesi sono stati: 1.06, 1.03, 1.10, 1.14, 1.35, 1.28, e gli ultimi 12 mesi hanno una media RMS esattamente di 1°C di anomalia a 2/3 di percorso dal limite stabilito)

referendum51

La Natura è purtroppo matrigna, come recitava tale Leopardi ne “La ginestra” , e quindi il clima non aspetta; chissà, forse qualche ragione ce l’avrà anche lui.

Spero che Renzi e Galletti l’abbiano studiato a scuola; e meglio dell’inglese.

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E’ APERTA LA RACCOLTA DI FIRME PER LA PETIZIONE ALLA IUPAC per dare il nome Levio ad uno dei 4 nuovi elementi:FIRMATE!

https://www.change.org/p/international-union-of-pure-and-applied-chemistry-giving-name-levium-to-one-of-the-4-new-chemical-elements

Dalla redazione del blog una risposta al prof. Armando Zingales.

di (in ordine alfabetico) Vincenzo Balzani, Claudio Della Volpe, Mauro Icardi, Annarosa Luzzatto, Giorgio Nebbia, Silvana Saiello, Margherita Venturi

Nell’ultimo numero delle Newsletter CNC n. 77 dell’8 dicembre il Direttore di C&I e Presidente del CNC ha criticato alcuni aspetti del blog (il testo è ripreso in calce alla presente per farlo conoscere ai lettori del blog) con il titolo “NON IN MIO NOME contro l’intolleranza nei Blog”.

Anzitutto ci duole che l’intervento sia stata spedito agli iscritti agli ordini dei Chimici tramite il loro giornale invece di essere mandato al blog stesso dove chiunque può scrivere. perché questo limita la diffusione dell’informazione che, senza l’amichevole segnalazione di alcuni, non avrebbe raggiunto gli interessati

Ne riassumiamo i punti salienti:

L’articolo sostiene che:

il moderatore del blog della Società Chimica Italiana (SCI), ed alcuni altri colleghi stanno sperimentando il gusto di sentenziare senza appello su quanto viene pubblicato su “La Chimica e l’Industria

Ci si riferisce a due articoli del blog che, seppure non esplicitamente indicati, potrebbero essere questi: 1 e 2.

Come i lettori potranno verificare si tratta di due post in uno dei nei quali si criticano alcuni articoli comparsi su C&I a firma di Salvatore Mazzullo.

I 4 articoli criticati (per un totale di 24 pagine nel solo 2015) erano dedicati allo sviluppo di un modello paleoclimatico della irradianza solare.

Nel nostro post si faceva riferimento all’analisi dettagliata condotta dal collega Reitano, fisico di UniCt in altro post. Reitano precisa che il modello di Mazzullo appare “lacunoso ” anche perchè usa dati “imprecisi” e superati (si veda qui per i valori corretti).

Nel nostro post facciamo notare che negli articoli di Mazzullo su C&I, si mettono in dubbio alcuni capisaldi della climatologia. Per esempio si parla di “controversia della CO2 a riguardo del ruolo reciproco sull’effetto serra di acqua e CO2, argomento che non è controverso in nessun libro di climatologia(Nota 1).

Solo per dovere di cronaca, non possiamo non ricordare che Salvatore Mazzullo non è un socio SCI, e non risulta da alcuna parte, se non su C&I, che sia un esperto di astronomia o paleoclimatologia.

Il secondo articolo criticava un editoriale di Ferruccio Trifirò nel quale il nostro collega sosteneva che i fertilizzanti sintetici sono un caso emblematico di Chimica sostenibile; come lo stesso Zingales riconosce non è questo il caso.

Ora non si capisce dove sia il problema; è o non è sostenibile l’uso massivo di fertilizzanti, sia pur prodotti in modo “pulito”?

Nessuno ha mai parlato nel nostro blog “ di sostenibilità bucolica solo dal punto di vista ambientale” “una posizione ascientifica e politicamente miope”.

Abbiamo parlato della necessità di sviluppare metodi efficienti di riciclo, utilizzando il caso emblematico dei concimi sintetici, facendo l’esempio di come la ricerca internazionale abbia sviluppato brevetti sul recupero della struvite dalle acque di scarico, citando anche una serie di lavori scientifici per dimostrare che le cose sono più complesse, a volte troppo complesse.

Infine ci duole, sentire che ci siamo resi responsabili di aver affermato “l’opinione “politica” che i fattori non antropici non abbiano alcuna rilevanza”, anche se non capiamo dove,

Al contrario abbiamo sempre sostenuto che le grandi forze nturali sono da approfondire e conoscere.

Su questo abbiamo pubblicato il grosso dei nostri articoli!

Piuttosto abbiamo fatto doverosamente notare più volte che l’uomo attualmente in atmosfera e nella biosfera:

  • emette di gran lunga la maggior quantità di polveri
  • immette in atmosfera fra un sesto ed un quinto della quota di carbonio rispetto a quella naturale tramite le combustioni e la deforestazione
  • contribuisce con circa la metà dell’azoto atmosferico che entra nel ciclo dell’azoto
  • immette in giro due o tre volte la quantità di fosforo dilavato dalla natura
  • usa il 10% dell’acqua superficiale delle precipitazioni e lo reimmette in gran parte inquinato

Sarebbe quindi difficile non considerarlo almeno un attore di primaria importanza.

Riteniamo sia importante presentarsi al pubblico interno ed esterno con posizioni il più possibile chiare ed unitarie ma tali posizioni devono essere oltre che chiare, anche supportate completamente dalla letteratura scientifica.

Posizioni alternative dovrebbero almeno prevedere un attento riesame di review.

Concordiamo, invece, sul fatto che chiunque possa esprimere “opinioni personali”. Le pubblicheremo sempre anche se contrastanti (come in passato lo sono state quelle del prof. Gessa, del dott. Rampichini, del dott. Sorgenti sul nostro blog, come lo sono state quelle dei prof. Carrà, Battaglia, Scafetta, Pieri su C&I).

Riteniamo altresì che in passato il mondo chimico non abbia saputo esprimere una sufficiente autonomia dal settore industriale evitando di criticarne le scelte talvolta erronee e perfino pericolose.

Non sarà soprattutto questo il motivo per cui oggi la parola “Chimica” e l’aggettivo chimico sono quasi sempre utilizzati con valenza negativa?

Ci teniamo a sottolineare che non è vero che nel blog i pareri siano espressi “senza appello”.

Sono pareri espressi da chi firma il “pezzo” e chiunque può liberamente intervenire, almeno nel dibattito, senza alcuna censura.

Sono intervenuti ripetutamente, con articoli e interventi, persone che esprimevano punti di vista opposti agli autori (si veda ad esempio, il dibattito sull’agricoltura o quello sulle api).

Dobbiamo accrescere la nostra autorevolezza dimostrando al cittadino medio, ai giovani soprattutto, capacità analitiche, e sintetiche ma soprattutto critiche sui grandi temi del nostro tempo, in particolare quelli che coinvolgono la nostra disciplina e che, in effetti, ne sono la grande maggioranza.

Posizioni discordanti (e fondate) possono essere accettate e discusse con serenità e reciproco rispetto.

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Nota 1: la CO2 è un gas non condensabile nelle condizioni in cui si trova in troposfera mentre l’acqua lo è. Questo è il motivo per cui l’acqua non è praticamente presente in stratosfera come gas serra, ma solo in troposfera. In pratica, nonostante la sua maggiore quantità rispetto alla quantità di CO2 il ruolo dell’acqua come gas serra è governato da quello della CO2 perchè sono la CO2 e il complesso dei gas serra ad essere responsabili della temperatura alla quale l’acqua “opera”. Solo se la temperatura cresce la quantità di vapor d’acqua (l’umidità) cresce e l’effetto serra da esso direttamente determinato può crescere. Controversie non ce ne sono: “water vapour is a feedback, but not a forcing” (si veda per esempio qui).

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Testo della lettera di Zingales.

NON IN MIO NOME
contro l’intolleranza nei Blog
Come alcuni di noi si saranno accorti, da qualche tempo il moderatore del blog della Società Chimica Italiana (SCI), ed alcuni altri colleghi stanno sperimentando il gusto di sentenziare senza appello su quanto viene pubblicato su “La Chimica e l’Industria”, rivista scientifica della quale la SCI è proprietaria e il Consiglio Nazionale dei Chimici (CNC) è editore.
In qualità di Direttore responsabile della rivista non posso ulteriormente astenermi – come ho fatto fin qui per amor di patria – dall’intervenire sulla sterile e continua polemica che non giova a nessuno, e tantomeno alla chimica e alla verità scientifica.
I fatti sono che su La Chimica e L’industria sono stati pubblicati degli articoli che, a detta del moderatore immoderato del suddetto Blog, sono “di stile e argomento “neghista” sul tema climatico” (e lasciamo perdere l’orrendo neologismo, ormai in voga tra gli ambientalisti.)
Ora può darsi che io firmi il “visto si stampi” di una rivista diversa da quella che il moderatore di quel blog, poi, legge, ma – certamente – accusare di “neghismo” un articolo che si è limitato a ricordare che oltre ai fattori antropici che agiscono sui cambiamenti climatici ci sono – certamente – anche fattori naturali, è veramente ridicolo, oltre che offensivo della lingua italiana.
Non esiste serio scienziato che si occupi del clima che disconosca l’esistenza di fattori non-antropici in tal materia. Affermare il contrario è antiscientifico, esattamente come è antiscientifico negare l’influenza preponderante dei fattori antropici o, in generale, selezionare accuratamente tutti e solo i dati che avvalorano la teoria che abbiamo formulato o alla quale ci siamo pedissequamente accodati.
Ma, sia chiaro – NESSUNO – ha inteso affermare su “La Chimica e l’Industria” o su “Il Chimico Italiano” che i fattori non antropici prevalgono o sono gli unici che intervengono nelle alterazioni del clima. Si è inteso soltanto dar voce – e ricordare a tutti, ma soprattutto a scienziati tanto schierati da tradire la scienza, in un senso o nell’altro – che non è mai corretto disconoscere l’esistenza di fattori “altri” o persino discordanti (e non è questo il caso) con la “nostra teoria”.
E’ vero, invece, che in una rivista scientifica la definizione di “cambiamento climatico” non può che essere quella adottata dall’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), che comprende ogni cambiamento non ordinario del clima, dovuto sia a fattori naturali che a fattori umani. Mentre la definizione “politica” adottata altrove (ad esempio all’ONU) parla di cambiamenti climatici solo in relazione ai fattori antropici: me è appunto una visione “politica” e non “scientifica”.
E’ evidente che un blogger che esprime l’opinione “politica” che i fattori non antropici non abbiano alcuna rilevanza, è padrone di farlo. Ma ha il dovere morale e scientifico di esprimere queste idee in un contesto diverso dal Blog della SCI e – comunque – senza MAI irridere chi liberamente esprime e motiva la sua opinione scientifica. La confutazione, sempre possibile nel sano confronto scientifico, non deve mai spingersi ad accusare apoditticamente chi espone concetti non coincidenti con i nostri.
Io nella mia lunga carriera di professore universitario ho visto e commiserato diverse volte le guerre per bande che si praticavano tra cosiddette “scuole” di ricerca facenti capo a questo a o a quel “maestro (o Gran Maestro). Fino al punto in cui tutti i discepoli venivano invitati fermamente a pubblicare “lavori contro” l’avversario scientifico del momento.
Orrendo uso della ricerca e della cultura scientifica.
Altri tempi, si dirà. Ma atteggiamento simile a quello perseguito con pervicacia in alcuni Post del Blog della SCI.
In un altro post, il nostro Blogger “rimane di stucco” perché in un altro interessante articolo, viene sottolineato come la produzione di fertilizzanti sia oggi molto più “verde” di un tempo.
Il motivo è che nell’articolo non è stato messo in evidenza che la produzione di fertilizzanti chimici sfrutta troppo pesantemente risorse naturali non rinnovabili.
Anche in questo caso nessuno ha affermato il contrario, ossia che non esiste un problema relativo al consumo di risorse limitate. Si è solo voluto mettere in evidenza che è possibile migliorare, qui ed ora, i cicli di produzione, senza smettere di ricercare soluzioni “altre”.
Ma una cosa deve essere detta chiaramente da chi ha a cuore la scienza (e la chimica in particolare): parlare di sostenibilità bucolica solo dal punto di vista ambientale è una posizione ascientifica e politicamente miope.
La sostenibilità o è GLOBALE (ambientale, sociale, economica, politica, igienico- sanitaria ecc.) o è solo una mistificazione.
Noi – i chimici italiani che hanno fatto di questa scienza una scelta di vita e di professione – siamo per la scienza e contro le mistificazioni.
Per questo continueremo a pubblicare, nonostante i blogger irridenti, tutti gli articoli che introducono elementi di discussione utili alla formazione di un proprio pensiero scientifico autonomo, indipendente dall’opinione dominante o – come e più opportuno dire – dal pensiero unico che si vuole imporre.
Abbiamo l’arroganza di immaginare che anche i blogger possano imparare dalla vita che se – a volte – si può dire tutto ciò che si pensa, è sempre doveroso ricordarsi rispettare gli altri, anche se li si considera “avversari”.
Ciò detto, non interverrò ulteriormente a commentare le uscite del Blog della SCI, lasciando ai lettori – che certamente ne hanno l’autonoma capacità – il piacere di maturare la propria idea informata.
Prof. Chim. Armando Zingales Direttore responsabile de “La Chimica e l’Industria e “Il Chimico Italiano” Presidente del Consiglio Nazionale dei Chimici