Innovazione: per fare cosa?

Vincenzo Balzani

(già pubblicato su Bo7 del 13 febbraio)

Nei periodi di crisi, come quello che stiamo attraversando, da molte parti si sostiene che è necessario fare spazio alla crescita e, quindi, all’innovazione, che è il motore della crescita. In effetti, è un momento favorevole per l’innovazione, anche perché è sostenuta con incentivi statali.

C’è un vento a favore dell’innovazione ma, come dice un noto aforisma di Seneca, “Non c’è vento a favore per il marinaio che non sa dove andare”. Ecco allora: di fronte a parole come crescita e innovazione, la prima cosa da chiedersi è: per andare dove? Per rispondere in modo corretto, bisogna sapere dove siamo e come siamo arrivati fin qui: siamo in una situazione di insostenibilità ecologica, perché stiamo distruggendo il pianeta, e di insostenibilità sociale, perché abbiamo creato disuguaglianze insostenibili; a tutto ciò vanno aggiunte gravi tensioni internazionali (ad esempio, Russia-Ucraina-NATO) e guerre più o meno dimenticate (Yemen).

Un’innovazione volta soltanto ad aumentare i consumi e ad accrescere le disuguaglianze, come è accaduto negli scorsi decenni, è la ricetta per accelerare la corsa verso la catastrofe di cui parla anche papa Francesco nell’enciclica Laudato si’. Per salvare il pianeta e noi stessi è necessario che l’innovazione non sia funzionale al consumismo e tanto meno alla creazione di ostilità e guerre, ma alla sobrietà, alla collaborazione e alla pace.

Spesso, le innovazioni sono viste positivamente perché contribuiscono a risolvere il problema della scarsità di lavoro. A volte, purtroppo, lo fanno a scapito della pace, fornendo strumenti di guerra sempre più sofisticati e micidiali. Più spesso, lo fanno a scapito della sostenibilità ecologica e sociale. Fra gli esempi di innovazione sbagliata, oltre a quelli nel settore degli armamenti, possiamo citare la conversione delle raffinerie di petrolio in bioraffinerie alimentate con olio di palma proveniente in gran parte dall’Indonesia e dalla Malesia, dove per far posto alle piantagioni di palme vengono compiute estese deforestazioni con gravi danni per il territorio e per il clima. Lo scopo recondito della produzione di biocarburanti è infatti quello di continuare ad usare i combustibili fossili, ai quali i biocarburanti vengono miscelati per ottenere gas e combustibili liquidi (diesel) ingannevolmente pubblicizzati e commercializzati come combustibili “verdi”.

I settori dove è più necessario innovare sono quelli dell’istruzione e della cultura. Bisogna far sapere a tutti i cittadini, in particolare ai giovani, quale è la situazione reale del mondo in cui viviamo per quanto riguarda risorse, rifiuti, disuguaglianze e guerre. L’istruzione è in gran parte di competenza dello Stato, ma anche a livello locale si può fare molto. Lo possono fare, con opportuni corsi di aggiornamento culturale e di formazione politica, le regioni, i comuni, le confederazioni dei lavoratori e degli industriali, i partiti e, perché no, le parrocchie.

Suggerimenti di lettura:

https://www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/13662716.2020.1818555

https://www.tandfonline.com/doi/abs/10.1080/13662716.2020.1726729?journalCode=ciai20

Innovazione in Italia.

a cura di Luigi Campanella, ex presidente SCI

La scelta di una politica di maggiore o minore autonomia tecnologica è legata al livello di sviluppo economico e scientifico del paese e cioè alla qualità ed al costo delle innovazioni disponibili. Tenuto conto – sia pure con la difficoltà di aggregare rigorosamente alcuni dati disponibili – che il tasso di crescita delle spese per ricerca e sviluppo (R.S.) è maggiore di quello della dipendenza nei confronti dell’estero, misurata dalla Bilancia dei pagamenti tecnologici (B.P.T.) (circa 150% contro 100%) si potrebbe affermare che l’industria italiana è orientata verso scelte di autonomia tecnologica. In effetti le cose stanno in modo diverso: la dipendenza dall’estero è effettivamente scarsa nei settori a tecnologia intermedia (auto, elettrodomestici, navale), ma è tuttora fortissima e crescente nei settori nuovi dove essa si manifesta attraverso le licenze, ma soprattutto attraverso gli investimenti diretti delle imprese straniere.
Generalmente le aziende che “innovano” sostanzialmente ricorrono o a Know how e licenze straniere o a ricerca aziendale: il fatto preoccupante è che mentre i settori “intermedi” cercano di sviluppare il secondo strumento, le imprese italiane dei settori “nuovi” usano massicciamente il primo, ricorrendo agli acquisti dall’estero; si pensi poi che ove si considerino i settori a più alto contenuto tecnologico (elettronico professionale e telecomunicazioni, componenti elettronici, elettronica di consumo, calcolatori elettronici, aeronautica, strumentazione, materie plastiche, fibre chimiche, farmaceutici) la percentuale di aziende che ricorrono all’importazione di licenze e know how supera il 50% con punte del 75% nei calcolatori e nell’elettronica professionale.
Le quote di esportazioni sul fatturato è sempre maggiore per le imprese che producono innovazioni per mezzo di R e S rispetto a quelle che ricorrono ai brevetti.
Quali le cause delle differenze nel ritmo delle innovazioni? Difficile certamente un individuazione completa, ma certe carenze presenti sono da individuare nell’attuale stato dell’entità dello sforzo di ricerca, della diffusione delle informazioni scientifiche e tecniche, della dimensione qualitativa e dinamica del mercato, della capacità imprenditoriale di trasferimento delle invenzioni e delle tecnologie. In tale contesto emergono altre linee di intervento pubblico in favore dell’innovazione industriale: la previsione tecnologica, la ricerca scientifica, l’informazione scientifica.
Collegato al problema della innovazione tecnologica è quello dell’occupazione nei suoi vari aspetti: produzione e produttività, rapporto uomo macchina, organizzazione del lavoro, orario Se da un lato il processo innovativo avvicina la macchina all’uomo dall’altro finisce per isolarlo – proprio con la “sua macchina” – dagli altri uomini.
Se a ciò si aggiunge l’aspetto del rumore, della monotonia e della continuità del lavoro da un lato e quello della valorizzazione delle conoscenze tecniche e della qualificazione delle mansioni dell’altro, si comprende come il rapporto occupazione/produzione non possa essere liquidato senza tenere conto di tutti i parametri e delle cosiddette “condizioni al contorno”.

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Un aspetto di particolare interesse è quello relativo agli interventi dello Stato soprattutto nel settore avanzato: tenuto conto che il grado di internazionalizzazione è per esso più elevato che per gli altri settori, che il mercato nazionale non può assolutamente assicurare una autonomia significativa di crescita ad esso, che per le spese di investimento per il R.S. sono in questo settore particolarmente elevate (dal 3 al 20% del fatturato), che una domanda crescente ad alti tassi dei settori avanzati non avrebbe mercato interno remunerativo, lo sviluppo di tali settori richiede l’azione diretta dello Stato non tanto attraverso una politica di incentivi, rivelatasi non sempre trainante nei confronti del capitale privato, ma soprattutto attraverso una nuova politica che tenda ad abbassare i livelli di burocratizzazione,a rendere più economico il costo dell’energia, a creare un sistema infrastrutturale di servizio alle piccole e medie imprese. Il recente caso dell’applicazione del REACH è un esempio calzante:la piccola impresa, quella familiare per intenderci, così presente nel nostro Paese, potrà sopravvivere, senza l’aiuto di adeguate infrastrutture, al rispetto di un regolamento sacrosanto nelle sue motivazioni,.ma discriminante nel mercato internazionale ?

per approfondire:

http://www.chimici.info/chimica-ruolo-di-punta-per-l-39-innovazione-in-italia_news_x_6176.html

Innovazione e dintorni

a cura di Vincenzo Balzani

In un editoriale pubblicato sul Corriere della Sera del 3 febbraio, intitolato “Troppe illusioni sull’innovazione” Alberto Alesina e Francesco Giavazzi* hanno toccato un tema che interessa i chimici, particolarmente quelli di noi che sostengono la necessità di una transizione dai combustibili fossili alle energie rinnovabili.

Nell’ambito di un discorso più vasto sulla politica industriale, a loro parere frenata dagli interventi dello Stato, Alesina e Giavazzi iniziano il loro articolo con questo paragrafo: “Le scorciatoie sono pericolose: non solo in montagna, anche nella politica economica. L’ansia di accorciare i tempi che intercorrono fra il momento in cui una riforma è approvata e quando essa si traduce in maggior crescita può far commettere gravi errori. Un esempio: qualche anno fa, per favorire gli investimenti in energie rinnovabili si decise di sussidiare l’installazione di pannelli solari. Per far presto furono concessi incentivi che oggi, a pannelli installati, si traducono in una rendita di circa 11 miliardi di euro l’anno: li pagano tutte le famiglie nella bolletta elettrica e vanno a poche migliaia di fortunati. Non solo si è creata un’enorme rendita che durerà per almeno un ventennio: si è favorita una tecnologia che a distanza di pochi anni è già vecchia. Oggi l’energia solare si può catturare semplicemente usando una pittura sul tetto, con costi e impatto ambientale molto minori. Ma i nostri pannelli rimarranno lì per vent’anni e nessuno si è chiesto quanto costerà e che effetti ambientali produrrà la loro eliminazione.”

Chi ha un po’ di conoscenza dell’argomento, nota subito che alcune affermazioni riportate sono semplicemente non vere. Basta ad esempio consultare due documenti ufficiali del GSE:

http://www.gse.it/it/GSE_Documenti/Relazione%20attivita%20GSE%202011_Incentivazione%20FTV.pdf

http://corrente.gse.it/GSE%20Documenti/Solare%20Fotovoltaico%20Rapporto%20Statistico%202011.pdf

Gli incentivi effettivamente pagati nel 2011 ammontano a poco più di 3 miliardi di euro, con un costo indicativo annuo di 5.5 miliardi (considerando cioè gli impianti installati entro la fine del 2011). Le “poche migliaia di fortunati” che secondo l’articolo si ripartirebbero questa enorme somma sono in realtà un numero molto maggiore poiché gli impianti installati alla fine del 2011 erano 330.196, dei quali 261.410 già convenzionati. In realtà, poi, non si tratta di “fortunati”. A parte i pochi che ci hanno speculato sopra a causa di leggi sbagliate,  coloro che hanno installato pannelli fotovoltaici  sui tetti delle loro case sono cittadini consapevoli che hanno capito l’importanza del problema energetico-climatico e quindi hanno fatto un investimento intelligente di qualche migliaia di euro a 8-10 anni.

pveolico

potenza installata nel mondo

La tecnologia fotovoltaica attuale non può definirsi vecchia. E’ una tecnologia entrata nella sua piena maturità perché mette assieme diverse caratteristiche ottimali: efficienza alta (15-20%), costi bassi, lunga durata (molto più dei vent’anni che lo stesso articolo del Corriere riconosce: “almeno un ventennio”) e minime spese di manutenzione. Per di più, fornisce anche una buona occasione per sostituire le coperture in amianto.

Non è affatto vero, poi,  che “… nessuno si è chiesto quanto costerà e che effetti ambientali produrrà la loro [dei pannelli] eliminazione”. La risposta a questa domanda si trova sul secondo dei siti sopra citati: “Lo smaltimento a fine vita non pone particolari problemi. Un modulo fotovoltaico è, infatti, riciclabile per più del 90%. Silicio, vetro e alluminio vengono riutilizzati come materie prime secondarie riducendo il fabbisogno energetico necessario per i materiali vergini. Il Decreto del 5 maggio 2011 (Quarto Conto Energia) prevede che dal 30 giugno 2012 tutti i proprietari di impianti fotovoltaici aderiscano ad un consorzio che assicuri il recupero dei moduli a fine vita”.

Non è vero neppure che “Oggi l’energia solare si può catturare semplicemente usando una pittura sul tetto, con costi e impatto ambientale molto minori”.

Chi segue la letteratura scientifica sull’argomento e ha scambi di opinioni con i colleghi di altri paesi sa che l’idea di un <pittura> fotovoltaica è molto attraente, ma altrettanto difficile da realizzare. Su internet, come al solito, si trova di tutto, anche sull’argomento PV paint. Il sito

http://www.renewableenergyworld.com/rea/news/article/2008/10/solar-paint-on-steel-could-generate-renewable-energy-soon-53714

assicurava 5 anni fa che “Solar Paint on Steel Could Generate Renewable Energy Soon” e sosteneva che questa tecnologia sarà particolarmente utile in Gran Bretagna: “Because the photovoltaic paint has none of the material limitations of conventional silicon-based solar cell, it could, at least in theory, provide terawatts of clean solar electricity at a low cost in the coming decades. These new solar cells also have the advantage of being able to absorb across the visible spectrum. That makes them more efficient at capturing low radiation light than conventional solar cells, and so well suited to the British climate with its many cloudy days”.

Il sito http://news.softpedia.com/news/Cheap-Solar-Paint-to-Replace-Traditional-PV-242316.shtml

nel 2011 parlava di “Cheap solar paint to replace traditional PV” e specifica che “Clients would only have to apply the coat of paint on the outside of their homes and witness how it captures sunlight and converts it into clean green energy that could power all the gadgets inside the house.” Insomma, la soluzione della crisi energetica è ormai solo ad un pennello di distanza.

Il sito di National Geographic

http://news.nationalgeographic.com/news/2005/01/0114_050114_solarplastic.html

riporta che “A hydrogen-powered car painted with the film could potentially convert enough energy into electricity to continually recharge the car’s battery” senza che si capisca che relazione c’è fra la ricarica della batteria e l’idrogeno che fa andare la macchina. Dice anche che “… one day “solar farms” consisting of the plastic material could be rolled across deserts to generate enough clean energy to supply the entire planet’s power needs”.

da ScienceDaily 22 dic. 2011

da ScienceDaily 22 dic. 2011

pkamatL’attesa della <pittura> miracolosa nasce da alcune ricerche di base di un mio vecchio amico, Prashant Kamat, che all’università di Notre Dame (Indiana) studia semiconduttori nano cristallini. Kamat ha pubblicato un articolo con un titolo molto attraente: Sun-Believable Solar Paint. A Transformative One-Step Approach for Designing Nanocrystalline Solar Cells. (Matthew P. Genovese, Ian V. Lightcap, Prashant V. Kamat, ACS Nano, 2011) dove parla delle sue ricerche come di “initial effort to prepare solar paint”. L’efficienza per ora è 1% e nulla si sa sulla stabilità dei componenti e sulla possibilità di passare dalla scala di esperimento di laboratorio ad applicazioni reali. Kamat ha anche brevettato i suoi risultati (USP Appln 2009114273 NANOMATERIAL SCAFFOLDS FOR ELECTRON TRANSPORT), ma si sa che negli USA brevettano subito tutto: mai dire mai. E anche lui, naturalmente, deve un po’ sgomitare, come fanno molti altri per ottenere fondi.

Infine, sul sito

http://www.ecoblog.it/post/6676/photon-inside-intervista-a-antonio-maroscia-uno-degli-inventori

c’è un’intervista del 2008 che parlava di un brevetto presentato nel 2006 da un architetto italiano e due suoi collaboratori, poi ceduto ad una ditta austriaca che avrebbe dovuto commercializzare rapidamente la vernice fotovoltaica, denominata Photon inside. Che, non contenendo silicio, “potrà costare la metà dei pannelli… un po’ di più di una buona vernice”. Saremmo curiosi di sapere se la commercializzazione è avvenuta e se è stata usata su qualche edificio.

Nel loro articolo Alesina e Giavazzi parlano di scorciatoie pericolose. Potremmo parafrasare la loro affermazione, riportata all’inizio di questo commento, dicendo: Le scorciatoie sono pericolose: non solo in montagna, anche nella corsa ad applicare le innovazioni. L’ansia di accorciare i tempi fra i risultati di una ricerca e la sua applicazione per sostituire sistemi che funzionano ottimamente con altri di cui non si conosce ancora l’efficienza e l’affidabilità può far commettere gravi errori.

Rinunciare all’uso dei pannelli fotovoltaici attuali in attesa delle miracolose <pitture> significherebbe bloccare l’uso della energia solare in favore di chi, come il ministro Passera, ha predisposto una Strategia Energetica Nazionale basata in gran parte sulla estrazione delle nostre modeste riserve residue di petrolio e sulla creazione in Italia di un hub europeo del gas (vedi miei commenti a SEN)

In conclusione, non mi sembra fosse il caso di screditare, come hanno fatto Alesina e Giavazzi, lo sviluppo del fotovoltaico che è una delle più grandi innovazioni in Italia negli ultimi decenni. Basti ricordare che il fotovoltaico installato nel solo 2011 fornisce una quantità di energia pari a quella che avrebbe fornito una centrale nucleare da 1600 MW. Una centrale vera e non ipotetica, che ha già creato migliaia di posti lavoro, ha alimentato le entrate fiscali dello Stato in anni di magra, ha ridotto la nostra importazione di energia primaria dall’estero, non ha imposto oneri di smaltimento alle future generazioni.  Un’infrastruttura energetica sicura e diffusa su tutto il territorio nazionale, che aiuterà l’Italia ad onorare gli impegni europei 20-20-20 al 2020, limitando il danno economico che ci autoinfliggeremo, perché comunque non raggiungeremo gli obiettivi previsti. Perché le politiche di promozione delle rinnovabili e dell’efficienza sono state troppo tiepide, e non troppo generose.

* l’articolo si trova qui: http://www.corriere.it/editoriali/13_febbraio_03/troppe-illusioni-su-innovazione-alberto-alesina-francesco-giavazzi_0b6216f4-6dd1-11e2-ad59-736471fe2e30.shtml

E’ ancora possibile l’innovazione tecnologica di processo in Italia?

a cura di Martino Di Serio

Arriviamo (io e il prof. Santacesaria) a Pechino da Milano Malpensa.  Uscito dall’aereo mi trovo in un aeroporto ultramoderno. Una sensazione di sconforto mi prende facendo il confronto con Malpensa. Da Pechino prendo un altro aereo per Changsha, la città principale della provincia dell’Hunan.  A pochi km da Changsha c’è il villaggio di nascita di Mao Tse-tug, e questo si vede nella città costellata di monumenti  a lui dedicati.

Changsha  è un cantiere aperto (come d’altra parte la maggior parte delle città della Cina),  si sta trasformando sulla base di un progetto urbanistico che, a dire dei nostri colleghi cinesi, si basa sui  principi dello sviluppo sostenibile (http://www.worldbank.org/projects/P075730/hunan-urban-development-project?lang=en). La Cina dello sviluppo a tutti i costi è sparita, le scelte oggi vengono fatte prendendo in considerazione anche l’ambiente e la sicurezza. Ho avuto notizie di Impianti Chimici anche di grosse dimensioni chiusi perchè non rispettavano i limiti di emissione. Contrariamente a Shangai che ormai ha l’aspetto di una città occidentale, il centro di Chansgha ha ancora zone in cui possiamo trovare la Cina di 10-20 anni fa, ma probabilmente tra 5 anni tutto questo sarà solo un ricordo. Venendo in Cina si capisce cosa significa avere un tasso di sviluppo del 9-10%.Fitodepurazione

Siamo venuti a Changsha su invito dell’ Hunan Academy of Foresty (http://www.asemwater.org/Partnerships/Partners/2011-05-19/218.html) nell’ambito di un accordo di ricerca internazionale con l’Università di Napoli Federico II. L’ Hunan Academy of Foresty è impegnata nello sviluppo sostenibile della produzione di Biodiesel utilizzando “non-edible oils”.  Hanno avuto interessanti risultati attraverso  tecniche classiche di plant breeding nell’ottenere nuove varietà di ricino ottimizzando sia le rese di olio per ettaro che le tecniche di raccolta.

Ricino

Ora stanno cercando di migliorare ulteriormente ricorrendo all’ingegneria genetica. Questo tipo di ricerca è sicuramente fatta anche il Italia, la differenza sostanziale è che l’Academy ha costruito e gestisce un impianto pilota per la produzione di biodiesel, a partire dalle materie prime che sta studiando, da 5000 ton/a  (nel miglioramento di processo hanno richiesto la collaborazione con il nostro gruppo di ricerca). L’impianto prevede la sezione di trattamento della materia prima per ottenere l’olio, la sezione di raffinazione dell’olio e la sezione di produzione di biodiesel e la sezione di trattamento delle acque di scarico che prevede tra l’altro una unità di fitodepurazione. Sulla base dei risultati sarà progettato un impianto da 100.000 t/a.

Impianto di Biodiesel

Una situazione analoga l’ho trovata incontrando a Shangai i responsabili della ricerca sui polietossilati del RIDCI (China Institute of Daily Chemical Industry,  http://english.ridci.cn/). Con questo ente di ricerca abbiamo recentemente fatto una richiesta comune di finanziamento ai rispettivi ministeri degli esteri, nell’ambito del programma di cooperazione scientifica e tecnologica tra l’Italia e la Cina per gli anni 2013-2015.

Shangai

Il RIDCI ha sede a Taiyuan (nella provincia di Shanxi), ma  a Shangai ho visitato un impianto produzione di APG (Alkyl polyglucosides )da 13000 ton/a costruito sulla base della tecnologia sviluppata da RIDCI e gestito da una società in cui l’ente di ricerca ha una partecipazione consistente.   Essendo il RIDCI un ente di ricerca che oltre a fare ricerca di base ha come clienti i produttori di tensioattivi in Cina ho chiesto se questa loro attività industriale non fosse in conflitto con il loro scopo istituzionale. La risposta è stata: “per noi questo è un impianto dimostrativo. La Cina ha necessità di molto più APG. I nostri industriali vedendo l’impianto in funzione e la qualità dei prodotti hanno la possibilità di decidere per un eventuale investimento sulla base di dati reali.”

Ho riportato questi due esempi per mettere in evidenza come due enti di ricerca pubblici possano sviluppare una tecnologia ed arrivare fino all’industrializzazione. Naturalmente in queste operazioni c’è un forte intervento dello Stato, ma la ricaduta sull’innovazione e sull’economia è sicuramente di grosso impatto. Questo approccio non è un’invenzione Cinese. Ad esempio in Francia l’IFP Energies nouvelles (IFPEN,  http://www.ifpenergiesnouvelles.com/ ) fa ricerca nei settori dell’energia, dei trasporti e dell’ambiente. IFPEN per sviluppare i propri processi innovativi e industrializzarli crea società o acquista partecipazioni in società già esistenti che abbiano già raggiunto risultati nel trasferimento tecnologico in settori di ricerca di proprio interesse.

Qual è la situazione Italiana? Esistono enti di ricerca che svolgono  azioni simili a quelle descritte in precedenza? Purtroppo io non ne ho notizia. Se qualcuno ha invece informazioni in proposito sarei felice di essere smentito. In Italia però fiorisce la nascita di centri di trasferimento tecnologico (nazionali, regionali, provinciali) che organizzano la ricerca e gestiscono i finanziamenti ad essa collegata, ma sull’efficacia di queste iniziative nonostante l’eccellenza dei nostri ricercatori coinvolti non ho informazioni di successi eclatanti. Probabilmente non è mai stata fatta una statistica: quanti progetti sono stati finanziati? Quanti brevetti sono stati ottenuti? Quanti nuovi processi/prodotto sono stati industrializzati ? Quanti processi/prodotti hanno continuato ad essere sul mercato dopo 5 anni dalla fine dei finanziamenti?

Il finanziamento alla ricerca applicata può essere sicuramente un volano per la crescita. Non si hanno però certamente effetti positivi se i risultati rimangono nei laboratori, o peggio il finanziamento è visto come fine a se stesso e rimane improduttivo.